Francesco Merlo

Come in tutti i manicomi c’è una logica in questa follia di alleati nemici. Persino Luigi Di Maio nasconde le corna e la coda del diavolo quando dice «grazie mille» e sorride a Contedue che gli fa l’occhiolino come per chiudere, con un’intimità, l’ultima brutta litigata sul nome del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, quel Riccardo Fraccaro in quota Casaleggio che ha declamato «giuro di essere fedele…» come fosse Gassman sul ronzino di Brancaleone. Di sicuro, l’intero rito del giuramento oggi parla la lingua allusiva del detestarsi volendosi bene, che è – attenzione – il più vecchio codice della politica italiana, quello appunto del compromesso storico e delle convergenze parallele, ma anche quello di D’Alema e Veltroni e di Craxi a Martelli. Perché una cosa è certa: la strizzatina d’occhio la invia il vincitore e il vinto la riceve, e mai viceversa. Insomma Conteuno non si sarebbe permesso quel colpetto d’occhio che non è solo di simpatia e di confidenza ma è la figurazione plastica di un potere personale e di un rapporto di tutela che in 15 mesi si è invertito. Ed è finito il tempo degli arrivi a piedi, in taxi o in bici. Adesso hanno la Bmw di Stato, l’autista e pure due auto di scorta se sono ministroni come Di Maio e Franceschini. Si passa alla Punto per Vincenzo Spadafora, Elena Bonetti e Giuseppe Provenzano (senza portafoglio, ma con autista). Solo una piccola Tipo per Roberto Speranza. Unica eccezione è Francesco Boccia che ha avuto una grande Bmw benché sia ministro degli Affari regionali e dunque senza portafoglio. Forse perché è venuto con tre figli e con la moglie, Nunzia De Girolamo, che quando era ministra berlusconiana non era così simpatica e sbarazzina, l’”Affàcciate Nunziata” che nella canzone napoletana “imbrillanta il cielo”. E infatti ieri a Roma l’aria aveva il tocco leggero di fine estate, dolce e lieve com’è diventato il rito del giuramento ormai derubricato da cerimonia laica della Repubblica a sbrigativa formalità del pragmatismo. Ma va detto, per compensazione, che mentre il Quirinale si alleggerisce e persino i suoi fregi diventano lineari e le sue forme sembrano addirittura razionali, la genialità italiana ha di contro inventato il populismo barocco che si aggiunge all’elenco dei nostri ossimori perché non esiste il popolo aristocratico e non sono credibili l’opulenza povera e la semplicità complessa. E invece il populismo italiano è ora un mondo fatto di nascondigli, grovigli, imbrogli. Ma non è nato tra le tende rosse e nel luccichio dei grandi lampadari del salone delle feste, antico e austero, dove il capo dello Stato ieri mattina pareva come rimpicciolito. No, il populismo barocco è l’architettura dei mille vertici, la babele delle correnti e delle trattative sui portavoce e sui vicepremier, i capidelegazione e i venti-punti- più-cinque, l’opzione leghista di ritorno, l’ultimo miglio allungato, i capigruppo e la pari dignità, le luci accese di Palazzo Chigi sino a notte fonda, i segreti di Max Bugani, un nome che pare inventato da Renzo Arbore, in rappresentanza del web con le cupole, la piattaforma Rousseau con i suoi conteggi elettronici che durano più di quelli su carta, l’abbondanza dei segni e della comunicazione, la verbosità su Facebook: Bernini, Borromini e il Cortona associati alla Casaleggio di Davide, Figlio del Padre. Non solo gli ex sans-culottes indossano tutti abito scuro e cravatta, l’uniforme dell’Ancien Régime, ma durante la cerimonia i parenti dei ministri accennano pure all’applauso come ai battesimi e ai funerali. Di Maio alza la mano per salutare la fidanzata Virginia fasciata di nero e il fratello Giuseppe che è più giovane ma è uguale a lui ed è pure (ri)vestito dallo stesso sarto. Piange la mamma di Patuanelli, ride il papà di Bonafede, saluta tutti la moglie di Franceschini che è il più esperto, imprendibile anche nell’età che è velata e svelata dal colore troppo nero dei capelli. Rosso è invece Giuseppe Provenzano – nella mia memoria non ci sono altri ministri pel di carota – di Caltanissetta, piccolo di statura, vicedirettore dello Svimez. Tutti lo descrivono studioso e secchione e chissà che i libri non siano stati i nascondigli, gli antidoti ai capelli rossi che in Sicilia non sono solo dettagli fisici in dissonanza come gli occhi celesti di Mattarella, ma anche dettagli del diavolo. Sciascia, che aveva intorno il piccolo e rosso Antonio Sellerio, nel 1979 riempì 4 pagine sui rossi: Giovanni Verga, “che scrisse Malpelo ed era rosso di capelli”, Jules Renard “che scrisse Pel di Carota era rosso”, Gesù