Giovanni Orsina

Il secondo governo Conte nasce da due esigenze, collegate l’una con l’altra: fermare l’ascesa di Matteo Salvini, e consentire al personale politico del Movimento 5 stelle e del Partito democratico di conservare, o riprendere, il potere. I protagonisti dell’operazione hanno cercato di darle un generico retroterra programmatico – il pentalogo dei democratici, il decalogo dei pentastellati. Qualcos’altro sarà fatto nei prossimi giorni. Ma il tempo stringe, l’accordo s’ha da chiudere, e l’andamento delle trattative ha mostrato con chiarezza che il vero nodo non sono tanto le cose da fare quanto i nomi di chi le farà. Le due esigenze sono legittime: la politica è innanzitutto gestione del potere. Il problema, però, è fino a che punto le riterranno legittime gli italiani. La prima impressione è che l’elettorato possa esser diviso in tre parti. Diciamo per semplicità, e grossolanamente, che siano di uguale peso: un terzo ciascuna. Il primo terzo, convinto che con Salvini avremmo corso il rischio, come nel 1948, che i cavalli dei cosacchi si abbeverassero alle fontane di Piazza San Pietro, riterrà l’operazione «Conte due» non soltanto legittima, ma necessaria e anzi lodevole. Il secondo terzo la considererà sempre e comunque illegittima – o peggio, ripugnante. L’ultimo terzo infine, il meno ideologico, si metterà alla finestra a osservare come evolvano gli eventi, e se da tutto questo possa infine uscire qualcosa di buono pure per il Paese. Partendo da premesse tutt’altro che favorevoli – il «peccato originale» di esser nato da una spregiudicatissima operazione di potere; le numerose e profonde fratture che attraversano la sua maggioranza; il vento di destra che ha soffiato nel Paese nell’ultimo anno – il nuovo governo avrà il difficile compito di conquistare questo terzo blocco. Ora, è ben possibile immaginare che i tre terzi non siano distribuiti in maniera omogenea sul territorio nazionale. Che nel nord Italia – là dove il centrodestra governa le regioni, alle elezioni europee la Lega ha preso il 40% dei voti, e con Forza Italia e Fratelli d’Italia supera largamente il 50% – i favorevoli al gabinetto Conte siano meno d’un terzo, mentre gli ostili di più. E che la gestione del «terzo terzo», di conseguenza, in prossimità dell’arco alpino si faccia particolarmente delicata. Perché è evidente che governare il Paese lasciando l’Italia settentrionale all’opposizione è alla lunga – e forse pure nell’immediato – del tutto impossibile. Nella «questione settentrionale» sono soprattutto due le partite aperte: l’autonomia differenziata per Veneto e Lombardia (e per tanto versi anche Emilia Romagna) e, in generale, una politica di sostegno al mondo produttivo – misure pro-crescita, abbattimento della pressione fiscale, riduzione del costo del lavoro. Saggiamente, da quando si è aperta la crisi di governo il mondo economico italiano ha parlato piuttosto poco. Non certo per disinteresse, però, e tanto meno perché si fidi della classe politica. Al contrario, il silenzio sembra piuttosto celare il timore di scoprire, dopo un anno di sofferenza nella padella gialloverde, che quella giallorossa è brace. Un timore che le radici ideologiche originarie e il radicamento elettorale meridionale del Movimento 5 Stelle, uniti al baricentro visibilmente spostato a sinistra della nuova maggioranza, rendono tutt’altro che infondato.