Buongiorno. Di Maio e Zingaretti si vedono all’ora di cena dopo una giornata dedicata a far decollare l’alleanza della nuova coalizione giallorossa con l’incontro dei capigruppo di Camera e Senato. Conte premier o salta tutto dice Di Maio a Zingaretti che risponde picche e chiede se i Cinquestelle stiano ancora trattando con Salvini. Di Maio svicola. O meglio, spergiura. Perché Salvini non si rassegna e aspetta una risposta per lunedì mattina. L’offerta per Di Maio è la presidenza del consiglio di una riedizione del governo gialloverde. Buona lettura a tutti.













“Conte premier oppure salta tutto”. Di Maio pronto a trattare con Salvini. Il leader grillino dà 24 ore di tempo ai democratici per rispondere e non esclude più il voto anticipato (Stampa p.3). «Se accetti, Gentiloni a Bruxelles». Il capo dem: «Le danze sono aperte». Torna l’ipotesi elezioni. (Messaggero p.3). Di Maio: “Lui o niente”. Ma ha un’altra carta il ritorno da Salvini Nega a Zingaretti di voler tornare indietro, però ha in mano l’offerta della Lega: il capo 5S a Palazzo Chigi, quello leghista al Viminale e Giorgetti all’Economia. (Repubblica p.3).
Il piano diabolico per uccidere Salvini. Scrive Tommaso Labate sul Corriere: “i due leader di Pd e M5S una terza via ce l’hanno. Un governo con l’unico scopo di approvare una legge elettorale proporzionale e sbarrare la strada ai «pieni poteri» di Salvini. Un piano diabolico, che consentirebbe a entrambi di darsi appuntamento dopo il voto. E stavolta per fare sul serio”.
Editoriali (prova).
Salvini apre sui dieci punti e pensa a Di Maio premier. L’idea di un’offerta esplicita per Palazzo Chigi. Giorgetti: «Sono pronto ad andare all’opposizione». (Corriere p.11). Salvini ora ci crede: “Non sto bluffando. Voglio convincere il Movimento”. Contatti Lega-M5S. Molinari: “Le parole di Di Battista dimostrano che non tutti i grillini vogliono il Pd”. (Stampa p.5). Salvini adesso ci spera: pace possibile con M5S. Il leader della Lega: sono disposto a incontrare Di Maio anche di notte. Nel partito aumentano i mugugni: «Strategia perdente, stiamo a vedere». (Messaggero p.7). Giorgetti e il decalogo 5S. “Ma quei punti erano già nel nostro contratto. Tornare indietro? Certo non si poteva andare avanti così E ripeto: l’autonomia non nuoce al Sud”. (Repubblica p.6).
Il racconto della crisi.
O Conte premier o il voto. Anche se Luigi Di Maio è tentato di soffiare sulla cenere del forno della Lega per riaccendere il fuoco e bruciare ogni previsione. La cena si è tenuta in una casa privata a Roma. Da una parte del tavolo il capo politico del M5S. Dall’altra, il segretario del Pd, Zingaretti. Entrambi sanno che bisogna fare in fretta. E hanno ragioni che li spingerebbero verso il sabotaggio dell’accordo. Tre condizioni pone Di Maio. Il taglio dei parlamentari che i 5 Stelle vogliono sia calendarizzato e votato a settembre, la convergenza su tutti gli altri punti del decalogo annunciato al Quirinale a partire da una legge sul conflitto di interessi e la riconferma di Conte a Palazzo Chigi. Ma è una soltanto, alla fine, quella su cui si concentra la cena: il bis del premier dimissionario. «Vorrei una risposta entro 24 ore» dice Di Maio. Ilario Lombardo sulla Stampa.
Due forni? «Noi abbiamo bisogno di sapere se c’è ancora la possibilità che facciate una maggioranza con la Lega». «Non c’è questa possibilità». A casa di Vincenzo Spadafora, sottosegretario a Palazzo Chigi del governo dimissionario non c’è ancora traccia del «segnale chiaro» che la delegazione del Pd ha chiesto a quella dei M5S dopo l’incontro del pomeriggio. Un’ora e mezzo dopo la dichiarazione non c’è ancora. Ma c’è qualcosa di più: Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio sono faccia a faccia per il primo vertice giallorosso di un governo che forse nasce a giorni, forse non nascerà mai. Tommaso Labate sul Corriere.
Alternativa. «Il fatto che vogliate farci scegliere tra me o lui non esiste». Non c’è alternativa a Conte, dice, ben sapendo che è l’unica richiesta che risulta indigeribile al leader Dem ma non a tutti gli altri big del Pd. «Noi abbiamo notizie che i renziani ci starebbero». Ilario Lombardo sulla Stampa
Due giorni. Il segretario del Pd ha un paio di giorni per decidere, al massimo qualche ora in più. Poi il blog del Movimento sconfesserà l’alleanza con i dem. E consumerà un clamoroso ribaltone nel ribaltone. Perché mentre tratta con Zingaretti, Di Maio riceve un WhatsApp da Matteo Salvini. Il nuovo nemico gli propone di sposarsi ancora. Con uno schema clamoroso: il capo 5S premier, Salvini al Viminale, Giorgetti all’Economia, Conte alla Concorrenza in Europa. Tommaso Ciriaco su Repubblica.
La trappola. «È una trappola, meglio non andarci», lo consiglia qualcuno dei suoi. E invece Zingaretti non solo ci va. Ma ci va con le spalle coperte. Il segretario del Pd telefona a Renzi. «Mi ha chiamato Di Maio per incontrarci. Mi proporrà Conte premier e io gli dirò di no. Tu da che parte stai?», è la richiesta secca. «Da quella del Pd. E quindi dalla tua», è la risposta di Renzi. Tommaso Labate sul Corriere.
L’altro forno. Perché la sfida di Di Maio nasconde un motivo inconfessabile: il vicepremier ha già riavviato il dialogo con Matteo Salvini. Con Zingaretti nega decisamente, «parlo sono con il Pd, la Lega è un capitolo chiuso». Ma in realtà esiste uno schema già pronto. Ne hanno discusso anche i pontieri grillo-leghisti, chiedendo ai vertici cinquestelle una risposta entro le 10 di lunedì mattina. Tommaso Ciriaco su Repubblica.
Whatsapp. «Non sto bluffando» continua a dire Salvini a chi gli riporta i timori dei 5 Stelle che in realtà li stia attirando a sé per poi far saltare il banco e costringere il Capo dello Stato a mandare tutti alle urne. Quel che è certo è che il ministro dell’Interno sta cercando un contatto con Di Maio e gli avrebbe già inviato un messaggio whatsapp per vedersi. Sembra essere tornati al marzo 2018, quando i grillini avevano davvero di fronte due strade. Ilario Lombardo sulla Stampa.
Aut aut di Grillo. Appena si diffonde la voce del pacchetto dei “quattro cavalieri populisti” e del ritorno di fiamma con la Lega, Beppe Grillo va su tutte le furie. E decide di esporsi ufficialmente per sostenere Conte. Tommaso Ciriaco su Repubblica.
Ma Di Battista non ci sta. Di Battista, vede il duplice corteggiamento al M5S, e chiede di alzare la posta al massimo, convinto che se si tornasse a elezioni ci sarebbero voti a valanga per il Movimento. «Se invece andiamo col Pd scendiamo al 5%», dice a Di Maio dopo una giornata passata a leggere i commenti sui social. Ma la sua uscita fa inferocire i gruppi parlamentari compatti a sostegno del governo giallorosso. I capigruppo rimangono stupiti: perché hanno sentito con le loro orecchie quando Di Battista ha dato un sì condizionato al Pd nelle villa toscana di Grillo. Ha cambiato idea su Facebook, sostengono. Luigi Gallo lo silura: «Irresponsabile, vuole far precipitare il Paese per farsi rieleggere». Ilario Lombardo sulla Stampa.
Il nodo. Il nodo «Conte premier» viene sciolto quasi subito. Di Maio cala il jolly, Zingaretti lo scarta. «Per me è una condizione primaria», dice il primo. «Per noi non esiste. E non è certo una questione personale», risponde il secondo. Eppure, nonostante lo scoglio all’apparenza insormontabile, l’incontro va avanti. Al leader pd, infatti, interessa soprattutto ascoltare dalla viva voce dell’interlocutore che il «pacchetto» offertogli da Matteo Salvini (Di Maio premier, Conte commissario Ue, governo gialloverde 2.0) non gli interessa più. «Non c’è questa possibilità», risponde il vicepremier uscente. Tommaso Labate sul Corriere.
Azzopare Conte. Dal fronte dei pontieri si suggerisce una seconda lettura: Di Maio userà il no di Zingaretti (e Renzi) a Conte per togliere dal risiko proprio il suo antagonista più insidioso, quell’avvocato del popolo rilanciato ieri in pompa magna da Grillo. Dice un ex ministro pd: «Luigi sapeva benissimo che avremmo detto no subito a Conte, non è un ingenuo. Quindi o voleva chiudere subito i ponti con noi per tornare da Salvini oppure voleva far fuori il nome di Conte per sempre». Tommaso Labate sul Corriere.
Il Post di Grillo. Poi arriva anche Grillo a complicare le cose e con un post sembra rimettere tutti in fila in difesa di Conte. E Conte vuol dire Pd, non Lega. Sempre che non valga il contrario. Se Zingaretti dirà no, non ci sarà altro da fare. L’accordo verrà incenerito con un post sul blog già pronto, in cui verrà annunciata la volontà di tornare al voto. Ilario Lombardo sulla Stampa a pagina 3.
I sospetti. L’avvocato ha iniziato a nutrire qualche sospetto sulle reali intenzioni di Di Maio. Il sostegno di Grillo l’ha rincuorato, al pari dei messaggi di sostegno dei renziani. Ma senza il sostegno leale di Di Maio, la scalata al bis è quasi impossibile. Solo le prossime ore racconteranno l’epilogo del film. E diranno se Di Maio è davvero intenzionato a rompere il patto con il Pd in nome di Conte, salvo poi accantonare l’avvocato in cambio di un posto da Presidente del Consiglio. Tommaso Ciriaco su Repubblica.
La terza via. I due leader di Pd e M5S una terza via ce l’hanno. Un governo con l’unico scopo di approvare una legge elettorale proporzionale e sbarrare la strada ai «pieni poteri» di Salvini. Un piano diabolico, che consentirebbe a entrambi di darsi appuntamento dopo il voto. E stavolta per fare sul serio. Tommaso Labate sul Corriere.
La rivoluzione. Grillo pensa a un nuovo Movimento. Andrea Malaguti sulla Stampa in prima. More
Nella visionaria tavolozza dei colori di Giuseppe Piero Grillo, creatore, garante e guida suprema dei Cinque Stelle, mescolando – o più esattamente fondendo – il giallo del suo Movimento e il rosso del Partito Democratico, finirà per emergere con chiarezza il Verde Futuro, anomala somma cromatica immaginata per portare l’Italia nel prossimo evo della politica. Una aggregazione progressista contemporanea che incardini il senso di sé su una doppia rivoluzione: digitale e ambientale. Il presupposto di questa magnetica fase due (svelata da alcuni fedelissimi) è che il nascituro accordo di governo tra Di Maio a Zingaretti resista almeno una legislatura, tempo minimo necessario a trasformare i pochi punti programmatici iniziali in un percorso strutturato, che attragga in uno stesso campo e sotto la stessa bandiera, coloro che abbracciano la modernità, credendo in un sistema sociale capace di disintegrare le disuguaglianze. L’esercito degli illuminati da una parte, il salvinismo-orbaniano-putiniano-ultranazionalista (o quel che ne resterà) dall’altra. Il progresso contro il medioevo. Fine del Movimento, fine del Partito Democratico. Fine della politica da microterritori. Benvenuti nel Nuovo Mondo. «Il Movimento 5 Stelle è biodegradabile, ciò che è naturale è biodegradabile (…), il che non significa essere dei kamikaze» – Blog di Beppe Grillo del 10 agosto.
