Il Parlamento non si arrende. Corbyn e i ribelli: fermeremo Boris
Nel 1993 John Major, primo ministro conservatore, definì l’opposizione interna — a microfoni spenti, pensava, ma venne registrato — come l’ala dei «bastardi». Altri tempi: adesso Boris Johnson non ha soltanto il problema dei «Remainer» conservatori che non vogliono Brexit e di quelli favorevoli a Brexit ma che vogliono assolutamente un accordo con Bruxelles e bloccherebbero un «no deal». Johnson — «Re Boris» come lo chiamano dall’altro ieri, dopo che ha di fatto chiuso il parlamento—oltre ai «bastardi» vecchio stile e alle dimissioni per protesta della leader del partito in Scozia Ruth Davidson e di George Young nella Camera dei Lord, deve anche affrontare un Parlamento indecifrabile. E diviso in otto «tribù», così le chiamano i giornali londinesi, mentre noi italiani abituati a queste cose le chiamiamo da una vita «correnti». Martedì il parlamento aprirà dopo la pausa estiva e, prima di essere chiuso da Johnson tra l’11 e il 13 settembre, per riaprire poi un mese più tardi, potrebbe avere abbastanza tempo per sfiduciare il governo. Ci sono i «kamikaze» conservatori che sono tanto contrari a Johnson da esser pronti a far cadere il governo, portare il Paese alle urne — e finire irrimediabilmente espulsi. Ci sono i «deal-maker» conservatori, convinti che Johnson riuscirà a trovare un accordo con l’Europa al summit del 17 ottobre, quattro giorni dopo la riapertura del parlamento britannico. Il Times ipotizza che siano «dozzine» i deputati conservatori pronti a votare per qualsiasi cosa porti a un accordo con l’Ue, o a un altro rinvio. Tra i «deal-maker» c’è un sottogruppo di lealisti verso Theresa May che vogliono difendere l’accordo da lei trovato: il «no-deal» è inaccettabile per la squadra di May. Lo Stato maggiore Tory ha notoriamente studiato a Oxford o Cambridge (Johnson è laureato in Greco e Latino), e non poteva così mancare la corrente degli «Spartani». Vogliono uscire subito, qualunque dilazione o accordo è inaccettabile, vogliono far saltare il «backstop» come dice Johnson ma sono alla sua destra, praticamente una corrente conservatrice sulle stesse posizioni di Nigel Farage e dei pro-Brexit più scatenati. C’è poi l’«alleanza per Remain», i liberaldemocratici, lo Scottish National Party, i verdi, i gallesi di Plaid Cymru. Erano lo zoccolo duro del possibile supportoaun governo di unità nazionale per fermare Johnson: si sono incartati sul nome del primo ministro quando Jeremy Corbyn, leader laburista, non ha accettato alternative al suo nome (inaccettabile per i Tories ribelli). Ieri Corbyn ha annunciato: «Cercheremo di fermare Johnson politicamente martedì con un processo parlamentare per prevenire una Brexit no deal». Il Labour? Spaccato tra favorevoli a Brexit con accordo (solo cinque votarono per l’accordo di May) e i Remainer duri e puri.