Stefano Cappellini

Giuseppe Conte è il primo presidente del Consiglio capace di ripresentarsi in Parlamento per la fiducia pronunciando, a soli 14 mesi di distanza, due discorsi di insediamento praticamente opposti. Il primo, nel giugno del 2018, per rivendicare le ragioni del blocco populista tra M5S e Lega e il secondo, ieri, per ufficializzarne il superamento. A differenza del vate Gabriele D’Annunzio, che nel 1897 lasciò i banchi della Destra storica per quelli della Sinistra proclamando in Aula «vado verso la vita», Conte non ha dovuto enfatizzare la svolta né lo spostamento: è rimasto là dove l’avevamo lasciato prima della crisi, con un cupo Di Maio seduto al fianco ma senza più Salvini sul lato destro. Il suo discorso ha messo il sigillo sull’opera di desalvinizzazione del Palazzo – non poca cosa, sia chiaro – ma lascia aperti i dubbi sul funzionamento dell’alleanza che dovrà ora governare. Nel Paese reale, per estirpare il salvinismo, non basterà la somma matematica di Pd e M5S né la vastità dei programmi sciorinati ieri da Conte, ancora ambigui su tanti punti, a cominciare dal destino dei decreti sicurezza.
Può lasciare interdetti, ma è comunque comprensibile l’entusiasmo con il quale i deputati del Pd hanno applaudito in Aula alcuni passaggi contundenti che il presidente del Consiglio ha voluto riservare alla Lega: se è lecito coltivare dubbi sulla fulmineità della conversione di Conte all’anti-sovranismo, meno lo è sulla sua volontà di cambiare pagina. Si è calato nella nuova parte con convinzione e questa è una buona premessa. Ha fissato alcuni paletti strategici, su tutti l’intenzione di governare senza gli strepiti della propaganda. Resta da capire quanto profondamente abbia compreso che non gli sarà possibile interpretare il ruolo come ha fatto nella stagione giallo-verde. Non è scontato che ci riesca, anche perché una quota consistente della fortuna che ha accumulato in questi mesi, sotto forma di gradimento popolare, nasce proprio dalla sua figura di tenace mediatore tra i litiganti Salvini e Di Maio. Fortuna personale, s’intende, non certo politica: il governo che guidava fino a poche settimane fa ha precipitato il Paese in una perenne e stremante campagna elettorale e una delle ragioni del suo precoce fallimento sta anche nel ruolo di notaio del contratto che i suoi due ex datori di lavoro avevano ritagliato per lui. Una figura chiamata ad apparire solo per conciliare le controversie tra le parti, in uno schema nel quale Lega e M5S non potevano né dovevano essere disturbate mentre inseguivano ciascuna il proprio tornaconto particolare: il reddito di cittadinanza per gli uni e quota 100 sulle pensioni per gli altri, le misure anti-casta per i grillini e quelle securitarie per i leghisti. Il governo era un juke box dal quale ognuno voleva ascoltare solo il proprio pezzo e la missione di Conte era disciplinare la fila davanti all’apparecchio, quando possibile. Spesso non lo era. Il contratto era il megafono di una propaganda senza sosta. L’eco delle nuove promesse serviva a coprire il tonfo delle precedenti, comprese quelle in apparenza realizzate, come il reddito e quota 100, ma solo al prezzo di pesanti cambiali che dovrà essere il nuovo governo a onorare.
Ora il rischio di ricominciare come prima è altissimo. A differenza di Conte, infatti, una delle parti di questa alleanza a forza, il M5S, non sembra essersi calata nel nuovo scenario. Anzi, restituisce l’impressione di voler replicare la competizione di prima, solo con l’ambizione di cambiare parte: da clan perdente a vincente. A osservare le mosse di Di Maio in questi giorni, la sua comunicazione che alterna pause sincopate e scoppi di ingiustificato trionfalismo, il leader M5S sembra superare il dolore per la perdita della più affine alleanza con Salvini solo nei momenti in cui coltiva l’ambizione di ricalcarne le mosse da raider del consenso: la scelta del ministero giusto, le adunate dei ministri fuori contesto, la vocazione al proclama e all’imposizione della propria salvifica ricetta. Se Conte pensa di poter continuare il suo percorso di aspirante padre della patria lasciando correre parallele le agende di Pd e M5S, per poi provare a mediare tra le parti, potrebbe aver sbagliato i conti. Il primo obiettivo del nuovo governo è stato isolare Salvini. Il secondo deve essere sottrarre il Paese allo schema di gioco del leader della Lega: la campagna elettorale permanente. Per riuscirci, servirà un Conte meno arbitro e più leader. Dal circo di prima è riuscito a uscire da statista, ma se lo spettacolo riprende, stavolta l’uscita dal tendone potrebbe essere meno trionfale anche per lui.