S iamo di fronte a una illusoria e vacua filosofia millenaristica? Forse. Ma anche i primi vaffa lo erano e in fondo il ragionamento del Garante è semplice. Il tempo della rottamazione furiosa al grido di “onestà-onestà” è terminato, i principi fondamentali del cambiamento teorizzati da Gianroberto Casaleggio sono patrimonio comune, giusto dunque cominciare un altro viaggio, in linea con i tempi. Il dibattito, nella cerchia più alta dei dirigenti pentastellati è in corso da tempo. In pochi ne sono rimasti stregati, molti ancora non lo capiscono, Luigi Di Maio lo digerisce a fatica. Non è facile accettare la propria dissoluzione. Il comunitarismo Disponendo di un guardaroba di ragionamenti pret a porter, che lo rendono sempre efficace ma spesso poco credibile, Beppe Grillo è solo in apparenza un divoratore di superficialità. Un viaggio nel suo blog è piuttosto istruttivo e costringe a formarsi un’opinione diversa. Ci si imbatte ad esempio nelle teorie di Michael Sandel, filosofo statunitense, professore all’Università di Harvard ed esponente del “comunitarismo” (movimento che cerca di collegare l’individuo alla società) apprezzato anche dal partito democratico americano. Secondo il professor Sandel «un mondo che esclude è un mondi di pochi. Poche emozioni, poche scoperte, poche relazioni, poche opportunità. Dobbiamo invece includere. Rivedendo il nostro rapporto col denaro, perché non abbiamo più un’economia di mercato, siamo una società di mercato». Bel salto. O brutto. A meno che il processo non sia reversibile. Ovvio che chi sposa una visione di questo tipo fatichi a proseguire il cammino con Salvini, leader convinto che dalla brutalità derivi la chiarezza e che la chiarezza appaghi la parte più semplice ed egoistica del cervello. «Ci invadono, vi difendo io. Bruxelles ci vuole schiavi, io sono il vostro Spartaco». Un filmone sgangherato, ma ad alta digeribilità elettorale. Ignoranza e innocenza sono due cose molto diverse, ma spesso hanno sul volto la stessa espressione. L’approccio di Grillo al nuovo evo è cambiato. «Mi eleverò per salvare l’Italia dai nuovi barbari». Ambiente e tecnologie Due le linee guida da trasmettere anche al Pd. La prima segnala un orizzonte da imporre nelle scuole e nelle università. Una forma sempre più necessaria di gretathunberghismo, ovvero di ambientalismo spinto. «Se insegnate alle persone soluzioni basate sulla natura, allora vorranno solo soluzioni basate sulla natura L’ambiente è la chiave di volta lavorativa, economica e sociale». La seconda segnala invece un pericolo (e un’opportunità) con cui deve fare i conti la nascitura classe dirigente Verde Futuro. «E’ il sistema globale informatico che determina la totalità della vita su questo pianeta. Questo è l’ordine naturale delle cose, oggi. Questa è l’atomica e sub-atomica e galattica struttura delle cose. Non esiste l’Italia, non esiste la democrazia. Esistono solo Atlantia, Aple, Alphabet, Microsoft, Gp Morgan e Nestlè. Sono queste le nazioni del mondo». Il patrimonio di algoritmi e big data e le leve della sharing economy capaci di tramutare in oro ogni singolo respiro di pochissimi inarrivabili eletti, deve trasformarsi nella base di una organizzazione mondiale che non lasci più indietro nessuno. E anche se Grillo lo dice con indolenza, come un attore che recita una parte in una vecchia commedia, non c’è nulla in cui creda di più. Un macroscenario che, nel nostro paese, passa dall’occasione, forse irripetibile, di un accordo Pd-M5S. Una fusione a freddo da consegnare alla mediazione dell’ Elevato (Grillo dixit) Giuseppe Conte. «Sembra che nessuno voglia perdonare la sua levatura ed il fatto che ci abbia restituito una parte della dignità persa di fronte al mondo intero. Se dimostreremo la capacità di perdonare le sue virtù sarà un passo in avanti per il paese. Qualsiasi cosa che preveda di scambiare lui, come facesse parte di un mazzo di figurine del circo mediatico-politico, sarebbe una disgrazia». Ha una visione il Fondatore, un traguardo da raggiungere e due problemi da risolvere: convincere Conte a mantenere in piedi la legislatura (l’avvocato del popolo non è sfavorevole al voto subito) e spiegare a un riottoso Di Maio che anche senza un posto in prima fila gli conviene adeguarsi allo scenario, accontentandosi del fatto che – senza un apparente perché – il dio della politica gli ha nuovamente distribuito delle buone carte.
Andrea Malaguti sulla Stampa in prima.
O Conte o morte… Il leader grillino dà 24 ore di tempo ai democratici per rispondere e non esclude più il voto anticipato. “Conte premier oppure salta tutto”. Di Maio pronto a trattare con Salvini. Ilario Lombardo sulla Stampa a pagina 3. More
O Conte premier o il voto. Anche se Luigi Di Maio è tentato di soffiare sulla cenere del forno della Lega per riaccendere il fuoco e bruciare ogni previsione. La cena si è tenuta in una casa privata a Roma. Da una parte del tavolo il capo politico del M5S. Dall’altra, il segretario del Pd, Zingaretti. Entrambi sanno che bisogna fare in fretta. E hanno ragioni che li spingerebbero verso il sabotaggio dell’accordo. Tre condizioni pone Di Maio. Il taglio dei parlamentari che i 5 Stelle vogliono sia calendarizzato e votato a settembre, la convergenza su tutti gli altri punti del decalogo annunciato al Quirinale a partire da una legge sul conflitto di interessi e la riconferma di Conte a Palazzo Chigi. Ma è una soltanto, alla fine, quella su cui si concentra la cena: il bis del premier dimissionario. «Vorrei una risposta entro 24 ore» dice Di Maio. L’ultimatum però si smorza durante l’incontro durato un’ora e il confronto viene aggiornato. Il grillino spiega a Zingaretti che non gli piace partecipare al gioco della torre. «Il fatto che vogliate farci scegliere tra me o lui non esiste». Non c’è alternativa a Conte, dice, ben sapendo che è l’unica richiesta che risulta indigeribile al leader Dem ma non a tutti gli altri big del Pd. «Noi abbiamo notizie che i renziani ci starebbero». Ormai nell’orgia di tatticismo esasperato ogni cosa può contenere il suo contrario. Ogni dichiarazione svela uno, due, tre livelli di negoziato, che fanno montare i sospetti e rendono indecifrabile il quadro. Perché nel caos del primo dei 5 giorni di trattativa che ha lasciato ai partiti il presidente Mattarella, il sospetto che viene al Pd è che in realtà il grillino stia cercando di farsi dire no per ricongiungersi alla Lega, sapendo che Conte non accetterebbe mai di tornare a guidare i gialloverdi. Il premier sarebbe out e Di Maio potrebbe giocarsi le sue chance, scaricando l’avvocato quasi senza lasciare le sue impronte. E’ l’occasione irrinunciabile che gli ha offerto Salvini e che fa gola a un pezzo di 5S già nostalgico dei leghisti. In realtà, durante il colloquio con Zingaretti, Di Maio avrebbe assicurato che non tornerà da Salvini ma i dem non si fidano, pensano che la trattativa parallela sia nel pieno e hanno ricevuto notizia che il Carroccio si aspetta una risposta entro lunedì alle 10. «Non sto bluffando» continua a dire Salvini a chi gli riporta i timori dei 5 Stelle che in realtà li stia attirando a sé per poi far saltare il banco e costringere il Capo dello Stato a mandare tutti alle urne. Quel che è certo è che il ministro dell’Interno sta cercando un contatto con Di Maio e gli avrebbe già inviato un messaggio whatsapp per vedersi. Sembra essere tornati al marzo 2018, quando i grillini avevano davvero di fronte due strade. Ora è passato un anno, Di Maio e Salvini che allora non si conoscevano hanno fatto in tempo a stimarsi e a deteriorare il rapporto di fiducia. Eppure c’è chi alle sirene della Lega non rinuncia. Come anche all’altro scenario: il voto. Di Battista, vede il duplice corteggiamento al M5S, e chiede di alzare la posta al massimo, convinto che se si tornasse a elezioni ci sarebbero voti a valanga per il Movimento. «Se invece andiamo col Pd scendiamo al 5%», dice a Di Maio dopo una giornata passata a leggere i commenti sui social. Ma la sua uscita fa inferocire i gruppi parlamentari compatti a sostegno del governo giallorosso. I capigruppo rimangono stupiti: perché hanno sentito con le loro orecchie quando Di Battista ha dato un sì condizionato al Pd nelle villa toscana di Grillo. Ha cambiato idea su Facebook, sostengono. Luigi Gallo lo silura: «Irresponsabile, vuole far precipitare il Paese per farsi rieleggere». Le chat si infiammano: «Fatelo tacere, a che titolo parla?». I deputati e i senatori vogliono Conte. Ben sapendo che lui si sente scaricato da qualcuno nel M5S e che il Pd ha fatto circolare l’ipotesi di Enrico Giovannini in grado di mettere davvero in difficoltà i grillini. Nel 2018 era uno dei nomi della short list dei possibili ministri dell’Economia nel caso fosse andato in porto il governo con il Pd. Poi arriva anche Grillo a complicare le cose e con un post sembra rimettere tutti in fila in difesa di Conte. E Conte vuol dire Pd, non Lega. Sempre che non valga il contrario. Se Zingaretti dirà no, non ci sarà altro da fare. L’accordo verrà incenerito con un post sul blog già pronto, in cui verrà annunciata la volontà di tornare al voto.
Ilario Lombardo sulla Stampa a pagina 3.
…per bruciarlo. Le cortesie e la diffidenza a casa di Spadafora. Anche Renzi per il no al premier uscente. I trattativisti pd sperano: Luigi ha voluto bruciare l’avvocato. Tommaso Labate sul Corriere a pagina 3. More
«Noi abbiamo bisogno di sapere se c’è ancora la possibilità che facciate una maggioranza con la Lega». «Non c’è questa possibilità». A casa di Vincenzo Spadafora, sottosegretario a Palazzo Chigi del governo dimissionario, c’è stato giusto il tempo di ordinare della pizza bianca. Alle 19.30 non c’è ancora traccia del «segnale chiaro» che la delegazione del Pd ha chiesto a quella dei M5S dopo l’incontro del pomeriggio. Un’ora e mezzo dopo la dichiarazione non c’è ancora. Ma c’è qualcosa di più: Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio sono faccia a faccia peril primo vertice giallorosso di un governo che forse nasce a giorni, forse non nascerà mai. All’appuntamento, convocato all’improvviso, il segretario del Pd è arrivato preparato. Chi istruisce il vertice lo avvisa che, nel faccia a faccia, il capo politico porrà come prima condizione per l’accordone la riconferma di Conte a Palazzo Chigi. «È una trappola, meglio non andarci», lo consiglia qualcuno dei suoi. E invece Zingaretti non solo ci va. Ma ci va con le spalle coperte. «Se è una trappola lo scopriamo subito». Il segretario del Pd teme le mosse di Renzi, che a Conte ha già riservato un’apertura esplicita. «Per Renzi un governo va fattoatutti i costi, per me no», ripete per tutto il giorno. Di fronte alla contromossa di Di Maio, siamo alle 20.10, il segretario del Pd telefona al senatore di Rignano. «Mi ha chiamato Di Maio per incontrarci. Mi proporrà Conte premier e io gli dirò di no. Tu da che parte stai?», è la richiesta secca. «Da quella del Pd. E quindi dalla tua», è il ragionamento di Renzi. Col partito formalmente compatto sul niet alla riconferma del premier uscente nel governo dai contorni giallorossi, quindi, Zingaretti accetta l’invito, Spadafora ordina le pizze e alle 21 sono tutti là. Il nodo «Conte premier» viene sciolto quasi subito. Di Maio cala il jolly, Zingaretti lo scarta. «Per me è una condizione primaria», dice il primo. «Per noi non esiste. E non è certo una questione personale», risponde il secondo. Eppure, nonostante lo scoglio all’apparenza insormontabile, l’incontro va avanti. Al leader pd, infatti, interessa soprattutto ascoltare dalla viva voce dell’interlocutore che il «pacchetto» offertogli da Matteo Salvini (Di Maio premier, Conte commissario Ue, governo gialloverde 2.0) non gli interessa più. «Non c’è questa possibilità», risponde il vicepremier uscente. Che i due si rivedano presto non è scontato. Quasi impossibile oggi: Zingaretti è atteso ad Amatrice per la commemorazione delle vittime del terremoto di 3 anni fa; forse domani, chissà lunedì. La clessidra imposta dal capo dello Stato ha iniziatoaconsumare la sua sabbia. Al Nazareno, a notte fonda, c’è chi predica pessimismo. Della serie, «non ne usciremo, se siamo distanti sul premier non faremo neanche il secondo step». Ma dal fronte dei pontieri si suggerisce una seconda lettura: Di Maio userà il no di Zingaretti (e Renzi) a Conte per togliere dal risiko proprio il suo antagonista più insidioso, quell’avvocato del popolo rilanciato ieri in pompa magna da Grillo. Dice un ex ministro pd: «Luigi sapeva benissimo che avremmo detto no subitoaConte, non è un ingenuo. Quindi o voleva chiudere subitoiponti con noi per tornare da Salvini oppure voleva far fuori il nome di Conte per sempre». E si torna allo spettro dei due forni. Con un terzo scenario: i due leader di Pd e M5S una terza via ce l’hanno. Un governo con l’unico scopo di approvare una legge elettorale proporzionale e sbarrare la strada ai «pieni poteri» di Salvini. Un piano diabolico, che consentirebbe a entrambi di darsi appuntamento dopo il voto. E stavolta per fare sul serio.
Tommaso Labate sul Corriere a pagina 3.
