Gianni Riotta

L’ agosto torrido finisce in freddo autunnale per il movimento nazional-populista, orgogliosamente sicuro, solo un anno or sono, di conquistare d’assalto le democrazie occidentali, Europa ed America, occupando il XXI secolo. Invece, per la sorpresa dei profeti dell’intolleranza, il 2019 segna le prime, brusche ed inaspettate, sconfitte per le forze della rabbia “sovranista”. L’uscita dal governo italiano di Matteo Salvini e della sua Lega di movimento, così aliena dalla Lega di governo dei presidenti Maroni e Zaia, ma anche del vecchio sindaco Formentini a Milano, non è solo errore tattico.

Ma soprattutto la prova di come facile ed entusiasmante sia montare la tigre del risentimento popolare, e quanto difficile imbrigliarla, senza venirne travolti. Gli stessi alleati di Salvini, i 5 Stelle di Beppe Grillo, devono ripiegare umili le ali davanti alla realtà, con il comico a predicare la calma, mentre il Luigi Di Maio ministro degli Esteri promette di esser solo omonimo dell’arruffapopoli che aizzava i gilet jaunes in rivolta contro il presidente Macron, e ascoltare compunto i consigli dei nostri ambasciatori alla Farnesina. Dove sono, del resto, i mitologici gilè gialli, che volevano ghigliottinare online il moderato presidente Macron? A Parigi, tra i turisti dei selfie, non si vedono più. Le elezioni europee di maggio hanno negato ai populisti la presa di Bruxelles, e i talk show speziati di fake news non nascondono la crisi. La recessione economica tedesca, e l’avanzata della destra AfD in Sassonia e Brandenburgo, non minacciano la stabilità a Berlino, mentre la Ursula von der Leyen guida un’Europa senza eccessi, perfino votata dai grillini, ieri a raccogliere firme contro l’euro, oggi alleati degli europeisti Gualtieri, Guerini, Amendola, Gentiloni neo commissario europeo, Sassoli presidente del parlamento UE. E Brexit? Dal 2016, una pletora di intellettuali ce ne illustra la portata da cambio epocale, capace di ridare a Londra l’egemonia imperiale perduta con la Regina Vittoria, ispirando poi Italexit, con lira e minibot tricolore. Come sia andata lo vedete, perfino il fratello deputato abbandona il premier conservatore Johnson, che ha avuto il dubbio onore, dopo il Conte di Rosebery nel 1894, di venir battuto al voto di debutto a Westminster, senza sapere come cavarsi dalla trappola in cui si è cacciato. L’elenco degli scacchi dell’armata nazionalista si allunga, il Partito della Libertà austriaco sgonfiato dagli scandali, i populisti spagnoli, a destra e sinistra, incapaci di matare il socialista Sanchez. Arringare lo scontento popolare via Facebook è diverso da governare le economie globali, e la grinta dei caudillos si spegne subito in smorfia amara. Sarebbe però un errore tragico se le forze riformiste e raziocinanti, di matrice progressista o conservatrice, si illudessero di aver battuto l’insorgenza dei ceti scontenti. Malgrado sondaggi pessimi, non c’è nessuna evidenza che il presidente Trump lascerà, nel 2020, la Casa Bianca all’opposizione e il centrista democratico Biden è circondato da movimenti antisistema, vedi il senatore socialista Sanders, come a Londra l’estremista laburista Corbyn sfida Johnson con analoghi, stridenti, toni di rabbia. La stagione populista ha liberato fantasmi di odio, xenofobia, antisemitismo ancora rampanti in Polonia, Ungheria, Russia, sconfiggerli non sarà né facile, né indolore. Ridurre le disuguaglianze economiche, dare salario e identità a chi è escluso dai saperi digitali, integrare i lavoratori impoveriti dall’economia dei robot con gli immigranti, in uno sviluppo sostenibile, è la strada per ritrovare il consenso delle nostre comunità. La Storia sta offrendo un’imprevista chance, sprecarla sarebbe esiziale, a partire dal premier Giuseppe Conte e i suoi ministri. Il tempo stringe, davanti al solito status quo burocratico e imbelle, la controffensiva populista sarà furiosa e stavolta irrefrenabile.