P. L’architetto del secolo
La biografia di una nazione di norma si affronta attraverso le vite degli uomini illustri che l’hanno fondata o cambiata irrimediabilmente, ma se i casi classici delle biografie di Napoleone scritta da Max Gallo o quella di Garibaldi scritta da Denis Mack Smith o anche l’opera in tre volumi di Renzo De Felice su Mussolini sono, alla fine dei conti, storie nazionali narrate in modo piuttosto ovvio, quella invece pubblicata da Paolo Nicoloso, Marcello Piacentini. Architettura e potere: una biografia (Gaspari Editore, Udine, euro 24,50) riesce per una volta a riempire di significato quell’aggettivo svuotato che è oggi il termine “straordinario”. Nicoloso infatti, che da moti anni studia a fondo la storia dell’ar – chitettura e dell’urbanistica comprese fra le due guerre mondiali, ha voluto rovesciare il suo precedente Mussolini architetto (Einaudi 2008) – una storia dei lavori pubblici del ventennio fascista – nella biografia dell’architetto che più di tutti ha lavorato allora e che – questa la tesi di fondo – ha voluto illudere il duce di essere lui l’ar – chitetto supremo, facendo propri i suoi slogan e idee di città per ingraziarselo ottenendo così il massimo riconoscimento pubblico, mentre viceversa quasi tutto restava nelle saldissime mani piacentiniane. Nel farsi interprete di Mussolini, cui permetteva di aggiungere segni e schizzi ai suoi progetti in bella copia, Piacentini si faceva interprete non già della tanto mitizzata politica culturale del fascismo, quanto piuttosto di tutte le oscillazioni opportunistiche e propagandistiche di un regime camaleontico in cui la “camaleontesca adattabilità” piacentiniana (definizione di Roberto Farinacci che lo attaccava da destra, come anche gli strapaesani Maccari e Longanesi) ha brillato più di tutte. Di conseguenza, avendo vissuto in un periodo storico in cui l’architettura rivestiva un ruolo centrale nell’organizzazione del consenso politico e della costruzione identitaria di uno stato ancora giovane, la sua azione instancabile in ben 28 città italiane, senza uguali per capacità organizzative, il suo trasformismo professionale e stilistico si sono imposti con una potenza tale da incarnare la biografia di tutta la nazione, specie i difetti: conflitto d’interessi, traffico d’influenze, furbizia professionale, opportunismo politico, nepotismo, mancanza di idealismo, corruzione. Colpe che non sono appartenute solo al fascismo: tra i meriti del volume c’è infatti anche quello di dimostrare che Piacentini non ha fatto altro che adattarsi alle condizioni di tutti i regimi politici, da quello monarchico liberale precedente fino a quello repubblicano a guida Dc successivo. Nonostante qualche rara sbavatura moralistica, Nicoloso segue in questo il suo maestro Giorgio Ciucci, che oltre trent’anni or sono si proponeva di indagare più le ragioni che hanno permesso l’affermazione di questo tipo di professionalità, senza esprimere un giudizio morale sul suo operato. Analogamente a quanto ha fatto Mario Lupano, autore nel 1991 della prima e finora unica monografia sull’architetto romano, responsabile inoltre della donazione di tutto il fondo Piacentini all’Università di Firenze per ottemperare a un’antica battuta di Aldo Rossi, che dopo la sua Triennale del 1973 stroncata da Bruno Zevi sull’Espresso proprio per la presenza di un disegno raffigurante un edificio milanese del nostro, disse “bisognerebbe piuttosto studiarlo, Piacentini”. Nato a Roma nel 1881 (due anni prima del duce), Marcello Piacentini viene avviato alla professione dal padre architetto Pio, già autore del Palazzo delle Esposizioni e del ministero della Giustizia in via Arenula. Nel 1906, 1911 e 1915 già realizza padiglioni che rappresentano l’Italia in grandi esposizioni celebrative a Bruxelles, Roma e San Francisco: negli Usa subisce una contestazione degli italoamericani cattolici perché si era già sparsa la voce che fosse massone, il che era verissimo. Massone erano ad esempio il sindaco di Roma Ernesto Nathan ed Ettore Ferrari che sarà presidente del Grande Oriente d’Italia dopo di lui e che, essendo amico e collaboratore di Pio, aiuterà Marcello in tutte le commissioni giudicanti in cui lo incontrerà. Ma non basta: nel 1912, per ottenere il titolo di architetto-ingegnere e svolgere pienamente la