Paolo Franchi

La cosa può far piacere o lasciare costernati: dipende dai punti di vista. Ma le parole più «politiche» di questi giorni confusi le ha dette a modo suo Beppe Grillo, alla vigilia della consultazione su Rousseau degli iscritti al Movimento 5 Stelle. Quando, gettando tutto il suo peso in favore del nascente governo cosiddetto «giallo-rosso» (una definizione a dir poco irritante per un romanista inveterato come il sottoscritto) si è rivolto assieme a loro e ai «ragazzi del Pd», perché non sprecassero una simile, irripetibile occasione. Qualcuno è andato con la memoria al Grillo che, nel luglio del 2009, voleva prendere la tessera dei Democratici ad Arzachena per partecipare alle primarie: ma queste sono storie troppo vecchie per una realtà inedita come l’attuale, nella quale nessuno dei due partner principali può permettersi di scherzare né, tanto meno, illudersi di liquidare l’altro mediante alleanza, o di colonizzarlo. Chi scrive non si è mai appassionato alla esegesi dei discorsi del Fondatore, e quindi può darsi che l’ interpretazione delle sue parole sia un po’ forzata. Se si è rivolto nello stesso tempo a quelli di Rousseau e ai (non meglio precisati) ragazzi del Pd, però, una ragione ci sarà pure.

Sicuramente Grillo sa benissimo (come peraltro sanno un po’ tutti) che questa coalizione di governo sarebbe destinata in partenza a un tracollo fragoroso ben prima della fine della legislatura se la sua ragione sociale di esistenza restasse, di fatto, quella iniziale, il comune intento, cioè, di sbarrare la strada a Salvini. I 5Stelle e il Pd, se rimanessero grosso modo quello che sono, da un fallimento di questa strana alleanza uscirebbero letteralmente a pezzi. I primi, al termine di una seconda prova catastrofica di governo, non potrebbero certo tornare a proporsi nei panni del movimento anti sistema delle origini, mantenendo intatto il grosso delle loro forze in attesa di un terzo appello che nessuno (a cominciare dagli elettori) concederebbe. Quanto al Pd la situazione in partenza è, se possibile, persino più grave. Come testimonia clamorosamente (anche se non se ne parla molto) il fatto che nel partito nato invocando una sua peculiare «vocazione maggioritaria» un segretario eletto a larghissima maggioranza non dispone del controllo dei gruppi parlamentari, tuttora saldamente in mano al predecessore. Lo stesso predecessore che aveva messo il veto a qualsiasi tentativo di cercare un accordo con i 5Stelle, o anche solo di andarne a vedere le carte; che poche settimane fa ha rovesciato la sua posizione, costringendo il segretario prima a intavolare un negoziato cui volentieri si sarebbe sottratto, poi a trangugiare Conte; e che, di qui a qualche tempo, potrebbe benissimo decidere di farsi un partito tutto suo, destinato all’irrilevanza o quasi in un sistema maggioritario ma in grado di farsi valere nel proporzionale. Di Maio è un capo politico azzoppato, Zingaretti un segretario dimezzato. E i rispettivi partiti vivono qualcosa di più grave di quella che, con un’espressione abusata, viene definita una crisi di identità. Non è stato, come dicono Salvini e Giorgia Meloni, l’attaccamento alle poltrone a tenerli insieme, ma l’istinto di sopravvivenza. E la consapevolezza di non essere in grado di dare con qualche possibilità di successo, in caso di elezioni anticipate, battaglia frontale alla destra.

Grillo è un protagonista troppo consumato per non sapere che così non si va lontano. La via che indica, o meglio la cui via cui allude, sembra dunque quella di un rimescolamento delle carte, di una ristrutturazione e diremmo pure, se il termine non fosse così consunto, di una rifondazione delle forze in campo, del prepensionamento di larga parte del ceto politico attuale, della promozione, nel governo e fuori, di forze nuove sin qui tenute ai margini dalle nomenclature (di carta) dei due partiti. Di un processo, insomma, lungo il quale tanto il M5S quanto il Pd, invece di prepararsi a finire male alternando accordicchi e polemicuzze, dovrebbero cambiare forma e pelle in una misura oggi non quantificabile, ma comunque sufficiente a dar vita, anche se a Grillo e ai suoi sodali il termine non piace neanche un po’, a qualcosa di simile a un’inedita sinistra del Terzo Millennio. Se preferite, a una post sinistra.

Sull’appetibilità di una simile prospettiva, una variante popolare (o populista?) del nuovismo dei primi anni Novanta, ogni giudizio, naturalmente, è lecito. Così come è lecito dubitare del suo realismo: è possibile mai che le feroci contese tra i 5Stelle e il Pd di questi anni siano state solo il frutto di un colossale equivoco? Ma, in una prospettiva diversa, se le parole hanno ancora un senso, non si capisce nemmeno, con tutto il rispetto per Giuseppe Conte, come faccia Zingaretti a dire che questo è il governo «più a sinistra» degli ultimi anni.