Stefano Folli

La strada verso il governo più debole e contraddittorio della nostra storia recente è scandita, nelle ultime ore, dal caso Di Maio. È lui l’ultima pietra d’inciampo e lo è già da un paio di giorni, mentre l’attenzione di tutti era attratta dal dilemma Conte-sì/Conte-no a Palazzo Chigi. Questione che ormai è risolta, grazie soprattutto agli appoggi internazionali che il presidente del Consiglio si è abilmente conquistato. Prima Macron e Angela Merkel, grati per l’appoggio italiano (senza i leghisti) a Ursula von der Leyen nella famosa votazione di Strasburgo. Adesso persino Trump, il re dei sovranisti: segno che a Washington c’è qualcuno che non vuole regalare l’Italia all’asse franco-tedesco o magari alla Cina e preferisce il male minore rispetto ai rischi di instabilità (peraltro il passo della Casa Bianca suona sconfessione per la Lega: Salvini si era illuso di avere dalla sua gli americani, ma gli oscuri traffici con Mosca lo hanno danneggiato in misura decisiva). Dunque, il caso Di Maio. L’uomo pone condizioni e lavora per sé, dopo essersi nascosto nell’ombra di Conte. In realtà siamo davanti a uno psicodramma: colui che reclama la vice-presidenza unita a un ministero di primo piano — in principio il Viminale, poi la Difesa — è debole all’interno dei Cinque Stelle come mai in passato: ne è ancora il capo, ma in modo più apparente che sostanziale. Se non esce dalla crisi con un rinnovato potere personale da mettere sulla bilancia, il suo destino nel movimento è segnato. E si capisce: appartiene alla stagione passata, quella del patto con la Lega, inoltre è sospettato di mantenere un filo con Salvini e di non essere insensibile alle tardive proposte del suo ex alleato. Fintanto che Conte era in bilico come premier successore di se stesso, Di Maio aveva un ruolo. Adesso però il Pd tratta con l’avvocato del popolo o direttamente con Casaleggio le questioni che riguardano i 5S. Ecco perché Di Maio si agita: vuol dimostrare di essere ancora indispensabile, ma soprattutto cerca di sfuggire alla fine politica decretata in qualche oscuro tribunale grillino, magari dopo le forche caudine via web. L’insistenza sulla carica di vice-premier è emblematica. È lo sforzo più psicologico che politico di tornare idealmente all’epoca d’oro della mezzadria e del binomio Salvini-Di Maio sotto l’ombrello di Conte: il premier espresso dai 5S ma in qualche misura neutro, garante del contratto. Oggi è tutto cambiato. Il Pd alla fine accetta Conte a Palazzo Chigi, ma respinge la pretesa di Di Maio di considerarlo neutro, così da riprodurre il vecchio dualismo: due vice con Zingaretti al posto di Salvini. In via del Nazareno, dove all’inizio della crisi la parola chiave era “discontinuità”, hanno ceduto su tanti punti, ma non possono cedere anche su questo. Zingaretti non può essere il vice di Conte né da solo né tantomeno accanto al leaderino 5S in caduta libera. Anzi, dal momento che il quadro è chiaro e si è capito che il movimento non supporta più le ambizioni di Di Maio, il Pd forse otterrà almeno questo: un solo vice-premier (Orlando o Franceschini). L’esito del negoziato è malinconico, ma almeno il centrosinistra riuscirà a esportare un po’ di contraddizioni all’interno del M5S. In attesa, presto o tardi, di essere a sua volta bersaglio di qualche meteorite.