Stefano Cappellini
Al terzo tentativo, dopo gli accordi mancati del 2013 e del 2018, è infine nato un governo basato sull’intesa tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico. I primi due fallirono anche per lo squilibrio di forze e aspettative tra i partiti: nel 2013 era maggioranza il Pd e un M5S in forte ascesa non accettò di fare da stampella in Parlamento a Pier Luigi Bersani: viceversa, nel 2018 i dem umiliati dalle urne si sfilarono dall’intesa per volere dello sconfitto Matteo Renzi. Stavolta, a favorire l’incontro è stata proprio la equa condizione di debolezza, con i grillini prosciugati da un anno e mezzo di subordinazione all’agenda di Matteo Salvini e un Pd in recupero ma non ancora attrezzato a competere per un successo elettorale. Il matrimonio è combinato, addirittura forzato per il bizzoso Luigi Di Maio, ma con un evidente tornaconto comune: fermare la scalata solitaria di Salvini al governo del Paese.
L’oggettivo opportunismo della scelta non cancella un merito evidente a quella maggioranza di cittadini che assisteva con preoccupazione, spesso con terrore, alla torsione orbaniana e putiniana che Salvini stava già imprimendo alle istituzioni, con dosi crescenti di un veleno sovranista che ancora più avrebbe intossicato la Repubblica se al leader della Lega fosse stata data l’opportunità di conquistare in sequenza Parlamento, Palazzo Chigi e Quirinale. L’intesa Pd-M5S ha dunque una ragione. Ma per ora non ha un senso. E non sarà facile trovarlo strada facendo. Lo dimostra anche il travaglio che ha accompagnato la nascita del governo e ha accidentato persino l’ultimo miglio della trattativa ritardando il giuramento previsto per ieri pomeriggio. Non c’è una visione né una formula politica, anche perché non sono chiari neanche gli elementi di questa combinazione in laboratorio. Cosa è oggi il Movimento 5 Stelle? Il Movimento benecomunista di Fico o quello destrorso e populista di Di Maio? La forza che propugna il progressismo dal basso o il vedovo inconsolabile dell’alleanza con la Lega? Sia chiaro, una risposta non c’è. Come non c’è per Giuseppe Conte, implacabile fustigatore del salvinismo dopo esserne stato impassibile notaio e persino scudo umano sulla vicenda Diciotti. Il grillismo resta impasto ambiguo, un frullatore nel quale la cittadinanza attiva che invoca acqua pubblica e difesa dell’ambiente convive con un rancido peronismo e con l’opaca costruzione di scatole cinesi che permette a un signore mai eletto da nessuno nemmeno a casa sua, cioè Davide Casaleggio, di controllare il primo partito in Parlamento e torcere la Costituzione fino al punto di irridere Sergio Mattarella, invitandolo a informarsi sul blog dell’esito della votazione su Rousseau. Un Movimento a due facce, come minimo, con il particolare non secondario che fin qui a comandare è sempre stata la seconda, quella di Casaleggio. Ma anche il Pd ha i suoi problemi di identità. Può apparire il baluardo laburista che Nicola Zingaretti ha in mente di forgiare. Ma anche un partito informe, tenuto insieme da convenienze contingenti, esposto alle tentazioni scissioniste di Renzi e ai rigurgiti di quel populismo di Palazzo che ne ha funestato l’esistenza negli ultimi anni. Cosa possa produrre l’unione di questi due elementi è difficile prevedere. Si tratta di un esperimento quasi al buio, certo non illuminato dai 26 punti del programma, più agili del contratto gialloverde ma di nuovo ottenuti per giustapposizione delle rispettive proposte e non per fusione orientata a un obiettivo comune. Il governo giallo-rosso può avere un solo senso. Pensarsi come esecutivo di ricostruzione. Ricostruzione della grammatica politica, delle regole della convivenza civile e di un buon governo sottratto alle derive della propaganda in servizio permanente. Se saprà farlo, anche solo parzialmente, può rappresentare la base di una riscossa nazionale. Altrimenti fallirà anche nel suo obiettivo basico, fermare l’onda sovranista, che si ripresenterà ancora più travolgente di prima. Questo patto resta, per le modalità che lo hanno prodotto, anomalo. Di Maio ministro degli Esteri è lo stesso che pochi mesi fa posava in foto con l’ala più eversiva e cripto-fascista dei gilet gialli e che dal palco del Quirinale, appena pochi giorni fa, ha rivendicato tutto quanto prodotto in 14 mesi di governo con Salvini. Lo stesso Salvini che oggi, giocoforza, il M5S deve arginare insieme al Pd. Come tutti i vaccini, anche quello giallo-rosso contiene in sé il virus da combattere. Se il virus è in dosi eccessive, prima o poi la malattia tornerà a esplodere.