N on c’è stata sin qui alcuna discontinuità nelle promesse. Ancor prima di aver ricevuto la fiducia dalla Camera, alcuni ministri si sono sbilanciati nel senso letterale del termine. Il ministro dell’Istruzione si è impegnato, mettendo sul piatto le sue dimissioni, ad aumentare la spesa per scuola e università di 3 miliardi. Il ministro della Salute ha preannunciato 3,5 miliardi in più per, inter alia, abolire il superticket da 10 euro su visite e accertamenti. Non si è fatto mancare nulla neanche il presidente del Consiglio che nel suo discorso per la fiducia alla Camera si è impegnato a neutralizzare l’aumento dell’Iva (23 miliardi) e a ridurre in modo significativo le tasse sul lavoro (minimo 5 miliardi, ma perché sia visibile bisognerà andare ben oltre). Conte, nella sua “sintesi programmatica”, ha anche annunciato «specifiche risposte ai bisogni dei cittadini» (dal piano straordinario di investimenti nel Mezzogiorno affidato a una nuova Banca del Sud agli aumenti salariali per gli insegnanti e ai concorsi per la stabilizzazione dei precari, dagli asili nido gratis al piano straordinario di assunzione di medici e infermieri, dal piano strategico di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali al giusto compenso per i lavoratori autonomi che non può che comprendere quelli che operano per la PA) evitando accuratamente di fornire dettagli su costi e relative coperture. Simile l’approccio dei 26 punti delle “linee di indirizzo programmatico” per il nuovo governo che includono anche il “sostegno alle famiglie e ai disabili” e “maggiori risorse per il welfare”, oltre che aumenti salariali per il personale di difesa, forze dell’ordine e vigili del fuoco e gli interventi «per rendere Roma una capitale sempre più attraente e vivibile». Sembra esser stato trovato un accordo nella maggioranza sull’interruzione di “quota 100” dopo i tre anni di sperimentazione, ma è bene ricordare che questi non sono risparmi rispetto alla legislazione vigente che prevede già che la misura non duri più di 3 anni. È solo un impegno a non aumentare ulteriormente la spesa. Per avere veri risparmi occorrerebbe applicare le stesse riduzioni che si applicano alla parte contributiva delle pensioni anche alla parte retributiva, salvaguardando la possibilità di andare in pensione prima. Sarebbe anche un modo di ridurre le iniquità tra generazioni introdotte da quota 100. In un periodo in cui l’elettorato è estremamente volatile ed è molto diffidente nei confronti di chi occupa posizioni di governo le promesse non mantenute possono essere letali. Non si può sperare che vengano dimenticate quando le si fanno a poche settimane dalla presentazione di una legge di bilancio che, per quanto possa ottenere margini di flessibilità in Europa, dovrà comunque fare i conti con la realtà. Gli impegni a vuoto sono pericolosi soprattutto se all’opposizione vi è chi ha fatto promesse ancora più impegnative, ma senza mai scontrarsi coi vincoli di bilancio perché ha sempre preso le distanze da chi tiene i cordoni della borsa. Salvini potrà ora contestare la manovra con tutta la demagogia che ci si può permettere dai banchi dell’opposizione. Impossibile inseguirlo su questo piano inclinato. Bene adottare una diversa narrativa sobria negli impegni di spesa prima ancora che nel vocabolario. Se lo si fa per tempo può essere molto efficace. Per chi ambisce a rendere questa esperienza di governo un trampolino di lancio per una brillante carriera politica può essere molto più utile mostrare sul campo di avere una gestione oculata delle risorse pubbliche. Essendo soldi prelevati dai cittadini non sono mai “pochi” e ciascun ministro, anche quelli senza portafoglio, è responsabile di una macchina amministrativa che costa milioni, se non miliardi, di euro e deve garantire la supervisione su altre amministrazioni pubbliche, spesso ancora più costose. Perché allora non utilizzare vecchi e nuovi strumenti di comunicazione per rendicontare in modo meno oscuro che nel conto annuale le spese di gestione della macchina che è stata affidata a ciascun ministro? Perché non utilizzare i giudizi dei cittadini sulla qualità dei servizi offerti dalla PA per valutare i dirigenti e le singole amministrazioni? Non occorrono nuove leggi per farlo, solo negoziati coi potenti sindacati del pubblico impiego. Servirà tutto questo anche per mettere in luce un fatto che spesso sfugge all’opinione pubblica e che i populisti, che contrappongono il popolo a un’élite descritta come monolitica e corrotta, non hanno certo contribuito a chiarire: spesso non comandano i ministri, ma le burocrazie. Questo avviene tanto più quanto maggiormente inesperti sono i politici messi a capo dei dicasteri. Dimostrarsi in grado di gestire la macchina, di renderla più efficiente, di governare le burocrazie anziché farsi governare da queste può essere qualcosa di molto apprezzato dai cittadini, è un’oggettiva presa di distanze dalla odiata tecnocrazia ed è una forte discontinuità rispetto al governo precedente che spesso ha interpretato il ruolo di ministro come quello di un comiziante. Non ci si illuda che far parte di un governo con una forte componente anti-establishment metta al riparo dall’ostilità oggi presente nei confronti delle classi dirigenti. Al contrario, la condivisione del potere con i populisti può essere molto pericolosa. Ricordano i cittadini dei Paesi dell’ex blocco sovietico. L’ideologia del regime li aveva talmente convinti che i capitalisti erano cattivi e spietati che oggi sono disposti a tollerare gli oligarchi russi e tutte le peggiori manifestazioni di un capitalismo senza scrupoli. I populisti hanno descritto in modo talmente caricaturale “il palazzo” che adesso che ne fanno parte spesso interpretano perfettamente il ruolo che avevano costruito nella loro mente. Lo spettacolo desolante cui stiamo assistendo con la nomina dei sottosegretari ne è la riprova. L’autoconvincimento talvolta gioca brutti scherzi.