L’offerta della Lega. Di Maio: “Lui o niente”. Ma ha un’altra carta il ritorno da Salvini. Nega a Zingaretti di voler tornare indietro, però ha in mano l’offerta della Lega: il capo 5S a Palazzo Chigi, quello leghista al Viminale e Giorgetti all’Economia. Tommaso Ciriaco su Repubblica a pagina 3. More
Casa Spadafora nel centro di Roma. Una cena leggera. I cellulari di Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti congelati in modalità silenziosa per bloccare l’orda di manganelli virtuali – partiti chissà da quale server – che dal mattino bombardano il leader di Pomigliano a causa del dialogo con il Pd. Il risultato è che il capo politico del Movimento si presenta portando in dote toni cordiali e un’offerta difficile da accettare: Conte bis senza condizioni, taglio dei parlamentari e legge sul conflitto d’interesse. Se non è un ultimatum, poco ci manca. Il segretario del Pd ha un paio di giorni per decidere, al massimo qualche ora in più. Poi il blog del Movimento sconfesserà l’alleanza con i dem. E consumerà un clamoroso ribaltone nel ribaltone. Perché mentre tratta con Zingaretti, Di Maio riceve un WhatsApp da Matteo Salvini. Il nuovo nemico gli propone di sposarsi ancora. Con uno schema clamoroso: il capo 5S premier, Salvini al Viminale, Giorgetti all’Economia, Conte alla Concorrenza in Europa. Sempre che l’avvocato accetti. In un venerdì notte si giocano le chance del governo giallo-rosso. E non è facile districarsi tra veline, depistaggi e doppi forni. Un fatto, certo, è che a metà pomeriggio Di Maio improvvisamente accelera. Dopo aver preso tempo e rimandato il colloquio con Zingaretti, si ritrova faccia a faccia con il leader del Pd. E sceglie di provare a imporre il nome del premier dimissionario nel modo peggiore: a trattativa appena cominciata e veicolando modalità ultimative, che a sera i democratici ridimensioneranno. «Eppure – gli ricorda Di Maio con malizia – anche i renziani sono favorevoli al ritorno di Conte a Palazzo Chigi». E’ esattamente il motivo per cui Zingaretti deve resistere. Le contraddizioni, però, spazzano via anche l’unità di facciata dei vertici grillini. Perché la sfida di Di Maio nasconde un motivo inconfessabile: il vicepremier ha già riavviato il dialogo con Matteo Salvini. Con Zingaretti nega decisamente, «parlo sono con il Pd, la Lega è un capitolo chiuso». Ma in realtà esiste uno schema già pronto. Ne hanno discusso anche i pontieri grillo-leghisti, chiedendo ai vertici cinquestelle una risposta entro le 10 di lunedì mattina. Prevede una riedizione gialloverde con i “quattro cavalieri populisti” nei ruoli chiave. L’unico che potrebbe sfilarsi, come detto, è Giuseppe Conte. La ragione è semplice: il Movimento è letteralmente spaccato in una sfida di fatto per la leadership. Appena si diffonde la voce del pacchetto dei “quattro cavalieri populisti” e del ritorno di fiamma con la Lega, Beppe Grillo va su tutte le furie. E decide di esporsi ufficialmente per sostenere Conte. Le sue parole suonano immediatamnete come una grave scomunica di Di Maio. E delle sue ambizioni. Il comico interpreta il sentimento prevalente delle truppe parlamentari 5S, ormai schierate a favore di un accordo con i dem. Lo stesso patto che altri big grillini provano a far saltare. L’agitatore capo è Alessandro Di Battista. Il grillino più amato dalle telecamere, in realtà, aveva dato il via libera all’accordo con il Pd nell’incontro di vertice a Marina di Bibbona. Adesso però si è ricreduto. Con un argomento che ha molto a che fare con il suo cellulare: «Su Facebook i nostri ci stanno massacrando – spiega in privato la piroetta – se ci accordiamo con il Pd scendiamo al 5%». E poi ci sono gli altri: Gianluigi Paragone e la sua voglia di «lavorare ancora con i leghisti in Parlamento» e Stefano Buffagni, uno degli anelli di congiunzione con Giancarlo Giorgetti: «Lega o Pd? Io sono governativo, punto». Eppure, moltissimo può ancora succedere, soprattutto all’interno del Movimento. Intanto perché continua a circolare il nome di Enrico Giovannini, con importanti sponsor interni e internazionali. E poi a causa del silenzioso attivismo di Conte, che oggi si presenta al G7 di Biarritz da premier dimissionario. L’avvocato ha iniziato a nutrire qualche sospetto sulle reali intenzioni di Di Maio. Il sostegno di Grillo l’ha rincuorato, al pari dei messaggi di sostegno dei renziani. Ma senza il sostegno leale di Di Maio, la scalata al bis è quasi impossibile. Solo le prossime ore racconteranno l’epilogo del film. E diranno se Di Maio è davvero intenzionato a rompere il patto con il Pd in nome di Conte, salvo poi accantonare l’avvocato in cambio di un posto da Presidente del Consiglio.
Tommaso Ciriaco su Repubblica a pagina 3.
Il faccia a faccia degli sherpa. I dem: taglio dei parlamentari ma serve la legge elettorale. (Corriere p.2). Il patto per il proporzionale che distrugge il salvinismo. Il taglio dei parlamentari scusa per cambiare la legge elettorale. Ma fra il leghista e il Pd ne resterà solo uno. Augusto Minzolini sul Giornale (p.2). «Taglio dei parlamentari? Sì, ma solo col proporzionale. E la sfiducia costruttiva». Il costituzionalista pd Ceccanti: si può fare entro l’anno. (Corriere p.6). Per la “sforbiciata” degli onorevoli serve una nuova legge elettorale. Ora si lavora sul proporzionale. Con la riforma ci sarà un eletto ogni 150mila italiani per Montecitorio e al Senato fino a uno ogni 800mila. (Messaggero p.2)
Dal «papabile» Giovannini un’agenda che tocca i due partiti. Dal palco del Meeting di Cl invita ad adottare gli obiettivi del piano Onu 2030 e le misure ecologico sociali di von der Leyen. (Corriere p.3). Il sospiro di sollievo dell’Unione per la fine dell’alleanza sovranista. (Messaggero p.3).
I timori del Quirinale per lo stallo che mina “il governo solido” Se 5S e Lega decidono di riprovarci Mattarella non potrà che scegliere un premier che li riunisca. (Repubblica p.2).
Il paracadute di Colle e Mef: governo elettorale e nodo Iva. In caso tutto naufragasse, piano B su Commissario Ue, esercizio provvisorio, aliquote. (Sole p.5). Sullo sfondo la scelta per il Quirinale nel 2022, la maggioranza giallorossa sarebbe risicata. Sulla carta l’alleanza ha 518 seggi, 13 in più rispetto al quorum dal quarto voto. (Sole p.5).
Allarme al Nazareno: “Ci stanno tenendo in freezer, non sono lineari”. Il capo grillino: “Non torno con la destra”. Ma il segretario non si fida. “Il matrimonio si fa in due”. Zingaretti teme l’inganno. (Stampa p.2). Zingaretti: “Il Pd non fa il sostituto della Lega”. Il no (“forte e chiaro”) del leader all’ultimatum M5S: “L’ipotesi Conte bis non è percorribile”. Il messaggio di Renzi: “Sono d’accordo con te”. Ma i renziani dicono altro: si può anche fare (Repubblica p.4). Il segretario del Pd, malgrado lo stop a Conte, è sempre più incline a fare l’accordo con i 5Stelle. E Delrio trova la soluzione sul taglio dei parlamentari. (Fatto p.5). Pd-M5S, un’attesa lunga cinque anni. Il fattore paura li costringe al dialogo Nel 2014 lo scontro in streaming tra Renzi e il comico: ora sono gli artefici di un avvicinamento che qualche mese fa sembrava impossibile. (Stampa p.6). I sospetti del segretario pd: il forno con la Lega va chiuso. L’idea che i 5Stelle possano tornare con l’ex alleato. (Corriere p.5).
Luigi Zanda: Conte? Fece passare leggi incostituzionali «I 5 Stelle dimostrino serietà». (Corriere p.5). Anna Ascani. “Sintonia con i grillini per bloccare i leghisti”. (Stampa p.4). De Micheli: “Basta ambiguità il M5S spenga l’altro forno. L’intesa con noi è possibile”. Sarei molto contenta se a Palazzo Chigi andasse una donna dopo 14 mesi di machismo di Salvini. (Repubblica p.4).
Cresce l’ipotesi di Gualtieri, l’europarlamentare del Pd che guida la commissione Economia e finanza come commissario europeo. (Sole p.4).
Zinga s’intesta la trattativa e vuole Renzi fuorigioco. Il senatore di Scandicci in un audio attacca Gentiloni: “Vuole far saltare il banco”. Il segretario, malgrado lo stop a Conte, è sempre più incline a fare l’accordo con i 5Stelle. E Delrio trova la soluzione sul taglio dei parlamentari (Fatto p.4). Fuoco amico su Gentiloni. L’audio e la strategia di Renzi. L’ex leader rincara: ho sventato la sua opera. E cerca di avere più tempo per riorganizzarsi. (Corriere p.6). In una lezione alla sua scuola politica l’ex premier accusa il suo successore di voler far saltare l’accordo con il M5S Renzi contro Gentiloni, Pd spaccato Zingaretti: Matteo vuole logorarmi
(Stampa p.4). L’ala vicina all’ex premier minimizza le sue parole “rubate”. Il Giglio magico frena “Andiamo avanti uniti”. (Stampa p.4).
Una trattativa ostacolata da manovre e tatticismi. Il presidente Mattarella chiede chiarezza. Renzi sembra avere l’obiettivo di indebolire Zingaretti. Grillo rilancia Conte premier, e non si capisce se lo faccia per trattare da posizioni di forza col Pd, o perché perfino lui non esclude un ricompattamento in extremis con la Lega: esito sconcertante che pure continua ad aleggiare. Massimo Franco sul Corriere (p.11).
Una rottura annunciata. Stefano Folli su Repubblica (p.33). Se è vero che il M5S pone come pregiudiziale l’immediato taglio dei parlamentari e Conte premier, si capisce che il movimento ha fatto la sua scelta. Di Maio tenterà il salto all’indietro di un abbraccio con il suo ex amico e recente torturatore, Salvini.
Premier, Grillo detta la linea. Ma Di Battista punta sulla Lega. In un post il fondatore lancia un Conte bis e il capo politico dice a Zingaretti: prendere o lasciare. (Corriere p.8). I due fronti nei 5 Stelle. Contro l’accordo sale la protesta sul web. Le tensioni nel Movimento. E i militanti tempestano il blog. (Corriere p.9). Il capo grillino tentato dalla Lega ma 150 parlamentari pronti al no. Di Maio prova a non chiudere il forno con Salvini, aperture anche di Di Battista. Grillo spinge per il Conte bis con i democrat. Ipotesi di mettere al voto l’intesa su Rousseau (Mesasggero p.5). Da Casaleggio a Di Battista i grillini filo-leghisti pronti a brindare. Paragone agente in sonno nel M5S, Buffagni e i buoni rapporti con via Bellerio: anche loro sperano di sabotare la mediazione coi dem. (Repubblica p.8). Dibba sogna il posto di Gigino per risorgere Il guerrigliero grillino torna a farsi sentire. Non chiude la porta al Carroccio e neanche alla sinistra. Sa che comunque vada per lui sarà un successo: se nasce un esecutivo qualsiasi è pronto a prendersi un ministero, se si va alle urne verrà eletto. (Libero p.5).
«Il Carroccio spaccava l’Italia. Ora invece c’è un negoziato per definire un’idea di Paese». Carla Ruocco: il fisco di Salvini? Per i ricchi. (Corriere p.8). “L’accordo con il Pd va trovato Di Maio non sieda nel governo”. Roberta Lombardi oggi consigliera nel Lazio: “I nomi di primo piano dei due schieramenti restino fuori. Sarebbero divisivi” (Fatto p.6). «Operazione che serve al Pd. Con loro non presiederò la commissione sulle banche» Il senatore Paragone: Lega contro il liberismo, come noi (Corriere p.9).
La profezia di Grillo sui Cinque Stelle: addio movimento, saremo progressisti. Il fondatore e garante del M5S indica la rivoluzione programmatica all’insegna di due temi: ambientalismo e sistema informatico globale. La fase 2 prevede che l’eventuale governo con il Pd duri almeno una legislatura. La dichiarazione: “Mi eleverò per salvare l’Italia dai nuovi barbari”. Andrea Malaguti sulla Stampa in prima.
M5S-Pd, tutti i nodi dell’intesa. Nessun «ostacolo insormontabile» ma su banche, vaccini e accordi commerciali restano le distanze. Sulla manovra l’obiettivo comune: trovare le coperture contro l’aumento Iva. Dalle Grandi opere alle trivelle petrolifere, il dossier più difficile. Sull’ambiente sussidi fiscali nel mirino. Più scetticismo sull’acqua pubblica. Sulla sicurezza, rinnegare i decreti? Questione di credibilità per chi li ha votati. E il taglio dei parlamentari è un tema prioritario, ma è una partita ancora aperta. (Corriere p.10).
Dalla Gronda fino alla Torino-Lione visioni opposte sulle infrastrutture. Nello scontro anche il nodo della revoca (improbabile) della concessione ad Autostrade. (Messaggero p.6).
Le tre manovre. Con la Lega caccia a 50 miliardi Finanziaria green l’alternativa. Tria tranquillizza: “I conti sono stabilizzati, ci sono le risorse anche per evitare l’aumento Iva”. Ma nel caso di un ritorno alle urne si prepara una legge di Bilancio senza nuove spese. (Repubblica p.11) Manovra, la tentazione di smontare Quota 100. Pd e M5S potrebbero recuperare gli 8 miliardi dei prepensionamenti. (Messaggero p.9).
Manovra, passi avanti sul cuneo Serbatoio quota 100 per le risorse. Tavoli tecnici M5S-Pd. Ieri primo round: intesa possibile anche sul salario minimo. Ape social strutturale: restyling di fondi e sperimentazione per uscite anticipate. Si punta alla flessibilità Ue. (Sole p.6). Tria: siamo tranquilli, nessun dramma in vista. «I conti pubblici sono attualmente in ordine e c’è stabilità finanziaria». (Sole p.6). Le aziende: “Riforme e stop all’aumento Iva” Gli imprenditori chiedono al nuovo governo più occupazione e di rilanciare il Mezzogiorno (Stampa p.8). L’imprenditrice Anna Mareschi Danieli: “Alle imprese serve un governo solido altrimenti meglio il voto”
l problema della politica di questi anni è il rapporto dei leader con gli elettori, giocato 24 ore al giorno sui social network. (Repubblica p.11).
Autonomie, il dialogo M5S-Pd riparte dal modello emiliano. Riforma soft. Il progetto presentato dall’Emilia Romagna non ha come premessa il trasferimento di strutture e personale. Quindi rende più semplice raggiungere l’intesa (Sole p.4).
Berlusconi riapre la caccia ai «responsabili». Il Cav. al lavoro per rimettere in piedi la maggioranza di centrodestra in Parlamento. Senza passare dalle urne. Per far tornare i numeri però bisogna convincere i grillini che odiano il Pd a cambiare casacca. Il ruolo dei dissidenti. (Verità p.9). Test Regionali, Lega all’attacco L’ipotesi desistenze M5S-Pd. Sul territorio restano forti rivalità tra grillini e Dem su infrastrutture e sviluppo. (Sole p.4).
Escluse dai riti di Palazzo. Non è una crisi per donne “Serviamo solo da bersagli”. Anche Lega e Cinque stelle, che si professano alfieri della gente comune, le tengono ai margini. La lezione europea rimane lontana: l’Italia sembra ferma al secolo scorso. Flavia Perina sulla Stampa (p.9).