professione, ottiene da Vittorio Emanuele III un regio decreto ad personam che ne dichiara l’equi – pollenza con il titolo di professore di disegno. Nella Libia occupata dagli italiani è console suo fratello Renato: ecco che arriva Marcello dapprima per realizzare un monumento ai caduti e, già che c’è, anche il municipio di Bengasi, l’albergo Roma, il Banco di Roma e il palazzo dei Telefoni. Ecco che si manifesta il suo talento principale: quello di aggirare in concorsi pubblici, con contatti diretti e persuasivi con il ceto politico e non solo. Ad esempio, fa credere di ispirarsi al barocco romano in varie lettere sussiegose alla firma principale del Corriere della Sera di allora, Ugo Ojetti, mentre in altre lettere private afferma di guardare direttamente all’antico. Ojetti, come molti altri, compreso il duce, appoggerà pubblicamente Piacentini credendo di poterlo guidare, come una mosca cocchiera. In realtà sarà l’architetto a giovarsene di più, specie quando Ojetti sarà suo collega nelle numerose giurie di concorso sia quando diventerà direttore del Corsera nel ’26. Altro fronte d’azione è quello universitario, dove Piacentini si accoda a Gustavo Giovannoni, storico e architetto carismatico per le sue idee conservatrici verso i monumenti e il loro contesto urbano, ma lentamente gli farà le scarpe, mai opponendosi a viso aperto. Nel 1928 riuscirà a spuntarla per essere nominato professore ordinario “per chiara fama” nonostante la strenua opposizione giovannoniana che pretendeva un concorso regolare. Piacentini però aveva già bruciato ogni tappa: nel 1925, un Mussolini in difficoltà per il delitto Matteotti e la svolta autoritaria decide di presenziare all’inau – gurazione della nuova piazza di Bergamo piacentiniana salutandola come esempio di romanità e amor patrio, specie per la torre quadrata dei caduti, qualche tempo dopo la inaugura anche il Re, ma Piacentini è assente entrambe le volte perché impegnato all’esposizione internazionale di Parigi dove si confronta con Le Corbusier. Per nulla provinciale, l’architetto romano dispone di una vasta cultura e di una fornita biblioteca, oltre che di una rivista e di uno studio professionale sempre più nutrito e di una fama in crescita che lo portano nel 1928 a diventare giovane Accademico d’Italia (solo Marinetti si oppone alla sua nomina) insieme con Armando Brasini e Cesare Bazzani che però negli anni ’30 diventano marginali figure di rappresentanza. Nessuno gli resiste, potendo aggirare qualsiasi opposizione e sfruttando ogni occasione per conoscere il paese e farsi conoscere a sua volta. Quando nel 1927 è chiamato come consulente dal comune di Brescia per la nuova piazza della Vittoria convince Augusto Turati che non è il caso di procedere con il concorso perché il progetto può senz’altro farlo lui e con maggior efficacia. Questo avviene puntualmente e l’efficacia è fuor di dubbio perché fa in modo di far costruire un edificio di rappresentanza nella piazza anche alla Banca d’Italia, a varie assicurazioni e ad altri istituti capaci di immettere il denaro necessario, oltre a quello comunale. Il fatto che Turati fosse anche il segretario del Partito nazionale fascista non è un dettaglio, e l’essere un punto di riferimento di Piacentini sarà anche alla base dei suoi plurimi conflitti d’interesse. Anche se si presenta pubblicamente come un artista in cerca di ispirazione, un po’ come le archistar di oggi che sembrano pensare solo alle nuvole o alla leggerezza, un articolo scritto nel suo studio rivela che in una sola mattina riceve telefonate da tre gerarchi, cinque imprenditori, quattro banchieri ecc., altro che artista sospirante. E’ membro della commissione per i Beni storici, ma va in sopralluogo solo dove ha già un cantiere in corso. Per fare alcuni lavori particolarmente complicati come la sistemazione della centralissima piazza Diaz a Milano, è al contempo Consulente del comune, dell’impresa privata proprietaria dell’area e della stessa commissione nazionale dei beni storici. Non è un caso che sin dall’ini – zio abbia sempre voluto insegnare urbanistica, la disciplina più vocata al confronto politico e imprenditoriale. Piacentini è uno, nessuno e centomila: progettista, storico, restauratore, critico, tecnico, persino sindacalista grazie allo strettissimo legame con Alberto Calza Bini, segretario