La metamorfosi è compiuta. Nel discorso di ieri alle Camere, Giuseppe Conte ha sepolto la politica e le alleanze del suo alter ego al vertice di un esecutivo giallo-verde per quattordici mesi. Non ha cambiato solo maggioranza, ma toni e punti di riferimento. I due elementi di discontinuità sono il ritorno convinto all’ortodossia euroatlantica e l’impegno a riformare la legge elettorale. Si tratta dei perni intorno ai quali il governo tra M5S e Pd intende muoversi: per puntellarsi a livello internazionale e per difendersi da una destra forte nei sondaggi e decisa a evocare «mille piazze» contro la nuova coalizione. Il terzo elemento, l’appello alla sobrietà verbale, dovrebbe essere la premessa per rendere verosimili gli obiettivi quasi enciclopedici indicati al Parlamento. La Lega di Salvini e i FdI di Meloni scommettono su un collasso dell’esecutivo entro primavera; e dunque sul voto anticipato che Salvini ha maldestramente inseguito con la crisi, l’8 agosto. Delineano un’opposizione «di popolo» contrapposta al «Palazzo»: vecchio schema demagogico caro anche al M5S, e riesumato per l’occasione, che permette di coprire le responsabilità di un leader leghista vero regista involontario della formazione del governo «giallorosso».

Ma Salvini dovrebbe chiedersi come mai il capo di Forza Italia, Silvio Berlusconi, appaia altrettanto duro ma cauto sui metodi da usare contro quelli che bolla come «i due partiti comunisti»: Pd e M5S.

Nella «strategia della piazza» portata in modo concitato e un po’ surreale dentro il Parlamento si avverte una sottile disperazione, destinata a crescere se Conte riuscirà a governare e arginare gli istinti suicidi degli alleati: operazione non facile, è vero, viste alcune uscite di esponenti del Pd e del neoministro degli Esteri, Luigi Di Maio.

La sua espressione da sfinge di ieri alla Camera, durante il discorso sulla fiducia di Conte, insinuava il dubbio che Di Maio fatichi a accettare la nuova fase e la perdita della carica di vicepremier. Conte conferma invece di guardare all’intera legislatura, dopo essere succeduto a se stesso con apparente sangue freddo e stilettate verso l’ex alleato della Lega.

Eppure, solo la capacità di governare e non di galleggiare può rendere verosimile il traguardo del 2022, anno di elezione del nuovo capo dello Stato. Significa non offrire pretesti sulla politica migratoria, contando solo su una maggiore disponibilità dell’Europa. E riuscire a controllare le dinamiche centrifughe in atto nel Pd e in un M5S nel quale la leadership contrastata di Di Maio potrebbe rivelarsi un fattore di instabilità. L’identità irrisolta di ministro e «capo politico» promette di scontrarsi con la volontà di Conte di essere un premier senza vincoli di partito o di Movimento. Il governo nasce sovrastato dall’ombra del trasformismo, e osservato con diffidenza da un’opinione pubblica preoccupata dalla lunga crisi economica; e incattivita da una propaganda che ha dirottato paure e ansie soprattutto contro l’immigrazione incontrollata. E poco importa se la questione è stata pompata artificiosamente dalle opposizioni.

Conta la percezione che se ne ha. Dunque, per il governo vittoria o sconfitta si misureranno sulla capacità di combattere la narrativa dell’«invasione»; e di dimostrare che il fenomeno può essere governato senza far regredire i diritti umani.

Ma anche la strategia più efficace, appoggiata dalla Commissione europea con una redistribuzione automatica dei migranti in altri Paesi, non funzionerà senza un atteggiamento diverso dei soci del nuovo governo. M5S e Pd non possono convivere replicando comportamenti del passato. E non solo nei rapporti tra di loro. Per i grillini, accontentarsi di avere evitato il voto anticipato vorrebbe dire confermare di non credere più alla propria saga palingenetica; e di avere scelto di rimandare la resa dei conti con un ridimensionamento già in corso.

Quanto al Pd, l’idea di essere tornati al potere senza chiedersi i motivi della rottura con pezzi di elettorato, lo condannerebbe a un’identificazione devastante col «sistema» bocciato alle Politiche del 2018. Per Conte, la vera sfida sarà dunque con la propria maggioranza anomala e con la capacità di far ripartire l’economia italiana. Per paradosso, un’opposizione agguerrita dovrebbe aiutare a evitare errori marchiani e a compattarsi su questioni dirimenti. La riforma elettorale sarà una di queste. Si parla di ritorno al sistema proporzionale per scongiurare un trionfo della destra leghista, da parte di un governo raffigurato come sbilanciato a sinistra.

Attenzione, però: rimodellare il sistema «contro» qualcuno è sempre un rischio. Basta pensare ai precedenti, fino al 2018, quando fu approvata una pessima legge per fermare il M5S. Si è visto com’è finita.