Ocean Viking, Malta accetta lo sbarco dei 356 naufraghi. Dopo due settimane lo stallo è finito: migranti accolti in 6 Paesi. Salvini: “Mai porti aperti, mai col Pd”. La Jonio torna a navigare. Il report: secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni. Dall’inizio del 2019, in mare sono morte 859 persone, pari al 55% di quelle del 2018. (Fatto p.7). Ora che va via Salvini, le Ong vanno a Malta. I 356 migranti della Ocean Viking trasferiti alla Valletta. Con la crisi di governo non c’è più motivo di ricattare l’Italia… (Libero p.9).
ECONOMIA
Bruxelles: “Un fondo da 100 miliardi”. Così l’hi-tech Ue sfida Apple e Alibaba. Per sostenere giganti digitali in Europa come Deliveroo e Spotify. (Stampa p.19). «Un fondo sovrano Ue con100 miliardi di dote per le aziende europee». L’indiscrezione del «Ft». Bruxelles per ora non conferma. L’ipotesi, per il momento, non trova conferme ufficiali. In realtà il piano per la costituzione di un fondo sovrano europeo da 100 miliardi di euro da utilizzare per sostenere le imprese europee nella loro competizione, spesso squilibrata, con i concorrenti Usa e cinesi è contenuto in un documento interno di oltre 200 pagine messo a punto dai tecnici di Bruxelles. (Corriere p.37).
Dazi, la nuova mossa di Pechino. Trump infuriato rialza le tariffe. Il presidente Usa replica a Xi e attacca Powell, capo della Fed: chi è il nostro vero nemico? L’escalation riguarda tutti i beni cinesi. L’«ordine» alle imprese americane: tornate a casa. La Casa Bianca e il tweet che fa salire il rischio di una Guerra fredda. L’invito via social a creare sistemi economici separati. Lo scontro ieri ha fatto un salto di qualità che potrebbe avere conseguenze enormi. I grandi gruppi Usa hanno già iniziato a muovere le produzioni fuori dalla Cina. (Corriere p.36). Guerra dei dazi, la Cina attacca e trascina giù le Borse mondiali. (Repubblica p.28). Trump contro tutti. “Pechino è un nemico ma Powell è peggio”. La Casa Bianca mette all’angolo anche la Fed che sarà costretta a tagliare i tassi se la situazione economica dovesse peggiorare. (Repubblica p.29). Le tariffe su 75 miliardi scatteranno insieme alle imposte americane. Il capo della Casa Bianca si prepara ad attaccare l’Ue sulle esportazioni. Cina, sfida agli Usa con nuovi dazi. (Stampa p.11).
Powell: scontri commerciali sfida difficile. Il presidente della Fed cita anche l’Italia tra i maggiori rischi. (Sole p.3).
Draghi aiutaci tu. Fed divisa, la Bce aprirà ancora il rubinetto. Ma la politica monetaria non basta più da sola davanti alla minaccia di una nuova recessione. Il sintomo più visibile di una bolla potenziale che mette in allarme i mercati è la consistente crescita dei derivati (14 mila miliardi di dollari). Ridurre la dipendenza dal debito. Le banche centrali sono un supporto, non i motori dello sviluppo, avverte la Bri. Stefano Cingolani sul Foglio a pagina IV
Aecelor Mittal, i sindacati contro i chip nelle tute. “Sciopero e denuncia all’ispettorato del lavoro”. (Stampa p.20). Lo stop a Palazzo Chigi per la pubblicazione in Gazzetta. E il 9 ottobre si esprime la Consulta. Ex Ilva, ora il Quirinale chiede un altro Cdm (Fatto p.7).
Statali, rinviato a fine anno l’anticipo delle liquidazioni. Con la crisi di governo, slitta il decreto diretto a sbloccare il Tfs: coinvolti 230mila dipendenti `La norma prevede l’erogazione attraverso le banche di una quota fino a 45 mila euro (Messaggero p.16).
Germania. La Spd propone una patrimoniale e recupera 2 punti nei sondaggi. La Spd in cerca di identità e nel tentativo di uscire dal cono d’ombra della Grande Coalizione, rispolvera un’idea che di quando in quando finisce per apparire sui tavoli dei partiti della sinistra europea: tassare i patrimoni dei super ricchi. Lunedì i socialdemocratici a Berlino presenteranno la proposta di un prelievo fiscale (aliquota all’1 per cento) con cui il partito conta di intascare fino a 10-11 miliardi di euro l’anno per finanziare investimenti pubblici. (Stampa p.17). No delle banche tedesche ai tassi sottozero sui conti. (Repubblica p.28). La Cancelleria come la Buba: il Pil scenderà (Corriere p.36).
Il patto mondiale del lusso per salvaguardare il Pianeta. Il sì dei 32 maggiori gruppi all’iniziativa di Pinault promossa da Macron. (Corriere p.39). Patto tra i grandi della moda per promuovere la sostenibilità. Un’alleanza costruita da Francois-Henri Pinault, chiesta da Macron. Le priorità di un’industria da 1,5 trilioni: biodiversità, oceani e global warming (Sole p.7).
Gasdotto Tap al rush finale: pronto il tunnel sotto la Puglia. Nonostante veti e polemiche l’infrastruttura è stata realizzata senza disagi per la popolazione. Già posati chilometri di tubi. Sedici metri sopra tra teli e ombrelloni prospera il turismo balneare. In autunno gli olivi, che erano stati tolti, verranno ripiantati, per di più immuni dal contagio della xylella. (Sole p.8). Gronda. Il tecnico dell’analisi costi-benefici: “È migliore del progetto presentato dai Benetton”. L’alternativa fa spendere 2 miliardi in meno di pedaggi (Fatto p.10).
Il governo Boccia. Intervista al presidente di Confindustria. Che non vuole più assistere ai “balletti dei no. Taglio dei parlamentari e migranti sono temi da affrontare ma non rientrano in un quadro di politica economica, in una priorità per il paese” dice al Foglio il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. “Sulle questioni del lavoro e della crescita si è distratta una larga parte della politica” osserva Boccia. “Il sud in recessione, l’economia nazionale in stallo e l’a r r e t r amento della Germania meritano molta più attenzione. Per questo serve da tempo un cambio di metodo in chiave italiana e europea: stabilire gli effetti che si vogliono ottenere sull’economia reale, decidere quali strumenti utilizzare e individuare le risorse. Per quanto ci riguarda l’obiettivo è creare lavoro anche con un grande piano d’inclusione per i giovani perché è il lavoro il vero elemento di coesione nazionale, non a caso richiamato nel primo articolo della Costituzione.
Sul Foglio in prima.
La crisi arriva ma si batte Gli strumenti della Bce, le politiche di bilancio e le riforme, la necessaria “divisione del lavoro” tra i paesi europei. L’Europa e la nuova Commissione dovrebbero lanciare una seria revisione del patto di stabilità che privilegi la riduzione graduale del debito e lasci spazi agli investimenti, insomma una “flessibilità orientata alla crescita”. L’intervento di Pier Carlo Padoan sul Foglio.
ESTERI
L’Amazzonia irrompe sul tavolo del G7. Macron: Bolsonaro mente, basta affari. Il francese: non mantiene gli impegni sul clima, mi opporrò al patto Ue-Mercosur. No di Merkel. (Stampa p.11). Amazzonia, la foresta brucia. I leader del mondo attaccano il Brasile. Proteste nel mondo e minacce di ritorsioni economiche. “È la casa di tutti”. Ma Bolsonaro se la ride: “Sono Nerone”. L’attivista. “Siamo noi indigeni i suoi custodi. I grandi latifondisti la stanno distruggendo” (Repubblica p.12). Allarme al G7 e minacce al Brasile. L’Amazzonia in fumo è una crisi globale. I tweet delle star (con le foto sbagliate). Esercito in campo contro i roghi. Adesso Bolsonaro teme le «sanzioni». Proprio l’agrobusiness che il presidente voleva tutelare rischia di subire l’ira globale. (Corriere p.12). Intervista a Naomi Klein: «La Terra è in fiamme, i leader colpevoli. Solo i giovani possono vincere la battaglia» (Corriere p.13). Trascurare l’ambiente? Può costarci il 7% del Pil. Uno studio di pochi giorni fa dell’Università di Cambridge (Massachusetts) mostra che i fenomeni che incidono sull’ambiente hanno anche un riflesso di lungo periodo sull’attività economica, colpendo e compromettendo tra l’altro salute, capacità di lavoro e produttività, ecosistemi e mercati, oltre a infrastrutture fisiche. (Corriere p.13).
Macron “pompiere” al G7 nel vertice senza alleanze. Il nodo Brexit e l’esordio di Johnson, i dazi di Trump, ora l’ultima emergenza ambientale. Il presidente francese ha il difficile compito di mediare tra leader incendiari o a fine corsa. (Repubblica p.13).
Incendi in Amazzonia, a rischio la ratifica dell’accordo Mercosur. Il presidente francese e il premier irlandese attaccano Bolsonaro. L’intesa commerciale prevede impegni concreti contro la deforestazione (Sole p.12).
“Il cerino di Bolsonaro brucia le foreste e la verità”. Parla Yurij Castelfranchi, prof dell’Università di Minas Gerais: “Il presidente brasiliano vuole ottenere il Far West delle regole per lo sfruttamento”. È un classico del governo Bolsonaro, che usa le stesse tattiche della post-verità di Trump, servendosi di una m i t ragliatrice di calunnie. (Fatto p.16).
Nudo a Biarritz. Il premier Conte va al G7 francese da dimissionario, in pratica è un esercizio di stile. Invece Merkel e Macron… Foglio in prima
Hong Kong è un test della verità per tutti, La democrazia non vive solo in Occidente. Bernard Henri Levy sulla Stampa a pagina 12
La protesta. Una catena umana lunga 40 chilometri Allo scoccare del 12° weekend di mobilitazione, migliaia di hongkonghesi hanno formato ieri una catena umana lunga 40 km attraverso le tre principali linee della metro, per ricordare con il 30° anniversario della Baltic Way anti-sovietica la propria irriducibile ambizione all’autonomia da Pechino. «La “Hong Kong Way” è la risposta pacifica alla sordità del governo» spiega un’attivista, cristallina nell’ammettere di aver scoperto da poco il precedente che nel 1989 unì mano nella mano Estonia, Lettonia e Lituania per oltre 600 km. Stampa p.12.
Navalny liberato sfida Putin “Le proteste cresceranno”. Aleksey Navalny esce dal carcere e sfida subito Putin. L’oppositore russo è tornato in libertà ieri mattina dopo aver trascorso 30 giorni dietro le sbarre. (Stampa p.16).
Pelosi: “Il razzismo mina le nazioni l’America difenderà l’unità della Ue”. La Speaker democratica della Camera Usa: “Mattarella assicurerà stabilità e progresso al popolo italiano“. Il nostro sostegno alla Nato resta ferreo e fieramente bipartisan e bicamerale. L’odio e il razzismo che ci sono ovunque sono un assalto al carattere stesso delle nostre nazioni. L’Italia continua a giocare un ruolo cruciale e costruttivo nella comunità globale e per la pace (Stampa p.10).
Bomba di Hamas contro famiglia di ebrei: uccisa ragazza di 17 anni. Una bomba lanciata contro una famiglia in gita all’inizio dello shabbat. Una diciassettenne dilaniata e uccisa davanti agli occhi del padre e del fratello, feriti gravemente. (Stampa p.17).
Il mistero del consolato apre la crisi Londra-Pechino. Dipendente della sede britannica arrestato dai cinesi: veri reati o pressione sugli inglesi? (Repubblica op.22).
GIUSTIZIA
Si allarga l’inchiesta su Bibbiano. Una trentina le vittime di affidi illeciti. In Val d’Enza aperto un nuovo filone di “Angeli e demoni”. Sotto accusa il “metodo Anghinolfi”. Le ipotesi di reato: frode, maltrattamenti, violenza privata e tentata estorsione. (Stampa p.14). Il giro d’affari di Hansel e Gretel, «150.000 euro per 18 minorenni». Il Tg3 mostra una mail della segretaria di Claudio Foti che contiene gli incassi monstre sulle terapie dei piccoli. Una parte dei soldi girata all’associazione di cui fanno parte gli assistenti sociali emiliani. (Verità p.13).
Si sveglia dalla sedazione: «È stato lui a darmi fuoco». In cella con il Codice rosso. Grazie alle nuove norme arrestato il compagno della donna. (Corriere p.21)
Stadio della Roma. Bocciato l’arresto del consigliere M5S: non c’è prova che fu corrotto da Parnasi. De Vito, l’accusa si sgonfia: “Solo congetture”. De Vito fu arrestato con l’accusa di aver favorito l’iter dello stadio in cambio di consulenze per un suo legale. Già a luglio la Cassazione aveva stabilito che la misura cautelare doveva tornare al Riesame. Ora le motivazioni (Fatto p.11).
G8, resta in carcere l’ultimo black bloc. Ma la Francia frena sull’estradizione. E in tribunale i suoi amici applaudono il verdetto. Arrestato in Bretagna, Vincenzo Vecchi deve scontare 11 anni e mezzo per devastazioni e saccheggi compiuti durante il summit di Genova nel 2001. (Repubblica p.17).
Buongiorno. Dopo il primo giro di incontri, il Colle dà i cinque giorni a Pd e grillini. Martedì le nuove consultazioni. Tensioni durante le trattative tra i due partiti. Zingaretti apre a Di Maio. Ma Renzi se la prende con Gentiloni che vuole far saltare la trattativa. Salvini offre il posto di premier a Di Maio purchè non faccia l’alleanza col pd: pronti a ripartire. Buona lettura a tutti.













