Carlo Cottarelli

Abbiamo un governo e abbiamo un programma di governo in 29 punti (per far 30 ci voleva quello, presente nelle prime bozze circolate, su Roma che doveva diventare “più bella e più superba che pria”, per dirla alla Petrolini). C’è un po’ di tutto, ma sarebbe ingeneroso farlo notare: se fosse mancato qualcosa si sarebbe accusato il governo di palesi omissioni. Inoltre si tratta di un programma che ha l’ambizione di essere pluriennale, per cui deve contenere tante cose necessariamente. Il rischio è però quello di non chiarire quali siano le priorità, le cose fondamentali su cui sarà speso il capitale politico e che caratterizzeranno la strategia complessiva del governo. Il programma appare come una somma di iniziative e idee più che un insieme derivato da principi strategici generali condivisi. Ma forse questo era inevitabile vista la natura, ancora una volta, di coalizione del governo giallorosso. Nel seguito mi concentro soprattutto sulla politica dei conti pubblici, quella per cui decisioni imminenti devono essere prese, visti gli impegni collegati al ciclo di bilancio per il 2020. In quest’ambito, due sono i punti che caratterizzano il programma di governo. Primo, l’intenzione di adottare politiche fiscali “espansive”, seppur “senza mettere a rischio l’equilibrio di finanza pubblica”. Secondo, quello di “promuovere le modifiche necessarie a superare l’eccessiva rigidità dei vincoli europei, che rendono le attuali politiche di bilancio pubblico orientate prevalentemente alla stabilità e meno alla crescita ”. Insomma, quello che il nuovo governo intenderebbe fare è chiaro: più deficit pubblico. Due commenti e una domanda. Primo commento: l’approccio macroeconomico giallorosso non è molto diverso da quello del governo gialloverde. E’ un approccio figlio del convincimento che l’Italia possa crescere solo se fa più deficit pubblico. Non c’è da stupirsi: lo stesso Renzi aveva proposto, prima delle elezioni, di portare il deficit al 2,9 per cento del Pil per cinque anni. La sostituzione del nero col rosso non ha quindi cambiato molto. Secondo commento: per fare più deficit, quello che conta, secondo il governo, è l’assenso della Commissione europea. Se questa acconsente, non ci saranno problemi: i mercati finanziari si adegueranno. Anche qui, restiamo in linea con la linea di pensiero del governo precedente. Arriviamo alla domanda: che succede se l’Europa dice di no? Alla prova dei fatti il governo precedente si era adeguato alle richieste della Commissione pur di evitare una procedura di deficit eccessivo. Salvini aveva detto che con lui solo al governo questo sarebbe cambiato. Basta cedimenti, si sarebbe andati allo scontro. L’approccio meno antagonizzante del governo Conte bis (segnalato chiaramente dalla nomina di Gualtieri al Mef e dalla proposta di Gentiloni come Commissario, forse destinato all’Economia e alla Vice Presidenza) e l’uscita dal governo della Lega renderà più morbida la Commissione? Questa è la vera scommessa su cui si basa il programma di governo, una scommessa che, si potrebbe sostenere, ha maggiore possibilità di avere successo nel contesto di un’economia europea in forte rallentamento. Difficile dire come finirà. Credo ci sia la volontà di modificare le regole fiscali europee che sono da tutti considerate troppo complesse. Ma servirà tempo e non è detto che le regole diventino molto più elastiche. Ricordo anche che le regole attuali richiedono, a un paese come l’Italia, una riduzione del deficit strutturale e quindi di prendere misure discrezionali restrittive. Passare a regole che consentano non solo di mantenere il deficit invariato, ma anche di introdurre misure discrezionali espansive non è cosa da poco. Certo, la paura di fare il gioco di Salvini potrebbe ammorbidire alcuni paesi chiave, come la Germania. Ma ricordiamoci che il governo tedesco deve anche essere preoccupato dei propri sovranisti: essere troppo morbidi con l’Italia potrebbe avere pericolose conseguenze interne. Due ultime considerazioni. La prima su quello che appare il problema più pressante, quello della legge di bilancio per il 2020, il primo test di quanto il governo vorrà e potrà spingere politiche espansive. Il programma dice che l’Iva non sarà aumentata e che ci saranno sostegni alle famiglie e ai disabili, nonché maggiori spese per l’emergenza abitativa, gli investimenti privati, la pubblica istruzione, la ricerca, il welfare. Il taglio del cuneo fiscale, pur presente nel programma, non è elencato come priorità per il 2020. Ma anche senza questo occorreranno coperture rilevanti. Evitare l’aumento dell’Iva richiede 15 miliardi. Misure di una qualche significatività per tutti gli altri settori elencati richiederebbero qualcosa nell’ordine di almeno 5-10 miliardi. Senza coperture, scaricare sul deficit 20-25 miliardi, porterebbe quest’ultimo oltre il 3 per cento del Pil dal 2 per cento di quest’anno. Difficile, direi impossibile, che la Commissione accetti un aumento di questo genere. Occorrerà quindi trovare coperture e i generici riferimenti alla spending review e alle spese fiscali contenute nel programma di governo dovranno trasformarsi in atti concreti. Seconda e ultima considerazione. Visti i vincoli che comunque esisteranno sui conti pubblici italiani, la vera sfida che il governo deve superare per riavviare su basi stabili il processo di crescita sarà l’introduzione di riforme strutturali che portino a più investimenti, produttività e occupazione. In proposito, ci sono cose importanti nel programma: riduzione della burocrazia, giustizia civile più veloce, lotta all’evasione, una credibile riduzione della pressione fiscale (che, però, secondo me non dovrebbe avvenire in deficit per essere credibile, ma finanziata con risparmi di spesa) e così via. Ma la questione è la priorità che sarà data in pratica a queste riforme rispetto a misure assistenziali che curano i sintomi dei problemi piuttosto che rimuoverne le cause. Staremo a vedere.

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