La Gran Bretagna si sta avvicinando a grandi passi alla resa dei conti. La saga della Brexit può dimostrarsi ancora tra le peggiori dell’orda internazionale del populismo nazionalista odierno, oppure offrire il miglior esempio di reazione democratica. Per cogliere le opportunità di questa crisi servirà uno straordinario buon senso da parte di tutti gli elettori britannici desiderosi che il loro Paese resti fedele a se stesso. In passato si è parlato di voto tattico; questo sarà un voto esistenziale.
Rubricare il populismo britannico tra i peggiori del mondo potrebbe sembrare l’ennesimo esempio di arrogante presunzione da parte nostra. Peggiore dell’opera di demolizione della democrazia attuata da Viktor Orb á n in Ungheria? Peggiore di quanto riesce a fare Donald Trump ai danni dell’ordine internazionale? Però nessun altro populismo rischia di distruggere il Paese che si gloria di salvare. La fine del Regno Unito è un probabile esito della hard Brexit verso cui il primo ministro Boris Johnson sta portando il Paese a rotta di collo. La Brexit andrà inoltre a indebolire notevolmente sia l’Unione europea che l’Alleanza transatlantica.
Di sicuro rispetto ai parametri dell’Ungheria, per non parlare della Turchia o della Russia, il populismo britannico non sembra poi così malvagio; ma per una delle democrazie parlamentari più antiche e stabili del mondo è sconvolgente quanto accaduto a Westminster. Il partito conservatore, per almeno un secolo vasto santuario del centro destra, è diventato il Partito conservatore rivoluzionario. La scorsa settimana ha epurato 21 parlamentari, incluso il nipote di Churchill e due ex cancellieri dello scacchiere, che possono definirsi a buon diritto conservatori più di Johnson – e tanto più di Dominic Cummings, il suo consigliere mefistofelico, neppure iscritto al partito. Dimettendosi da ministra, Amber Rudd, deputata conservatrice della corrente “One Nation”, ha parlato di “attacco alla decenza e alla democrazia”. I rivoluzionari conservatori hanno imposto la più lunga sospensione dei lavori parlamentari dal 1930 a questa parte, con una motivazione palesemente falsa. «Il popolo non perdonerà mai i complottisti del Remain se non faranno marcia indietro» tuonava Jacob Rees-Mogg, leader conservatore della Camera dei comuni, sul Daily Mail di domenica, incurante del fatto che il popolo si è espresso attraverso le urne l’ultima volta nel 2017 dando vita proprio a questo parlamento di “complottisti del Remain”.
E a questo punto arrivano le buone notizie. Molti telespettatori in tutto il mondo hanno sorriso di fronte ai rituali antiquati della Camera dei comuni e al fare teatrale dello speaker. In realtà il Parlamento di Westminster è un vanto per noi britannici. Negli ultimi anni quei banchi rivestiti di pelle verde hanno visto grandi interventi, momenti di emozione profonda e raro coraggio in cui uomini e donne hanno anteposto sinceramente l’interesse nazionale a quello personale e di partito. Ora il Parlamento ha bloccato i bulli populisti approvando tempestivamente una legge che obbliga il governo a chiedere l’estensione dell’articolo 50 nel caso in cui entro il 19 ottobre non sia stato raggiunto un accordo con l’Ue e approvato dai parlamentari. Se Johnson dovesse rifiutarsi di farlo, come sta attualmente minacciando, infrangerebbe la legge e potrebbe anche finire in carcere.
Che prospettive ci sono? A detta dell’ex primo ministro Tony Blair si dovrebbe andare dritti a un secondo referendum. È proprio la meta giusta, ma in questo Parlamento non ci sono i numeri per approvare le norme necessarie. È anche possibile che Johnson rinunci a tutti i suoi punti fermi e si muova rapidamente in direzione di una versione lievemente modificata dell’accordo negoziato dal suo predecessore, Theresa May, che potrebbe essere approvata al vertice Ue del 17-18 ottobre e anche passare per il rotto della cuffia in questo Parlamento.
In assenza di questa improbabile svolta, il passo successivo sono le elezioni generali. Dato che Johnson è inaffidabile, i partiti dell’opposizione sono d’accordo di attendere fino a che non sia garantita l’estensione dell’articolo 50, prima di acconsentire ad andare al voto. Se Johnson rimetterà l’incarico piuttosto che chiedere l’estensione, si andrà a elezioni per un’altra strada. Per quanto la loro pazienza sia stata messa al dura prova, i 27 Paesi Ue farebbero cosa saggia a concedere un’estensione di almeno due mesi, con l’esplicita intesa che il Parlamento sovrano della Gran Bretagna indica le elezioni entro quel periodo di tempo. L’alternativa, il no-deal , è molto peggiore per entrambe le sponde della Manica e per le loro future relazioni.
In queste elezioni saranno avvantaggiati i fautori della hard Brexit , che hanno un unico chiarissimo obiettivo – far uscire la Gran Bretagna dall’Ue – e due sole forze politiche a cui dare il voto, il Partito conservatore rivoluzionario e il partito della Brexit di Nigel Farage, che potrebbero stringere un patto elettorale. «L’alleanza tra Boris e me sarebbe ‘imbattibile’» dice Farage.
La fazione opposta non ha un unico chiaro obiettivo.
Molti, a partire da me, sono favorevoli a un secondo referendum, altri aspirano solo a una Brexit più soft. E il nostro voto si divide potenzialmente tra sette soggetti politici, il Labour, i Liberaldemocratici, i Verdi, il partito nazionalista scozzese in Scozia, Plaid Cymru in Galles, il gruppo Indipendente e il gruppo, ormai piuttosto nutrito, degli ex parlamentari Tory, alcuni dei quali si presenteranno come conservatori indipendenti.
Per vincere queste elezioni sarà quindi necessaria una cooperazione senza precedenti tra i partiti di opposizione nei singoli collegi elettorali. Il Labour e i Lib Dem, soprattutto, dovrebbero concordare di fare ciascuno un passo indietro ogni qualvolta l’altro presenti un candidato pro referendum con maggiori possibilità di successo rispetto al proprio. Serviranno anche una mobilitazione senza precedenti, disciplina e abilità da parte degli elettori nell’identificare il candidato da supportare in ogni singolo collegio. Lo definisco voto esistenziale. La campagna People’s Vote promette consulenza online (mi auguro che raccomandino di sostenere conservatori indipendenti come Dominic Grieve). I social media e l’affluenza dei giovani alle urne saranno determinanti. Fonti governative hanno dichiarato a Katie Perrior, ex responsabile della comunicazione al numero 10 di Downing Street, che auspicano elezioni anticipate anche per evitare che le matricole si registrino al voto col rischio di influenzarne l’esito nelle città universitarie. Confido che questo rappresenti per gli studenti un’indicazione precisa sul da farsi.
L’analisi dei sondaggi recenti a opera del politologo Matthew Goodwin mostra in che misura questo voto esistenziale possa essere decisivo. Se i conservatori intercetteranno più della metà dei voti che oggi vanno al partito di Farage, otterranno la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento.
Se però Labour e Lib Dem realizzeranno un valido patto elettorale, si avrà in Parlamento una maggioranza favorevole al referendum.
Anche se i partiti di opposizione e gli indipendenti ottengono la maggioranza, bisogna che si mantengano uniti per legiferare in vista di un secondo referendum. Se si arriva a un secondo referendum, bisogna poi vincerlo. E se lo vinciamo ci aspetta comunque l’ardua impresa di dimostrare agli elettori che nel 2016 hanno votato per la Brexit, spesso per motivi che poco hanno a vedere con la realtà dell’Ue, che abbiamo ben presenti le loro istanze. Ma almeno esiste ancora una possibilità – forse l’ultima – che una delle più venerabili democrazie del mondo contribuisca a orientare la tendenza globale contro il populismo nazionalista.