Cinque giorni. Il Colle dà 5 giorni a Pd e grillini. Martedì scade l’ultimatum di Mattarella: senza intese si va a votare. Oggi i capigruppo dem e grillini inizieranno a discutere di programma. Se non sarà possibile conferire un incarico di governo, verranno sciolte le Camere. Ugo Magri sulla Stampa. More
Tra mille dubbi, Cinque stelle e Pd proveranno a fare un governo insieme. Non c’è la minima garanzia che il loro tentativo andrà in porto. Ma qualcosa di concreto potrebbe davvero maturare, perché al termine delle consultazioni al Quirinale, dopo avere soppesato i vari pro e contro, Sergio Mattarella ha ritenuto giusto concedere altri quattro giorni prima di misurare gli eventuali progressi del negoziato. Lo ha reso noto egli stesso alle ore 20, presentandosi davanti ai cronisti scuro in volto e un po’ tirato dalla fatica. «Da parte di alcuni partiti», ha detto, «mi è stato comunicato che sono state avviate iniziative per un’intesa, in Parlamento, per un nuovo governo. E mi è stata avanzata la richiesta di avere il tempo di sviluppare questo confronto». Gliel’hanno domandato in particolare Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio nei rispettivi colloqui. Il primo ha dato la disponibilità a lavorare per un governo di svolta con i grillini, elencando tre punti per il Pd irrinunciabili (via i decreti sicurezza, centralità del Parlamento e una manovra economica equa); per parte sua, il capo dei Cinque stelle ne ha messi in fila ben 10 che Zingaretti ieri sera ha definito «una buona base di partenza». I capigruppo dei due partiti oggi si incontreranno per iniziare a discutere, partendo dal taglio degli «onorevoli» che nell’ottica del Colle dovrà accompagnarsi a una nuova legge elettorale. La svolta è maturata quando Luigi Di Maio ha informato il presidente: «Proporrò ai miei parlamentari di aprire un negoziato con il Pd». Non l’ha detto con un trasporto particolare; uscendo dal colloquio, nemmeno ha citato il Pd. Però non era scontato che pronunciasse quelle parole, e Mattarella non poteva far finta di non averle udite. Ora il presidente si aspetta che venga individuato il futuro premier, e a tale proposito il capo dello Stato pretenderà che si tratti di figura capace di esercitare con autorevolezza il suo ruolo. Il presidente desidera conoscerne il nome entro martedì, quando terrà nuove consultazioni. Ma contrariamente a quanto verrebbe da pensare, il prossimo giro di colloqui non sarà limitato a Di Maio e Zingaretti. Sul Colle saliranno di nuovo tutti i leader, compresi Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni. E come mai? Perché ieri mattina pure loro, nello studio presidenziale, hanno adombrato ipotesi di nuove maggioranze imperniate sul centrodestra. Martedì avranno la possibilità di segnalare eventuali passi avanti. Beninteso, Mattarella è il primo a non crederci, però pure di questo doveva tenere conto. Tantomeno poteva ignorare il colpo di teatro messo in scena da Matteo Salvini, che a certe condizioni (tutte da chiarire) non esclude di tornare coi Cinque stelle. La mossa del “Capitano” Meglio sarebbe andare di corsa al voto, ha detto Salvini al capo dello Stato; però «se qualcuno mi dicesse ragioniamo, diamoci un tempo per trasformare i “no” in “sì”, io sono un uomo concreto e non porterei rancore», ha garantito. Sul taccuino di Mattarella sono finiti due concetti. Il primo: esiste ancora una possibilità, sia pure teorica, di incollare i cocci della maggioranza giallo-verde. Pare che Salvini parli sul serio, e non avanzi maliziosamente l’ipotesi solo per mettere in imbarazzo Di Maio. Seconda annotazione presidenziale: nonostante i proclami, pure il “Capitano” chiede tempo (lo ha ripetuto davanti alle telecamere). Per farla breve, ieri tutti volevano qualche giorno in più. E il presidente, dopo due lunghe ore di conclave con i collaboratori, ha ritenuto che negare un breve ”time-out” sarebbe stato eccessivo. Martedì sera però scadrà l’ultimatum. E se non sarà possibile conferire un incarico di governo, il presidente scioglierà le Camere, avvertono al Quirinale, senza ulteriori rinvii.
Ugo Magri sulla Stampa a pagina 2.
Mattarella. Mattarella è deluso partiti troppo prudenti. Il capo dello Stato si aspettava maggiore decisione da M5S e Pd. Il timore che l’Italia resti a guardare sulle scelte Ue. Il fattore tempo: ormai impossibile votare a ottobre. Repubblica a pagina 6. L’irritazione di Mattarella per i due forni 5 Stelle e i leader inconcludenti. «Il ricorso alle elezioni? Una decisione da non assumere alla leggera. Ho il dovere di richiedere, nell’interesse del Paese, decisioni sollecite». Marzio Breda sul Corriere a pagina 3.More
È l’ora di cena quando Sergio Mattarella, scuro in volto, si presenta davanti alle telecamere. Si schiarisce la voce con un piccolo colpo di tosse, preparandosi a lanciare il messaggio forse più drammatico del suo settennato. Parla con un tono perentorio e aspro, rivelatore di una profonda irritazione. «Con le dimissioni presentate dal presidente Conte si è aperta la crisi di governo, con una dichiarata rottura polemica del rapporto tra i due partiti che componevano la maggioranza. La crisi va risolta all’insegna di decisioni chiare; e in tempi brevi. Lo richiede l’esigenza di governo di un grande Paese come il nostro. Lo richiede il ruolo che l’Italia deve avere nel momento di avvio della vita delle istituzioni dell’Ue per il prossimo quinquennio. Lo richiedono le incertezze, politiche ed economiche, a livello internazionale. Non è inutile ricordare che, a fronte di queste esigenze, sono possibili solo governi che ottengano la fiducia del Parlamento, in base a valutazioni e accordi politici dei gruppi parlamentari su un programma per governare il Paese». Il preambolo gli serve a far capire la posta in gioco e i tempi stretti che ha imposto agli attori politici. Infatti, aggiunge, «in mancanza delle condizioni» che ha appena indicato, «la strada è quella di nuove elezioni. Una decisione da non assumere alla leggera – dopo poco più di un anno di vita della legislatura – mentre la Costituzione prevede che gli elettori vengano chiamati al voto per eleggere il Parlamento ogni cinque anni. Il ricorso agli elettori è, tuttavia, necessario qualora il Parlamento non sia in condizione di esprimere una maggioranza di governo». E aggiunge: «Nel corso delle consultazioni appena concluse, mi è stato comunicato da parte di alcuni partiti che sono state avviate iniziative per un’intesa, in Parlamento, per un nuovo governo; e mi è stata avanzata la richiesta di avere il tempo di sviluppare questo confronto. Anche da parte di altre forze politiche è stata espressa la possibilità di ulteriori verifiche». Ecco il
punto, su cui diventa didascalico: «Il Presidente della Repubblica ha il dovere – ineludibile – di non precludere l’espressione di volontà maggioritaria del Parlamento, così come è avvenuto anche un anno fa, per la nascita del governo che si è appena dimesso. Al contempo, ho il dovere di richiedere, nell’interesse del Paese, decisioni sollecite. Svolgerò quindi nuove consultazioni che inizieranno nella giornata di martedì prossimo
per trarre le conclusioni e per assumere le decisioni necessarie». Ci sono occasioni nelle quali vale la pena di riportare integralmente il discorso di un capo dello Stato. Ieri è stata una di queste. Sia per la forza con cui Sergio Mattarella ha riassunto, per i frastornati cittadini, un passaggio politico difficilissimo. Sia per il richiamo alla responsabilità che ha rivolto ai partiti quando ha evocato chi ha prodotto la «rottura polemica» (Salvini) e quando ha fatto balenare l’ambiguità di chi non gli ha permesso di tracciare una via d’uscita, cioè i 5 Stelle. I quali – pure questo ha lasciato capire – vorrebbero giocare di nuovo ai due forni, con il Pd e con la Lega. Uno schema dilatorio che non possiamo permetterci, e dal quale fa scattare un ultimatum che scadrà tra cinque giorni. O tra martedì e mercoledì saranno sciolte le ambiguità, oppure dovrà nominare un esecutivo di garanzia e sciogliere le Camere. L’ipotesi peggiore, per lui, dopo che nelle scorse 24 ore si è trovato a tarare ciò che veniva detto nel suo studio con i contraddittori segnali che echeggiavano da fuori. Non sfumature, ma false piste e tentativi di sabotare i negoziati con il fuoco amico. In casa Pd c’era per esempio chi precisava come tradurre i 5 punti «non negoziabili» elencati da Zingaretti al presidente. Altri messaggi obliqui venivano da qualche grillino indisponibile a patti con i democratici, occhieggiando alla Lega. E c’erano i leghisti che rilanciavano agli ex partner l’idea di una riapertura del vecchio forno. Manovre opache. Mentre il capo dello Stato chiedeva a tutti qualche rinuncia, un perimetro sicuro della maggioranza, programmi concreti e nomi di livello per il premier, registrava solo pretese su temi divisivi. Ed era costretto a porsi, sempre più preoccupato, nuovi interrogativi. Come quando Di Maio ha detto che erano «in corso interlocuzioni sui nostri 10 punti fondamentali». Che significava? Con chi stava trattando? Che cosa rivendicava ripetendo che i 5 Stelle hanno la maggioranza relativa? Che Palazzo Chigi tocca a loro? E a cosa alludeva insistendo sul taglio dei parlamentari come «presupposto per la durata della legislatura»? Da martedì il Quirinale chiude la melina e aspetta risposte certe. A costo di archiviare la legislatura.
I due forni. L’irritazione del Quirinale per la politica dei due forni. È tornata la strategia andreottiana fondata sull’indifferenza per gli alleati. Sei anni dopo il discorso di Napolitano, il Parlamento non è all’altezza. La Lega, pur di non farsi cacciare all’opposizione, è pronta a cedere molto, perfino a cancellare il veto che l’anno scorso impedì al capo politico pentastellato di arrivare a Palazzo Chigi. Massimo Sorgi sulla Stampa a pagina 8.More
L’ombra dei due forni – la vecchia politica andreottiana della Prima Repubblica fondata sull’indifferenza per gli alleati, chi ci sta ci sta – s’è allungata nuovamente, dopo poco più di un anno, nello studio alla Vetrata del Quirinale, quando Luigi Di Maio ha detto al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che i gruppi parlamentari del Movimento Cinque Stelle avrebbero aperto una trattativa con il Partito democratico, ma a partire dal punto più indigesto del programma pentastellato. Quel taglio dei parlamentari che i grillini vorrebbero deciso in pochi giorni, approvando definitivamente, senza se e senza ma, il testo della riforma costituzionale contro cui il Pd in Parlamento ha votato contro già per tre volte, e alla quale invece Salvini s’è dichiarato pubblicamente favorevole. Offrendo inoltre la disponibilità a formare un nuovo governo giallo-verde, con Di Maio premier e un rafforzamento della squadra dei ministri. La crisi del 2018, durata quasi tre mesi, con un ping pong tra le due ipotesi di governo concluso alla fine con l’alleanza Di Maio – Salvini, si era trascinata per settimane e settimane proprio su quest’ambiguità che ieri s’è riproposta pari pari nei colloqui decisivi del primo giro di consultazioni. Rivelando con Zingaretti la sostanziale incomunicabilità tra i vertici di Pd e M5s, malgrado l’appuntamento fissato per oggi tra le delegazioni dei due partiti, e un reciproco gioco tattico, fatto di prezzi che si alzano e decaloghi programmatici che si allungano (cinque più tre i punti irrinunciabili messi sul tavolo dai Democrat, dieci, ma in realtà una quarantina, quelli grillini). Confermando poi con Salvini che la Lega, pur di non farsi cacciare all’opposizione, è pronta a cedere molto, perfino a cancellare il veto che l’anno scorso impedì al capo politico pentastellato di arrivare a Palazzo Chigi. E certificando infine con Di Maio che tutte le opzioni restano aperte, “le interlocuzioni per costruire una maggioranza”, come le ha chiamate, sono rivolte verso tutte le direzioni. Va da sé che un quadro del genere è apparso molto deludente al Capo dello Stato. I cinque giorni assegnati ai protagonisti della crisi per chiarirsi le idee rappresentano il minimo sindacale, rispetto a una tattica rivelatasi inconcludente, un po’ da tutte le parti. Viene da qui il sostanziale pessimismo, che Mattarella non ha mancato di far trasparire, nel breve incontro con i giornalisti alla fine dell’intensa (quanto inutile, purtroppo) giornata di lavoro sul Colle. Agli occhi del Presidente, pur con la riservatezza che lo contraddistingue, la crisi d’agosto è stata una specie di follia. I rappresentanti dei partiti giunti al suo cospetto si sono comportati con inaccettabile irresponsabilità. Il suo richiamo alle gravi decisioni che attendono l’Italia, sul piano interno e su quello internazionale, ha voluto sottolineare l’inadeguatezza degli interlocutori di fronte alla drammaticità del momento. A Mattarella, come e più di altri, non piace sentirsi preso in giro. Il Colle è forse l’ultimo luogo istituzionale in cui la liturgia delle regole, il necessario formalismo, la verbalizzazione degli incontri, siano rimasti in vigore e risultino incompatibili con le trattative parallele, il dire tutto e il contrario di tutto, dentro e fuori le spesse mura del Quirinale. In questo senso, più di tante parole, dice molto la brevità del confronto, sì e no mezz’ora, con la delegazione 5 stelle guidata da Di Maio, il leader che si era spinto a minacciare l’impeachment del Presidente, l’anno scorso, per ritirarlo nel giro di due giorni. Invece di presentarsi con una parte del lavoro già fatto, come Mattarella si aspettava, i leader dei partiti chiamati a cercare una soluzione per la crisi, sono rimasti fermi al punto in cui erano l’8 agosto, quando Salvini aveva ritirato la fiducia al governo Conte, e Renzi, subito dopo, capovolgendo la sua posizione contraria a ogni intesa Pd-5 stelle, proponeva il ribaltone, per scongiurare nuove elezioni anticipate di cui il leader della Lega sarebbe stato il vincitore annunciato. Dunque: Zingaretti scettico e irritato con il suo predecessore, per lo scippo della gestione della crisi e il “no” a elezioni che il segretario del Pd non vuole di evitare a tutti i costi. Di Maio ambiguo e intimamente contrario al nuovo assetto politico in cui si troverebbe a disagio, con il rischio di retrocedere in seconda fila, dietro un premier del suo stesso Movimento, o a metà strada tra i due possibili nuovi alleati. Una condizione assai diversa rispetto al filo diretto avuto giorno dopo giorno con Conte. Quanto a Salvini, è stato lesto a infilarsi in questo gioco degli specchi, con l’inattesa (e assai più attraente per il leader grillino) proposta di aprire il portone di Palazzo Chigi per Di Maio, che passerebbe dall’angustia e dalle difficoltà della dura sconfitta alle Europee, nuovamente a un ruolo di primo piano. Tutto questo, accompagnato dalla doppiezza che già nel 2018 aveva esasperato il Capo dello Stato, spingendolo dopo 89 giorni di crisi a convocare per l’incarico il professor Cottarelli e a prefigurare un “governo del Presidente” per por fine alla commedia dei rinvii e ai rimpalli giallo-verdi. Era stata quella mossa a sbloccare la situazione e a motivare la nascita del governo Conte. Ma rispetto a quattordici mesi fa, adesso Mattarella ha molta meno pazienza da spendere. I cinque giorni che scadranno martedì segnano un limite invalicabile, superato il quale, il Capo dello Stato, pur consapevole delle pesanti implicazioni di una tornata elettorale d’autunno, scioglierà le Camere e ridarà la parola agli elettori. Il breve e secco intervento, pronunciato ieri sera al Quirinale dal Presidente, ha ricordato a molti il duro discorso che Napolitano aveva fatto a senatori e deputati riuniti il 22 aprile del 2013 dopo la sua rielezione, quando arrivò a minacciare di dimettersi, cosa che poi fece, se il Parlamento appena insediato si fosse dimostrato incapace di assolvere i propri compiti. Più di sei anni sono passati da allora a oggi: la situazione è ferma allo stesso punto.
