MATTEO RENZI non è al governo, può contare su qualche ministro che passa al suo nuovo partito dopo aver ottenuto l’incarico in quota Pd, ma già pensa alle nomine di primavera, quella scadenza che è tra le ragioni della tenuta della maggioranza giallo-rossa. Avaza subito le sue proposte, dopo aver premesso che nelle nomine “non sono interessato a mettere il naso”. Nell’intervista a Repubblica Renzi si vanta che “se Enel viaggia così forte è perché abbiamo scelto un board e un CEO straordinari”, poi suggerisce di fondere insieme Fincantieri e Leonardo. C’è da scommettere che abbia anche un’idea su chi dovrebbe guidare il nuovo co l o ss o. Francesco Starace, ad dell’Enel dal 2014, è a suo modo un genio, super renziano coi renziani, pentastellato coi pentastellati (che nell’auditorium Enel hanno presentato il reddito di cittadinanza), mai inviso alla Lega. Ma il miracolo della banda larga che doveva arrivare in un attimo abbinata ai contatori dell’elettricità non c’è stato, l’infrastruttura delle “co l o n n i n e ” per le auto elettriche resta un miraggio. Renzi omette che nel 2014 lui ha anche insediato Claudio Descalzi al’Eni, ora imputato per corruzione internazionale in una vicenda all’epoca già ben nota (l’a cq u i s i z i o n e di un giacimeno in Nigeria) e che nelle carte giudiziarie intorno a quell’azienda e ai suoi personaggi più deteriori si ritrova un numero sospetto di renziani, da Luca Lotti ad Andrea Bacci. Altra grande nomina di rottura di quella tornata: Mauro Moretti a Finmeccanica, congedato senza rimpianti dopo tre anni perché occuparsi di aerei ed elicotteri è diverso che fare il monopolista delle ferrovie (a proposito, l’altro renziano Renato Mazzoncini, a capo delle Fs per fonderle con Anas, non è finito meglio). Come in molti altri campi, anche sulle nomine Renzi ha già avuto la sua opportunità di cambiare davvero le cose. E l’ha sprecata.

«Per il bene di mio figlio», dice la madre: e cosa c’è di più giusto per una madre che volere il bene del proprio figlio? Il problema è che spesso i genitori non sanno proprio quale sia il bene del proprio figlio. In una scuola di Scampia, il ragazzino si presenta in classe con capelli e treccine colorate di un bel blu. La preside non lo fa entrare in classe perché l’acconciatura del tredicenne non è ritenuta dignitosa per l’istituzione scolastica. Glielo dice e glielo ripete, chiedendogli di adeguarsi (…)(…) al comportamento dei suoi compagni: lui non s’adegua e neppure la preside s’adegua alla sua capigliatura. La madre del ragazzo va su tutte le furie e si presenta in commissariato per denunciare la preside che impedisce al figlio il diritto allo studio. Non c’è un regolamento che proibisca il colore blu dei capelli degli studenti, ma c’è l’obbligo del rispetto dell’istituzione. Lo studente capisce il problema e decide di tagliarsi le trecce e di avere una capigliatura più consona alla sede scolastica. Naturalmente le opinioni di genitori e studenti si contrappongono: la tesi dei «libertari» si riassume in una visione assolutamente permissiva, che poi è la strada più semplice da seguire. Poteva percorrerla anche la preside, fregandosene del colore dei capelli del suo studente. E invece s’intestardisce e pretende che il ragazzo abbia un aspetto meno pittoresco. La cosa interessante è che lo studente comprende l’esigenza espressa dalla preside, mentre la madre non recede dalla sua denuncia in commissariato. Quesito: la madre fa il bene di suo figlio? A me pare che sia stato il figlio a fare il bene di sua madre (e di se stesso). Oggi il verbo «proibire» è sinonimo di reato autoritario, ma se si riflette sul ruolo della scuola, non è poi così fuori dal mondo la posizione della preside, mentre è sbagliato il comportamento della madre. La scuola è un luogo di formazione attraverso la convivenza di una pluralità di figure, di cui le fondamentali sono gli insegnanti e gli studenti. Le regole sono le premesse per uno sviluppo ordinato di questa convivenza. L’educazione ne è un fondamento essenziale. In essa rientra il rispetto reciproco fatto di buone maniere, di un linguaggio corretto, di un aspetto non volgare. È chiaro che non esiste un codice ineccepibile dell’educazione e che questa è lasciata all’interpretazione di chi deve farla rispettare, però il buon senso e il buon gusto aiutano a fare delle scelte e a prendere delle decisioni. Sono convinto che la preside di Scampia abbia preso la decisione giusta per dimostrare a tutti gli studenti della scuola che esiste un decoro da rispettare per il rispetto dell’istituzione. E veniamo alla madre. Talvolta, inutile negarlo, i genitori hanno buone ragioni per protestare contro le decisioni prese dal personale scolastico, ma nel nostro caso la mamma del ragazzino dalle treccine blu dovrebbe ringraziare la preside che si è sostituita a lei nell’educazione del figlio. C’è da augurarle che un domani, il suo ragazzo, presentandosi in un luogo di lavoro, si ricordi che, oltre alle competenze, si devono rispettare anche i modelli di comportamento, il buon gusto, lo stile del luogo che andrà a frequentare, avendo compreso che nella vita, purtroppo, non si può sempre fare quello che si vuole.