Il favore con il quale cancellerie e mercati hanno salutato il ritorno dell’Italia in Europa sta alimentando una sindrome euforica. In particolare, all’interno della componente 5stelle del nuovo governo è diffusa la convinzione che ora da Bruxelles si potrà ottenere chissà quale “sconto” sulla prossima manovra di bilancio. Qualcosa in materia accadrà di sicuro: la neo-presidente von der Leyen lo ha già anticipato. Ma sarebbe davvero un imperdonabile spreco usare la credibilità ritrovata soltanto per dilatare il più possibile i margini di flessibilità che ci saranno offerti. L’autorevolezza e la serietà riconosciute a personaggi come Paolo Gentiloni e Roberto Gualtieri meritano di essere messe alla prova su un mandato ben più ambizioso che quello di ottenere qualche miliardo in più di occasionale indulgenza. Che poi aggraverebbe il peso del debito.

Il presidente Mattarella ha sollecitato l’Italia a operare da “protagonista” in Europa e il premier Conte bis gli ha fatto pronta eco nel suo discorso al Parlamento. L’attuale congiuntura economica offre al riguardo opportunità politiche propizie perché l’ombra scura della recessione si sta allungando un po’ su tutta l’Unione e segnatamente sull’economia trainante del sistema, quella tedesca. Come ha detto con forza la prossima presidente della Bce, Christine Lagarde, è ora e tempo che i Paesi in surplus siano i primi a impegnarsi in una massiccia campagna di investimenti. Parole che a Bruxelles rimbombano come un esplicito richiamo affinché la nuova Commissione si faccia promotrice di un rilancio della crescita con strumenti propri, ben più ampi ed efficaci del timido piano Juncker.
Per uscire dai suoi guai l’Italia ha molta pulizia contabile da fare in casa, ma ha non meno bisogno che sia l’Europa a riaccendere i motori con sue specifiche iniziative: per esempio i tanto discussi eurobond. Ecco un obiettivo degno dei Gentiloni e dei Gualtieri: inquadrare la soluzione dei problemi italiani in una chiave comunitaria. La recessione incombe e non aspetta di certo i tempi lunghi necessari per una revisione dei trattati.
Considerazioni analoghe si possono fare per un altro nodo che stringe al collo il nostro Paese, quello dei migranti. Qui la discontinuità con il governo precedente è assicurata, perché si può star certi che la prefetta Lamorgese non diserterà i vertici dei ministri dell’Interno, come era solito fare il suo predecessore. È
però indispensabile che essa si presenti a questi incontri con un mandato forte e chiaro. Salvini urlava in piazza contro gli accordi di Dublino ma poi sfuggiva ai vertici perché non voleva mettere il dito sulla piaga dei suoi sodali sovranisti dell’Est europeo renitenti, dietro il filo spinato, al dovere condominiale di accoglienza. Ecco una strada spianata per un’Italia “protagonista in Europa”. Si tratta di sanare una ferita infetta nel corpo dell’Unione ponendo i governi ribelli dinanzi a un secco aut aut: o assolvi ai tuoi obblighi di accoglienza oppure perdi le sovvenzioni comunitarie. Una simile svolta avrebbe anche risvolti politici di grande rilievo sia per la costruzione europea sia per il nostro Paese. In un colpo solo si taglierebbe l’erba sotto i piedi ai turbolenti sovranisti dell’Est come anche all’Ovest ai non meno pericolosi Salvini e Le Pen che campano di facile rendita elettorale sullo stallo in tema di migranti. Se lo si vuole, non mancano modi e mezzi per fare del bene insieme all’Italia e all’Europa.
Eia, Eia! Ban! Bannati. Alla fine ci hanno pensato Facebook e Instagram. Pare assurdo, ma è così. Laddove non sono riuscite la politica e la magistratura, a mettere un argine ai fascisti, sono arrivati loro: i social più utilizzati al mondo. Ban, cartellino rosso, stop. Il contrappasso perfetto.
Perché il botta e risposta tra il fascismo reale – quello dei saluti romani davanti al palazzo della Camera dei deputati – e il senso della democrazia della rete concreto, efficace nella sua istantaneità – si compie a distanza di pochissime ore. Il tempo di un clic, tanto basta ai social per buttarti fuori dal campo. Nello stesso giorno in cui sono tornati nella piazza fisica (piazza Montecitorio), CasaPound Italia e Forza Nuova vengono cacciati da quella virtuale. Decine di pagine e profili oscurati perché «chi incita e propaga odio» – «odio organizzato», badare bene – non «può trovare posto» sulle piattaforme di Facebook e Instagram. Risultato: i “fascisti del terzo millennio” (CPI) e le truppe nostalgiche del terrorista nero (impunito) Roberto Fiore si ritrovano di colpo imbavagliati e paralizzati sul terreno più fertile per fare proselitismo: i social network. Prima la scritta “nessun elemento visualizzato”, poi “nessun account trovato”, poi buio. Black out.
Pensare che questo 9 settembre 2019 per l’ultradestra era iniziato sotto una discreta stella. L’occasione ghiotta della manifestazione antigovernativa di Lega e Fratelli d’Italia, i tricolori (qualcuno con l’aquila della Repubblica di Salò), l’inno di Mameli. Il ricompattamento del fronte sovranista, e dunque anche loro, certo, i fascisti, ai quali il suicidio balneare del governo gialloverde ha offerto una nuova chance: tornare in scena. Accanto a Capitan Papeete, quello che chiese “pieni poteri”, e a Giorgia Meloni, l’ex pasionaria del Fronte della gioventù che parla il loro linguaggio. Rieccoli, dunque. Fiore col suo codazzo di teste rasate arriva a Montecitorio sfilando in via Del Corso dove le ugole nere inquadrate nelle solite file militari – cantano l’inno nazionale; le tartarughe di CasaPound – in testa i fratelli Simone e Davide Di Stefano – portano i loro il più vicino possibile al palco montato sotto la Camera. «Ladri di democrazia», «voto, voto!», «popolo sovrano». Tra i cori della piazza spuntano le braccia tese e i cappellini identitari. Non le bandiere perché, tricolore a parte, sono bandite. In rete iniziano a circolare i primi video, qualcuno carica vecchie foto di saluti romani e non ce n’è bisogno perché i saluti sono lì, freschi, live, tra piazza Montecitorio, piazza di Pietra, piazza Capranica e il Pantheon. Su Fb e Instagram il saluto romano è un emoji. La manina.