I tre punti del Pd. Tre nodi per dare il via al governo. Il Pd ora vuole rivedere il bicameralismo perfetto ma i grillini hanno fretta. La riforma porta i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. No alla tassa piatta, restano gli 80 euro. Correzioni sul reddito. Per Zingaretti le risorse dovranno arrivare da una seria lotta all’evasione. Cancellare il Dl sicurezza, la trattativa parte dai dubbi di Mattarella. Il Pd ricorda le lettere del Quirinale che citano principi internazionali. Stampa a pagina 3. ll Pd inventa tre paletti suicidi soltanto per far fuori Renzi Zingaretti (e Gentiloni) bloccano il taglio dei parlamentari L’ira dei renziani: «Condizioni messe per farsi dire di no». Giornale a pagina 4.
MaZinga. Per il governo MaZinga si cerca un premier “terzo”. Di Maio-Zingaretti d’accordo: trattiamo. Le tre condizioni del leader dem: via i decreti sicurezza, preaccordo sulla manovra e stop al taglio dei parlamentari. Dai gruppi M5S mandato a discutere, ma ai vertici non tutti sono convinti.
Repubblica a pagina 2.
Tranelli. Il giorno dei tranelli incrociati tra i 5s e il Pd (e dentro il Pd). Fidarsi? Le nuove condizioni di Zingaretti, le mediazioni, il Quirinale non vuole il calvario del 2018. Si decide martedì. Salvini sta alla finestra. Valentino Valentini sul Foglio in prima.
Minzolini e il sabotatore. Caos Pd-M5s, trappola Lega: il nuovo governo va all’asta. Parte dei dem spinge per l’accordo, Di Maio cincischia Salvini prova a sabotare il matrimonio ma è tardi… Scrive Minzolini: “Chi ha incasinato tutto? Quel mito di Gentiloni” dice Renzi. Ieri è stata la giornata dei sabotatori. Il petardo lo ha lanciato Gentiloni nell’incontro con Mattarella al Quirinale che in questi giorni se ne era rimasto zitto zitto, ma tutti sapevano che il suo pensiero propendeva per le elezioni anticipate. Ieri nel colloquio con il capo dello Stato ha preso la parola inaspettatamente per dire che il taglio dei parlamentari non è roba da fare, lasciando di stucco i capigruppo del Pd, che gli erano accanto, Marcucci e Delrio. Zingaretti, invece, ha fatto finta di niente, non si sa se perché complice di Gentiloni o per distrazione. Ora uno per dar vita ad un governo con i grillini può chiedergli tutto, ma proprio tutto, meno di rinunciare al taglio del parlamentari. C’è da vedere cosa si inventeranno ancora «i sabotatori», anche se pure loro corrono rischi da non trascurare: ormai sull’intesa con i 5 stelle si sono spostati tutti i maggiorenti del Pd, da Franceschini a Delrio, da Orlando a Renzi, da Prodi a Veltroni. E l’insofferenza sull’atteggiamento, per alcuni versi ambiguo, di Zingaretti, comincia a lievitare. «Il segretario non ha capito – si infervora Enrico Borghi, deputato del nord del Pd – che se si va ad elezioni e si perde, il primo a cadere è lui. In più si assumerà la responsabilità di aver permesso una svolta autoritaria nel Paese». Augusto Minzolini sul Giornale a pagina 2. More
Di proposte e di boutade nella giornata più fatidica della crisi ne sono state dette tante. Unite a sabotaggi e lusinghe. Addirittura Di Maio si è sentito corteggiare da una parte e dall’altra: il Pd gli ha fatto balenare l’idea di prendere il posto di Matteo Salvini al Viminale nel prossimo governo giallorosso; mentre Salvini, che non ha inibizioni, ha rilanciato, ipotizzando con il Capo dello Stato la premiership per Giggino, tentativo estremo di bloccare la nascita di un governo che puntando, tra l’altro, sull’introduzione di una legge elettorale proporzionale, ridurrebbe di molto le sue ambizioni future. E già, la «posta in gioco» è talmente alta che siamo arrivati all’asta. Solo che, al di là delle proposte del Pd e dei rilanci dal sapore strumentale della Lega, Di Maio ha tenuto coperte le sue carte, un po’ perché non si fida, un po’ perché scegliere pubblicamente una delle opzioni diminuirebbe la sua forza contrattuale con Zingaretti e Renzi, che restano i veri interlocutori dei 5 stelle per mettere in piedi un governo che eviti le elezioni. Un atteggiamento che ha irritato non poco il capo dello Stato, che in tutti gli incontri che ha avuto – specie con gli interlocutori della possibile maggioranza giallorossa – ha richiesto «chiarezza e rapidità»: due parole che sulla sua bocca si sono trasformate in un leit-motiv. «Debbo essere in grado di dire a chi vuole le elezioni, a cominciare da Salvini, – è l’implorazione che ha fatto Mattarella ai suoi interlocutori – che ci sono i numeri per mettere in piedi un governo vero, non un accordicchio». Solo che neppure il capo dello Stato può esagerare nel dettare alla «crisi» di governo tempi troppo repentini. Anche perché altrimenti potrebbe tirarsi addosso qualche critica: se il suo predecessore Napolitano, infatti, è stato accusato in passato di manovrare troppo per far nascere governi dal nulla, Mattarella potrebbe essere criticato di bruciare i tempi per ucciderli nella culla. Così si è arrivato ad un supplemento di riflessione fino a martedì prossimo. Anche perché ognuno ha dato la sua interpretazione dei dieci punti programmatici che Di Maio ha illustrato dopo il colloquio con il presidente della Repubblica. I leghisti per aggiungere confusione a confusione, li hanno interpretati quasi come un decalogo elettorale. Nel Pd, invece, ognuno ha dato la sua interpretazione: Zingaretti, che continua ad essere diffidente, e magari ad accarezzare le urne, si è irrigidito perché Di Maio non ha detto apertamente di aver scelto il Pd, abbandonando il Carroccio al suo destino. «Il leader grillino – ha ironizzato il segretario del Pd – non ha ancora chiarito se vuole fidanzarsi con noi o se vuole riaprire la relazione con Salvini. In questa fase sarei portato pure a porgere l’altra guancia. Ma se non chiariscono da che parte vogliono andare è difficile mettere in piedi un governo: per ora ci sono il 50% di possibilità di riuscirci e 50% no». Renzi, invece, si è mostrato molto più disponibile. «Secondo me – ha confidato metà pomeriggio l’ex premier – Di Maio ha aperto. E penso che faccia fatica Mattarella a bloccare tutto adesso. I punti di Di Maio per ora possono bastare. Anche perché tutti i partiti, in un modo o nell’altro, sono pronti a fare un governo. Teoricamente potrebbe anche dare un incarico a Di Maio. Chi ha incasinato tutto? Quel mito di Gentiloni». E arriviamo al punto: ieri è stata la giornata dei sabotatori. Il petardo lo ha lanciato Gentiloni nell’incontro con Mattarella al Quirinale. Il predecessore di Conte a Palazzo Chigi in questi giorni se ne era rimasto zitto zitto, ma tutti sapevano che il suo pensiero propendeva per le elezioni anticipate. Ieri nel colloquio con il capo dello Stato ha preso la parola inaspettatamente per dire che il taglio dei parlamentari non è roba da fare, lasciando di stucco i capigruppo del Pd, che gli erano accanto, Marcucci e Delrio. Zingaretti, invece, ha fatto finta di niente, non si sa se perché complice di Gentiloni o per distrazione. Ora uno per dar vita ad un governo con i grillini può chiedergli tutto, ma proprio tutto, meno di rinunciare al taglio del parlamentari: è l’argomento principale, la condizione «sine qua non» con cui Di Maio, infatti, può motivare di fronte alla base del movimento un cambio di maggioranza dalla Lega al Pd. Tant’è che ieri pomeriggio Zingaretti ha dovuto precipitosamente precisare un’indiscrezione che lo vedeva schierato sulle posizioni di Gentiloni. Delrio, invece, ha legato l’introduzione della riduzione dei parlamentari con un cambio della legge elettorale proporzionale: parole d’oro per i grillini che hanno sempre messo in relazione le due cose. Il «petardo» di Gentiloni, però, ha aumentato la diffidenza di Di Maio, che ha subordinato l’alleanza con il Pd ad un incontro preventivo per arrivare ad un’intesa sul taglio dei parlamentari. E, sull’altro versante, ha dato modo a Salvini di tentare di rientrare nel gioco: «Noi siamo pronti a non far mancare alla Camera il nostro appoggio sull’ultimo voto che introduce la riduzione dei parlamentari». Da qui l’asta, che, però, è solo virtuale. «Salvini – ha spiegato Di Maio ai suoi – è terrorizzato , ma noi non ci possiamo più fidare di lui». Solo che in questo modo il leader della Lega, questo era il suo obiettivo principale, ha ridato argomenti a quella decina di grillini, da Buffagni alla Taverna, che non vedono di buon occhio l’intesa con il Pd. Un’operazione di disturbo che difficilmente porterà a qualcosa: Grillo e Casaleggio hanno già benedetto il cambio di alleanza. Quindi, anche se faticosamente, la trattativa sul governo giallorosso va avanti. C’è da vedere cosa si inventeranno ancora «i sabotatori», anche se pure loro corrono rischi da non trascurare: ormai sull’intesa con i 5 stelle si sono spostati tutti i maggiorenti del Pd, da Franceschini a Delrio, da Orlando a Renzi, da Prodi a Veltroni. E l’insofferenza sull’atteggiamento, per alcuni versi ambiguo, di Zingaretti, comincia a lievitare. «Il segretario non ha capito – si infervora Enrico Borghi, deputato del nord del Pd – che se si va ad elezioni e si perde, il primo a cadere è lui. In più si assumerà la responsabilità di aver permesso una svolta autoritaria nel Paese». Mentre il bolognese Gianluca Beneamati se la prende direttamente con Gentiloni: «Tirare in ballo la riduzione dei parlamentari è l’espediente più “coglione” e scoperto per sabotare il governo con i grillini. Chi lo fa è miope, non si rende conto della posta in gioco».
Nomi. Verso un premier terzo. Si allontana il Conte bis. L’ipotesi di una donna Messaggero a pagina 5. Giovannini e gli altri “tecnici” per Palazzo Chigi. Circolano anche i nomi di Cantone e Cassese. E l’ipotesi della prima donna a Palazzo Chigi. Repubblica a pagina 3. Da Grillo la carta Giovannini. Ma poi si sfiora la rottura. La chiamata di Franceschini dopo le parole di Di Maio: non ha mai parlato di noi. Corriere a pagina 5. I Cinquestelle pronti a sacrificare Toninelli. Conte all’angolo. Proroga per il commissario Ue. Stampa a pagina 5. Commissario Ue, più tempo all’Italia il nodo sarà sciolto dal nuovo governo. Il presidente del consiglio uscente si chiama fuori ma lascia uno spiraglio: «Se me lo chiedono…». Messaggero a pagina 5.
Nomine. La partita nomine: da Alitalia ai big 400 poltrone entro l’anno prossimo. Quattrocento poltrone da assegnare nell’aricipelago delle società pubbliche. È la dote che la crisi di governo aperta da Matteo Salvini consegna al nuovo esecutivo che verrà, nel quale potrebbe rientrare il Pd, cioè lo stesso partito che ha messo l’imprimatur a quasi tutti gli incarichi in scadenza. Sole a pagina 4.
Si al dialogo. Di Maio crede all’intesa dopo le rassicurazioni sul Parlamento ridotto. Il Pd incassa una legge elettorale proporzionale. I dubbi di Casaleggio. Il sì 5 Stelle al dialogo con il Pd. C’è la fronda degli scontenti. Giallo su una frase attribuita a Casaleggio contro la trattativa. Lui: notizia inventata. Corriere a pagina 6.
Di Battista e Fico. L’imbarazzo di Di Battista che vorrebbe il ritorno al voto e l’«estinzione» dei dem. «Condivido le parole di Luigi». Ma è gelo sulla trattativa. Negli ambienti 5 Stelle il sospetto che voglia le urne per defenestrare il capo politico. Corriere a pagina 6. Conte scende, Fico sale: e adesso fa paura a Di Maio. Fatto a pagina 4).