Siamo tutti dalla parte di Lino, l’adolescente di Scampia che deve fare a meno delle sue trecce blu se vuole tornare a scuola. Tutti ma proprio tutti. Dalla parte di Lino è anche la sua preside, e proprio per questo gli ha detto di lasciare fuori dalla classe le sue trecce. Cerca di spiegare a Lino che essere meno visibile, meno spettacolare, più uguale agli altri, non significa essere meno Lino. Riusciranno i nostri eroi (Lino, la sua preside, le sue trecce recise, la sua famiglia) a risalire la china che tutti quanti abbiamo ciecamente disceso, negli ultimi anni? È la china dell’esibizionismo, dell’interrotto one-man-show del quale siamo protagonisti, del “guardate qua! guardatemi, vi supplico!” nelle sue infinite varianti, le gragnuole di tatuaggi, le acconciature spiritose, i post cretini, l’incessante fotografarsi con risatine e con boccacce (ma le foto normali, dove cacchio sono finite?), l’apprendistato da star al quale ogni essere umano, donna e uomo, si sottopone a dispetto degli esiti, quasi sempre imbarazzanti. Come se non esserlo (star) equivalesse a morire. Come se non fosse vita, una vita normale. In una società nella quale gli adulti per primi, pur di farsi notare, sono disposti a qualunque ridicolaggine, qualunque nefandezza, un adolescente è dieci volte meno colpevole. Verrà un giorno (lo speriamo tanto, io e la preside di Scampia) nel quale per distinguersi dal conformismo degli adulti diventerà indispensabile essere normali. Mi feci crescere i capelli, a sedici anni, in opposizione ai capelli corti, con rigorosa sfumatura sulla nuca, di tutti gli adulti. Speriamo che Lino si accorga, prima o poi, che non c’è adulto in circolazione, da Scampia al Polo Nord, che non abbia le treccine blu.

Leopardi si vestiva di tutto punto, quando doveva leggere i classici latini e greci. Ma ora che il mondo è cambiato e a scuola non si va più col grembiule, bisogna chiudere un occhio su mode e capricci? A ben vedere, la dirigente scolastica di Scampia che ha impedito a un suo alunno di presentarsi con le treccine blu cobalto non si è limitata ad applicare il codice di comportamento concordato con i genitori, ha posto una questione molto più corposa. Questa. Va bene la discussione, vanno bene i pro e contro, ma poi bisogna decidere, e a quel punto qualcuno deve assumersi la responsabilità della scelta e motivarla. In un’Italia sempre pronta a rifugiarsi nell’eccezione di comodo, nell’opportunismo del «d’accordo, però», e nello snobismo liberal de «il problema è un altro», la direttrice Rosalba Rotondo ha dato un punto a tutti. Sarebbe stato facile se il caso fosse stato più clamoroso; se lo studente fosse stato trovato con un’arma in tasca o una svastica tatuata sulla testa: i contestatori si sarebbero messi nell’angolo da soli. E invece proprio davanti a un paio di innocue treccine colorate, portate da un alunno talentuoso, è venuta giù l’impalcatura protettiva dell’ipocrisia nazionale. La stessa che porta a evitare la discussione sugli stili di vita europei posti da Ursula von der Leyen. Ma a Scampia l’esito della polemica è confortante: il buon senso ha fatto seguito al rigore, tant’è che il ragazzo ha deciso di passare per il barbiere. Non sarebbe stata la stessa cosa se l’invocato «buon senso» avesse anticipato il rigore mortificandolo.

