Stefano Feltri

Una cosa l’abbiamo già capita: Christine Lagarde non è un altro Mario Draghi, manca di quella capacità inpnotica che è stata la vera arma non convenzionale usata dal presidente della Bce uscente. L’attuale direttore del Fondo monetario internazionale è intervenuta ieri a Bruxelles davanti alla commissione Affari economici del Parlamento europeo che ha dato il primo via libera alla sua nomina al vertice della Banca centrale europea. Due frasi somigliano già alle prime due gaffe. I giornalisti le chiedono un commento sulla nomina di Roberto Gualtieri a ministro dell’Economia, in quel momento non ufficiale. Risposta: “Un bene per l’Italia e per l’Europa”. Draghi è sempre stato molto attento a non prendere mai posizioni così esplicite sulla politica interna dei Paesi membri, soprattutto a non esternare preferenze sulle persone. La seconda gaffe è comprensibile soltanto agli addetti ai lavori, ma è più seria. “Ero a capo del Fondo monetario quando Draghi disse ‘we will do whatever it takes’. Spero di non dover mai dire una cosa simile perché significherebbe che gli altri policymaker non stanno facendo quello che dovrebbero”. Il riferimeto è alla famosa dichiarazione di Draghi del 26 luglio 2012, quando il presidente della Bce dichiara di essere pronto a “fare tutto il necessario” per fermare la crisi di credibilità dell’euro. Un impegno che si tradurrà, pochi mesi dopo, nel primo schema di salvataggio di Stati a rischio default noto come Omt (mai usato) e dal 2015 nel Quantitative easing, cioè l’acquisto diretto di titoli di Stato da parte della Bce. La Lagarde, però, dimostra di non avere ancora la testa da banchiere centrale e da economista (è un avvocato): non furono le parole di Draghi a fermare il collasso dell’euro, ma il tono con cui furono state pronunciate, la determinazione che trasmettevano e la capacità che il presidente della Bce aveva già allora maturato di influenzare le aspettative dei mercati. “Whate – ver it takes” non e’ una formula magica e non funzionerebbe allo stesso modo in bocca ad altri diversi da Draghi, privi della stessa capacità di cambiare il clima e condizionare le attese. È un talento che non si trasmette con il passaggio di consegne al vertice di Francoforte. La Lagarde trasmette al mercato un messaggio pericoloso, di scarsa determinazione: dire che speri di non usare un’arma potente equivale a ridurre la possibilità che questa venga usata davvero. Promette di insistere con le politiche monetarie espansive (tassi bassi, acquisti di titoli ecc.) ma anche di sottoporle però a una costante “ana – lisi costi-benefici” c on d o tt a non soltanto dalla Bce ma anche da “altre banche centrali nel mondo”. Un modo per rassicurare gli Usa di Donald Trump che Francoforte non darà troppo fastidio al dollaro, ma anche un ulteriore segnale di prudenza. Resta poi un mistero cosa significhi che la Bce deve considerare “la lotta al cambiamento c im at ic o” al centro della propria missione: il potere autonomo delle banche centrali, che non rispondono agli elettori, si giustifica soltanto perché il loro mandato è molto limitato (nel caso europeo il controllo d e ll ’inflazione e la difesa dell’euro). Se una banca centrale inizia a occuparsi anche della temperatura globale, diventa più simile a un governo, e i governi vanno eletti. La Lagarde ha evocato pure i “safe asset”europei, il modo in cui si chiama oggi il progetto di un debito pubblico comune un tempo noto come Eurobond, ed è stata molto esplicita anche nel chiedere ai Paesi con i conti piu’ solidi, come Germania e Olanda, di spendere di più in infrastrutture, visto che “hanno capacità fiscale di sponibile”. E dovrebbero farlo non soltanto per allontanare i timori di recessione globale, ma anche perché tutte le istituzioni europee devono “rispondere alla minaccia del populismo”. Anche questa è una invasione nel campo della politica con uno stile molto diverso da quello prudente di Draghi. Forse è solo inesperienza – i discorsi da direttore del Fmi non hanno lo stesso peso di quelli del presidente della Bce – o forse dobbiamo preparaci ad avere a Francoforte un banchiere centrale che non è piu’capace di muovere tassi di cambio e mercati obbligazionari soltanto con il giusto tono della voce e qualche pausa enfatica.