del sindacato nazionale fascista degli architetti. E’ anche amante delle altre arti, avendo peraltro sposato una pittrice, ma in realtà crea un sistema di sudditanza con gli artisti che di norma faticano a sbarcare il lunario e invece grazie a lui trovano un’enorme mole di lavoro. Di certo ha un talento insuperato nello scegliersi i collaboratori, in studio o all’università. Fra i suoi assistenti spiccano Giuseppe Vaccaro, Adalberto Libera e Luigi Piccinato; fra gli artisti che frequenta e fa lavorare ci sono tutti i migliori: Mario Sironi, Gino Severini, Corrado Cagli, Achille Funi e gli scultori come Arturo Martini. Il trio Piacentini, Sironi, Martini partorisce il Palazzo di Giustizia di Milano come una sintesi delle arti operata dai primatisti ognuno nel proprio campo – per questo chiede una tangente sulla fornitura dei marmi doppia per lo standard di allora, il 10 per cento. La corruzione sarà l’argomento dei suoi pochi nemici, tutti duri e puri (cioè si consideravano tutti più autenticamente fascisti di lui): il giornalista e gallerista Pier Maria Bardi, Carlo Belli, Alberto Sartoris, Giuseppe Terragni e, con una parentesi collaborativa durata solo per la città universitaria alla Sapienza, Giuseppe Pagano. Se un uomo si giudica dai suoi avversari, allora Piacentini è certo una stella di prima grandezza. Unica anche la sua capacità di dividere il fronte avversario promuovendo un elemento come Libera (che era stato nel Gruppo 7 insieme con Terragni e Figini & Pollini) o appunto il direttore di Casabella, Pagano. Con i suoi più grandi progetti, impossibili da gestire con un singolo studio per vastità di scala, aumenta ancora il suo ascendente: gli archi e le colonne dell’E42, poi EUR, e gli obelischi di via della Conciliazione lo aiutano a scavalcare i drammi della guerra e l’epurazione grazie a questi cantieri infiniti che sia la Dc sia il Vaticano vogliono portare a termine per il Giubileo del 1950 – in questo è aiutato direttamente dal giovane Andreotti. Ed ecco allora Piacentini di nuovo preside della facoltà di Architettura, avendo avuto l’accortezza di non aderire alla Repubblica di Salò così come non aderì al primo fascismo – e per questo fu vittima di un’aggressione all’olio di ricino nel 1923 in quanto massone, fatto che all’epoca non denunciò, ma invece farà pesare eccome nel 1945. La sua autorità è invocata anche dalle amministrazioni rosse come a Ferrara, il condizionamento dei lavori pubblici e dell’università sono un dato di fatto visti i ruoli cardine rivestiti dai sui protetti Aschieri all’Ina Casa e praticamente da tutti i presidi delle poche facoltà di allora: la sua idea di progetto urbano associato a un linguaggio sempre più asciutto e metafisico verrà tramandata, sotto varie forme, dai suoi allievi diretti Samonà, Quaroni, Muratori fino ai comunisti Aymonino (suo nipote) e Aldo Rossi. Il metodo della mediazione piacentiniana funziona sia durante il regime sia dopo perché in entrambi i casi così si evitano i conflitti interni allo Stato. La sua spina nel fianco nel Dopoguerra è praticamente solo Bruno Zevi, suo ex studente costretto a emigrare per le leggi razziali (Persico, Pagano e Terragni erano morti nel frattempo, Bardi fuggito in Brasile con sua moglie Lina Bo, ex studentessa di Piacentini nonché ex amante): nel necrologio del 1960 sull’Espresso Zevi lo definisce come il più nefasto architetto della storia d’Italia che ne ha incarnato ogni piega corruttiva. Piacentini, che fa in tempo a collaborare con Nervi al palazzetto dello sport che completa l’Eur, nelle lettere private lo definisce “porco ebreo” (nel frattempo ha ripreso contatti con i neofascisti), ma dopo la guerra ha richiamato in studio il suo più fidato collaboratore di sempre Vittorio Ballio Morpurgo, e recuperato il legame con Margherita Sarfatti che l’aveva aiutato nei rapporti con suo cugino triestino Edgardo Morpurgo, presidente delle Generali che gli commissionò edifici enormi anche all’estero (persino a Gerusalemme, Zagabria e Alessandria d’Egitto). Ancora oggi quasi nessuno ha digerito l’opera di Piacentini per il suo intreccio con il potere e la politica, ma studiarlo è gustoso come mangiare il lampredotto: come dice un detto francese, “La politique, c’est comme l’andouillette: il faut que ça sente un peu la merde, mais pas trop”.