L a guerriglia delle forze sovraniste contro l’Unione europea sta perdendo posizioni su più di un versante. Anche in Italia con l’harakiri politico di Matteo Salvini, ma il segnale più significativo di una difficoltà strategica insormontabile giunge dal fronte della Brexit, che ha rappresentato finora l’offensiva più insidiosa per la tenuta del progetto europeo. Più i giorni passano e più l’aura di tragedia che circondava la prospettiva di un abbandono dell’Europa da parte di Londra si stempera in un clima da farsa. Già Theresa May in più di un passaggio aveva sfidato il senso del ridicolo insistendo con cieca testardaggine a chiedere ai partner europei concessioni che ben sapeva di non poter ottenere. Ora Boris Johnson, insediato a Downing Street, sta stucchevolmente ripetendo lo stesso copione solo con voce più alta e boriosa. Forse nella speranza di far dimenticare che la sua maggioranza (un solo seggio) al parlamento di Westminster è inferiore perfino a quella risicata di cui godeva la May. Non si può spiegare la ragione di questo cul di sacco in cui si è infilato un Paese maestro nei grandi giochi diplomatici se non si guarda alle radici del fenomeno Brexit. In particolare al fatto che il non poi così clamoroso 52% di voti favorevoli all’uscita dalla Ue è stato cavalcato dalle forze sovraniste nella presuntuosa convinzione di poter innescare un ben più ampio “rompete le righe” all’interno dell’Unione. Non va dimenticato, infatti, che Londra più di ogni altra capitale europea ha premuto per il tumultuoso ingresso in massa dei Paesi dell’Est. Con il proposito inconfessabile di gettare sabbia negli organismi comunitari in modo da bloccare quel processo di maggiore integrazione sovranazionale che il Regno Unito non ha mai amato. Ma la speranza di avviare una diaspora continentale sull’onda della Brexit si è ormai rivelata un’illusione. Perfino i nazionalisti più scatenati, come l’ungherese Orbán, si sono guardati bene dal seguire l’esempio inglese: la sirena sovranista non vale il peso di qualche grosso impianto tedesco in Ungheria. E così, di presunzione in presunzione sempre sbagliate, ora Boris Johnson è passato dagli scacchi al poker brandendo una sola arma: quella di un divorzio senza accordo. Che però è a doppio taglio perché provocherebbe ben più danni al Regno Unito di quelli che patirebbe il resto d’Europa. E non soltanto sul terreno dei pur rilevanti scambi economici. Peggio, molto peggio rischia di accadere sul versante politico dato che il ripristino di un confine fra Ulster e Repubblica d’Irlanda come vorrebbe Johnson sarebbe benzina per riattizzare le fiamme di conflitti sanguinosi appena sopiti. Per non dire delle pulsioni scismatiche che agitano la Scozia dove ci si è pronunciati per il “remain” in Europa e mal si tollera da tempo un governo di Londra nelle mani di una cricca oxfordiana di rito spocchiosamente inglese. Il nuovo inquilino di Downing Street fa lo spiritoso e promette “la botte piena e la moglie ubriaca”. Una versione del sovranismo che rientra a pieno titolo nella terza fra le celebri leggi di Carlo M. Cipolla sulla stupidità umana. Quella che dice: «Una persona stupida è chi causa un danno a un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita». Dato che le persone stupide sono anche le più pericolose, sta ora a Bruxelles fare l’unica scelta sensata: andare a vedere il bluff di Johnson. Il beneficio politico della chiusura di questa partita è superiore a qualunque costo economico.