Sulle pagine forzanoviste e casapoundiste a mezzogiorno campeggiano manine e post entusiasti.
“Grandi camerati!”, “onore!”, “a noi!”, “non molliamo!”, come ripete tre volte Salvini sul palco. Il sole è ancora alto. Poi i social oscurano i fascisti. È come un’eclissi. Chiusi per odio. Rimossi per violenza (evocata e praticata). Mai prima d’ora Zuckerberg &co avevano espletato così efficacemente, e in modo netto, la loro funzione più nobile: quella di corpo intermedio. Un cuscinetto tra i predicatori del disprezzo e della discriminazione e chi difende la radice della nostra democrazia: l’antifascismo.
Abbiamo aspettato a lungo lo facesse la politica, qualche governo (anche di centrosinistra), la magistratura; abbiamo visto mille saluti romani in un cimitero derubricati a “commemorazione funebre”, gli ultrà della Lazio celebrare Mussolini a 50 metri da piazzale Loreto, i comizi pro-regime sulle spiagge che diventano “libera articolazione del pensiero”. Ci voleva Facebook a ricordarcelo: «Il fascismo non è un’opinione, ma un crimine».
Giuseppe Conte è il primo presidente del Consiglio capace di ripresentarsi in Parlamento per la fiducia pronunciando, a soli 14 mesi di distanza, due discorsi di insediamento praticamente opposti. Il primo, nel giugno del 2018, per rivendicare le ragioni del blocco populista tra M5S e Lega e il secondo, ieri, per ufficializzarne il superamento. A differenza del vate Gabriele D’Annunzio, che nel 1897 lasciò i banchi della Destra storica per quelli della Sinistra proclamando in Aula «vado verso la vita», Conte non ha dovuto enfatizzare la svolta né lo spostamento: è rimasto là dove l’avevamo lasciato prima della crisi, con un cupo Di Maio seduto al fianco ma senza più Salvini sul lato destro. Il suo discorso ha messo il sigillo sull’opera di desalvinizzazione del Palazzo – non poca cosa, sia chiaro – ma lascia aperti i dubbi sul funzionamento dell’alleanza che dovrà ora governare. Nel Paese reale, per estirpare il salvinismo, non basterà la somma matematica di Pd e M5S né la vastità dei programmi sciorinati ieri da Conte, ancora ambigui su tanti punti, a cominciare dal destino dei decreti sicurezza.
Può lasciare interdetti, ma è comunque comprensibile l’entusiasmo con il quale i deputati del Pd hanno applaudito in Aula alcuni passaggi contundenti che il presidente del Consiglio ha voluto riservare alla Lega: se è lecito coltivare dubbi sulla fulmineità della conversione di Conte all’anti-sovranismo, meno lo è sulla sua volontà di cambiare pagina. Si è calato nella nuova parte con convinzione e questa è una buona premessa. Ha fissato alcuni paletti strategici, su tutti l’intenzione di governare senza gli strepiti della propaganda. Resta da capire quanto profondamente abbia compreso che non gli sarà possibile interpretare il ruolo come ha fatto nella stagione giallo-verde. Non è scontato che ci riesca, anche perché una quota consistente della fortuna che ha accumulato in questi mesi, sotto forma di gradimento popolare, nasce proprio dalla sua figura di tenace mediatore tra i litiganti Salvini e Di Maio. Fortuna personale, s’intende, non certo politica: il governo che guidava fino a poche settimane fa ha precipitato il Paese in una perenne e stremante campagna elettorale e una delle ragioni del suo precoce fallimento sta anche nel ruolo di notaio del contratto che i suoi due ex datori di lavoro avevano ritagliato per lui. Una figura chiamata ad apparire solo per conciliare le controversie tra le parti, in uno schema nel quale Lega e M5S non potevano né dovevano essere disturbate mentre inseguivano ciascuna il proprio tornaconto particolare: il reddito di cittadinanza per gli uni e quota 100 sulle pensioni per gli altri, le misure anti-casta per i grillini e quelle securitarie per i leghisti. Il governo era un juke box dal quale ognuno voleva ascoltare solo il proprio pezzo e la missione di Conte era disciplinare la fila davanti all’apparecchio, quando possibile. Spesso non lo era. Il contratto era il megafono di una propaganda senza sosta. L’eco delle nuove promesse serviva a coprire il tonfo delle precedenti, comprese quelle in apparenza realizzate, come il reddito e quota 100, ma solo al prezzo di pesanti cambiali che dovrà essere il nuovo governo a onorare.
Ora il rischio di ricominciare come prima è altissimo. A differenza di Conte, infatti, una delle parti di questa alleanza a forza, il M5S, non sembra essersi calata nel nuovo scenario. Anzi, restituisce l’impressione di voler replicare la competizione di prima, solo con l’ambizione di cambiare parte: da clan perdente a vincente. A osservare le mosse di Di Maio in questi giorni, la sua comunicazione che alterna pause sincopate e scoppi di ingiustificato trionfalismo, il leader M5S sembra superare il dolore per la perdita della più affine alleanza con Salvini solo nei momenti in cui coltiva l’ambizione di ricalcarne le mosse da raider del consenso: la scelta del ministero giusto, le adunate dei ministri fuori contesto, la vocazione al proclama e all’imposizione della propria salvifica ricetta. Se Conte pensa di poter continuare il suo percorso di aspirante padre della patria lasciando correre parallele le agende di Pd e M5S, per poi provare a mediare tra le parti, potrebbe aver sbagliato i conti. Il primo obiettivo del nuovo governo è stato isolare Salvini. Il secondo deve essere sottrarre il Paese allo schema di gioco del leader della Lega: la campagna elettorale permanente. Per riuscirci, servirà un Conte meno arbitro e più leader. Dal circo di prima è riuscito a uscire da statista, ma se lo spettacolo riprende, stavolta l’uscita dal tendone potrebbe essere meno trionfale anche per lui.

