Marcello Sorgi

L a nascita del nuovo partito di Renzi, «Italia viva», ha provocato un mezzo terremoto politico. Anche se tutti, in serata, tendevano a minimizzare, la nota ufficialmente preoccupata con cui il presidente del consiglio Conte ha accolto la novità basta già a capire il timore di un’ulteriore fase di instabilità, dopo la folle crisi d’agosto che ha portato a un capovolgimento di alleanze e di ruoli, a fatica ancora puntellato da Palazzo Chigi. E una certa tensione si percepiva in casa 5 stelle, con la pronta convocazione di un’assemblea di eletti. Chiarissima è la ragione per cui queste preoccupazioni già si coglievano al mattino, quando Renzi ha annunciato la sua decisione di uscire dal Pd in un’intervista a «La Repubblica», e si sono accentuate nel pomeriggio, quando prima di entrare nello studio di «Porta a porta» ha comunicato il nome della sua creatura sorseggiando un aperitivo al bar con Bruno Vespa.

Sebbene l’ex-premier e ex-leader del Pd si sforzi in pubblico di rassicurare tutti, prometta che si occuperà di giovani e di futuro, non rivendichi poltrone, s’è capito perfettamente cosa ha in testa. Con una quarantina di parlamentari, di cui quindici senatori indispensabili per avere una maggioranza al Senato, Renzi non ha alcun bisogno di chiedere nulla a nessuno. Deve solo aspettare che lo chiamino, lo consultino, lo accarezzino, e gli chiedano il permesso per fare qualsiasi cosa. Il messaggio è rivolto al Pd, nei confronti del quale il senatore di Firenze dichiara di non aver alcun rancore, ma verso cui cova ancora il risentimento per le umiliazioni subite dopo la sconfitta al referendum del 2016 e il crollo successivo nelle elezioni del 2018. Ma anche ai 5 stelle, e segnatamente a Di Maio, con cui ha raccontato di aver parlato per la prima volta al telefono due sere fa, un disgelo tra vecchi avversari e da oggi in poi uomini destinati a capirsi. Non sarà neppure necessario che Renzi rivendichi una sedia al tavolo della nuova maggioranza giallo-rossa dove finora erano seduti il capo politico pentastellato e il segretario del Pd. Avendo in odio le liturgie tradizionali, i vertici, le correnti, le verifiche e ciò contro cui, in tempi che sembrano più lontani di quanto dica il calendario, si era battuto nell’epoca della rottamazione, cercherà in ogni modo di starne lontano. Farà il prezioso, aspetterà che il governo decida se davvero è venuto il momento di tornare al sistema proporzionale, in funzione anti-Salvini, e poi calerà le sue carte. Perché il proporzionale è il luogo della partitocrazia, in cui i due schieramenti di centrodestra e centrosinistra dominatori, seppure con qualche acciacco, dell’ultimo quarto di secolo, saranno destinati a sparire e si avvierà una completa scomposizione del quadro attuale. Si vedrà allora se i quaranta di Renzi sono destinati a crescere, allargando i confini di «Italia viva» a destra oltre che a sinistra, e soprattutto se nel frattempo il leader che alle Europee di cinque anni fa era riuscito a portare il Pd al quasi 41 per cento avrà riconquistato credibilità tra gli elettori, che adesso nei sondaggi lo collocano a fondo classifica. Se insomma, definitivamente stanchi del panorama politico dominato da pulsioni radicali, insulti, minacce e da un’obiettiva incapacità a governare il Paese, gli italiani, o quella parte di loro fondamentalmente democristiana nell’animo, al di là di tutte le disillusioni degli ultimi anni, sceglieranno di rivolgersi di nuovo al centro e puntare su un’area moderata. Al momento, va detto, è una scommessa. E non è affatto detto che sia una soluzione, e che Renzi possa incarnarla fino in fondo. Nel frattempo, con quei 15 senatori che hanno scelto di seguirlo, e con i 25 deputati (in realtà anche di più, dal momento che tanti sono in bilico e i biglietti di ingresso nel nuovo partito non sono ancora disponibili), Renzi potrà divertirsi a tenere il governo sul filo. Non è bello, non è giusto, dopo aver contribuito a costruirlo ad agosto, non è neppure una gran prospettiva. Ma in politica, si sa: la vendetta è un piatto che si mangia freddo.