Michele Ainis
Jean-Jacques Rousseau abbandonò i suoi cinque figli in un orfanotrofio; adesso un figlio postumo può renderci orfani del nuovo governo. È la piattaforma Rousseau, dal cui responso dipende il Conte bis. Attraverso una consultazione online fra gli iscritti al Movimento 5 Stelle, dunque un referendum, dunque una variante eccentrica nella procedura indicata dalla Costituzione. Non foss’altro perché assoggetta la massima espressione della democrazia indiretta (il voto di fiducia in Parlamento) al massimo istituto di democrazia diretta. Ma diretta da chi? Come, quando, perché? A guardare da vicino questa strana creatura, saltano agli occhi difetti e incongruenze, benché in linea di principio l’intenzione sia lodevole. Possiamo elencarne almeno quattro. Primo: i tempi. Non sono mai neutrali, specie in questa stagione, dove gli umori politici cambiano di ora in ora. Sicché scegliendo l’ora giusta si può ottenere una risposta positiva, quando il giorno prima sarebbe stata negativa. Sarà per questo che il 27 agosto un post dei 5 Stelle ha annunciato la consultazione telematica, restando poi nel vago sui tempi del suo concreto svolgimento. Che tuttavia s’incrociano con l’agenda del presidente Mattarella, condizionandola, sottoponendola a decisioni esterne. Lui vuole far presto, e ne ha tutte le ragioni. Dovrà invece aspettare che la Piattaforma Rousseau decida di decidere. Fino a quel momento qualsiasi impegno, qualsiasi dichiarazione resa al Quirinale dai vertici del Movimento è come scritta sull’acqua. Una promessa per fatto altrui, direbbero i giuristi. Secondo: la domanda. Come osservò a suo tempoNorberto Bobbio, in un referendum conta più della risposta. Perché il quesito referendario orienta il risultato, ne prefigura gli esiti. Sulla questione fiscale, per esempio: altro è domandare agli elettori se vogliono pagare meno tasse, altro chiedergli di rinunciare alla scuola pubblica o alla sanità gratuita. Altro è un quesito specifico, altro un’interrogazione indiretta (accadde già la volta scorsa), che è un modo singolare d’esercitare la democrazia diretta. Ma in questo caso la nota dolente dipende soprattutto dal ritardo con cui risuona la domanda. Il Movimento avrebbe dovuto formularla prima, quando Salvini aprì la crisi di governo. Perché allora i suoi iscritti potevano scegliere fra il vecchio fidanzato (la Lega), il nuovo (il Pd), o altrimenti il voto anticipato. Adesso, viceversa, c’è solo il Conte bis. Dunque un plebiscito, non un referendum. E con un’altra pecca: se Di Maio deve consultare la base per fare il governo, a rigor di logica dovrebbe consultarla anche per non farlo. Invece il suo ultimatum del 30 agosto non è mai stato benedetto dalla Piattaforma Rousseau. Terzo: i numeri. Votano gli «iscritti certificati» da almeno 6 mesi, solamente loro. Dunque 115 mila persone, l’1% di chi scelse i 5 Stelle alle politiche. Troppo pochi. Nel febbraio 2018, quando il Partito socialdemocratico tedesco interrogò i propri affiliati in merito alla Grosse Koalition, questi ultimi erano 463 mila, e il 78% prese parte alla consultazione. Viceversa a luglio scorso, in occasione del voto sul mandato zero, nella piattaforma Rousseau risposero in 25 mila. Tutto l’opposto di quanto succede alle primarie del Pd, dove possono votare anche i passanti. Evidentemente noi italiani siamo fatti così: o poco o troppo, senza vie di mezzo. Quarto: il vincolo. Non c’è, qualunque sia l’esito del voto. Dice l’articolo 4 dello statuto cui obbedisce il Movimento: entro 5 giorni dalla pubblicazione dei risultati, la consultazione va ripetuta, se lo chiedono il garante (Grillo) o il capo politico (Di Maio). E nella seconda votazione occorre superare il quorum della maggioranza assoluta, benché i 5Stelle abbiano sempre sostenuto i referendum senza quorum. Curiosa, questa diffidenza verso la democrazia diretta da parte dei suoi primi apostoli. Però almeno sdrammatizza il prossimo voto su Rousseau: si conteranno i voti, ma poi chi conta è Conte.