Intervista a Di Maio. «L’intesa con i dem? Tagliamo gli eletti. E per il mio futuro non cerco poltrone. Ci vuole rispetto per Conte. Noi parliamo di temi, come il taglio dei parlamentari, che è il nostro primo punto. L’obiettivo è dare solidità alla legislatura, serve ai cittadini, serve a evitare che aumentino le tasse». Emanuele Buzzi intervista Di Maio sul Corriere a pagina 7.More
Dopo le consultazioni al Quirinale, Luigi Di Maio pare più sollevato. Il quadro politico si deve dipanare nel giro di cento ore, ma il dialogo con i dem è avviato (i parlamentari hanno incaricatoicapigruppo) e il Movimento ha fissato un decalogo che vuole essere la via maestra. In caso contrario i Cinque Stelle sono pronti per tornare a votare. Di Maio, il presidente Mattarella ha lasciato tempo fino a martedì per trovare un’intesa di governo. È soddisfatto dalla decisione del Colle? «Non mi permetterei e non rientra nella mie prerogative giudicare decisioni che assume il capo dello Stato. Colgo invece l’occasione per ringraziare il presidente Mattarella, per l’attenzione che sta rivolgendo al Paese in questo momento di difficoltà». Si riuscirà a definire il quadro di un eventuale patto di governo entro martedì? «L’obiettivoèdare solidità alla legislatura. Serve soprattutto ai cittadini, alla loro buste paga, serveaevitare che aumentino le tasse. È opportuno che si segua la strada tracciata dal presidente della Repubblica per dare certezze al Paese». Lei ha detto di aver avviato tutte le interlocuzioni possibili per uscire dallo stallo. Allude al Pd o alla Lega? «Il M5S parla di temi, come il taglio dei parlamentari, che è il nostro primo punto e una riforma storica. Manca un solo voto. Si deve fare». L’assemblea intanto ha dato mandato a trattare con il Pd. «Il confrontoèaperto con chi vuole affrontareinostri temi. Ieri è stata una giornata molto confusa sul taglio dei parlamentari. L’assemblea ha dato mandato per fare chiarezza». Ma voi sareste disposti a fare il taglio passando da una riforma del bicameralismo come chiede il Pd? «Il taglio si fa subito, non si rinvia, non ha senso. In politica per anni abbiamo sentito dire lo faremo, lo faremo. È ora di fare adesso, non domani. Se c’è volontà si fa adesso, è già calendarizzato». Intanto si parla di tre punti esposti dal Pd al capo dello Stato: abolizione dei decreti sicurezza, accordo preventivo sulla manovra e revisione del taglio dei parlamentari. «Non commento indiscrezioni, ho visto che sono state smentite». Lei ha sentito Zingaretti nelle ultime 24 ore? «Come ministro dello Sviluppo economico l’ho sentito moltissime volte». Dopo le consultazioni ha parlato con Grillo e Casaleggio? «Li ho sentiti, ma come sento Alessandro, Paola, Robertoegli altri. Siamo molto uniti e compatti, soprattutto ora ed è importante». Andrà avanti la legislatura? «Dipende dagli altri. Sappiate che l’alternativa è correre il rischio che aumenti l’Iva per milioni di famiglie e che migliaia di lavoratori si ritrovino senza un’occupazione. Noi non scappiamo dalle nostre responsabilità e il M5S c’è, con delle proposte serie, concrete. Ma ripeto: si parte dal taglio dei parlamentari e da un altro principio…». Quale? «Che ci vuole rispetto per il presidente del Consiglio Conte. Rispetto. Per quello che ha fatto. È riuscito a dare un nuovo volto al Paese rimettendolo al centro della comunità internazionale». Intende promuovere un Conte bis o proporre il suo nome come commissario Ue a eventuali alleati? «Non stiamo parlando di poltrone ma di 10 punti su cui mi aspetto una risposta». Salvini dice che l’accordo tra voi e il Pd è fatto, ma al tempo stesso vi ha lanciato segnali di apertura. «Abbiamo bisogno di dare certezze agli italiani, non di dirgli un giorno una cosa e un giorno l’altra». Su quali basi crede si possa trovare un’intesa con i dem? «Le ripeto, i nostri capigruppo si vedranno per parlare, anzitutto, del primo dei 10 punti: il taglio dei parlamentari. Da lì si capisce se c’è davvero la volontà di cambiare le cose». Quindi con la Lega è finita? «Salvini l’8 agosto ha detto di voler tornare al voto perché non voleva più governare con il M5S». Il contratto di governo è archiviato in questa fase? «Tutto ciò che è nel contratto da parte M5S ha un valore assoluto, perché risponde alle richieste dei cittadini. Ovviamente c’è una crisi in corso e in questo occorre operare per salvaguardare il Paese e gli italiani». I vostri militanti sono divisi… «Non iniziate con le solite strumentalizzazioni. Noi siamo diversi dai partiti e dal sistema e internamente abbiamo diverse anime che giustamente si interrogano su tante cose, ma hanno fiducia nel M5S. Noi continuiamo a essere gli stessi, per noi contano le proposte, i temi». A prescindere dall’esito delle consultazioni, si parla di un veto su di lei. Ha intenzione di fare il ministro di un nuovo governo? «Non me ne importa nulla della poltrona. Non penso a questo, penso come ogni eletto e attivista M5S a tagliare 345 parlamentari, a mettere in campo una serie di misure per l’ambiente, a evitare l’aumento dell’Iva, a tagliare il cuneo fiscale alle imprese, ad alzare gli stipendi degli italiani e ad aiutare famiglie e chi soffre di disabilità». Nel frattempo è scattato il toto-premier. Si parla di una donna a Palazzo Chigi… «Non partecipo ai totonomi, mi interessano la vita reale eiproblemi delle persone».
Roma e la Raggi. Stoccata di Raggi al capo politico: «Nei tuoi dieci punti manca Roma». La sindaca interviene sulla proposta dei grillini: «Quale che sia il governo dovrà tenere conto dei poteri alla città». Si allarga la distanza tra il Campidoglio e il leader M5s: «Ormai mi sento le mani libere». Messaggero a pagina 6.
Le richieste dei Cinquestelle. Intesa su ecologia e sociale. I nodi: migranti e Benetton. C’è sintonia su temi come l’ambiente e le autonomie, ma il Pd vuole lo stop ai decreti sicurezza e i 5S incalzano su autostrade. Fatto a pagina 4. Telefonata Zingaretti-Renzi: ora Di Maio chiuda con Salvini. La sfida dei dem “Il nome del premier si sceglie insieme”. Stampa a pagina 3.
Coalizione. La scommessa del Pd trasformare il patto in coalizione politica. Il segretario resta incerto sull’esito del confronto. Ma tra i dem cresce l’idea che le riforme di Costituzione e legge elettorale possano essere base di un’alleanza stabile. Bettini: “Con tre poli l’alternanza è impossibile”. Forse domani l’incontro tra Di Maio e Zingaretti. Repubblica a pagina 3.
Intervista a Matteo Orfini: “Grave aver anticipato ai media la posizione del partito prima delle consultazioni al Quirinale. Il Pd non ha dato un bello spettacolo. Sarà difficile trovare l’accordo col M5S. Se il partito non resta unito è molto rischioso imbarcarsi nell’avventura di un nuovo governo”. (Stampa p.6). La lunga attesa di Zingaretti che alza la posta e poi apre. Le prime mosse avevano suscitato l’ira dei renziani. Sala: io candidato premier? Milano ha bisogno di me. (Corriere p.8). Cuperlo «Giusto provare solo se c’è una svolta. I decreti Sicurezza contro i nostri valori». (Corriere p.8).
Il puzzle del programma. I 10 punti grillini e i 3 di Zingaretti ecco dove si incontrano e dove no. Dal taglio dei parlamentari alla riforma elettorale, dall’ambiente all’immigrazione fino all’autonomia differenziata e al conflitto di interessi Progetti, idee e culture diverse tra Pd e M5S. Che potrebbero trovare una mediazione. (Repubblica p.4)
Ne resterà solo uno. Zinga contro Renzi, e viceversa. La guerra di scacchi all’ultimo sangue per prendersi il Pd. All’ombra della crisi. Salvatore Merlo sul Foglio in prima.
Conte in campagna: “M5S e Lega? Sarebbe sindrome di Stoccolma” (Fatto p.6).
Bersani tra ricordi e consigli. «Fare lo streaming fu utile. Ora serve molta generosità». Il protagonista dell’incontro di 6 anni fa con il M5S: niente regali alla destra. (Corriere p.9).
No alla Gronda, è già lite Pd-M5s Poi Toninelli frena: si farà corretta Costi-benefici. Scontro dopo il rapporto ministeriale. Morassut (Pd): segnale che non aiuta il dialogo Noi vogliamo fare le opere strategiche. Nota dura di Aspi. Confindustria: irresponsabile comprometterla. (Sole p.4)
Salvini lancia l’ultima offerta. L’apertura su Di Maio premier. La mano tesa del ministro: io non porto rancore. Poi il summit con i fedelissimi. «Sono tranquillo». Ritenevo e ritengo che Luigi Di Maio abbia lavorato bene. Agli insulti di altri preferisco non rispondere. Tutto pur di non vedere arrivare al governo il Pd. Tutto pur di non ritrovarci con Renzi e la Boschi. (Corriere p.10). Salvini tenta Di Maio: pronto a farti premier. Il leader della Lega rilancia: governo di 4 mesi per sterilizzare l’Iva, ridurre i parlamentari, rifare la legge elettorale. Nel Carroccio non si escludono nuovi contatti con i 5 Stelle. (Stampa p.7). Salvini all’angolo offre Palazzo Chigi a Di Maio per salvarsi. La proposta del leghista: l’ex alleato presidente del Consiglio, Conte commissario Ue e lui vicepremier unico dal Viminale. Il no dei 5S. Giorgetti: “Ma perché fa tanta paura restare all’opposizione?” (Repubblica p.10).
Si mette male: Salvini non sa che fare Adesso tutto è nelle mani di Pd e M5S: solo la cabina elettorale può saIvare l’ex vicepremier. Alessandro Giuli su Libero (p.8).
L’Aventino di Giorgetti. Gli avvertimenti lanciati prima della crisi. Scrive nel suo retroscena Francesco Verderami sul Corriere (p.10). Prova l’ultima trattativa con il grillino Stefano Buffagni, così fuori tempo massimo da apparire, più che un vero tentativo di intesa, un espediente per dividere i Cinquestelle e sabotare il loro accordo con i democratici. «Anche perché — dicono nel Carroccio — se oggi provassimo a rimetterci con Di Maio scoppierebbe il Nord. E allora non ci resta che confidare in quel pezzo di Pd desideroso come noi di andare alle elezioni: chi mai l’avrebbe detto che avremmo fatto il tifo per Zingaretti?». (Corriere p.10).
Lo strappo del Nord. “La Lega di Roma ha tradito le imprese”. Partite Iva, artigiani e commercianti restano attratti dal richiamo sovranista ma le grandi industrie ora non vogliono scontri con l’Europa. (Repubblica p.13).
L’Aventino di Giancarlo Giorgetti nella Lega è la sua postura. È il modo plateale con cui in questi giorni tenta di sfuggire alle foto di gruppo con Salvini. Sono le battute surreali usate persino con i ministri del Carroccio, che liquida con un «non so nulla, chiedete a Matteo, è lui il capo». L’eclissi del sottosegretario alla Presidenza è il suo cellulare che squilla a vuoto. Sono i vani tentativi del governatore lombardo di parlargli in vista delle riunioni preparatorie per l’Olimpiade di Milano e Cortina. È la sua assenza alle consultazioni al Quirinale. Lì dove era salito in luglio per parlare con Mattarella, e non solo per spiegargli che si tirava fuori dalla corsa per la Commissione europea. Allora — raccontano fonti autorevoli — Giorgetti aveva preannunciato al capo dello Stato che l’esperienza del governo gialloverde stava per consumarsi, e d’intesa con il segretario del partito aveva delineato un percorso che faceva prevedere una deadline dell’esecutivo in settembre. Invece Salvini ha precipitato tutto in agosto. E sta (anche) nella gestione della crisi il motivo di una rottura che si evidenzia in piccole frasi e grandi gesti di dissenso, e che i leghisti avvertono epidermicamente quando sentono il Capitano scagliarsi contro «gli statisti del giorno dopo». Eppure, per quanto Giorgetti non ci sia, alla fine c’è sempre. Prova l’ultima trattativa con il grillino Stefano Buffagni, così fuori tempo massimo da apparire, più che un vero tentativo di intesa, un espediente per dividere i Cinquestelle e sabotare il loro accordo con i democratici. «Anche perché — dicono nel Carroccio — se oggi provassimo
a rimetterci con Di Maio scoppierebbe il Nord. E allora non ci resta che confidare in quel pezzo di Pd desideroso come noi di andare alle elezioni: chi mai l’avrebbe detto che avremmo fatto il tifo per Zingaretti?». A tale proposito, ieri Giorgetti aveva vissuto come un bagliore di speranza la presenza di Gentiloni nella delegazione dei dem che era salita al Colle… Per il bene del partito si augura di sbagliare, ma teme l’avverarsi della profezia che aveva confidato a Salvini quando all’inizio dell’estate lo invitava a staccare la spina a Conte: «Matteo, i nostri avversari si stanno organizzando. Non ti faranno fare le elezioni la prossima primavera». Non tutti erano d’accordo nella Lega. Nell’ultima riunione, prima del vertice di Salvini al Viminale con le parti sociali, il ministro dell’Agricoltura, Gian Marco Centinaio, aveva detto: «Occhio, che in giro la gente non è preparata alla crisi». La risposta di Borghi fu sferzante: «Frequento altri tipi di mercati, e quelli dicono che dobbiamo rompere». Ma in politica i tempi sono decisivi, e il tempo giusto era passato, nonostante la Bongiorno insistesse con Salvini: «O molliamo, o do le dimissioni». Ieri i dirigenti della Lega hanno trascorso la giornata come una volta si trascorreva la domenica: con l’orecchio teso ad ascoltare i risultati di calcio. Il cellulare al posto della radiolina, hanno saputo che Mattarella era stato «freddo e scettico con Salvini» ma che «se il Quirinale non presserà Partito democratico e Movimento5Stelle, ci sono ancora possibilità di arrivare al voto». Il fatto che si sia chiusa la finestra di ottobre, affievolisce le loro aspettative. E per il due di novembre Giorgetti ha preso già un impegno: sarà a Manchester, a vedere il City giocare contro il suo Southampton. Cattivo presagio.
