Paola Peduzzi
Con la nomina di Paolo Gentiloni come commissario europeo presentato dall’Italia, le candidature sono completate, Ursula von der Leyen può costruire la sua Commissione – ha postato ieri una sua foto in cui indica un cartellone gigante su un palazzo di Bruxelles che dice: “The future is Europe” – che presenterà la settimana prossima: dicono gli esperti che sarà una squadra molto europeista, più ancora di quella uscente, che pure fu formata nel 2014, quando i nazionalismi non avevano ancora sfoderato tutte le loro armi. Soltanto qualche settimana fa, la stessa von der Leyen pareva fragile – la sua nomina era stata confermata dal Parlamento europeo per un soffio (un soffio color giallo Cinque stelle, tra l’altro) – e ci interrogavamo su quali e quanti cedimenti la presidente tedesca della Commissione avrebbe dovuto assecondare per tenere insieme una famiglia europea resa riottosa dai sovranisti. I seggi di Strasburgo mostravano una solida superiorità europeista, ma il bazar politico, in grande attività di fronte ai posti da commissario, sembrava ancora dominato dalla variabile sovranista. Oggi che anche i paesi di Visegrád hanno fatto nomine per lo più moderate (o meglio: potevano scegliere nomi più controversi e non l’hanno fatto), sostenere che l’europeismo sta vincendo non è più né una provocazione né una perversione. Ieri su Politico Europe, Paul Taylor poneva la domanda perfetta – “il populismo ha raggiunto il suo picco?” – alla quale con cautela non rispondeva, pur propendendo per il sì. La fotografia dell’Europa oggi è questa: in Italia, Matteo Salvini, trascinatore del movimento dei popoli che “rialzano la testa” e boicottano l’Europa, non è più al governo. Nel Regno Unito, il premier Boris Johnson esce dai suoi primi quattro giorni di confronto parlamentare – gli schiaffi che sanno tirare i parlamenti, quando vogliono, nessuno – in una posizione alquanto bizzarra: non può fare il “no deal” e non può fare le elezioni, non nella data che vorrebbe lui almeno, cioè prima della deadline della Brexit il 31 ottobre. In attesa dei prossimi stravolgimenti – è pur sempre la Brexit: accade di tutto – Boris può negoziare un nuovo accordo rapidissimo con l’Ue entro il 19 ottobre o chiedere una proroga della Brexit prolungando l’articolo 50 o convincere entro martedì il leader del Labour Jeremy Corbyn a organizzare le elezioni in fretta o non rispettare la legge contro il no deal o dimettersi fino a che non saranno indette le elezioni (che sembrano ormai necessarie). Quel che pareva inevitabile – la Brexit senza accordo – è stato evitato. In Francia, Emmanuel Macron ha disinnescato i gilet gialli (ve li ricordate i titoli sulla morte del macronismo?) e ha impedito a Marine Le Pen di capitalizzare quello 0,9 per cento in più di voti preso alle europee. In Germania, l’AfD alleata di Salvini ha tentato l’arrembaggio dell’est del paese in Sassonia e Brandeburgo e, pur avendo ottenuto un grande risultato, non ha sorpassato i partiti tradizionali, che continueranno a governare con l’aiuto, sembra, dei più europeisti di tutti, cioè i Verdi. A proposito di est (e dopo quel che è accaduto in Austria, dove si vota a fine mese): a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, da mesi in molti paesi i cittadini scendono in piazza chiedendo più democrazia, più partecipazione, meno corruzione e molti si aspettano che ai prossimi appuntamenti elettorali – Romania, Polonia, Ungheria – questa effervescenza diventi più concreta, così come è accaduto in Slovacchia in primavera con l’elezione di Zuzana Caputová, che sembra aver innescato questo fermento (nessuno si aspetta comunque rivoluzioni, semmai aggiustamenti anti nazionalisti). E’ proprio di fronte al risultato in Germania dell’AfD, che ha raddoppiato i consensi con una progressione straordinaria eppure non le è bastato, che per la prima volta ha iniziato a circolare la domanda: e se questo fosse il picco del sovranismo? A guardare questa fotografia si potrebbe quasi dire di sì, ma si sa che i liberali europeisti sono facili alle illusioni, si ringalluzziscono soltanto quando si ritrovano a un passo dal baratro e tendono a dimenticare in fretta quanto è pericoloso ignorare le ragioni di tutti questi smottamenti. Gustiamoci soltanto la domanda allora, e alla prima avvisaglia di eccessivo entusiasmo buttiamo un occhio all’America: c’è comunque Donald Trump.