Marzio Breda

Ha aspettato anche lui — «ma con freddezza» — l’esito del referendum sulla piattaforma Rousseau, che ha voluto considerare privo d’interferenze con le sue prerogative. Oggi aspetta il premier incaricato, Sergio Mattarella. Per capire se la bozza di programma che gli presenterà, sciogliendo la riserva, sia all’altezza delle sfide sulle quali l’Italia dovrà misurarsi. Cioè, per indicare quelle più urgenti, la sterilizzazione dell’Iva, la manovra finanziaria, la scelta di un candidato per la nomina di un nostro commissario europeo. Certo, questo che sta per esser tenuto a battesimo, non è un esecutivo «del presidente», ma «dei partiti». Il capo dello Stato non ha dunque raccomandazioni specifiche da rivolgere a Giuseppe Conte, se non quella, che gli ha ripetuto più volte, di «fare il premier e non il notaio di due forze politiche». Con l’incitazione a lavorare nei limiti dello sforamento di bilancio e di un accordo che escluda l’uscita dall’Europa. Cosa che non sarebbe neppure necessario dire visto che Conte sembra già orientato bene di suo. Così come dev’esser consapevole che quello recitato da Di Maio ieri davanti alle tv è un libro dei sogni, dove non è risuonata una parola sui temi del debito pubblico e della politica estera. L’altro dossier su cui Mattarella interrogherà il premier è il rebus della squadra di ministri, sulla quale non avrebbe alcun diktat. Tra quelli su cui più si concentrerà, c’è il dicastero dell’Economia, e i nomi (tutti di tecnici) circolati finora erano giudicati adeguati. Anche per gli Interni pare che Conte, con il placet del presidente, voglia optare per un non politico perché, dopo la stagione di Salvini, serve un ministro da cui tutti si sentano garantiti. Resta in sospeso il giudizio sulle altre caselle, e qui s’innesta un problema divenuto rovente nel 2018. Fu quando Mattarella negò a Paolo Savona, evocatore della metafora del Cigno Nero che avrebbe dovuto spingere l’Italia a un Piano B per lasciare l’euro, il ministero dell’Economia. Un no da cui nacquero polemiche infinite e perfino una richiesta di impeachment dei 5 Stelle. Il tema rinvia all’articolo 92 della Costituzione, laddove recita che «il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri». Ora, posto che parlare di «potere duale» è magari troppo tranchant, la questione è semplice. Il potere valutativo e deliberativo, stando alla lettera della Carta, lo ha il Quirinale. E ciò vale anche se i costituzionalisti, da Costantino Mortati in giù, hanno sottolineato che la norma non va letta isolatamente, ma sullo sfondo della forma di governo di una Repubblica parlamentare e s’incrocia con gli sforzi per elaborare l’accordo di coalizione. Di qui il potere del presidente sarebbe condizionato dalla proposta del premier sulla base di quell’accordo, cosa di cui non può non tenere conto. In ogni caso, le osservazioni del Colle vengono di solito accolte. Alcuni precedenti rinfrescano la memoria: Scalfaro non volle Cesare Previti alla Giustizia nel primo governo di Silvio Berlusconi, e Giorgio Napolitano fece lo stesso con Nicola Gratteri per l’esecutivo di Matteo Renzi. Esempi di moral suasion che dovrebbero essere seguiti per correttezza costituzionale. È così, del resto, che questa prassi è stata acquisita come una consuetudine. Non essendo pensabile che quella del presidente sia solo una controfirma di ratifica.

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