La tentazione della «ola» è palpabile. Si percepisce tra le righe delle dichiarazioni targate Pd, si tocca sui media a più marcata propensione europeista (alleluia, i barbari sono stati bloccati alle porte di Roma!). Tuttavia gli entusiasmi sono assai prematuri: le ragioni che hanno determinato l’ascesa impetuosa di Matteo Salvini in Italia e dei suoi sodali in gran parte dell’occidente sono ancora tutte lì, sul tavolo. Certo, l’ultimo tassello, Paolo Gentiloni che oggi va a rappresentarci in Commissione, laddove sino alla sbornia salviniana del Papeete ci sarebbe stato un leghista, spinge ancora di più in questa direzione. Il Foglio gli dedica un peana, integrando le riflessioni continentali di Paul Taylor su Politico Europe: il populismo ha raggiunto il suo picco? (Ovvero: da questo punto in poi può solo declinare?). Un filotto di eventi pare deporre a favore di questa ipotesi. Il più noto a noi è ovviamente il bizzarro suicidio politico di Salvini, che si è estromesso dal ponte di comando mentre pareva avesse in mano il Paese. Suicidio aggravato, sul piano dell’immagine, dalla disperata offerta di una nuova coalizione ai Cinque Stelle con Di Maio premier: cosa che lo ha scaraventato nei trend topic di Twitter come un poveretto che si aggira per le stanze del Quirinale chiedendo direstare attaccato a una poltrona purchessia («mi va bene anche un sottosegretariato», gli fa dire ghignando Osho). Considerato che Salvini era visto in Europa come il frontrunner dei sovranisti continentali, l’analisi gioiosa degli europeisti non appare così stravagante. A Salvini si aggiunge un secondo, apparente suicidio: quello di Boris Johnson, che caricaatesta bassa contro il Parlamento inglese ma ne viene respinto più volte, rimettendo in questione tempi e modi della Brexit. Non è finita. Macron, dopo l’inverno sciagurato dei gilet gialli, appare in ripresa. L’Afd ha vinto ma non stravinto in Sassonia e Brandeburgo e comunque non ha sorpassato le forze di sistema e non governerà. E poi c’è l’Austria, che per prima fece saltare il banco sovranista causa scandali. Persino Trump, ogni volta che decide di dare una coltellata sui dazi alla Cina, viene indotto dai sussulti della Borsa a ritrarre in parte il colpo: se solo i democratici trovassero un candidato plausibile e un po’ meno anziano di Biden la partita della rielezione sarebbe da discutere. Dunque alleluia! Ma è davvero così? Come in tutti i ragionamenti davanti a un bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno tocca fare attenzione. Perché la parte di bicchiere sovranista ha ancora molte bollicine. Restando all’Italia, innanzitutto, Salvini non è affatto spacciato, anzi, sta ancora lì con tutto il suopotenziale.Nando Pagnoncelli sul Corriere gli attribuisce un 34%. Certo, quattro punti in meno del 38 dove s’era arrampicato nei sondaggi di giugno, ma la stessa percentuale ottenuta alle Europee di maggio, quando tutti lo osannavano. Sempre Pagnoncelli ci offre due grossi spunti diriflessione. Il governo neonato ha il 52% del Paese contro. E sul tema dei temi, l’immigrazione, solo una sparuta minoranza vuole cambiare registro rispetto al salvinismo. Sarà indispensabile una politica accorta sul piano della comunicazione dei provvedimenti (quali?) se si vorrà risalire la china. In inghilterra Nigel Farage è più che mai popolare e il suo Brexit Party potrebbe mietere ulteriori consensi dalla eventuale fine di Boris Johnson. La Francia resta comunque contendibile. E così, soprattutto, restano irrisolte le questioni che hanno mutato l’animo degli elettori negli ultimi anni: la paura e la povertà, l’immigrazione e la spoliazione globalista dei ceti deboli. I forgotten men sono ancora lì, nei sobborghi industriali dimenticati, nelle nostre periferie abbandonate. I sovranisti, è vero, hanno evidenziato fin qui il paradosso che può annientarli: sono capaci di dare voce ai proble-mi ma si dimostrano alla prova del nove inadatti a risolverli in società complesse come quelle contemporanee. Le loro risposte binarie non reggono alla prova dei fatti, si schiantano su contrappesi, parlamentarismo, necessaria competenza di chi è chiamato a decidere. Però proprio nella risposta semplice (e comprensibile) sta ancora la chiave emotiva del loro successo. Il politologo William Davies in un libro splendido sull’emotività assurta al potere («Stati nervosi») mette in parallelo nelle sindromi postraumatiche da stress gli atti di autolesionismo individuali e quelli collettivi: c’è qualcosa di peggio del dolore, dice, ed è la totale perdita di controllo. Per ritrovare la sensazione del controllo (sui propri sentimenti, sul proprio destino in un mondo che ci bombarda di stimoli e richieste) «anche gruppi privati di diritti potrebbero arrivare a sabotare la propria prosperità se solo questo garantisse un po’ più di controllo sul loro futuro». Sembra la terribile diagnosi della Brexit ma si può applicare alla seduttività delle ricette economiche di molti Stranamore nostrani. Davies parla di «politica del sentimento». In un mondo dove «caratteristiche intrinseche degli umani – paura, dolore e risentimento – sembrano avere di nuovo invaso la politica», spiega, l’unica via è cogliere l’occasione per ascoltarle: e capirle. In sostanza, diremmo noi, si tratta di un furto a fin di bene, rubare al sovranismo la sua sola vera arma: l’empatia (o più spesso la sua mera apparenza) con gli invisibili e i senza voce. Magari aggiungendovi qualche granello di verità.

