Paolo Di Paolo
Diventare un assassino vivendo come in un reality. La «cazzata per amore» si chiama omicidio, anche se il ventitreenne Alberto detto Alby non lo chiama così. Pochi minuti dopo avere ucciso il suo coetaneo Yoan pubblica un post su Facebook e fa una diretta Instagram. Racconta il fatto come fosse qualcosa che riguarda solo lui: un’esagerazione romantica. Sono andato a leggere il post, era ancora lì (più tardi sarebbe stato rimosso); e non so dire se faceva più impressione la confessione del crimine in quel contesto o le decine di commenti piovuti sotto. Ispirati, naturalmente, alla prospettiva più istintuale e più truce: legge del taglione per conto terzi. L’insieme risultava delirante. Nelle vecchie annate di cronaca nera si sarebbe parlato, in un caso come questo, di «delitto passionale»: con una sfumatura di melodramma o di mito arcaico dei rapporti di forza, spesso insopportabilmente misogino. Buona, al più, per farne letteratura e cinema. Ma qui non c’è né melodramma né mito. C’è un’esclamazione idiota – «Eh ragazzi!» – che finisce in una storia Instagram. Alberto prima minaccia il suicidio, poi aggiunge: «Adesso non so se Yoan ci sarà ancora, ma il mio obiettivo era quello di far vedere alla gente che per amore non bisogna mai intromettersi nelle faccende altrui». Il moralismo sui social viene facile, e non serve a niente. È forse più impegnativo interrogarsi, in astratto, sulla formulazione (inquietante) di quel pensiero: «Il mio obiettivo era quello di far vedere alla gente». Rileggete tre volte. Quale obiettivo? Quale gente? Prima che a sé stesso e alla vittima del suo gesto criminale, rende conto a un presunto pubblico: «ho talmente tante cose da dirvi» – prima che a sé stesso. Ma a chi sta parlando? Qual è la platea del reality della sua vita? Esiste? Esisteva, intanto, la realtà della vita di Yoan. Che – sostiene Alby dal suo palco-smartphone – «ha sbagliato tutto». Paolo di Paolo su Repubblica a pagina 18