Massimo Giannini
Quante strade dovrà percorrere la Cosa giallo-rossa, prima di essere chiamata “governo”? La risposta non soffia nel vento, come cantava il poeta. Ora che la nave è partita e deve in qualche modo navigare, dipende invece dalla fiducia che i nocchieri nutrono in se stessi e trasmettono agli italiani ancora storditi dalla crisi di Ferragosto. Dipende dalle parole e dai gesti degli alleati riluttanti, che da quando hanno avviato la “fusione fredda” si sforzano di dimostrare ai rispettivi elettorati la pervicace volontà di non farla diventare calda. Gli indizi d’una svolta si vedono: su questioni cruciali come le relazioni euro-atlantiche e l’immigrazione la “discontinuità” c’è davvero, finalmente declinata nei termini della responsabilà occidentale, e non più della sovranità putinista.
Ma “governo”, persino nelle esauste democrazie parlamentari e proporzionali, è assunzione di responsabilità generale. È piena consapevolezza di una missione condivisa. È comunità di destino. È messa in gioco di un progetto in cui si vince e si perde tutti insieme. Nel governo demo-stellato tutto questo ancora manca. Prevale una “malavoglia” quasi esibita. Va superata, perché in caso contrario rischierebbe di uccidere in culla il neonato. E già si profila il “giustiziere della notte”, che non per caso è proprio Renzi, lo spregiudicato scissionista che, dopo aver tenuto a battesimo il nuovo governo insieme a Grillo, ora si prepara a farlo morire, insieme a quel che resta della sinistra. Il presidente Conte, nonostante l’insospettabile tenacia che ha sfoderato nelle feroci “logomachie” parlamentari con il suo ex dante causa leghista, galleggia almeno un palmo sopra la sua maggioranza: considera esplicitamente “inappropriata” la sua attribuzione al Movimento Cinque Stelle. Il “CamaleConte”, appunto, che tuttavia non può continuare a fingersi di tutti e di nessuno. Di Maio, da quando l’embrione del nuovo governo ha dato i primi segni di esistenza in vita, ha pronunciato la parola Pd due sole volte. Come se in lui si fosse ormai incistata la sindrome velenosa del “partito di Bibbiano”, con il quale si governa turandosi il naso per non contaminarsi. Zingaretti è un po’ più generoso, perché insieme alla necessità capisce anche il pericolo, ma fatica anche lui a tirarsi dietro il suo partito, come dimostra lo strappo renziano, e a farsi piacere un partner che non perde occasione per riaffermare distinzione e distanza. Nell’ultima settimana, da Teresa Bellanova a Manlio Di Stefano, abbiamo sentito solo ministri e sottosegretari che, dai due fronti contrapposti, ribadivano che questa rimane “un’alleanza innaturale”. Con buona pace di D’Alema che pensa il contrario, e di Franceschini che parla di un esecutivo “incubatore di un nuovo progetto”. Se c’è, il “nuovo progetto” dovra venire a galla presto. La prova di questo deficit sta proprio nella risposta sdegnata che il Movimento ha riservato alla proposta dello stesso Franceschini nell’intervista a Repubblica: abbiamo sottoscritto un patto politico per il governo, ora facciamo un patto elettorale per le regionali. Coerente, nella logica di un pur fragile governo di coalizione. Contundente, nell’ottica di un M5S che pretende quindi mani libere. Al punto tale che tra i “gialli”, in una evidente eterogenesi dei fini, c’è chi interpreta quell’offerta del capo-delegazione dei “rossi” non come una sollecitazione per blindare l’alleanza, ma come una provocazione per spaccare il Movimento. In questo clima, chi è il “padre” che avrà cuore di gestire il programma-monstre illustrato alle Camere dal presidente del Consiglio, che spazia nella stratosfera tra clausole Iva e riforme costituzionali, asili nido e concessioni autostradali, Green New Deal e Smart Nation? E chi è la “madre” che avrà cura di attuare il solido piano economico illustrato dal ministro Gualtieri in un’altra intervista a Repubblica, che finalmente restituisce l’Italia all’Europa, rilancia la riduzione del debito, conferma Quota 100 e Reddito di cittadinanza ma solo fino alla scadenza triennale? Questo è il rischio più grave, per la Cosa giallo-rossa. La persistenza di un “trattino” irriducibile, che finisce per logorare le due già deboli forze nel gioco a somma zero dei due sub-governi. Cos’altro è quello di Franceschini, che sul Colle riunisce i “suoi” ministri per un selfie auto-celebrativo? Cos’altro è quello di Di Maio, che alla Farnesina convoca i “suoi” ministri per stilare “un documento da consegnare all’Eurogruppo”? Anche l’epilogo della contesa sui sottosegretari riflette questo amalgama malriuscito. Leo Longanesi diceva: «Perché assumere una responsabilità, quando puoi assumere un sottosegretario?». In attesa di assumersi la responsabilità di tirar fuori l’Italia dalla crisi, il governo di sottosegretari ne ha assunti 42. Nulla di scandaloso: tutti i governi della Repubblica si sono spartiti gli incarichi di sottogoverno. Ma questa “Grande Abbuffata” ha due aggravanti. La prima aggravante: l’applicazione del manuale Cencelli agli strapuntini di Palazzo ha reso necessario un suk più laborioso del solito, per accontentare le correnti interne dei due schieramenti. Vale per M5S, che per pulire la coscienza parla di “anime”: grillini e casaleggiani, dimaiani e fichiani. Vale per il Pd, che per sporcarsele si lacera in “fazioni”: zingarettiani e renziani, martiniani e franceschiniani. Il risultato finale è quasi grottesco. Nel Movimento Di Maio esulta via Facebook soltanto per la sua «nuova squadra, che sarà composta da 21 esponenti del M5S, di questi 6 saranno viceministri”. Nel Pd deflagra l’immancabile diaspora, stavolta dei dem toscani, che esclusi dalla mangiatoia accusano il Soviet-Nazareno di “purga anti-renziana», aprendo la strada all’ennesima “rupture” del senatore di Rignano. La seconda aggravante: certe pratiche lottizzatorie date in pasto a un’opinione pubblica cresciuta a “pane e casta”, per quanto rituali, questo governo non se le può permettere. Il Conte Due è già nato con una tara genetica (benché non giuridica): gli italiani non l’hanno votato e gli ex nemici l’hanno voluto solo per evitare le elezioni anticipate e il sicuro trionfo del dittatore dello Stato libero di Papeete. Per questo si presta, quasi di per sé, alla becera campagna salviniana contro “il governo dei poltronari”. Dunque litigare sulle poltrone, invece che cominciare a dare risposte concrete ai bisogni dei cittadini, è un balsamo sulle ferite del Capitano rancoroso. Far finta di non vedere che il Nord del Paese è all’opposizione (e sottovalutare colpevolmente il tema non solo nella scelta dei ministri ma anche in quella dei sottosegretari) è un argomento in più per la propaganda sfascio-populista. La ruspa Sovranista si è piantata a un passo da Palazzo Chigi, col serbatoio momentaneamente vuoto. Proverà a ripartire, solitaria e rabbiosa, dai pratoni di Pontida. Conte, Di Maio e Zingaretti evitino di regalargli un pieno di benzina.