La metamorfosi è compiuta. Nel discorso di ieri alle Camere, Giuseppe Conte ha sepolto la politicaele alleanze del suo alter ego al vertice di un esecutivo giallo-verde per quattordici mesi. Non ha cambiato solo maggioranza, ma toni e punti di riferimento. I due elementi di discontinuità sono il ritorno convinto all’ortodossia euroatlantica e l’impegno a riformare la legge elettorale. Si tratta dei perni intorno ai quali il governo tra M5S e Pd intende muoversi: per puntellarsi a livello internazionale e per difendersi da una destra forte nei sondaggi e decisa a evocare «mille piazze» contro la nuova coalizione. Il terzo elemento, l’appello alla sobrietà verbale, dovrebbe essere la premessa per rendere verosimili gli obiettivi quasi enciclopedici indicati al Parlamento. La Lega di Salvini eiFdI di Meloni scommettono su un collasso dell’esecutivo entro primavera; e dunque sul voto anticipato che Salvini ha maldestramente inseguito con la crisi, l’8 agosto. Delineano un’opposizione «di popolo» contrapposta al «Palazzo»: vecchio schema demagogico caro anche al M5S, e riesumato per l’occasione, che permette di coprire le responsabilità di un leader leghista vero regista involontario della formazione del governo «giallorosso».

Ma Salvini dovrebbe chiedersi c om e mai il capo di Forza Italia, Silvio Berlusconi, appaia altrettanto duro ma cauto sui metodi da usare contro quelli che bolla come «i due partiti comunisti»: Pd e M5S. Nella «strategia della piazza» portata in modo concitato e un po’ surreale dentro il Parlamento si avverte una sottile disperazione, destinata a crescere se Conte riuscirà a governareearginare gli istinti suicidi degli alleati: operazione non facile, è vero, viste alcune uscite di esponenti del Pd e del neoministro degli Esteri, Luigi Di Maio. La sua espressione da sfinge di ieri alla Camera, durante il discorso sulla fiducia di Conte, insinuava il dubbio che Di Maio fatichi a accettare la nuova fase e la perdita della carica di vicepremier. Conte conferma invece di guardare all’intera legislatura, dopo essere succeduto a se stesso con apparente sangue freddo e stilettate verso l’ex alleato della Lega. Eppure, solo la capacità di governare e non di galleggiare può rendere verosimile il traguardo del 2022, anno di elezione del nuovo capo dello Stato. Significa non offrire pretesti sulla politica migratoria, contando solo su una maggiore disponibilità dell’Europa. E riuscire a controllare le dinamiche centrifughe in atto nel Pd e in un M5S nel quale la leadership contrastata di Di Maio potrebbe rivelarsi un fattore di instabilità. L’identità irrisolta di ministro e «capo politico» promette di scontrarsi con la volontà di Conte di essere un premier senza vincoli di partitoodi Movimento. Il governo nasce sovrastato dall’ombra del trasformismo, e osservato con diffidenza da un’opinione pubblica preoccupata dalla lunga crisi economica; e incattivita da una propaganda che ha dirottato paure e ansie soprattutto contro l’immigrazione incontrollata. E poco importa se la questione è stata pompata artificiosamente dalle opposizioni. Conta la percezione che se ne ha. Dunque, per il governo vittoria o sconfitta si misureranno sulla capacità di combattere la narrativa dell’«invasione»; e di dimostrare che il fenomeno può essere governato senza far regredireidiritti umani. Ma anche la strategia più efficace, appoggiata dalla Commissione europea con una redistribuzione automatica dei migranti in altri Paesi, non funzionerà senza un atteggiamento diverso dei soci del nuovo governo. M5S e Pd non possono convivere replicando comportamenti del passato. E non solo nei rapporti tra di loro. Per i grillini, accontentarsi di avere evitato il voto anticipato vorrebbe dire confermare di non credere più alla propria saga palingenetica;edi avere scelto di rimandare la resa dei conti con un ridimensionamento già in corso. Quanto al Pd, l’idea di essere tornati al potere senza chiedersi i motivi della rottura con pezzi di elettorato, lo condannerebbe a un’identificazione devastante col «sistema» bocciato alle Politiche del 2018. Per Conte, la vera sfida sarà dunque con la propria maggioranza anomala e con la capacità di far ripartire l’economia italiana. Per paradosso, un’opposizione agguerrita dovrebbe aiutare a evitare errori marchiani e a compattarsi su questioni dirimenti. La riforma elettorale sarà una di queste. Si parla di ritorno al sistema proporzionale per scongiurare un trionfo della destra leghista, da parte di un governo raffigurato come sbilanciato a sinistra. Attenzione, però: rimodellare il sistema «contro» qualcuno è sempre un rischio. Basta pensare ai precedenti, fino al 2018, quando fu approvata una pessima legge per fermare il M5S. Si è visto com’è finita.

Cernobbio ha fretta. Sin dai primi commenti degli imprenditori convenuti all’annuale meeting Ambrosetti l’impressione è stata che il mondo del business, e per estensione le élite, volessero mettersi alle spalle l’ultima stagione politica e voltar pagina il più presto possibile. Un sentimento che è comprensibile ma ha due punti deboli. Primo: esagera la discontinuità del Conte 2 che per ora è solo un governo «di sollievo».