Esiste un’idea ric or rente pe r spiegare il problema economico dell’Italia. Quella del Paese a «due velocità». I l Nor d sempre più ricco grazie ai suoi piccoli industriali e il Sud più povero e dipendente dalla spesa pubblica. Se si risolvesse il «problema del Sud» tutto il Paese crescerebbe. O, alternativamente, se il Nord si liberasse dalla «zavorra» del Sud, diventerebbe come la Svizzera e la Germania. Alcuni opinionisti si sono trastullati con l’aritmetica del Pil: il Pil pro capite della Lombardia è di 38 mila euro, quello della Calabria 17 mila; quindi se il Sud avesse lo stesso Pil del Nord, l’Italia sarebbe ricca e il problema sarebbe risolto. L’aritmeticaègiusta, ma la conclusione è sbagliata. In tutto il mondo sviluppato esiste un gap tra le regioni e le città più ricche e le altre. Il rapporto tra il Pil pro capite della Lombardia e quello della Calabria è di 2,2. Tra Londra (207 mila euro) e East Wales (23 mila) è di 9 volte. Tra Parigi (58.300) e l’Auvergne (26.300) è 2,2 volte. E, seppure falsato da una fiscalità che lascia più tasse locali, il discorso vale anche per la Germania dove il Pil di Amburgo (65 mila euro) è 1,8 volte quello della Sassonia (36 mila) e per gli Usa dove il rapporto tra New York (73 mila dollari) e il Mississippi (34 mila) è di 2,2. Non solo. La crescita della ricchezza delle nazioni di solito non deriva da gap territoriali che si riducono. Negli Usa, il Mississippi è da sempre lo stato più povero. E, nella nuova era della knowledge economy, 50 città che rappresentano solamente l’8% della popolazione mondiale, hanno aumentato la loro quota del Pil mondiale dal 20 al 30%. Sono «hub» locali con grandi aziende al centro di un distretto di startup high-tech e università (Silicon Valley, Massachussets) o creativo-finanziario (Hollywood, Parigi) o di finanza innovativa (Londra, New York, Singapore). La realtà è che tutto il nostro Paese è fermo. E da quasi 50 anni, perché il «miracolo economico» è stato prolungato solo dalla droga della spesa pubblica. E la responsabilità non è solo del Sud. Ilrapporto tra il Pil della Lombardia e quello della Calabria negli anni 60 era 2,6, perfino maggiore di oggi. Per ripartire bisogna ripensare il nostro modello di sviluppo, che si è pers o due transizioni economiche, quella da industriale a post-industriale-servizi, e poi a innovazione-digitale. Ma i sostenitori del modello economico nordista restano ancorati all’economia dei piccoli-medi imprenditori del made in Italy e del manufatturiero. Il modello diriferimento da cui partire è un altro, quello di Milano (una delle 50 città superstar di cui sopra): non un distretto industriale ma un hub innovativo capace di attrarre talento da tutto il Paese e dall’estero. A Milano si vedono molti degli ingredienti degli hub di successo del mondo. Grandi aziende italiane e multinazionali che offrono jobs ad alto valore e ben retribuiti. Finanza innovativa, con fondi Private equity che finanziano crescita e innovazione aziendale. Una sanità eccellente sia privata sia pubblica. Startup tecnologiche «ricadute» delle grandi aziende innovative (Yoox nel lusso-moda) e dell’ottima sanità (l’equivalente di 10 miliardi di euro di valore creato da startup biotech). Una giustizia civile che funziona meglio che nel resto del Paese. Le due migliori università e le migliori scuole italiane «trainate» da grandi aziende che cercano laureati e diplomati di qualità. Una filantropia manageriale che crea Humanitas e Centro Medico Santagostino e non le piccole fondazioni famigliari che distribuiscono carità a pioggia. Ma, soprattutto, sirespira il capitale sociale essenziale per fare nascereivalori della meritocrazia e della competizione che sono i veri motori dello sviluppo: a Milano esiste la fiducia che la competizione sia leale e basata sul vero merito. Non è così in gran parte del Paese. E le scuole milanesi sono migliori non perché hanno più finanziamenti, ma perché per i milanesi l’istruzione è ancora essenziale peri propri figli, e sono «clienti esigenti». L’accettazione della competizione sta costruendo a Milano una classe dirigente molto diversa da quella delle élite intellettuali e dei celebrati imprenditori del «piccolo è bello» del resto del Paese proprio perché è frutto di una selezione. Nasce dalla leadership manageriale delle grandi aziende ma serve anche ai presidi delle scuole, ai rettori delle università, agli ospedali e alla politica (l’attuale sindaco è un ex manager). Per recuperare lo spaventoso rallentamento, la ricetta di allineare le due velocità è quindi sbagliata. È tutto il Paese che deve ricominciare a correre e, come è buona regola, conviene partire dai punti di forza, in questo caso la stessa Milano, che può ambire a essere un hub di moda e lusso e della sanità, ma deve migliorare. Il capitalismo famigliare ruota ancora attorno a «salotti buoni», le grandi aziende italiane sono poche (il «gioiello» Luxottica è andato a nozze a Parigi) e, per assurdo, ce ne sono di più a Roma (le ex pubbliche Enel, Eni, Poste, Leonardo, Telecom). Il Politecnico, la migliore università del Paese secondo le classifiche internazionali, è la trecentesima del mondo. Le startup biotech faticano a trovare capitale quando nascono. La burocrazia amministrativa continua a imperversareela sicurezza deve ancora migliorare. Se Milano e altre città si rafforzano, lo farà anche il Sud. Intanto molti giovani meritevoli del Sud continueranno a emigrareaMilano e non c’è nulla di male a dirlo. Le 50 città superstar creano opportunità per i migliori giovani di tutto il loro Paese. Gli investimenti al Sud non verranno dallo Stato, ma da grandi aziende magari incentivate fiscalmente. I cittadini del Sud cominceranno a vedere le «due velocità» dei risultati Invalsi e Pisa tra scuole del Nord e del Sud e chiederanno più qualità. Ma, soprattutto, anche al Sud ci si renderà conto che in Italia si può crescere accettando un modello economico e sociale basato sulla meritocrazia. L’Italia delle due velocità non è quella del Nord e del Sud, ma quella di un modello sociale ed economico che si evolve e uno vecchio di 50 anni.

