Franco Venturini

Il Conte Due è una realtà confermata dalle intenzioni programmatiche che il presidente del Consiglio ha confidato ieri al Corriere. E a Bruxelles abbiamo mandato un rappresentante molto apprezzato. La nostra politica estera è dunque ripartita nel segno di quel pragmatismo che tanto faceva difetto al governo precedente? Stiamo già superando quell’autolesionistico isolamento che pareva essere la bandiera dell’Italia sovranista? La risposta è sì, ma con una nota a piè di pagina. Perché all’Italia consapevole che si va rapidamente disegnando serve anche un Di Maio Due. Di Maio alla Farnesina è stata una scelta per molti versi sorprendente, probabilmente influenzata dalla «vittoria» del Pd nel braccio di ferro con i 5 Stelle sulla carica di vicepresidente del Consiglio. Ma il ministero degli Esteri, da tempo marginalizzato nelle scelte di politica internazionale, non avrebbe dovuto essere ridotto a premio di consolazione. Al contrario, serve ora un rilancio della nostra diplomazia e serve un ministro che abbia voglia di guidarla lungo sentieri meno scoscesi di quelli esplorati, senza esiti positivi, dal precedente gabinetto. Per questo abbiamo bisogno di un Di Maio Due. E anche perché, se è vero che la politica estera la farà soprattutto il presidente del Consiglio d’intesa con il presidente della Repubblica, e con loro la faranno il ministro dell’Economia (margini di flessibilità concessi dall’Europa anche grazie alle difficoltà tedesche) e il ministro dell’Interno (migranti e Libia), sarebbe un grave errore pensare che Luigi Di Maio intenda rinunciare a farsi sentire e valere nel nuovo ruolo. Piuttosto, la richiesta che gli giunge in queste ore anche dall’esteroèdi evitare alcuni svarioni che hanno caratterizzato il suo agire nell’Ancien Régime gialloverde. E va detto che Di Maio, nelle sue prime mosse, ha mostrato di aver capitoecolto la sfida. Dati per acquisiti i nostri legami europei ed atlantici (nemmeno Salvini li contesta, anche se su questo terreno è sempre a portata di mano l’italica retorica) il primo segnale positivoèvenuto quando il nuovo governo non era ancora nato e i 5 Stelle hanno votato in sede europea a favore della presidenza di Ursula von der Leyen mentre la Lega votava contro. Quelle scelte così diverse hanno segnato l’inizio del declino di Salvini (di pari passo con la brutta e forse non conclusa vicenda del Metropol di Mosca) perché hanno sancito la «non recuperabilità» del leader della Lega in una fase nella quale l’Europa e l’Occidente intero vivono una difficile transizione e devono poter sapere su chi è lecito contare e su chi no. Questo è l’essenziale cambiamento che porta il nuovo governo: l’Italia torna ad essere affidabile, non perché debba obbedire a questo o a quello, non perché abbia perso una sovranità che non è stato Salvini a scoprire, ma piuttosto perché vuole e deve partecipare al dibattito internazionale, perché deve fare le sue riflessioni sugli equilibri mondiali in profondo cambiamento (relazioni transatlantiche comprese), perché deve partecipare invece di ordire sabotaggi suicidi come sarebbero l’uscita dall’euro oppure sgangherate promesse strategiche oggi a Mosca e domani a Washington. Di Maio dovrà comprendere velocemente che il dialogo (a cominciare da Mosca e Pechino, s’intende) non può rinunciare alla fondamentale differenza tra alleati e cordiali interlocutori. E dovrà se possibile sanare un antico male della nostra diplomazia e della nostra presenza internazionale: quello di anteporre la presenza all’iniziativa, la «politica del sedere» (come diceva con una punta di ironia l’ambasciatore Quaroni) alla elaborazione di idee e di proposte. Abbiamo, soprattutto in Europa, un bisogno disperato non soltanto di ricevere ma anche di fare suggerimenti costruttivi, di entrare nel dibattito, di farci degli amici con i quali domani poter fare alleanze. Paolo Gentiloni sarà un valido biglietto da visita della «nuova» Italia, a condizione che da noi venga correttamente capito il suo ruolo di commissario europeo, non italiano. Ma i segnali giusti devono venire anche da Roma, da Palazzo Chigi e dalla Farnesina soprattutto. E tanto meglio se troveranno conferma le voci secondo cui i 5 Stelle, un tempo condomini dell’orrendo Farage nei gruppi del Parlamento europeo, si starebbero ora avvicinando al gruppo liberale. Macron permettendo. Il nostro ritardo internazionale richiederà a tutti, anche al ministro Di Maio che non dovrà essere troppo distratto o trattenuto dagli impegni del Movimento, lucidità e tempi stretti. D’intesa con la ministra dell’Interno, va colto subito il gradimento europeo al nuovo governo per superare Dublino attraverso una rete di accordi che è inutile voler imporre a chi li rifiuta come Polonia e Ungheria (semmai a costoro andrebbe imposto un «prezzo» in sede di bilancio) ma che sono indispensabili per sdrammatizzare la questione migranti. E visto che la guerra civile libica è parte della stessa questione, dovremo guardarci dal ripetere formule inutili se non dannose come quella della conferenza di Palermo, puntando invece al coinvolgimento, in un dialogo politico che superi i vani sforzi dell’Onu, degli Usa, della Russia, della Cina e beninteso degli europei a cominciare dalla Francia. E smettiamola di montarci la testa, quando a Washington ci dicono che per la Libia siamo in una comune «cabina di regìa» (tanto che Trump ha preso le parti di Haftar). E ancora, ammesso che sia stata una buona mossa quella di firmare il celebre memorandum d’intenti con la Cina, cerchiamo di trarne qualche vantaggio reale: siamo a 2,7 miliardi, mentre altri europei senza firmare viaggiano tra decine di miliardi. Decisamente ci serve un Di Maio Due. Per lui e per il suo Movimento si tratta di una grande occasione, da verificare senza pregiudizi. Per l’Italia si tratta, se tutto andrà per il meglio, di riscoprire gli interessi nazionali.