Marzio Breda

Quando all’ora di pranzo ha sfogliato le agenzie di stampa che riassumevano l’avvio della giornata tra incontri rinviati, nuove pretese irrinunciabili, rivendicazioni, dinieghi, fughe in avanti e scambi d’accuse, Sergio Mattarella ha scosso la testa in segno di sfiducia. «Il dialogo si è interrotto, siamo di nuovo allo stallo», ha detto ai consiglieri, mostrandosi esplicitamente dubbioso sulle possibilità di tenereabattesimo una maggioranza. E dunque, dopo aver seguito con irritazione per l’intero weekend svogliate trattative (con qualche leader addirittura in vacanza), è apparso rassegnatoaquello scioglimento delle Camere che—come aveva spiegato— è sempre «una decisione da non prendere alla leggera», da parte sua. Poi, contro ogni aspettativa, il barometro politico è svoltato verso il bello. Con un incrocio di puntualizzazioni dai 5 Stelle e dal Pd in cui si segnalava che la trattativa «non è saltata», che «non esistono veti», che «certi retroscena sono falsi» e che su Giuseppe Conte per Palazzo Chigi «c’erano stati grandi passi avanti». Così, a metà pomeriggio, il capo dello Stato ha potuto cominciare ieri il suo secondo giro di consultazioni con maggiori aspettative. Certo, da un’ora all’altra tutto può cambiare anche drasticamente, visto che il momento della verità scatterà soltanto nel pomeriggio di oggi, quando saliranno al Quirinale i due potenziali partner di governo, Zingaretti e Di Maio. Per evitare che Mattarella spari «il colpo» che ha in canna, cioè il varo di un esecutivo di garanzia elettorale facendo aprire le urne il 10 novembre, dovranno spiegargli con chiarezza alcune cose. Quale sarà, numeri alla mano, il perimetro della maggioranza che vogliono costituire e, se saranno già in grado di delinearle, su quali basi programmatiche. Ma soprattutto dovranno dire a chi intendono affidare il ruolo di premier. Se, come ormai è assodato, sarà Conte, si prevede una sua rapidissima convocazione sul Colle, per formalizzare l’incarico probabilmente entro la mattinata di domani. E se Conte chiederà al presidente qualche giorno per definire il programma e la struttura del governo con i nomi dei ministri, gli sarà concesso. E qui sta il punto politico più delicato di questa crisi. Mattarella, infatti, chiederà a Conte di tornare alla prassi costituzionale per la quale è il premier incaricatoadover darsi da fare per mettere in navigazione il proprio governo. Va quindi rovesciato lo schema che era stato applicato 14 mesi fa, quando i 5 Stelle e la Lega catapultarono a Palazzo Chigi lo sconosciuto «avvocato del popolo», facendogli trovare un «contratto» scritto da loroaquattro mani, facendogli firmare l’elenco dettagliato dei responsabili dei vari dicasteri e vegliando su di lui con due vicepremier sospettosi l’uno dell’altro. Certo, allora c’era un’emergenza governabilità e il Movimento di Grillo aveva fatto dissipare al Paese 89 giorni in un inutile gioco dei due forni, prima con il Pd e poi con la Lega. Quello fu evidentemente il peccato originale dell’esecutivo gialloverde, il primo populista-sovranista in Europa, nato senza una visione strategica comune né valori condivisi. E unito, appunto, da un accordo d’impronta notarile più che politica. Stavolta le cose non potranno andare allo stesso modo. E, si osserva al Quirinale, se Conte vuole fare sul serio il premier — tanto più dopo l’endorsement venuto ieri da Trump — dovrà impugnare il timone fin da subito. Un piccolo aiuto pare glielo abbia dato il Colle, su sollecitazione dei democratici, spingendolo a fare pressione sui 5 Stelle perché evitino impuntature sul modello del doppio vicepremier. Pretenderne un replay sarebbe troppo, per il Pd. Conte ha capito e ha raccolto la responsabilità, facendo cambiare la giornata.