Le misure annunciate dalla Banca centrale europea (Bce) giovedì danno un segnale fermo ai mercati. Confermano che l’istituto di Francoforte rimane impegnato a rispettare il suo obbiettivo di inflazione vicino, sebbene al di sotto, del 2% nel medio periodo. A luglio l’inflazione era data all’1.1% per il 2019, bene al di sotto del target. Se la Bce non si fosse mossa, il mercato l’avrebbe interpretato come un segnale che l’1% è tollerato, e avrebbe aggiustato le aspettative di conseguenza. Perché è così importante questo segnale? Le aspettative del mercato, dei cittadini e delle imprese condizionano la determinazione dei prezzi e l’inflazione si sarebbe ulteriormente indebolita. Questo è successo in Giappone negli anni 90: la conseguenza è stata che Tokyo non è più riuscito a sollevarla, nonostante un uso massiccio (ma tardivo) del quantitative easing (gli stimoli monetari) e del debito pubblico arrivato a oltre il 200% rispetto al Prodotto interno lordo. Il risultato è che la crescita ristagna. La maggiore arma di Mario Draghi contro chi vorrebbe attendere a rilanciare misure di stimolo all’economia è proprio basata sul mandato a combattere un’inflazione debole mirando alla stabilità dei prezzi.

L’ inflazione debole è, d’altro canto, il motivo principale di preoccupazione per l’economia europea e non solo. Le previsioni dei mercati danno l’indice dei prezzi nell’eurozona tra cinque anni ancora all’1.7% nonostante il messaggio forte di Draghi e la continuità che presumibilmente Christine Lagarde, che lo sostituirà dal primo novembre, darà alla politica monetaria della Bce. Perché questa sfiducia? La ragione fondamentale è una profonda e persistente avversione al rischio da parte di chi investe. Le banche finlandesi erogano oggi mutui a tassi negativi. Questo vuole dire che sono disposteapagare chi prende soldi in prestito per comprarsi una casa!Non solo, i titoli del Tesoro della maggior parte dei Paesi europei hanno oggi tassi negativi, e così è per oltre il 30% delle obbligazioni con un rating alto. Le banche tedesche e francesi preferiscono essere tassate e parcheggiare i depositi sul conto della Bce piuttosto che prestare alle imprese e all’economia reale in genere. E questo perché la domanda di credito corretta con il rischio è bassa. Gli studi della Bce dimostrano che una buona parte di questa tassa viene scaricata sulle aziende, che, nonostante ciò, preferiscono tenere la liquidità eccedente in forma di depositi invece che investire. Il debito oggi è molto conveniente — ne sa qualcosa il settore pubblico italiano — ma chi lo può chiedere, perché ha un profilo a basso rischio, continua a mostrare «timidezza», mentre agli altri che presentano maggiori rischi le banche non lo danno. Ci sono molte ragioni per questa avversione al rischio. In parte l’invecchiamento della popolazione, in parte l’incertezza dovuta a mutamenti tecnologici di cui non si capisce veramente la portata, e naturalmente l’incertezza legata a un ordine mondiale che fa i conti con la fine dell’egemonia esclusiva degli Stati Uniti. In Europa c’è qualcosa in più. La crisi ha lasciato ferite e diffidenze reciproche. Questo fa sì che non riescaabeneficiare interamente delle opportunità del mercato unico e di un grande spazio finanziario integrato. La nuova commissione europea sta provando a dare un messaggio di fiducia, ma la sua credibilità dipenderà dalle politiche che si metteranno in campo e, naturalmente, dai governi dei Paesi membri. Nulla è scontato. Ma senza questa fiducia ogni bazooka della Bce potrebbe alla fine dimostrarsi inutile. Sono due gli scenari possibili. Il primo — virtuoso — è un rilancio del progetto europeo che passi anche attraverso uno stimolo di tipo fiscale da parte dei Paesi come Germania e Olanda che hanno lo spazio per farlo o, ancora meglio, da parte di uno strumento federale che possa spendere a debito finanziandosi con un bond garantito da tutti i Paesi dell’eurozona. Attribuisco bassissima probabilità a questa seconda ipotesi, ma la prima non è impossibile. Se siverificasse, crescita e inflazione dovrebbero ripartireeil ruolo della politica monetaria potrebbe così ridimensionarsi. Il secondo — pessimista — è che la Bce rimanga da sola a fornire lo stimolo necessario. In questo caso Christine Lagarde dovrebbe considerare politiche fin qui inesplorate: acquisti di titoli azionari, tassi ancora più negativi, trasferimenti di liquidità direttamente nelle mani dei cittadini. Forse ci si arriverà, ma sarebbe una strada piena di insidie in cui difficilmente il consenso che ha sostenuto — se pur difficilmente — la Bce in questi anni potrebbe durare. L’indipendenza della Bce sarebbe messa in discussione e dovremmo immaginare una nuova impalcatura dell’euro in cui la Banca centrale di fatto farebbe sia politica monetaria che fiscale.