Secondo: contiene in sé il rischio di riprendere «i discorsi di prima», come se niente fosse cambiato nel frattempo. La stessa considerazione vale per gli equilibri europei, gli speaker stranieri di Cernobbio festeggiando lo scampato pericolo tradiscono anch’essi la voglia di girar pagina di botto ma la prima impressione è che molti di loro finiscano immediatamente per incorrere negli stessi errori, proprio quelli che avevano concorso a spalancare le porte al populismo. Prendiamo la politica in senso stretto. Non c’è dubbio che sovranisti e populisti abbiano stravolto il modo di relazionarsi agli elettori seguito in precedenza dalle coalizioni di tipo tradizionale. Il primato assegnato alla comunicazione ha rivelato sicuramente i suoi limiti ma come la famosa talpa ha scavato e in profondità. Le opinioni pubbliche, loro malgrado, hanno imparato a «consumare politica» in maniera assai diversa dal passato e tutto ciò non si cancella facilmente. Penso non solo all’utilizzo di differenti piattaforme (le dirette Facebook invece delle interviste, i tweet invece dei comunicati) ma anche alle tecniche più spregiudicate. L’uso del capro espiatorio, la volontà di apparire simili in tutto all’italiano medio comprese le debolezze gastronomiche, la modalità della campagna elettorale continua sono tutte novità che hanno determinato spostamenti di consensi con una velocità inedita. Nessuno evidentemente suggerisce ai frettolosi un copia e incolla, né di operare una mutazione genetica della propria cultura politica ma di riflettere sulla «dittatura» della comunicazione, prima di rituffarsi nello spreco quotidiano di interviste, questo sì. C’è molto da reinventare ma è un compito affascinante, non un’umiliazione. Un secondo elemento riguarda il rapporto tra presente e futuro. Gli europeisti sono razionali e ottimisti, ragionano e progettano muovendosi per scenari, più la palla viene buttata lontano più loro si esaltano. Rifiutando la politica take away non devono però regalare il presente ai sovranisti. Fuor di metafora il presente è fenomenologia del reale, è ricognizione continua di ciò che avviene, è analisi delle contraddizioni e insieme capacità di affrontarle prima che diventino materia della propaganda degli avversari. Non sto chiedendo che un sociologo venga chiamato a parlare a Cernobbio (è più facile che il ricco passi per la cruna dell’ago) ma che le élite seguano i movimenti della società anche se smentiscono i loro scenari. La straordinaria avanzata di Matteo Salvini grazie alla parola d’ordine dei porti chiusi non parte proprio dal fatto che le forze dell’accoglienza avevano sottovalutato ansie e contraddizioni della società italiana davanti al tema dell’immigrazione? Così quando dai nuovi governanti italiani sento parlare di riformismo radicale divento pensieroso: se proprio dovessi aggiungere un aggettivo a quel sostantivo sceglierei «efficace», perché in Italia non sono mancate le riforme ideologiche ma la capacità di produrre reali svolte nelle culture e nei comportamenti. La verità è che la lunga scia della Grande Crisi ha scucito la nostra società, ha accentuato tutti gli elementi di divisione e quelli che una volta eravamo abituati a chiamare «mondi» oggi ci appaiono come delle tribù. Per ricucire il tessuto civile la politica da sola non può farcela, avrebbe bisogno di mani forti attorno a sé ma purtroppo l’azione delle grandi agenzie pedagogiche (la scuola, la Chiesa, le associazioni, i giornali) si è slabbrata nel frattempo. Rimontare senza di loro è pressoché impossibile, il vero ribaltone è un’operazione che si fa in tanti, non in pochi. E la fretta non aiuta.

Vanno in soffitta le idee antieuropeiste. L’Italia non batterà i pugni sul tavolo a Bruxelles: passa rapidamente da Paese anti-Europa a Paese europeista. Il segno è dato dai primi atti: lo scambio con Bruxelles, di Roberto Gualtieri che lascia la presidenza della Commissione per i problemi economici e monetari del Parlamento europeo per diventare ministro dell’Economia e delle finanze.

D all’altra part e P a olo Gentiloni, già ministro delle Comunicazioni e degli Esteri, nonché presidente del Consiglio dei ministri in Italia, viene designato quale commissario europeo, dove, per le sue passate esperienze, potrebbe aspirare a un portafoglio importante. Questo cambiamento radicale non serve solo a cercare di portare lo spread sotto quota 100 eanegoziare con successo il livello del deficit (il governo deve inviare alla Commissione europea entro il 15 ottobre il documento programmatico di bilancio 2020). È anche un atto dovuto alla nostra storia, alla nostra Costituzione, ai nostri interessi, ed è necessario per la buona salute del nostro sistema politico. L’aspirazione europea dell’Italia è antica, e si è rinnovata negli anni 40 del secolo scorso. Pochi giorni prima di morire, il 19 agosto del 1954, Alcide De Gasperi scriveva a Fanfani di avere una spina, di temere per le difficoltà di avviare la costruzione europea. Il Trattato della Comunità fu firmatoaRoma nel 1957. Il patto fu rinnovato e arricchito a Maastricht nel 1992 eaLisbona nel 2007. Con una delle poche modifiche della Costituzione, vi fu introdotto, nel 2001, il principio secondo cui le leggi del Parlamento non debbono rispettare solo la Costituzione ma anche i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. Quindi, l’antieuropeismo viola un mandato costituzionale. La soluzione di quasi tutti i nostri problemi passa attraverso l’Unione. Persino Salvini, quando impediva lo sbarco di immigrati, spiegava il suo diniego con la necessità che l’Unione europea si occupasse della loro distribuzione tra i Paesi europei. Il suo sovranismo passava, dunque, non per meno, ma per più Europa. Giuseppe Mazzini si batteva perché l’Italia divenisse una nazione, spiegando che, altrimenti, i sette Staterelli sarebbero rimasti inascoltati nel «concerto delle nazioni» e che avrebbero potuto contare solo se uniti. Il problema si ripresenta oggi in un mondo che è divenuto più vasto e dominato da potenze come gli Stati Uniti, la Cina, l’India. Si è aggiunto, nel secolo passato, quello che un grande europeista ha chiamato l’«orrore delle ecatombi» (ricordiamolo sempre: i due conflitti mondiali della prima parte del secolo hanno provocato morti e distruzioni, facendo sparire nella sola Europa un numero di persone pari alla popolazione italiana attuale). C’è un’altra ragione per cui l’Italia ha il dovere di restare nell’Unione e cercare di rafforzarla: il timore del cesarismo, un motivo sotterraneo, sempre presente nella nostra storia, da Francesco Crispi, a Mussolini, all’Italia repubblicana. Questo timore è una forza potente, sempre presente, spesso rinverdita (Salvini vi ha contribuito non poco, parlando di pieni poteri e invocando rivolte popolari contro i giudici e il Parlamento). Napoleone I e Napoleone III avevano già il controllo del governo quando assunsero pieni poteri e indissero plebisciti. L’Unione europea è la forza che può contrastare l’affermazione di poteri autoritari all’interno di una nazione. L’europeismo è, infine, un atto dovuto non solo perché l’Italia fa parte della civiltà europea, dal punto di vista culturale, economico, sociale, di Sabino Cassese ROMAE BRUXELLES L’EUROPAUNATTODOVUTO ma anche perché ormai più di metà del nostro ordinamento, delle nostre leggi, degli organi pubblici, è disegnata secondo modelli che abbiamo costruito insieme con gli altri Stati europei, per cui allontanarsene è impossibile, come dimostra l’infelice idea britannica della secessione, che ha finora solo provocato il caos in quello che una volta era il più ammirato sistema politico del mondo. In conclusione, la partecipazione dell’Italia all’Unione è un atto dovuto, necessario non solo per le nostre convenienze di breve periodo. La retorica nazionalistica e separatista serve solo a marginalizzarci. Al contrario, la collaborazione stabile e leale con gli altri Paesi europei serve a noi ealoro, ed è utile anche a riempire quel «vuoto di egemonia» che un minore impegno delle classi dirigenti e le contestazioni strumentali hanno prodotto. Ben venga allora una «nuova intesa» con l’Europa.

