Stefano Cappellini intervista Nicola Zingaretti

Nicola Zingaretti, è appena nato un governo che fino a poche settimane fa sembrava fantapolitico. La ragione di base è chiara: fermare Matteo Salvini. La domanda di tutti è: c’è altro? «Questo governo è un esperimento che ha già archiviato un brutto periodo per l’Italia: la stagione dell’odio, della perenne fibrillazione del quadro politico e della ricerca del capro espiatorio per fini di consenso personale. È un primo risultato di cui fare tesoro. Ora vorrei un governo che metta al centro le persone, la loro dignità e la capacità e voglia di realizzarsi e costruirsi il futuro. Evitando di ripercorrere strade fallimentari». Quali strade? «L’esperienza del governo giallo-verde conferma che non si può governare da nemici. Il programma condiviso tra Pd e M5S è un buon presupposto per un confronto che non dovrà essere di potere, ma di contenuti». Un governo di pacificazione nazionale, come dopo le guerre? «Non so se di pacificazione, ma di svolta senz’altro. Il rispetto reciproco deve essere una bussola costante dell’azione di governo. Intanto segnalo che la sua sola nascita è già valsa il risparmio di 5 miliardi di euro di interessi sul debito e, di questo passo, potrebbe valerne 15 nel 2020». Ma perché i 26 punti del programma, alcuni alquanto vaghi, dovrebbero funzionare meglio del contratto giallo-verde? «Non sottovaluterei il rifiuto dell’idea del contratto, la cui fragilità stava nella pretesa di sommare due programmi in contrapposizione. Conte e il M5S hanno creduto alla strada di un programma condiviso, che ora il premier dovrà sintetizzare. Mi pare un grande passo avanti». Quando Salvini ha aperto la crisi lei ha detto subito: al voto. Questo è un governo che ha dovuto subire? «Ho vinto un congresso sulla proposta di una alternativa al governo giallo-verde. Ma sin dall’inizio della crisi mi sono posto come obiettivo che il Pd arrivasse unito al traguardo, che fosse il voto o un nuovo governo. Abbiamo rischiato la deflagrazione del Pd. Quando ho capito che il partito poteva arrivare unito all’alleanza, ho ritenuto fosse un dovere provarci». È stato decisivo Renzi. «C’è stata un’iniziativa di Matteo, che ha cambiato posizione affermando che l’intesa con il M5S, vista la situazione, non poteva più essere un tabù. Poi Bettini ha ragionato sul fatto che non potesse bastare un governo a termine. Io ho ascoltato. Vengo spesso criticato per il fatto che non alzo la voce o non sbatto i pugni sul tavolo, ma io rivendico il fatto di fare il leader in un altro modo, guidare il partito, fare una sintesi, passi in avanti senza divisioni». Però ha dovuto cambiare idea. «È stato tutto molto trasparente e vissuto in un dibattito pubblico. Non mi sono rifugiato nell’immobilismo ma nemmeno nell’idea del governo a tutti costi. Sarebbe stato un regalo a Salvini. Alla meta siamo arrivati a schiena dritta, con i nostri contenuti: lavoro, crescita, modifica dei decreti sulla sicurezza, nuova Europa». Quanto hanno pesato le pressioni dei padri nobili del Pd come Prodi o quelle internazionali? «Vorrei sfatare la leggenda delle pressioni e delle telefonate. C’è stata, questa sì, la forte percezione che una parte rilevante del nostro mondo chiedesse al Pd di ritrovare il suo ruolo di pilastro del buon governo e garante della democrazia». Ma ancora una volta senza passare dalle elezioni. «Non c’è nessun tradimento del voto popolare. Il governo giallo-verde mise insieme il primo e il terzo partito. Stavolta sono insieme il primo e il secondo». A proposito di telefonate, è vero che Salvini l’aveva chiamata per assicurarsi che il Pd avrebbe chiesto il voto anticipato? «Questa è un’altra costruzione ad arte. Con Salvini ci siamo sentiti ma non certo per valutazioni o accordi sottobanco. A Salvini bastava leggere i giornali per capire che il tema 5S era divisivo nel Pd…». Salvini, insomma, non aveva previsto la mossa di Renzi. Che voleva evitare, con il voto, di perdere la sua maggioranza nei gruppi dem al Parlamento. «Penso che Renzi, di fronte al pericolo vero di una affermazione schiacciante di Salvini, si sia sentito in dovere di assumere una nuova posizione, anche a costo di superare le scelte politiche del passato». Però se è stato giusto allearsi ora con il M5S per fermare Salvini, allora fu un errore non farlo dopo le elezioni del 4 marzo. «All’epoca non ero