Ambiente, ambiente, ambiente. Ok: ma in che senso? E soprattutto: con o senza cialtroneria? In un’intervista rilasciata ieri a Repubblica, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, poche ore prima di annunciare l’ade – sione dell’Italia alla coalizione dei ministri finanziari per la lotta al cambiamento climatico, ha sostenuto che uno degli scopi principali del nuovo governo è quello di dar vita a un nuovo e ancora non chiarissimo “Green New Deal”, utile a convincere l’Europa a scorporare gli investimenti italiani in materia ambientale dal calcolo del deficit. La stessa espressione, “Green New Deal”, qualsiasi cosa significhi, è stata utilizzata dal presidente del Consiglio nel suo discorso alle Camere e il tema del “rispetto dell’ambiente”, qualsiasi cosa voglia significare, è stato il primo punto su cui Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio hanno individuato un possibile punto di reale convergenza nei giorni che hanno preceduto la formazione del nuovo governo. Nella storia recente del nostro paese, come i lettori del nostro giornale purtroppo sanno, l’ambientalismo è stato ripetutamente utilizzato come un mezzo per giustificare fini non facilmente giustificabili (dalla Tav alla Gronda) e il fatto che alla guida del ministero dedicato all’ambiente si sia scelto di confermare un ministro molto amato dai grillini (Sergio Costa) potrebbe essere la spia di un fenomeno pericoloso che merita di essere monitorato: la possibilità che il nuovo esecutivo trasformi la difesa dell’ambiente in una difesa di uno status quo fatto di veti, di vincoli, di no, e la possibilità parallela di trasformare l’ambienta – lismo in una semplice scusa per ottenere dall’Europa quei quattrini che non si ha il coraggio di recuperare rendendo più efficiente la spesa pubblica italiana. Il nostro amico Chicco Testa, a pagina tre, si chiede giustamente se la sintesi rossogialla produrrà un governo ostaggio di una decrescita felice condita con un po’ di luddismo tecnologico o se invece il governo a trazione grillina, grazie alla presenza di un ministro per le Infrastrutture favorevole alle grandi opere (De Micheli) e di un ministro per l’Agricoltura favorevole agli ogm (Bellanova), non sia tarato per portare avanti uno sforzo serio per far sposare l’ambiente con la modernità e l’innovazione tecnologica. Il tempo ci dirà verso quale direzione si muoverà il governo (su questo punto, come sulla giustizia, non siamo ottimisti) ma accanto a questi spunti di riflessione ce n’è uno ulteriore che merita di essere illuminato e che riguarda un tema di fronte al quale negli ultimi mesi si è ritrovato a fare i conti un politico a cui il nuovo governo guarda con molta simpatia: Emmanuel Macron. In molti lo hanno rimosso ma la rivolta dei gilet gialli è una rivolta che nacque contro un avventuroso ambientalismo del presidente francese che lo portò – salvo poi pentirsene – ad aumentare la Contribution climat-énergie (Cce), la cosiddetta “tassa carbonio”. La Francia non è l’Italia e Conte non è Macron, ma nonostante questo il governo di svolta rischia per almeno due ragioni di trasformare l’ambientalismo che piace al popolo in un ambientalismo indigesto per una buona parte del popolo. Sostenere le energie rinnovabili è una politica saggia che dovrebbe stare a cuore a qualsiasi governo con la testa sulle spalle ma se il governo intende davvero rinunciare ai famosi quindici miliardi di sussidi considerati “ambientalmente dannosi” dovrà mettere in conto che rimuovere quei sussidi significa indirettamente rendere più cara la benzina a varie categorie appartenenti al ceto medio che oggi quella benzina grazie ai sussidi la pagano un po’ meno (mezzi agricoli, autotrasportatori, macchine diesel). Rendere possibile una rivolta del ceto medio per rendere il paese un po’ meno inquinato (viva l’elettrico!) può essere una scelta coerente (il filosofo francese Michel Gauchet, provando a spiegare i gilet gialli agli albori, disse che coloro che avevano scelto di mettersi i gilet erano “i dieselisti di base che non vogliono pagare la