Esiste un’idea ric or rente pe r spiegare il problema economico dell’Italia. Quella del Paese a «due velocità». I l Nor d sempre più ricco grazie ai suoi piccoli industriali e il Sud più povero e dipendente dalla spesa pubblica. Se si risolvesse il «problema del Sud» tutto il Paese crescerebbe. O, alternativamente, se il Nord si liberasse dalla «zavorra» del Sud, diventerebbe come la Svizzera e la Germania. Alcuni opinionisti si sono trastullati con l’aritmetica del Pil: il Pil pro capite della Lombardia è di 38 mila euro, quello della Calabria 17 mila; quindi se il Sud avesse lo stesso Pil del Nord, l’Italia sarebbe ricca e il problema sarebbe risolto. L’aritmeticaègiusta, ma la conclusione è sbagliata. In tutto il mondo sviluppato esiste un gap tra le regioni e le città più ricche e le altre. Il rapporto tra il Pil pro capite della Lombardia e quello della Calabria è di 2,2. Tra Londra (207 mila euro) e East Wales (23 mila) è di 9 volte. Tra Parigi (58.300) e l’Auvergne (26.300) è 2,2 volte. E, seppure falsato da una fiscalità che lascia più tasse locali, il discorso vale anche per la Germania dove il Pil di Amburgo (65 mila euro) è 1,8 volte quello della Sassonia (36 mila) e per gli Usa dove il rapporto tra New York (73 mila dollari) e il Mississippi (34 mila) è di 2,2. Non solo. La crescita della ricchezza delle nazioni di solito non deriva da gap territoriali che si riducono. Negli Usa, il Mississippi è da sempre lo stato più povero. E, nella nuova era della knowledge economy, 50 città che rappresentano solamente l’8% della popolazione mondiale, hanno aumentato la loro quota del Pil mondiale dal 20 al 30%. Sono «hub» locali con grandi aziende al centro di un distretto di startup high-tech e università (Silicon Valley, Massachussets) o creativo-finanziario (Hollywood, Parigi) o di finanza innovativa (Londra, New York, Singapore). La realtà è che tutto il nostro Paese è fermo. E da quasi 50 anni, perché il «miracolo economico» è stato prolungato solo dalla droga della spesa pubblica. E la responsabilità non è solo del Sud. Ilrapporto tra il Pil della Lombardia e quello della Calabria negli anni 60 era 2,6, perfino maggiore di oggi. Per ripartire bisogna ripensare il nostro modello di sviluppo, che si è pers o due transizioni economiche, quella da industriale a post-industriale-servizi, e poi a innovazione-digitale. Ma i sostenitori del modello economico nordista restano ancorati all’economia dei piccoli-medi imprenditori del made in Italy e del manufatturiero. Il modello diriferimento da cui partire è un altro, quello di Milano (una delle 50 città superstar di cui sopra): non un distretto industriale ma un hub innovativo capace di attrarre talento da tutto il Paese e dall’estero. A Milano si vedono molti degli ingredienti degli hub di successo del mondo. Grandi aziende italiane e multinazionali che offrono jobs ad alto valore e ben retribuiti. Finanza innovativa, con fondi Private equity che finanziano crescita e innovazione aziendale. Una sanità eccellente sia privata sia pubblica. Startup tecnologiche «ricadute» delle grandi aziende innovative (Yoox nel lusso-moda) e dell’ottima sanità (l’equivalente di 10 miliardi di euro di valore creato da startup biotech). Una giustizia civile che funziona meglio che nel resto del Paese. Le due migliori università e le migliori scuole italiane «trainate» da grandi aziende che cercano laureati e diplomati di qualità. Una filantropia manageriale che crea Humanitas e Centro Medico Santagostino e non le piccole fondazioni famigliari che distribuiscono carità a pioggia. Ma, soprattutto, sirespira il capitale sociale essenziale per fare nascereivalori della meritocrazia e della competizione che sono i veri motori dello sviluppo: a Milano esiste la fiducia che la competizione sia leale e basata sul vero merito. Non è così in gran parte del Paese. E le scuole milanesi sono migliori non perché hanno più finanziamenti, ma perché per i milanesi l’istruzione è ancora essenziale peri propri figli, e sono «clienti esigenti». L’accettazione della competizione sta costruendo a Milano una classe dirigente molto diversa da quella delle élite intellettuali e dei celebrati imprenditori del «piccolo è bello» del resto del Paese proprio perché è frutto di una selezione. Nasce dalla leadership manageriale delle grandi aziende ma serve anche ai presidi delle scuole, ai rettori delle università, agli ospedali e alla politica (l’attuale sindaco è un ex manager). Per recuperare lo spaventoso rallentamento, la ricetta di allineare le due velocità è quindi sbagliata. È tutto il Paese che deve ricominciare a correre e, come è buona regola, conviene partire dai punti di forza, in questo caso la stessa Milano, che può ambire a essere un hub di moda e lusso e della sanità, ma deve migliorare. Il capitalismo famigliare ruota ancora attorno a «salotti buoni», le grandi aziende italiane sono poche (il «gioiello» Luxottica è andato a nozze a Parigi) e, per assurdo, ce ne sono di più a Roma (le ex pubbliche Enel, Eni, Poste, Leonardo, Telecom). Il Politecnico, la migliore università del Paese secondo le classifiche internazionali, è la trecentesima del mondo. Le startup biotech faticano a trovare capitale quando nascono. La burocrazia amministrativa continua a imperversareela sicurezza deve ancora migliorare. Se Milano e altre città si rafforzano, lo farà anche il Sud. Intanto molti giovani meritevoli del Sud continueranno a emigrareaMilano e non c’è nulla di male a dirlo. Le 50 città superstar creano opportunità per i migliori giovani di tutto il loro Paese. Gli investimenti al Sud non verranno dallo Stato, ma da grandi aziende magari incentivate fiscalmente. I cittadini del Sud cominceranno a vedere le «due velocità» dei risultati Invalsi e Pisa tra scuole del Nord e del Sud e chiederanno più qualità. Ma, soprattutto, anche al Sud ci si renderà conto che in Italia si può crescere accettando un modello economico e sociale basato sulla meritocrazia. L’Italia delle due velocità non è quella del Nord e del Sud, ma quella di un modello sociale ed economico che si evolve e uno vecchio di 50 anni.