Marzio Breda

Qualcuno si aspettava che Sergio Mattarella ieri uscisse nella loggia alla Vetrata e parlasse pure lui, dopo che il premier incaricato aveva pronunciato il discorso d’investitura. Certo, una sortita per spiegare agli italiani quanto è successo, il capo dello Stato potrebbe concedersela martedì o mercoledì, quando si prevede che Giuseppe Conte sciolga la riserva, se chiuderà il cerchio portandogli la lista dei ministri. Ma farlo prima di questo passaggio avrebbe potuto alimentare l’equivoco (c’è già chi ci soffia sopra) per cui quello che si tenta di costruire sarebbe un governo del presidente, mentre si tratta di un governo politico. Del quale «l’Elevato» — così l’ha qualificato Beppe Grillo – ha piena responsabilità, stavolta senza dividerla con due vice invadenti, come tocca a un notaio che si limiti a fare il garante di un contratto stipulato da altri. È questa, del resto, la chiave per interpretare l’incitamento di Mattarella a Conte, dopo un’ora di colloquio. Un saluto laconico e, com’è nel suo stile, antiemotivo. Di questo tenore: ora sta a te… Cammina sulle tue gambe e cerca di costruire un progetto alto e convincente… Non sarà facile, ma puoi farcela. Parole che il premier ha tradotto orgogliosamente, con un manifesto programmatico apprezzato dal capo dello Stato, che l’ha seguito e condiviso in diretta tv. A partire dall’autodefinizione finita nei titoli di tutti i siti, in cui mutuava un concetto caro al Quirinale: «Il mio non sarà un governo contro, ma un governo per», aggiungendo che questo «è il momento del coraggio», in primis il suo, ricalcando dunque fino in fondo il senso dell’augurio presidenziale. Parecchi altri echi mattarelliani si rincorrevano poi nel discorso, quasi che fossero frutto di suggerimenti dall’alto: l’emergenza sui conti pubblici, il rapporto con l’Europa da riannodare, l’atlantismo da confermare. E anche il sorvolo su alcuni temi divisivi (immigrazione, autonomie differenziate, grandi opere), sembrava nato dal consiglio di prudenza di uno che ha lunga esperienza. Cenni e omissis di un programma che Conte ha già cominciato ad approfondire con 5 Stelle e Pd, «consapevole delle difficoltà ma determinato», come l’hanno descritto sul Colle. I diktat e le compensazioni fra i partner verranno dalla composizione della squadra, sulla quale scatterà la sorveglianza di Mattarella, al quale spetta — è un potere duale fissato dalla Costituzione — l’ultima parola. In questo vaglio i dicasteri critici, su cui il presidente è prontoaoffrire pareri preventivi, sono l’Economia, gli Esteri, la Difesa e l’Interno. L’«avvocato del popolo» dovrà invece sbrogliare da solo il problema del vicepremier, di cui si vagheggia una versione doppia (com’era nel governo gialloverde), unicaoaddirittura zero. E qui, come per la gestione delle ricadute del referendum sulla piattaforma Rousseau, tutto è appeso alle smanie del capo politico grillino Luigi Di Maio e alle capacità negoziali del premier incaricato. La scommessa di Conte, come si vede, è carica di incognite. Non esclusa una davvero estrema: che alla prova della fiducia in Aula—ipotizzata dal Quirinale per venerdì, con giuramento dei ministri il giorno precedente—ci sia chi possa comprarsi il voto contrario di qualche dissidente. In questa pazza crisi nella quale Salvini lancia minacce con un «non vi libererete di me», tutto è possibile.