transizione ecologica”) ma meno coerente sarebbe invece la scelta di assecondare il grillismo sulla partita degli inceneritori. Luigi Di Maio ha detto che il M5s “non vuole che si realizzino nuovi inceneritori e vuole che si chiudano quelli esistenti” ma come sa bene chiunque abiti a Roma e chiunque abbia frequentato la Campania prima dell’aper – tura dell’inceneritore di Acerra, non creare termovalorizzatori laddove esistono emergenze nella raccolta dei rifiuti significa continuare a creare le condizioni per avere una gestione dei rifiuti sempre meno efficiente, strade delle città sempre più piene di pantegane e rinunciare a combattere alla radice il malaffare che di solito si annida dove ci sono rifiuti che non vengono trattati. Il governo della svolta ha scelto di trasformare l’ambientalismo nel collante simbolo della rivolta contro i sovranismi populisti. La scelta può essere azzeccata. A condizione però che la difesa dell’ambiente non diventi un modo come un altro per colpire quelli che a Parigi chiamerebbero les bobos, il ceto medio italiano, e a condizione che l’ambientalismo non diventi un modo come un altro per fare quello che negli ultimi decenni agli ambientalisti è riuscito spesso con successo: usare l’ambiente, e le treccine di Greta, solo per rendere più presentabile la difesa dello status quo. Ambientalismo sì, cialtronismo no, grazie.

S e non ci è sfuggito qualcuno, il Conte 2 è il primo governo a memoria d’uomo senza indagati. E non è un record da poco. Ma non c’è solo la questione penale: c’è pure quella morale, oltre a una Costituzione che impone “disciplina e onore” a chi esercita pubbliche funzioni. Perciò vorremmo sapere cosa sia saltato in mente al Pd di nominare sottosegretario, per giunta ai Trasporti e Infrastrutture, il senatore Salvatore Margiotta, detto Er Trivella. Fu indagato a Potenza nel 2008 per corruzione e turbativa d’as t a q ua n d’era alla Camera, che puntualmente negò l’a u t o r i z z azione al suo arresto. Poi fu assolto in primo grado e condannato in appello a 1 anno e 6 mesi, infine la Cassazione annullò la condanna senza rinvio. L’a c c usa era di aver fatto valere la sua influenza per aiutare presso la Total l’amico imprenditore Francesco Ferrara a vincere l’appalto da 26 milioni per il Centro Oli Total di Corleto Perticara, in cambio di una tangente promessa o versata di 200 mila euro. Ferrara, essendo indagato, temeva che la Regione lo tagliasse (sacrosantamente) fuori. Allora incontrò Margiotta e poco più di mese dopo l’appalto arrivò, grazie all’ad di Total che sostituì le buste con le offerte. Quando la Cassazione annullò la condanna, non cancellò i fatti. L’incontro Ferrara-Margiotta il 16.12.2007 ci fu davvero. E Ferrara, ignaro delle cimici in casa sua, confidò davvero a un’amica di aver detto a Margiotta: “Salvato’, io voglio il lavoro… Io ti devo portare 200 mila euro il giorno in cui mi assegnano definitivamente e tu lo sai come sono io ”. La Corte però stabilì che Margiotta non ricopriva cariche pubbliche connesse all’a ppalto, dunque non era “c o n f i g ur a bi l e ” la corruzione. Però “in via teorica” la condotta rientrava “nel paradigma del traffico di influenze illecite… all’epoca dei fatti, però, non ancora previsto come reato” (lo introdusse nel 2012 la Severino). Ergo “og n i questione relativa all’esistenza o meno di una promessa di 200mila euro e dell’accettazione della stessa perde ogni significato”. Così Margiotta fu assolto, ma i fatti poco commendevoli rimasero. E fu lo stesso Er Trivella ad ammettere certe prassi, pur negando di aver preso soldi, in un’intervista a Repubblica. Domanda di Antonello Caporale: “On. Margiotta, se lei mettesse una buona parola…”. Risposta: “Più o meno di questo credo si tratti”. D: “Alzi la mano chi non ha offerto una parolina di buona a mi c iz ia ”. R: “Bravo. Al Sud le frequentazioni politiche sono intessute di questi rapporti. Parlo con tutti e di tutto”. Resta da capire perché mai uno con questa “cultura” sia finito in un ministero tanto cruciale: nonostante quei fatti, o proprio per quelli?

