Francesco Merlo
Sono, le consultazioni al Quirinale che riprendono oggi, il solo spettacolo di decoro della politica italiana nell’era del populismo di vaffa e di governo. La liturgia, che stordisce anche i sovranisti più maleducati, prova che lampadari, scale di marmo, specchi e corazzieri esprimono una “cultura” che disciplina il protagonismo e governa l’eccesso molto più e molto meglio dei commessi e dei questori che alla Camera e al Senato sono invece sopraffatti dalla “sottocultura” degli insulti, del disprezzo, della rissa. E dunque, come il mare difende le isole e attutisce quel che succede là fuori, lo smorza e lo media, così la sontuosità del Quirinale, che pure in passato ci parve sproporzionata, superata, antimoderna e bugiarda, è diventata oggi un’intercapedine di “resistenza, resistenza, resistenza” al vento sporco dell’eversione a cinque stelle e della fascisteria della Lega. E le lunghe, monotone inquadrature della Sala della Vetrata, che da oggi le tv ripropongono agli italiani senza mai annoiarli, arrivano come lezioni magistrali sulla forma che è sostanza, sull’abito che fa il monaco, sulla regola che consente il movimento, sulla stazione di posta che rifocilla il viandante più errabondo, sul monumento che argina lo scandalo, sulla tradizione che impaurisce la demagogia. Anche Salvini, in giacca e cravatta, già quando attraversa il cortile del Palazzo della Nazione perde l’aria del sequestratore di naufraghi e persino i grilllini più strampalati come Toninelli e Di Maio non sembrano più i tarantolati che di tanto in tanto insolentiscono chi capita: Mattarella, Macron, Merkel… e sotto a chi tocca. Nello studio del presidente pare quasi che anche loro credano nella democrazia e nell’Occidente. Dunque il Quirinale fa lo stesso effetto che nelle aule giudiziarie fanno le toghe dei giudici e degli avvocati. Danno almeno l’illusione che la giustizia possa mantenersi distante dalle tentazioni più vili e anche dalle grandi questioni più astratte. Un giudice senza la sua toga sarebbe come un medico senza lo stetoscopio, un cuoco senza il cucchiaio, un giardiniere senza le cesoie. È lo stesso ruolo che nei teatri d’opera — pensate alla prima della Scala — hanno gli abiti da sera, la grazia dei fregi e delle sculture dei palchi che hanno ospitato la storia, il graduale abbassarsi delle luci quando persino la tosse si ferma per rispetto della musica. Durante il rito delle consultazioni qualche volta tra i giornalisti e tra gli operatori si libera e si diffonde la solita allegria da Amici miei, l’aria scanzonata da commedia, ma qui non ci sono mai sgangheratezze e neppure zuffe per occupare lo spazio. Sorride Giovanni Grasso, che di Mattarella è il portavoce, ed è un sorriso protetto dalla barba istituzionale. Al massimo ci si dà di gomito e mai si muovono i corazzieri che sono maestri di contegno. Insomma, alla fine, l’estetica della dignità è l’ultimo filo al quale rimane appesa l’unità nazionale.