Paolo Berizzi
Eia, Eia! Ban! Bannati. Alla fine ci hanno pensato Facebook e Instagram. Pare assurdo, ma è così. Laddove non sono riuscite la politica e la magistratura, a mettere un argine ai fascisti, sono arrivati loro: i social più utilizzati al mondo. Ban, cartellino rosso, stop. Il contrappasso perfetto.
Perché il botta e risposta tra il fascismo reale – quello dei saluti romani davanti al palazzo della Camera dei deputati – e il senso della democrazia della rete concreto, efficace nella sua istantaneità – si compie a distanza di pochissime ore. Il tempo di un clic, tanto basta ai social per buttarti fuori dal campo. Nello stesso giorno in cui sono tornati nella piazza fisica (piazza Montecitorio), CasaPound Italia e Forza Nuova vengono cacciati da quella virtuale. Decine di pagine e profili oscurati perché «chi incita e propaga odio» – «odio organizzato», badare bene – non «può trovare posto» sulle piattaforme di Facebook e Instagram. Risultato: i “fascisti del terzo millennio” (CPI) e le truppe nostalgiche del terrorista nero (impunito) Roberto Fiore si ritrovano di colpo imbavagliati e paralizzati sul terreno più fertile per fare proselitismo: i social network. Prima la scritta “nessun elemento visualizzato”, poi “nessun account trovato”, poi buio. Black out.
Pensare che questo 9 settembre 2019 per l’ultradestra era iniziato sotto una discreta stella. L’occasione ghiotta della manifestazione antigovernativa di Lega e Fratelli d’Italia, i tricolori (qualcuno con l’aquila della Repubblica di Salò), l’inno di Mameli. Il ricompattamento del fronte sovranista, e dunque anche loro, certo, i fascisti, ai quali il suicidio balneare del governo gialloverde ha offerto una nuova chance: tornare in scena. Accanto a Capitan Papeete, quello che chiese “pieni poteri”, e a Giorgia Meloni, l’ex pasionaria del Fronte della gioventù che parla il loro linguaggio. Rieccoli, dunque. Fiore col suo codazzo di teste rasate arriva a Montecitorio sfilando in via Del Corso dove le ugole nere inquadrate nelle solite file militari – cantano l’inno nazionale; le tartarughe di CasaPound – in testa i fratelli Simone e Davide Di Stefano – portano i loro il più vicino possibile al palco montato sotto la Camera. «Ladri di democrazia», «voto, voto!», «popolo sovrano». Tra i cori della piazza spuntano le braccia tese e i cappellini identitari. Non le bandiere perché, tricolore a parte, sono bandite. In rete iniziano a circolare i primi video, qualcuno carica vecchie foto di saluti romani e non ce n’è bisogno perché i saluti sono lì, freschi, live, tra piazza Montecitorio, piazza di Pietra, piazza Capranica e il Pantheon. Su Fb e Instagram il saluto romano è un emoji. La manina.
Sulle pagine forzanoviste e casapoundiste a mezzogiorno campeggiano manine e post entusiasti.
“Grandi camerati!”, “onore!”, “a noi!”, “non molliamo!”, come ripete tre volte Salvini sul palco. Il sole è ancora alto. Poi i social oscurano i fascisti. È come un’eclissi. Chiusi per odio. Rimossi per violenza (evocata e praticata). Mai prima d’ora Zuckerberg &co avevano espletato così efficacemente, e in modo netto, la loro funzione più nobile: quella di corpo intermedio. Un cuscinetto tra i predicatori del disprezzo e della discriminazione e chi difende la radice della nostra democrazia: l’antifascismo.
Abbiamo aspettato a lungo lo facesse la politica, qualche governo (anche di centrosinistra), la magistratura; abbiamo visto mille saluti romani in un cimitero derubricati a “commemorazione funebre”, gli ultrà della Lazio celebrare Mussolini a 50 metri da piazzale Loreto, i comizi pro-regime sulle spiagge che diventano “libera articolazione del pensiero”. Ci voleva Facebook a ricordarcelo: «Il fascismo non è un’opinione, ma un crimine».