Ha suscitato sentimenti diversi, dalla semplice curiosità all’indignazione, il fatto che uno degli otto vicepresidenti della Commissione Europea, il greco Margaritis Schinas, sia stato nominato «Commissario per la Protezione dello stile di vita europeo». A qualcuno è sembrato curioso che, con tutti i problemi urgenti e concreti che ha l’Europa, occorra addirittura un Commissario per proteggere il nostro stile di vita, quasi fossimo una colonia di castori in estinzione, che rischia di smarrire la capacità di costruire tane, dighe e laghetti artificiali. Poi però si è capito: il nuovo Commissario dovrà occuparsi soprattutto di immigrazione. Dunque, ragionano alcuni, sono gli immigrati la minaccia da cui dobbiamo essere protetti. Di qui il passaggio all’indignazione è immediato, nel clima di oggi. Su tutte spicca la reazione di Amnesty International che, dopo aver notato che “le persone che hanno migrato hanno contribuito allo stile di vita dell’Europa nel corso della sua storia”, perentoriamente ci ricorda che “lo stile di vita europeo che l’Ue deve proteggere è quello che rispetta la dignità umana e i diritti umani, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza e lo Stato di diritto”. Anche la presidente Ursula von der Leyen, che quell’incarico ha concepito e assegnato, accusa un certo imbarazzo, e gioca sulla difensiva: “Il nostro stile di vita europeo sostiene i valori e la bellezza della dignità di ogni singolo essere umano”.

Qual è il problema, dunque? Il problema sta nel programma politico della von der Leyen, e nel non detto della (apparentemente) strana associazione fra migranti e protezione dello stile di vita europeo. A giudicare da quanto scritto e dichiarato fin qui, gli obiettivi finali della nuova politicamigratoria europea sono tre: (a) accogliere chi ha diritto allo status di rifugiato; (b) rimpatriare chi non ha diritto ed entra illegalmente in Europa; (c) selezionare imigranti economici in base alle esigenze e alle disponibilità di posti degli stati europei (un modellomolto elogiato quando a praticarlo è il Canada, ma guardato con sospetto se a ipotizzarlo è l’Unione Europea). Alla base di questo “vasto programma”, tuttavia, non c’è solo l’idea (di puro buon senso) che in Europa si debba entrare solo legalmente. A mio parere c’è anche l’idea che, alla lunga, ingressi massicci e incontrollati (come quelli dell’era pre-Minniti)mettano a rischio il nostro modo di vivere, ossia abitudini, costumi, tradizioni, regole di comportamento che lamaggior parte dei cittadini europei preferirebbe conservare, e che una parte non trascurabile dei migranti invece non sa o non vuole rispettare. Non penso solo al tasso di criminalità (che fra gli stranieri è oltre il quadruplo che fra i nativi), o alla formazione nelle città di enclaves etniche impenetrabili,ma più in generale alla condizione delle donne (mogli e figlie) in diverse famiglie di religione islamica. Fra i valori che la stragrande maggioranza degli europei preferirebbe vedere tutelati vi sono anche cose come la separazione fra credo religioso e politica, o il rispetto della libertà (e del corpo) della donna, due cose che nei virtuosi elenchi di “veri” valori europei vengono stranamente ignorate. Ecco perché la levata di scudi contro Ursula von der Leyen lascia perplessi. Si può essere contro i confini, volere l’accoglienza erga omnes, e pensare che i migranti siano sempre una risorsa e un’opportunità per l’Europa. Si può pensare che i contatti e le ibridazioni fra culture siano fondamentalmente un arricchimento per tutti, e che l’Europa possa soddisfare senza limiti la domanda di approdo sulle nostre coste che proviene dall’Africa e dalMedio Oriente. Si può persino pensare che un tasso di criminalità degli stranieri molto più alto di quello dei nativi sia tollerabile, o sia solo l’effetto degli ostacoli che gli Stati europei frappongono all’immigrazione irregolare. Ma si dovrebbe anche rispettare chi è di diversa opinione, e pensa che un’Europa in cui africani e islamici fossero in maggioranza (un evento che, a politiche invariate, richiede pochi decenni) sarebbe meno vivibile di quella di oggi. O chi pensa che una comunità politica abbia tutto il diritto di decidere chi ammettere a farne parte e chi no. Bollare come razzisti, fascisti, reazionari tutti coloro che non aderiscono all’ideologia dell’accoglienza indiscriminata è profondamente incivile, e in patente contraddizione con i valori europei di tolleranza, apertura e dialogo. E’ paradossale. Per anni i governanti europei sono stati accusati di ignorare le preoccupazioni e i sentimenti dei comuni cittadini. L’ascesa del populismo è stata (giustamente) ricondotta a questa sordità dell’establishment europeo, incapace di cogliere la domanda di protezione, non solo economica, che veniva dalla gente. Ed ora che quella medesima domanda mostra di ricevere qualche ascolto, al punto da istituire un Commissario che se ne occupi, anziché prenderne atto con soddisfazione, non si trova di meglio che mettere alla sbarra Ursula von der Leyen, ossia il primo governante europeo che mostra di non ignorarla. Stranezze della politica. O forse sarebbe meglio dire: ambiguità e debolezze degli europeisti doc. Per i quali l’Europa non andava bene prima, perché troppo lontana dalla gente,ma va ancorameno bene adesso, perché ha scelto di ascoltare la gente sbagliata.