Cristo “che nella tradizione popolare tirava al rosso”, come del resto il suo traditore: “rosso e faccia di Giuda”. Provenzano è, per risarcire il nome, ministro del Sud. Il rapporto tra i nomi e le cariche eccita i cronisti: la Sanità a Speranza, il Mare a Costa, la Giustizia a Bonafede e la Difesa a Guerini che solo in caso di guerra raddoppierebbe la erre: Guerrini. Le sette signore sono tutte scure di capelli, la più elegante è Paola Pisano all’Innovazione, la più maschia è la De Micheli che ha recitato la formula del giuramento con una passione da attrice drammatica. La più distante è la ministra prefetta che dovrà vedersele con l’eredità di Salvini: «non ti invidio» le dicono i colleghi in processione. Felice ma schivo, è oggi Roberto Gualtieri al quale i giornali di destra hanno rimproverato di aver cantato Bella Ciao e non di essere stato un allievo di Spriano e di Vacca che sono scuole di formazione più comuniste delle Frattocchie e dunque di avere per modello più Gramsci che Keynes, vale a dire i quaderni dal carcere del provinciale che, come cantava Gualtieri con Claudio Lolli, ”il giorno che arrivò in città / fresco dalla Sardegna / per fare l’università / c’aveva già lui la faccia di chi c’insegna”. E invece gli hanno rimproverato Bella ciao che è cantata oggi nelle piazze di tutto il mondo, e nella serie tv “La casa di carta” persino dai ladri. Solo dalla destra italiana è ancora confusa con Bandiera rossa e l’Internazionale, mentre è la canzone della Resistenza e del 25 aprile, non è mai stata un inno comunista, ma è il canto laico della liberazione e della concordia repubblicana. Segno su un quadernetto l’appartenenza dei ministri mentre giurano: Federico D’Inca è quota Fico, Bonafede e Costa sono quota Grillo, Pisano è quota Appendino, Fraccaro è quota Casaleggio, Patuanelli e Catalfo sono quota Di Maio, Spadafora è la quota del Pd dentro i cinquestelle, Fabiana Dadone è a metà… Nel Pd Guerini è quota Lotti, Bellanova e Bonetti sono quota Renzi, Boccia è quota Emiliano, Provenzano è quota Orlando, De Micheli è quota Zingaretti, Franceschini è quota Franceschini, Gualtieri è quota Lagarde, Speranza è quota Leu-D’Alema. E sono solo alcuni dei mille anfratti e delle mille cavità del populismo barocco, come le pieghe del baldacchino di san Pietro e della facciata di Sant’Andrea al Quirinale (“La piega” è il titolo del famoso libro di Delezue, edito da Einaudi). Poi è arrivato il momento della foto di gruppo che è la memoria di ogni festa. Mattarella ha occupato il centro geometrico e tutti si sono messi in posa da terza B. I posti erano assegnati dal cerimoniale. Quindici mesi fa la foto raccontava il giuramento degli spergiuri, oggi anche gli incendiari sono diventati pompieri. Alcuni per opportunismo, altri per vocazione, altri ancora per professione, tutti vorrebbero sedare e calmare, spegnere l’incendio Italia. E tra loro la ministra degli Interni Luciana Lamorgese, Guerini e Spadafora, Patuanelli, Contedue, Franceschini e il ministro dell’Economia Gualtieri non hanno solo il compito di impedire al fuoco di svilupparsi secondo il suo verso, di circoscriverlo e di frenarlo ma anche di camminare sui cornicioni, arrampicarsi sui tetti, spiccare un salto, sfondare una porta. I veri pompieri infatti non sono figure negative, dorotei che perdono tempo, democristiani che deresponsabilizzano e tirano a campare. Cavour era un pompiere e anche De Gasperi e Togliatti. Machiavelli era un pompiere. Moro e Ciampi avevano il coraggio e la prudenza dei pompieri. Ecco, questa volta neppure la foto di gruppo è riuscita a dare il senso di tutto in un istante. Non c’è inquietudine, è vero, e sono tutti in posa felice, ma anche l’allegria è trattenuta, come fosse malata. È la foto della quiete dopo la tempesta o è soltanto la foto del Rinvio?

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  1. […] Conte bis. Giura il Conte bis, o il BisConte come lo chiama Il Foglio e Avvenire. Ed è la cerimonia del grande compromesso. Giuramento tra occhiolini, parenti e ritorni di auto blu. È finito il tempo degli arrivi in bici, a piedi o in taxi, rispuntano scorte e Bmw di Stato. Francesco Merlo su Repubblica a pagina 2. […]

  2. […] Conte bis. Giura il Conte bis, o il BisConte come lo chiama Il Foglio e Avvenire. Ed è la cerimonia del grande compromesso. Giuramento tra occhiolini, parenti e ritorni di auto blu. È finito il tempo degli arrivi in bici, a piedi o in taxi, rispuntano scorte e Bmw di Stato. Francesco Merlo su Repubblica a pagina 2. […]

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