Tommaso Labate

«Vabbe’, proviamo a ricominciare?». Mezzanotte, Palazzo Chigi, è il primo vertice di una maggioranza che forse nasce ma potrebbe ancora non arrivare al traguardo. L’ultima curva è la più rischiosa. Nicola Zingaretti e Andrea Orlando lasciano la riunione dopo che il primo ha resistitoaquattro ore di pressing di Giuseppe Conte. Il premier in pectore chiede a più riprese al segretario del Pd di entrare come suo vice nell’esecutivo, insieme a Luigi di Maio. «Non se ne parla proprio», è la replica. Peri democratici c’è la soluzione del vicepremier unico, che dovrebbe essere Orlando. E la garanzia che l’«accordone», nel suo complesso, venga chiuso prima dell’indicazione del presidente del Consiglio. «Facciamo intanto Giuseppe premier incaricato, poi vediamo il resto. Mi faccio io garante…», insiste Di Maio. «Non se ne parla», risponde la controparte. La situazione viene ricomposta cinque minuti dopo la mezzanotte, Zingaretti e Orlando riprendono posto di fronteaConteeDi Maio. La riunione ricomincia ma l’esito dell’aggiornamento notturno, se possibile, è ancora peggiore. Il semaforo verde a Conte diventa semaforo giallo. Il Pd incassa il ministero dell’Economia ma «è quello che dovrà mettere la firma sulla manovra», e quindi senza un accordo complessivo non se ne parla. All’una la riunione finisce. Là dove c’era il sereno ora ci sono le nubi. Che potrebbero diradarsi oggi oppure mai. «La pazienza ha un limite», fa dire Di Maio ai suoi spin doctor. Il prequel di questo film era andato in scena qualche ora prima. «Ma come? Solo venti minuti? Ma che sta succedendo?». Le 18 e 29 minuti sono l’ora esatta in cui il cuore di tutti quelli che hanno confezionato l’operazione Conte bis si ferma per un istante. Venti minuti sono pochi, troppo pochi, perché l’incontro tra Zingaretti e Di Maio sia andato liscio come da copione. E dire che, sul copione, al Nazareno ci lavoravano dalle undici di mattina, quando l’ultima telefonata tra i due leader aveva fissato un faccia a faccia da tenersi il pomeriggio. Il Quirinale aspetta un segnale e allora quel segnale, visto che le liturgie in una crisi di governo sono sostanza e non forma, è la location dell’incontro. «Vediamoci a Palazzo Chigi». La scelta del luogo è la spia che la strada verso la nascita del governo giallorosso è ormai in discesa. Zingaretti ha lasciato cadere il veto su Conte in cambio di una grossa discontinuità che dovrà materializzarsi nella distribuzione dei ministeri, sbilanciata in favore del Pd. Il vertice delle 18 a Palazzo Chigi serve per apporre la ceralacca all’ideale busta chiusa che va recapitata a tutti. Il governo si fa, lo guida Conte. Ma quando Zingaretti e Di Maio si ritrovano faccia a faccia si fermano alla prima curva. «Conte chiede che io e te facciamo i suoi vicepremier, così da dare più forza al governo», azzarda il capo politico dei 5 Stelle. «Ma cos’è uno scherzo, Luigi? I patti non erano questi. Io non entro nel governo e tu non puoi fare il vicepremier», avverte segretario del Pd. E quando Di Maio allarga il bouquet delle pretese fino alla nomina del commissario europeo, il round finisce con largo anticipo. «Chiamiamo Conte. Ma sappi che così salta tutto», è la chiosa del leader pd. Conte atterra a Ciampino e si precipita a Palazzo Chigi. È la prima riunione di un governo che deve ancora nascere o l’ultima di un progetto che non nascerà mai? A notte fonda la risposta non c’è ancora. Almeno quella definitiva.