Chissà se le destre italiane si sono accorte del “rischio francese” che si concretizza dietro l’angolo, e cioè della possibilità che i loro moltissimi voti, la loro egemonia nelle fasce popolari, le loro leadership così applaudite e influenti, finiscano sterilizzate dietro un cordone di sicurezza esattamente come è successo a Marine Le Pen: la donna che da quasi un ventennio è in vetta al consenso ma mai è riuscita a portare il suo partito al governo della Francia perché isolata da ogni possibile alleanza.

È uno scenario verosimile, forse probabile. Lo abbiamo già visto agire nei giorni della crisi quando si è attivata una larga operazione, europea ma non solo, per incoraggiare M5S e Pd ad aprire il dialogo e sostituire il governo a trazione leghista. Senza un cambio di passo, lo schema proposto dal blitz d’agosto, per molti versi emergenziale, potrebbe solidificarsi in una vera conventio ad excludendum delle forze che fanno riferimento al sovranismo. Non sarebbe un fenomeno nuovo per il nostro Paese, che ha già conosciuto nella Prima Repubblica il modello dell’arco costituzionale, la no-fly zone decretata intorno al vecchio Msi per interdirne la partecipazione al potere. Ma anche la Lega, all’epoca del secessionismo e del Blocco Padano, ha avuto il suo momento off-limits, restando a lungo tagliata fuori da ogni possibile alleanza persino nei Comuni dove faceva il pieno di voti. Anche per questo stupisce l’apparente inconsapevolezza con cui le nuove destre continuano a danzare sul filo dell’estremismo e delle dichiarazioni di guerra a tutto e tutti, dopo aver largamente verificato che quel tipo di messaggio minaccia di costruire una gabbia in cui si finirà segregati e ininfluenti (se non addirittura mostrificati). Altrove, il sovranismo è più cauto. Pure l’ungherese Viktor Orban, icona del nuovo nazionalismo europeo e della critica alle istituzioni comunitarie, ha preferito combattere dall’interno il sistema che contesta, conferendo i suoi voti decisivi a Ursula von der Leyen. Persino gli ultras dell’AfD della Sassonia, dopo aver quasi raddoppiato le percentuali, hanno bussato insistentemente alla porta dei popolari per cercare un accordo (respinto) che li tirasse fuori dall’irrilevanza e disperdesse l’aura sulfurea che li circonda. Ovunque è chiaro che vincere, essere primi, riempire le piazze, è inutile se si è titolari di una cittadinanza politica limitata, che condanna all’opposizione e alla protesta perpetua, incatenati al ruolo di campioni delle rabbie sociali. E l’obiettivo della de-diabolization è per tutti un traguardo primario: la Le Pen ci prova incessantemente da un decennio, per riuscirci ha fatto fuori suo padre, cambiato nome al partito, chiamato un ventenne a guidarle le liste nelle ultime Europee. È curioso che proprio da noi si viaggi in direzione opposta, senza tener conto dei suggerimenti dell’esperienza: l’ambiguità su alcuni temi fondanti della democrazia, la prepotenza verbale, i giochi di parole a sfondo xenofobo o sessista, magari portano voti e riempiono i comizi ma suscitano allarmi consistenti e possono sfociare in reazioni protettive repentine, in riflessi difensivi forti capaci di mettere d’accordo anche nemici giurati come fino a ieri erano Pd e M5S con la benedizione del resto del mondo. Nei talk show lo si potrà chiamare complotto, manovra contro il popolo, congiura dei poteri senza volto, ma bisognerebbe ragionarci sopra con più lucidità: il pericolo di conquistare il primato elettorale cavalcando l’estremismo per poi finirne politicamente folgorati esiste ed è piuttosto concreto.