Giuliano Ferrara

Le magnifiche purghe contro Salvini e Johnson illuminano la storia di due prepotenti puniti e di due crisi parallele, sì, ma molto diverse.

Il Foglio è sempre di più un libero giornale contendibile. E per questo oggi vale di più di quando cinque anni fa l’ho lasciato. Cani e porci (io più porco che cane) dicono quel che vogliono senza remore, e questo è bello perché avviene sotto la bacchetta di un formidabile animatore e direttore d’orchestra. Per l’ultima o penultima volta, chissà, vorrei ripetere il senso che ho attribuito, a forza di paradossi e ironie non sempre autoesplicativi, alla formidabile Krisis in cui siamo incappati sulla spiaggia del Papeete (mica tutti possono vedere le crisi “Dallo Steinhof”, come il professor Cacciari). Il punto di partenza è che in una democrazia parlamentare, integrata per la bisogna dal clic rousseauiano, non si dà a un dj energumeno senza camicia il diritto di fissare la data delle nuove elezioni, a brevissimo, per avere i pieni poteri. Il secondo punto è che le cose cambiano, e se ieri andare con i 5 stelle voleva dire piegarsi alla loro trionfante e pimpante sottocultura, oggi vuol dire raccogliere le spoglie del loro fallimento e rabberciare gli affari pubblici con un governo del Rinnegamento, un BisConte pasticciato ma appena decente, un governo senza Toninelli (e spiace) e senza punti di contratto come quelli meravigliosamente elencati ieri da Cerasa qui (pazienza per l’attrattività sempre maggiore di Roma per i visitatori, scemenza più, scemenza meno). Avrei preferito più tatto e distanza, un appoggio esterno, ma vivaddio anche il governo strategico ha i suoi diritti, e i politici si aspettano sempre che le loro ambizioni siano compensate da posti di comando (non me ne adonto né stupisco, anch’io vorrei fare il capo della polizia). Il terzo punto è che le élite devono comandare e le elezioni si tengono alla scadenza costituzionale o, quando ci sia un accordo ampio e l’as – senza di una maggioranza di ricambio, con tempi anticipati, ma non in esecuzione di un ricatto di spiaggia. Ed eccoci a Londra, crisi parallela ma diversa. Invece di un clown triste e senza idee se non quelle imprestategli da un Bannon di passaggio (anche per il caos ci vogliono fior di ingegneri), a Londra regna un prince clown, un fiorellino delle élite. Boris, il detto fiorellino, ha subito incassato una sconfitta dal Parlamento, che voleva imbrigliare e in pratica sciogliere, per realizzare la Brexit senza accordo, un taglio netto che a molti sembra necessario dopo troppa pazienza. Boris naturalmente ha lavorato di fino con le regole, coinvolgendo la Regina a Balmoral con un perfetto inchino, e guardandosi bene dallo spogliarsi per chiedere dalla spiaggia di Brighton ai parlamentari di alzare il culo e votare lo scioglimento (gli avrebbero tagliato la testa seduta stante). Ha dunque scelto di cercare di imporre la data di un voto ravvicinato, e forse gli riuscirà, per due motivi: perché nel sistema maggioritario (winner takes all) si usa così, sebbene con remore di cui tra poco, e perché vuole portare a un esito trumpiano sofisticato la divisione radicale tra popolo e parlamento, tra popolo e partiti, tra popolo e élite. Ieri al question time di Westminster, Johnson batteva con foga sempre lo stesso chiodo: imporre al governo di escludere l’uscita senza accordo, no deal, vuol dire imporgli di arrendersi di fronte all’Unione europea, è un surrender bill contro il quale il popolo sarà scatenato in difesa della propria volontà referendaria. Lasciamo stare il fatto che non c’è alcuna guerra con l’Europa nazificata, e il churchillismo di Boris non è approvato nemmeno dal simpatico e massiccio nipote di Churchill, Nicholas Soames: la metafora regge, e il trumpismo johnsoniano potrebbe allegramente trionfare anche se il popolo non ha mai votato per un’uscita senza accordo e le conseguenze, malgrado gli stratagemmi di Dominic Cummings, il serpente di Westminster, sarebbero sopportate sopra tutto da esso popolo.

Sarebbe un brutto giorno, ma è come per il collegio elettorale, ideato per combattere gli eccessi plebiscitari negli Stati Uniti, che per paradosso è servito a Trump e ha dannato la sua avversaria. Tutto il disastro politico e istituzionale, che altri possono giudicare una liberazione da pastoie parlamentari e un premio alla volontà generale, seguirebbe il filo di una regola, una volta che Corbyn (perché ora è nei suoi poteri impedirlo) decidesse di dare il via alle elezioni prima di avere la certezza che il “no deal” non si farà. Ecco. C’è un contratto, una forma della politica, che va rispettato. Quando Berlusconi aveva ottimisticamente e soavemente vinto nel maggioritario, per nascondere il ribaltone fu tirata in ballo a sproposito la centralità del Parlamento. Quando uno con il 17 per cento vuole dettare legge con modi bruschi e spicci al resto del Parlamento, nisba. Di qui non nasce una nuova prospettiva strategica, una nuova alleanza epocale, come sostengono ideologi e papere, nasce semplicemente un rimedio, che è l’antico nome delle medicine. Se poi nel frattempo, passata la febbre, si combina qualcosa di buono, meglio. Tutto questo è stato importante non per soddisfare le voglie dei liberali per Salvini, non per arrendersi (surrender bill) al vaffanculo di Grillo, non per ottenere la migliore lista dei ministri possibile e il migliore pres. del con.: è stato necessario per ragioni di pedagogia democratica. Anche un paese analfabetizzato dai dj è bene che ogni tanto si prenda una lezione politica. Non è poco.