Goffredo De Marchis

«Mezza Italia mi ha chiesto di fare questo governo con Conte premier. Ho ascoltato tutti e ho capito che dovevo arrendermi». Figuriamoci se un segretario per il quale il bene principale di un partito è l’unità, poteva rimanere sordo al coro quasi unanime: fermare Salvini e il voto anticipato. «Mi hanno chiamato persino i cantanti, gli attori, gli scrittori. Volevano solo una cosa». Niente nomi, ma non è difficile immaginare che il pressing sia arrivato da quel gruppo di artisti che lo aveva sostenuto pubblicamente alle primarie: Monica Guerritore, Fiorella Mannoia, Alessandro Gasmann, Maurizio De Giovanni, Tommaso Paradiso e tanti altri. Eppoi c’erano le pressioni dei dirigenti del Pd. Dei grandi vecchi come Romano Prodi. Di Walter Veltroni. Di Enrico Letta. Eppoi la voce dei sindacati, da Maurizio Landini ad Anna Maria Furlan. Si è mossa la Conferenza episcopale italiana, una trincea contro la deriva sovranista. Il leader dem non ha parlato con il presidente della Cei Bassetti, impegnato in una missione nello Sri Lanka, ma con un delegato della presidenza: «Vada avanti, ha anche l’incoraggiamento della segreteria di Stato», è stato il messaggio. Cioè della Santa sede. Livelli sempre più alti di persuasori hanno fatto breccia nel muro che Zingaretti aveva alzato all’inizio: no al Conte bis e no al suo ingresso nel governo. Ma le dichiarazioni del premier da Biarritz hanno cambiato tutto. «Mai più con la Lega». Da nuovo leader del Movimento, in sintonia con Beppe Grillo e Davide Casaleggio, Conte ha chiuso il forno che Luigi Di Maio aveva lasciato aperto. Così si è riconquistato la chanche di una conferma. E così Zingaretti ha cominciato a capire: doveva cambiare schema e prendere in mano la partita senza veti. Ha discusso, ha litigato anche con amici di una vita (Goffredo Bettini gli ha intimato di entrare al governo, ma quel no il segretario vorrebbe farlo vivere). Tutti dicevano che accettare Conte a Palazzo Chigi era trasformismo allo stato puro. Dieci giorni fa. Un rischio mortale per il Pd. Il segretario si è sentito tante volte con il presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Hanno condiviso l’analisi ma al dunque Zingaretti si è guardato indietro e ha visto il vuoto. Solo Luigi Zanda e Paolo Gentiloni erano pronti a correre il rischio di elezioni anticipate con l’idea di una clamorosa rimonta. Gli altri no. Bloccare la deriva autoritaria era un argomento tanto forte quanto convincente. Naturalmente hanno pesato i contatti con il Quirinale. E i segnali che arrivavano dalla Cancellerie europee. Ogni giorno Zingaretti ha sondato l’umore di Matteo Renzi per tenerlo dentro un percorso comune. «Alla fine — spiega Sassoli — Nicola ha gestito al meglio la partita. Con pazienza e mettendo l’unità del partito al primo posto». Lo hanno assediato, questo è vero. Lo hanno messo in difficoltà quando alla determinazione di Di Maio, peraltro isolato nel Movimento, è diventata un’impresa opporre altrettante determinazione senza il sostegno compatto del Pd. Però la sua ossessione unitaria ha avuto il merito di far tacere, nelle ultime ore, leader e leaderini dem che potevano sfasciare tutto con un tweet o con un’intervista. Ha chiamato di nuovo Casaleggio dopo la telefonata di Ferragosto. Ma dopo la prima cena con Di Maio, i contatti li ha avuti in esclusiva con il capo politico. Pur sapendo che il vicepremier uscente teneva la trattativa nell’ambiguità, non citava mai il Pd, continuava a chattare con Matteo Salvini e a organizzare incontri con Gianmarco Centinaio per riprendere il discorso interrotto dalla crisi. Una telefonata di ieri pomeriggio, prima del vertice notturno, ha rotto definitivamente il ghiaccio. All’altro capo del filo non c’era solo Di Maio ma anche Giuseppe Conte appena rientrato dal G7. «Vediamoci e parliamo io e te», gli ha proposto il premier. È stata la svolta. Una definizione di ruoli. Conte chiedeva il bis a nome dei 5 stelle e trattava direttamente programma e posti nei ministeri. Quindi una delegazione del M5S incontrava una delegazione del Pd. Come dire: è finita l’era del premier superpartes che Conte ha recitato soprattutto negli ultimi mesi. Sarà, se tutto fila, un presidente del Consiglio grillino con i contrappesi di un esecutivo di coalizione. E quindi senza un vicepremier (Di Maio) dello stesso partito. È stato, anche questo, un passo avanti imposto dalle mosse di Zingaretti. Un cedimento degli altri. A Conte il segretario ha chiesto di agire da leader, «di mettere un po’ d’ordine nel caos grillino». Può finire male non per i dubbi del segretario ma per la confusione grillina. Di Maio contro il Movimento e viceversa. Alla fine questo è il vero problema. Mentre il Pd ha mantenuto quel senso di comunità smarrito da tempo, che è la cifra, la bussola politica di Zingaretti. Anche se gli è costata qualche passo indietro.