Mattia Feltri

F orse albeggia dopo la lunga notte alcolica del Papeete. In un lunedì mattina di fine estate – fine dei balli dell’ascella e del mojito e spento il rap del tiro dritto e del cuore immacolato di Maria, finalmente fine, forse – ci si risveglia con una lunga intervista concessa da Urbano Cairo a Annalisa Chirico sul Foglio aperta da una confessione: al momento non sono sfiorato dall’idea della politica. Traduzione, secondo la prima regola della politologia all’italiana: sono molto preso dall’idea della politica, soltanto che debbo calcolare bene i tempi. E però qui ci sono già due problemi. Primo, la si sta subito buttando sul retroscena a poderosi raggi X, e poi le concrete intenzione del presidente del Toro (carica principale, seguono editore del Corriere della Sera, de La7 e parecchio altro) non sono nemmeno così cruciali. E’ cruciale che ci si svegli un lunedì mattina di fine estate e si riscopra la possibilità di ambire a cariche pubbliche e apicali con un programma il cui titolo non sia Abracadabra. Cioè, per esempio, un esempio fra mille, i Cinque stelle e Virginia Raggi affascinarono alcuni eruditissimi editorialisti del Corriere di Cairo dicendo: e che ci vuole? Basta recuperare un miliardino di euro di sprechi e in sei mesi si aggiustano i conti di Roma. Sono anni – lustri! – che si va avanti a ravanare nel cilindro, a promettere il prodigio a portata di mano: che ci vuole? Abracadabra: abolita la povertà. Abracadabra: fermata l’immigrazione. Abracadabra: spazzata la corruzione. E poi una mattina di fine estate ci si risveglia su una lunga intervista in cui Cairo spiega (mettiamola così) di non avere intenzione di fare politica ma se gli venisse ecco come la fonderebbe: non è un anno bellissimo, è un anno tremendo, «il momento è complicato, l’economia è in stagnazione, spirano venti di recessione a livello globale, dobbiamo rimboccarci le maniche e lavorare sodo». Lavorare sodo? Ma non era questione – abracadabra – di redistribuire le ricchezze nascoste sotto la mattonella dalle élite pluto giudaico massoniche? E il reddito di cittadinanza? «Non scherziamo» dice Cairo, «è un incentivo a non fare o a fare nel sommerso». E quota cento? «Un’agenda economica seria non dovrebbe partire dai sussidi né da provvedimenti che mirano a mandare prima la gente in pensione». Oggi serve l’esatto opposto, continua Cairo, la sicurezza è un valore per piagnini, «le persone vanno spronate a mettersi in gioco e a rischiare, anche se non possono scegliere l’impiego dei loro sogni». E dunque ci si sveglia una mattina eccetera e si scopre che la politica, eccolo il vero prodigio, potrebbe ripartire dall’ipotesi di dire quello che non ci si vuole sentir dire: non ci sono complotti, non ci sono caste voraci che vi mangiano sulla testa, non siete stati turlupinati, non ci sono doppifondi nel pavimento con dentro il gruzzolo, i quattrini non pioveranno sul vostro divano per diritto divino, qui si è tutti campati un po’ allegramente e al di sopra delle nostre possibilità, si è fatta notte cantando e incrociando i bicchieri: albeggia, tocca prendere un’aspirina, farsi una giornata a caffè e acqua e tornare al lavoro. Piuttosto solleva stupore che un ragionamento del genere sgorghi da un imprenditore così dentro il suo tempo – lui scansa ma pure il suo Corriere (come altri giornali) e la sua tv hanno dedicato attenzioni particolarmente generose ai bamboccini sbucati al governo da una scatola del Piccolo Mago. Adesso i bamboccini li liquida, nemmeno ci spreca troppe righe, Matteo Salvini è uno buono soltanto a condurre campagne elettorali, Luigi Di Maio nemmeno quelle, l’incompetenza è incompetenza, non è purezza. Eppure un uomo così dentro il suo tempo, e così dichiaratamente – almeno in questo molto berlusconiano – concavo coi convessi e convesso coi concavi, esce dal suo tempo e si figura una leadership, per quanto ipotetica, senza promesse da bianco natale. Una politica dell’immigrazione, dice, «concepita senza o contro l’Europa è destinata a fallire», e non perché siamo prigionieri di un’Unione di bancari e speculatori, ma perché «l’Italia non va da nessuna parte se non capisce che viviamo in un mondo interconnesso», aggettivo quest’ultimo già più gradevole di «globale», ma il succo quello è. Non ci piace essere globalizzati? Pazienza, lo siamo lo stesso e ci si deve fare i conti. Sfida la lagna sonnolenta ed equivoca dei nemici conformisti del politicamente corretto e tale si dichiara: «Per carattere tendo al politicamente corretto, sono un moderato delle parole: lo considero un segno di rispetto verso il prossimo», se non altro (si suppone) perché una sciocchezza è una sciocchezza, ma se è urlata la si sente di più. E, infine, lo si bacerebbe in fronte anche solo per questo, Cairo si gioca l’intera intervista senza impigliarsi nel passatempo scemo e pigro dei fascisti e dei comunisti, della destra e della sinistra, siccome sa che qui la partita è un’altra: essere per la democrazia liberale e rappresentativa contro la democrazia illiberale e plebiscitaria. Poi, che ci si riesca è un altro discorso. Che ci provi Cairo è un altro ancora. Che si lo si ricominci a dire, senza curarsi del sondaggio di domattina, è una magnifica notizia.