io il segretario. Il 4 marzo vincevo le elezioni e restavo presidente della Regione Lazio. Posso però dire questo: l’idea di non equiparare Lega e M5S era uno dei passaggi chiave del mio impianto politico, votato ai gazebo delle primarie non da 60 mila persone, con tutto il rispetto per il referendum su Rousseau, ma da 1 milione e 600mila cittadini». Al terzo tentativo, il primo fu quello di Bersani nel 2013, l’intesa è fatta. È l’unione di due debolezze? «Assolutamente no. Anche perché non vorrei si rimuovesse il voto delle europee, la ritrovata centralità del Pd, i nostri sondaggi in crescita. Ci sono poi pilastri importanti. Intanto il cambio di collocazione strategica in Europa. L’Italia era la pecora nera, che stava scivolando nell’alleanza di Visegrad. Oggi il Pd esprime il presidente del Parlamento europeo, un commissario che si chiama Paolo Gentiloni, un ministro dell’Economia di lunga esperienza a Bruxelles e il ministro degli Affari Europei. Premesse che garantiscono un giusto rapporto con la Ue, non per conservare l‘Europa che c’è, ma per una svolta economica e sociale». Quello con il M5S sarà un patto tra due forze che alla fine del governo si separeranno o l’obiettivo è una nuova coalizione? «È successo tutto in 20 giorni, non so quale sarà l’approdo finale. Credo che, in partenza, siano aperte entrambe le strade, noi dobbiamo con serietà continuare in una ricerca comune». Tra poco si vota in Umbria, Emilia-Romagna e Calabria. Auspica accordi con il M5S? «Decideranno le Regioni sulla base di convergenze di programma, come è giusto che sia». Torniamo al programma. Sullo stop all’aumento dell’Iva è facile essere d’accordo, ma che leggi dobbiamo aspettarci dal governo? «Intanto non c’è più l’ingiusta flat tax ma il taglio delle tasse per i redditi più bassi. C’è un approccio comune e non banale sul modello di sviluppo basato sulla green economy. C’è il rilancio dell’agenda 4.0 per le aziende. Gli investimenti su scuola, università e ricerca. Il piano casa nazionale». Anche il salario minimo? «In un confronto con le parti sociali». Sicuro che il governo proceda in armonia e ordine su così tanti temi? «Sì, l’humus è una agenda comune e condivisa che rimuove dal campo l’idea che il problema dell’Italia sia la Sea Watch o la capitana tedesca». Non è chiaro come saranno cambiati i decreti di Salvini. «Intanto ci sono i rilievi mossi dal presidente Mattarella. A Conte abbiamo chiesto che si vari una legislazione che coniughi tre pilastri: la sicurezza, la legalità e l’umanità». Non teme che nel frattempo si continui ad applicare il decreto sicurezza? «Bisognerà affrontare in fretta il tema perché non ci si trovi in situazioni imbarazzanti. Certi casi non si possono ripetere con il nuovo governo. I continui sbarchi in agosto confermano che le scelte del ministro uscente dell’Interno sono state fallimentari. Che poi forse è anche il motivo che ha portato il presidente Conte, di concerto con Mattarella, a portare al Viminale una prefetta, cioè una figura che sfuggisse al rischio di usare le istituzioni per fini di propaganda». Ma il Conte che inizialmente lei non voleva di nuovo a Palazzo Chigi chi è? L’anti-Salvini dell’ultimo mese o il premier che difese il ministro sul caso Diciotti? «Conte ha puntato con decisione alla nascita di questo governo. Condivide l’investimento nella ricerca di un rapporto diverso, fondato sulla chiarezza e il riconoscimento delle ragioni dell’altro». Di Maio, invece, dice da giorni che per lui Lega e Pd pari sono. «Non ho avvertito questi toni .Noi abbiamo costruito una intesa non con una parte, ma con tutto il M5S». Riforme istituzionali. Diventerà una legislatura costituente? «Non mi affascinano le etichette. So che i capigruppo hanno raggiunto un buon accordo, si è recepita la volontà di un taglio parlamentari e la necessità di farlo dentro una cornice di garanzie costituzionali». La legge elettorale? «Sarà uno dei temi da affrontare». Calenda se ne è andato e fonderà un suo partito. «Mi spiace per Carlo. Comprendo le sue ragioni ma non le condivido. Le strade torneranno a incrociarsi». Un’ultima domanda. Quanto ha sentito il peso di guidare una nave che rischiava, e forse richia ancora, il naufragio? «Tantissimo. Ma ho dato tutto me stesso. Resto fedele allo slogan con cui ho vinto il congresso: da soli si va più veloce, insieme si va più lontano».