Marcello Sorgi

La crisi ormai praticamente risolta con l’accordo Di Maio-Zingaretti sul bis di Conte, passerà alla storia, non solo come riedizione aggiornata del ribaltone, che dopo la grande vittoria elettorale del 26 maggio manda all’opposizione Salvini, più o meno come Berlusconi, emarginato dal trio D’Alema-Bossi-Buttiglione nel ’94, e premia il grande sconfitto della stessa tornata elettorale, Di Maio, insieme a quello della volta precedente, Renzi.

Ma anche come un esempio di trasformismo, connotato storico della politica italiana che attraversa quasi due secoli e trova sempre modo di rinnovarsi: fino al record attuale di un premier che nel giro di pochi giorni passa dalla guida del governo giallo-verde di destra-destra, caratterizzato dal progressivo cedimento grillino alle imposizioni del Capitano leghista, a uno giallo-rosso, ma più probabilmente rosso e basta, a giudicare dalle indiscrezioni sul programma della coalizione. E dalla competizione stabilitasi tra i due nuovi alleati, per la conquista dell’elettorato di sinistra, smottato dal Pd al Movimento nel tumultuoso bradisismo elettorale dell’anno scorso e ora in via di ripensamento, dopo le molte abiure del capo politico pentastellato in favore dell’ex-alleato Salvini. Sembra quasi di risentire le parole di don Agostino Depretis, l’8 ottobre del 1882 a Stradella: «Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi (ecco il verbo-chiave) e diventare progressista, come posso io respingerlo?». Ma anche senza andare così indietro, ai tempi in cui, tra l’altro, non c’erano ancora partiti strutturati, il suffragio era limitato e i singoli parlamentari di Destra e Sinistra storica avevano più facilità a motivare le migrazioni da uno schieramento all’altro, in cambio di concessioni e promesse clientelari, si può dire che tutta la storia della Prima Repubblica ha radici trasformistiche. Lo stesso funzionamento del partito-stato, la Dc, che nel bene e nel male ne condizionò tutti gli assetti, per quarantotto anni dal 1946 al ’94, era basato sul labile equilibrio congressuale, che ogni otto mesi faceva cadere un governo per riassestare la distribuzione del potere tra le correnti, e ogni due anni sostituiva il leader del partito, grazie allo spostamento di un esiguo gruppetto di titolari di pacchetti di tessere dall’estrema sinistra della destra all’estrema destra della sinistra del partito. Altri tempi, spostamenti millimetrici, studiati dai grandi personaggi del tempo, cavalli di razza come Fanfani e Moro, scafati capicorrente come Piccoli e Bisaglia, giovani (allora) turbolenti come De Mita o Donat Cattin, e accanto a loro, sopra o sotto, secondo le circostanze, il Divo Giulio, il sette volte presidente del consiglio Andreotti, capo di governi centristi, di centrodestra, centrosinistra, pentapartito, unità nazionale, con liberali, socialisti, laici e comunisti alternativamente alleati o messi insieme alla bisogna. E capace, per inciso, di provocare anche una scissione nel Msi post-fascista di Almirante, nel 1977, con la nascita di Democrazia nazionale guidata dal monarchico Alfredo Covelli, come puntello a uno dei suoi esecutivi più traballanti. Dal fascismo alla democrazia Qui va detto necessariamente che Conte, con Andreotti, che ci metteva anni per passare da una formula di governo a un’altra, non c’entra niente. Così come Zingaretti con Togliatti, o Renzi con Moro. In questo senso la crisi che sta per chiudersi, con il più clamoroso capovolgimento di alleanze della storia contemporanea, sarà ricordata anche per il maggior numero di paragoni a sproposito con il passato. Il richiamo alla togliattiana «svolta di Salerno» del ’44, quando il Migliore, nella sanguinosa fase finale della guerra, con il territorio italiano ancora in parte occupato dai fascisti, accettò di trattare con Badoglio, e poi di portare il Pci al governo, per accelerare il passaggio dal fascismo alla democrazia. Oppure il senso di responsabilità di Berlinguer nell’accettare che nel 1976 fosse sempre Andreotti, indigeribile per un gran pezzo di elettorato Pci, e non Moro, a guidare il primo monocolore democristiano sostenuto anche dai comunisti. L’Italia sarà pure un Paese in emergenza cronica, lo sappiamo, ma occorrerà pur fare qualche differenza tra questo momento e le terribili stagioni della guerra, dell’occupazione nazista e del terrorismo. La mezza rivoluzione Complicata quanto si vuole, accompagnata da una sorta di esaurimento della politica dopo un quarto di secolo di transizione, la situazione attuale è il punto di approdo di un viaggio intermittente verso le democrazie maggioritarie dell’Europa occidentale (questo avrebbe voluto diventare la Seconda Repubblica). Seguito da una mezza rivoluzione, finita com’è finita (la Terza Repubblica, modello semi-totalitario basato sulla democrazia diretta senza controlli sulla rete, per fortuna durata solo quattordici mesi) e dalla brusca conversione a «u» che ci riporta alla Prima, o piuttosto alla sua parodia, senza più partiti, leader, spirito costituente, e soprattutto senza riflettere sulle ragioni che ne determinarono il collasso. Chi ha vinto, chi ha perso Tal che, al di là di piccole e grandi convenienze, intuibili fin dall’inizio della crisi, l’8 agosto, ora che la soluzione è stata trovata, con l’imprevedibilità, il gusto della manovra e quella specie di genio italico che tutti i partner stranieri riconoscono alla nostra politica, non solo per disprezzarla, si può provare a descrivere i confini reali dell’operazione Conte-bis: chi l’ha voluta, chi ha vinto e chi ha perso. L’alleanza giallo-rossa nasce frettolosamente e piena di equivoci, spinta dall’Europa intimorita dal boom sovrani sta-populista, dal Quirinale e dal desiderio di sopravvivere di 5 Stelle e Pd. Ha come primo obiettivo di sbarrare la strada a Salvini, ma punta a durare. E a capovolgere, nell’immediato, il risultato che pareva scontato, delle prossime elezioni regionali in Umbria, Toscana e Emilia, a favore del centrodestra a guida leghista vincitore in tutte le consultazioni amministrative dell’ultimo anno e mezzo, o con un’estensione locale della neonata alleanza, o con nuove operazioni trasformistiche basate su liste civiche che mettano insieme in uno stesso contenitore i voti giallo-rossi. Dopo di che si potrà tornare a votare anche per il Parlamento. Ma non prima di aver eletto il successore di Mattarella, nel 2022. Con un candidato già pronto, nel suo stile, da vero padre nobile della nascita del Conte-bis: Romano Prodi, il grande sconfitto di due volte fa nella corsa al Quirinale, in gara per la rivincita.