Goffredo Buccini

La tentazione della «ola» è palpabile. Si percepisce tra le righe delle dichiarazioni targate Pd, si tocca sui media a più marcata propensione europeista (alleluia, i barbari sono stati bloccati alle porte di Roma!). Tuttavia gli entusiasmi sono assai prematuri: le ragioni che hanno determinato l’ascesa impetuosa di Matteo Salvini in Italia e dei suoi sodali in gran parte dell’occidente sono ancora tutte lì, sul tavolo. Certo, l’ultimo tassello, Paolo Gentiloni che oggi va a rappresentarci in Commissione, laddove sino alla sbornia salviniana del Papeete ci sarebbe stato un leghista, spinge ancora di più in questa direzione. Il Foglio gli dedica un peana, integrando le riflessioni continentali di Paul Taylor su Politico Europe: il populismo ha raggiunto il suo picco? (Ovvero: da questo punto in poi può solo declinare?). Un filotto di eventi pare deporre a favore di questa ipotesi. Il più noto a noi è ovviamente il bizzarro suicidio politico di Salvini, che si è estromesso dal ponte di comando mentre pareva avesse in mano il Paese. Suicidio aggravato, sul piano dell’immagine, dalla disperata offerta di una nuova coalizione ai Cinque Stelle con Di Maio premier: cosa che lo ha scaraventato nei trend topic di Twitter come un poveretto che si aggira per le stanze del Quirinale chiedendo direstare attaccato a una poltrona purchessia («mi va bene anche un sottosegretariato», gli fa dire ghignando Osho). Considerato che Salvini era visto in Europa come il frontrunner dei sovranisti continentali, l’analisi gioiosa degli europeisti non appare così stravagante. A Salvini si aggiunge un secondo, apparente suicidio: quello di Boris Johnson, che caricaatesta bassa contro il Parlamento inglese ma ne viene respinto più volte, rimettendo in questione tempi e modi della Brexit. Non è finita. Macron, dopo l’inverno sciagurato dei gilet gialli, appare in ripresa. L’Afd ha vinto ma non stravinto in Sassonia e Brandeburgo e comunque non ha sorpassato le forze di sistema e non governerà. E poi c’è l’Austria, che per prima fece saltare il banco sovranista causa scandali. Persino Trump, ogni volta che decide di dare una coltellata sui dazi alla Cina, viene indotto dai sussulti della Borsa a ritrarre in parte il colpo: se solo i democratici trovassero un candidato plausibile e un po’ meno anziano di Biden la partita della rielezione sarebbe da discutere. Dunque alleluia! Ma è davvero così? Come in tutti i ragionamenti davanti a un bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno tocca fare attenzione. Perché la parte di bicchiere sovranista ha ancora molte bollicine. Restando all’Italia, innanzitutto, Salvini non è affatto spacciato, anzi, sta ancora lì con tutto il suopotenziale.Nando Pagnoncelli sul Corriere gli attribuisce un 34%. Certo, quattro punti in meno del 38 dove s’era arrampicato nei sondaggi di giugno, ma la stessa percentuale ottenuta alle Europee di maggio, quando tutti lo osannavano. Sempre Pagnoncelli ci offre due grossi spunti diriflessione. Il governo neonato ha il 52% del Paese contro. E sul tema dei temi, l’immigrazione, solo una sparuta minoranza vuole cambiare registro rispetto al salvinismo. Sarà indispensabile una politica accorta sul piano della comunicazione dei provvedimenti (quali?) se si vorrà risalire la china. In inghilterra Nigel Farage è più che mai popolare e il suo Brexit Party potrebbe mietere ulteriori consensi dalla eventuale fine di Boris Johnson. La Francia resta comunque contendibile. E così, soprattutto, restano irrisolte le questioni che hanno mutato l’animo degli elettori negli ultimi anni: la paura e la povertà, l’immigrazione e la spoliazione globalista dei ceti deboli. I forgotten men sono ancora lì, nei sobborghi industriali dimenticati, nelle nostre periferie abbandonate. I sovranisti, è vero, hanno evidenziato fin qui il paradosso che può annientarli: sono capaci di dare voce ai proble-mi ma si dimostrano alla prova del nove inadatti a risolverli in società complesse come quelle contemporanee. Le loro risposte binarie non reggono alla prova dei fatti, si schiantano su contrappesi, parlamentarismo, necessaria competenza di chi è chiamato a decidere. Però proprio nella risposta semplice (e comprensibile) sta ancora la chiave emotiva del loro successo. Il politologo William Davies in un libro splendido sull’emotività assurta al potere («Stati nervosi») mette in parallelo nelle sindromi postraumatiche da stress gli atti di autolesionismo individuali e quelli collettivi: c’è qualcosa di peggio del dolore, dice, ed è la totale perdita di controllo. Per ritrovare la sensazione del controllo (sui propri sentimenti, sul proprio destino in un mondo che ci bombarda di stimoli e richieste) «anche gruppi privati di diritti potrebbero arrivare a sabotare la propria prosperità se solo questo garantisse un po’ più di controllo sul loro futuro». Sembra la terribile diagnosi della Brexit ma si può applicare alla seduttività delle ricette economiche di molti Stranamore nostrani. Davies parla di «politica del sentimento». In un mondo dove «caratteristiche intrinseche degli umani – paura, dolore e risentimento – sembrano avere di nuovo invaso la politica», spiega, l’unica via è cogliere l’occasione per ascoltarle: e capirle. In sostanza, diremmo noi, si tratta di un furto a fin di bene, rubare al sovranismo la sua sola vera arma: l’empatia (o più spesso la sua mera apparenza) con gli invisibili e i senza voce. Magari aggiungendovi qualche granello di verità.