Poche settimane fa è stato pubblicato un importante documento della Business Round Table, autorevole associazione americana che ha come scopo quello di favorire l’approfondimento dei maggiori problemi che riguardano le grandi imprese. Il documento, firmato dai 181 massimi responsabili di tutte le maggiori aziende degli Stati Uniti a partire da Google, Amazon e Coca Cola, ha fatto grande rumore perché ha mutato la precedente dottrina dominante che poneva come obiettivo esclusivo dell’impresa l’interesse degli azionisti, cioè dei suoi proprietari. Pur non rinunciando ovviamente a questo primario obiettivo, vengono aggiunti con insistita enfasi anche altri valori come l’attenzione per i diritti dei consumatori, le attese dei dipendenti, la necessità di un comportamento etico con i fornitori e gli obblighi nei confronti della comunità, con una specifica attenzione all’ambiente. Di per sé non si tratta di affermazioni del tutto rivoluzionarie, perché concetti analoghi sono contenuti in documenti assai precedenti nel tempo, tra i quali i ripetuti rapporti di varie organizzazioni delle Nazioni Unite e, soprattutto, un approfondito “Libro Verde” della Commissione Europea risalente al luglio del 2001.

Il documento della Commissione Ue, usando il termine di “Responsabilità Sociale dell’Impresa”, elencava priorità assai simili, come la conciliazione fra lavoro e famiglia, la salute e la sicurezza nell’attività lavorativa. Ad essi aggiungeva la necessità di aprirsi alla società, con una particolare attenzione alla comunità locale, all’ambiente, alle esigenze dei fornitori e dei consumatori, con l’obbligo di una completa trasparenza delle informazioni sulla situazione dell’impresa e la politica aziendale. Pur avendo direttamente partecipato alla stesura del “Libro Verde” sono costretto a riconoscerne lamodestia dei risultati, dato che le sue conclusioni sono state tradotte in semplici appelli alla volontarietà dei comportamenti senza che nascessero decisioni concrete per fare evolvere in modo sensibile gli aspetti legislativi che regolano i comportamenti delle grandi imprese. Ci si deve quindi porre il problema se il mutare dei tempi e l’autorevolezza dei partecipanti alla Round Table possa permettere a questo nuovo documento di produrre conseguenze più significative rispetto alle assai simili conclusioni di quelli precedenti. La percezione generale nei confronti del mondo delle grandi imprese è infatti, negli ultimi anni, notevolmente peggiorata in conseguenza della crisi economica ma, soprattutto, per effetto della incontrollata crescita della quota dei profitti nei confronti dei salari, per le remunerazioni senza precedenti degli alti dirigenti e per lo sconfinato potere delle nuove imprese che gestiscono l’informazione, divenute il simbolo popolare dell’evasione fiscale e dell’attentato alla privacy nella gestione dei dati. È nello stesso tempo aumentata la consapevolezza dei consumatori nei confronti della qualità dei prodotti e della loro incidenza sull’ambiente. Di conseguenza non poche imprese, in risposta a queste nuove sensibilità, hanno preso sul serio il problema della loro responsabilità sociale. Quest’insieme di fenomeni ha generato infine una critica radicale nei confronti delle regole del mercato perfino in paesi, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, che erano i paladini dell’indiscusso e totale potere degli interessi degli azionisti nel determinare le strategie aziendali. L’attenzione nei confronti di nuovi obiettivi, che integrano e modificano quelli tradizionali, é quindi figlia dei mutamenti dei tempi e degli errori del passato. Non può essere perciò unamoda passeggera,ma un cambiamento necessario per la sopravvivenza stessa dell’economia di mercato. Affinché i nuovi obiettivi possano essere effettivamente raggiunti sono necessarimutamenti sostanziali nei comportamenti concreti delle imprese, riguardo ai quali i componenti della Round Table difficilmente troverebbero un accordo. In primo luogo si deve infatti rispondere all’interrogativo su come si debbano concretamente fissare gli obiettivi aziendali e chi abbia il potere di farlo. Si ritorna con questo a mettere fatalmente in discussione il ruolo e i poteri dei governi, facendo riemergere l’antico dilemma fra la collaudata debolezza dei processi di autoregolamentazione e i rischi di un’invadente presenza dello Stato. Credo perciò che sia giunto il momento, anche in Italia, di affrontare questo dilemma in cui si trova ogni sistema di economia dimercato che deve fare i conti con una società in rapido cambiamento e consapevole dei nuovi valori, ma che opera ancora con regole che non sono in grado di rispondere a queste nuove sensibilità. Il crescente distacco dei cittadini nei confronti della politica è infatti dovuto all’incapacità della politica stessa di rendersi conto che ogni sistema economico, anche semplicemente per sopravvivere, ha l’obbligo di rispondere ai mutamenti della società in cui opera.