I sondaggisti: con la crisi calo di consensi per la Lega. In attesa delle nuove rivelazioni sulle intenzioni di voto, che per tutti gli istituti arriveranno non prima di una settimana, molti sondaggisti concordano sul fatto che la crisi abbia generato un calo del consenso per Lega e per Matteo Salvini. (Stampa p.5).
La Bestia. Il suo team digitale costava 316 mila euro l’anno allo Stato, adesso torna a carico del partito Matteo fa gli scatoloni, ora la “Bestia” chi la paga? La macchinetta di Morisi pesava 170 mila euro, in 14 mesi sono diventati quasi il doppio. (Fatto p.8).
E ora “la Bestia” chi la paga? Tra i tanti ottimi motivi per cui Matteo Salvini vorrebbe incatenarsi al Viminale ci sono i soldi, ovviamente. Da ministro ha compiuto un’operazione rischiosa, mescolando pubblico e privato: la macchina della propaganda politica che ha fatto le sue fortune è stata trasferita in blocco a Roma. È LA FAMIGERATA “Bestia”, appunto. Un’invenzione di Luca Morisi, capo della comunicazione digitale del “Capitano”: è il team che orienta le parole d’ordine del leader seguendo gli impulsi del web e che inonda i suoi profili social con video, foto, dirette e dichiarazioni. È stato il motore dell’incessante campagna che ha portato la Lega al 34% delle Europee. Prima della nomina di Salvini agli Interni, Morisi e i suoi venivano pagati dalla Lega con un contratto privato da 170 mila euro l’anno alla società Sistema Intranet srl. Dopo le Politiche del 4 marzo, “il Capitano” se li è portati tutti al ministero: il loro stipendio al momento lo paga lo Stato. Morisi è stato assunto come “consigliere strategico per la comunicazione” a 65 mila euro l’anno. Il suo socio storico Andrea Paganella è il capo della segreteria del ministro e prende 85 mila euro. Con loro al Viminale c’è anche il figlio del presidente della Rai: Leonardo Foa, già nell’organico di Sistema Intranet dal settembre del 2017. Con i fasti romani però “la Bestia” s’è ingrossata e nello staff che cura i social sono entrati altri tre “ragazzini”: Fabio Visconti, Andrea Zanelli e Daniele Bertana. Tutti e quattro (compreso Foa) guadagnano 41.600 euro l’anno. Li paga il Viminale, malgrado la comunicazione digitale di Sal
vini non abbia nulla di istituzionale. I conti sono semplici. Prima la “Bestia” costava 170 mila euro e li pagava la Lega. Ora la macchinetta di Salvini costa 316 mila euro l’anno, quasi il doppio, e li paga lo Stato. COSA succederà quando “il Capitano” avrà fatto gli scatoloni? Non si sa: Salvini ha altro a cui pensare e non ha dato indicazioni sul destino di chi ha il contratto in scadenza. Il bilancio leghista non concede voli pindarici: i famosi 49 milioni da restituire all’erario sono stati spalmati in 76 rate a interessi zero, ma pesano per 600 mila euro l’anno. L’ultimo esercizio (2018) si è chiuso con un disavanzo di 16,5 milioni. La Lega oggi vive dei contribuiti pubblici del Parlamento e delle donazioni private dei suoi onorevoli. Se si andasse a votare – e venissero confermati i sondaggi – aumenterebbero entrambi in modo esponenziale. Per il resto non ci sono certezze. IL PROBLEMA, peraltro, non riguarda solo “la Bestia”: oltre a quelli impiegati nei social, ci sono molti altri professionisti portati da Salvini in Viminale e Palazzo Chigi (in qualità di vicepremier). C’è soprattutto Matteo Pandini, capo ufficio stampa agli Interni (90 mila euro l’anno) che dopo aver guidato l’aggressiva comunicazione del leghista sui migranti, è entrato a tutti gli effetti nella squadra della comunicazione leghista, ma rischia di dover tornare al vecchio lavoro di giornalista a Libero. Poi i vari consiglieri come Stefano Beltrame, ex console italiano a Shanghai, chiamato al Viminale per 95 mila euro, Gianandrea Gaiani (65 mila euro), esperto di Difesa e volto dei salotti televisivi, l’ex parlamentare leghista Luigi Carlo Maria Peruzzotti (41.600 euro) e il giovane Andrea Pasini (41.600 euro), blogger e imprenditore (i salumi dell’azienda di famiglia riforniscono il ristorante PaStation del figlio di Denis Verdini). A Palazzo Chigi invece Salvini ha messo a libro paga, tra gli altri, la sua storica portavoce Iva Garibaldi(120 mila euro), il sondaggista Alessandro Amadori (65 mila euro) e il consigliere Claudio D’Amico (65 mila euro), l’uomo che si occupa degli affari russi, presente al famoso incontro del Metropol di Mosca con Salvini e Savoini.
Silvio e Meloni vogliono il voto: «La Lega non faccia retromarce». Il Cav: «Sapevo che di Matteo non ci potevamo fidare, ma senza di noi non vince» La presidente di Fratelli d’Italia: «Basta bazar, le elezioni unico esito possibile». (Libero p.8). Berlusconi alza la voce con Matteo: senza di me il centrodestra non vince. Controffensiva del Cav: «Carroccio in calo, un pugno di responsabili 5Stelle può darci la maggioranza». I timori dell’ex premier e dei suoi per le proposte dei pentastellati su editoria e tv. (Messaggero p.9). Berlusconi, un’ora di incontro. «L’incarico al centrodestra oppure si va subito alle urne». Il sondaggio che rassicura Forza Italia: la Lega senza di noi non può vincere. (Corriere p.11)
La crisi e gli italiani in spiaggia: la politica supera il calciomercato. Il boom dell’informazione su La7. Sul sito del Corriere 4 milioni di utenti unici in media su smartphone, pc e iPad. (Corriere p.11). La crisi di governo manda in crisi anche la Rai sovranista, tutti sul chivalà, finite le spavalderie. Il destino del presidente imposto da Salvini. (Foglio prima).
Lettera al Corriere dell’amministratore delegato di Apple. «Più etica nel mondo digitale. L’eredità dell’amico Buttarelli». Tim Cook e il Garante della privacy scomparso: il suo lavoro darà frutti per anni. Si erano conosciuti nel 2015 aMilano «Non scendeva mai a compromessi sui suoi valori e sul pubblico interesse». (Corriere p.21).
ECONOMIA
“Vivendi fa scendere i nostri titoli in Borsa”. Mediaset presenta un esposto alla Consob. Il gruppo francese replica a Cologno Monzese: “Stiamo proprio zitti, visto che ci accusano di parlare troppo”. Il biscione attacca: il mercato ci premia, il nostro progetto è valido. L’ira di Bolloré per l’intesa tra Berlusconi e tf1. (Stampa p.20).
Tre opzioni per l’Iva. Possibili risparmi fino a 5 miliardi. Le valutazioni tecniche. Nel menù il rinvio di due o quattro mesi del blocco degli aumenti. Altre ipotesi: «rimodulazione» dei beni e possibile mix con l’aumento parziale di una delle aliquote. Effetto aumenti sulla crescita: Pil in frenata dello 0,3-0,4%. Gli incrementi di aliquota ridurrebbero il debito pubblico. (Sole p.5).
Crescita 2019 ferma allo 0,2%. Crescita dimezzata per l’anno in corso e inferiore rispetto alla precedente previsione per il prossimo. Moody’s ha tagliato le stime di crescita dell’Italia sia per il 2019 che per il 2020. Per l’anno in corso la proiezione è di una crescita modesta pari allo 0,2% rispetto al +0,4% atteso a giugno; per il 2020, invece, l’agenzia di rating si attende un’espansione al ritmo dello 0,5%, ovvero tre decimi in meno delle stime di due mesi fa. (Corriere p.28).
Pubblica amministrazione. Tremila vincitori di concorso, ma soprattutto 86 mila idonei in lista di attesa da anni potrebbero non entrare nella Pubblica amministrazione. Migliaia in graduatoria che, pur non avendo vinto il concorso, sono stati giudicati «idonei». Ma l’ultima manovra ha stabilito che le graduatorie avranno una scadenza. (Corriere p.28).
Tassi e Fed, nuovo affondo di Trump. Il presidente Usa: bene la Germania, uscire dalle sabbie mobili. Oggi l’intervento di Powell a Jackson Hole. (Sole p.16).
Ora si chiamano “prestiti magri”. Li favorisce la deregolamentazione Ma restano un pericolo per la stabilità del sistema finanziario Tornano i mutui subprime Negli Stati Uniti già 21 miliardi di prestiti. (Stampa p.21).
L’ombra della recessione. L’economia globale sta rallentando. E per l’Italia è già stagnazione. Ieri la Banca centrale europea ha lanciato un allarme sui crediti deteriorati in possesso delle banche: “Liberatevene prima che la situazione peggiori”. La grave frenata tedesca. (Repubblica p.12). Dalla Bce regole meno rigide per smaltire i crediti deteriorati. Ma i sindacati bancari avvisano: più difficile finanziare le imprese. Accolti i rilievi Ue per i nuovi prestiti. In cinque anni dimezzate le sofferenze. (Stampa p.21).
Nuova emergenza Ilva: per salvarla serve un altro Cdm. Stallo senza precedenti, mecessaria la presenza dei ministri leghisti. (Sole p.4).
I super aumenti dell’Iva a cui si è impiccata la manovra 2019 rischiano di schiacciare l’economia italiana verso un nuovo anno di stagnazione. Ma anche le misure alternative da mettere sul tavolo per evitare la lievitazione delle aliquote, nell’impossibilità di finanziare integralmente a deficit il mantenimento dell’Iva attuale, presentano un dazio in termini di crescita: perché anche i tagli di spesa hanno un effetto recessivo, così come l’aumento della pressione fiscale che arriverebbe da una revisione delle tax expenditures senza un taglio Irpef. Il tutto mentre la gelata tedesca, gli allarmi sul rischio di recessione Usa e le altre crescenti incognite internazionali spingeranno a rivedere al ribasso il +0,6% tendenziale stimato ad aprile dal governo per il prossimo anno. Su questo problema è saltato il fragile equilibrio del governo giallo-verde. Dallo stesso problema dovrà ripartire il prossimo governo, qualunque sia la via d’uscita dalla crisi. Per questa ragione tutti i partiti sostengono ora l’esigenza di fermare gli aumenti Iva; ma nessuno per ora spiega come farlo.
Cervelli in fuga, addio startup. Ogni mille persone che lasciano il Paese per via della crisi perdiamo dieci aziende innovative. Il 40 % di chi se ne va è laureato. Dalle 410 mila nuove imprese del 2010 siamo passati alle 348 mila del 2018. Penalizzate soprattutto Veneto e Lombardia. (Repubblica p.34)
9 Giornali
Facebook vuole iniziare a informare i suoi 2,4 miliardi di utenti in modo esaustivo e corretto. E per farlo ha bisogno di giornalisti e accordi con gli editori. Secondo la stampa americana, negli Stati Uniti il colosso di Menlo Park sta creando una piccola squadra di giornalisti per selezionare le notizie più importanti e metterle in evidenza. Dove? In uno spazio alternativo al News feed degli aggiornamenti degli amici che si chiamerà News Tab. Sarà soprattutto l’algoritmo a organizzare i contenuti di testate con cui Facebook è pronto a sottoscrivere accordi milionari. La squadretta di giornalisti, come detto, dovrà occuparsi solo degli argomenti caldi ed evitare quello che è successo tre anni fa nella sezione Trending, antesignana dello scandalo fake news con l’accusa di diffondere storie vecchie o false o fuorvianti, poi soppressa nell’estate del 2018. Il nuovo flusso verrà testato negli Usa a fine ottobre e debutterà, sempre negli States, all’inizio del 2020. La strategia segue quella di Apple (News) e se Facebook la perseguirà con costanza potrebbe migliorare la qualità informativa della piattaforma e dare nuove opportunità di monetizzazione ai giornali.
Fuga dal giornale tradizionale
Ricomincia il 20 settembre il “tour” del giornale più bello d’America, che rispondendo a un’esigenza diffusa – un giornale non lo vogliamo neanche regalato, ma faremmo a pugni per vedere i suoi giornalisti in carne e ossa in una cornice come si vuole splendida ed esclusiva per le masse – furbamente esce quasi solo in versione “live”. Si chiama California Sunday Magazine ed è un mensile smilzo distribuito negli Stati Uniti in accoppiata coi maggiori quotidiani (e spedito scaltramente ai Cap o Zip più abbienti e interessanti) ma soprattutto in versione dal vivo che si chiama Pop Up Magazine. Si svolge in teatri, nulla è registrato e può essere registrato o twittato, tutto avviene in diretta. “Devi essere lì, è una cosa che nasce e muore lì” ci aveva detto il direttore Doug McGray, ex New Yorker. “Spesso vai a vedere spettacoli che sono progettati per la tv, invece noi volevamo fare il contrario, per questo non li filmiamo, sono fatti per il pubblico teatrale, tu compri il biglietto, porti gli amici o una fidanzata, è un evento irripetibile, ascolti le storie perché sai che non sarà mai uguale. Qualcosa che vieni a vedere apposta”. “Non siamo in cerca dei tuoi trenta secondi di attenzione, mentre armeggi su cinque device diversi. Né del tuo tempo mentre sei a casa, con amici e famiglia mentre guardando la tv chatti o twitti, qui invece devi farti coinvolgere”, dice invece Chas Edwards, che è l’editore, quello che ci ha messo i soldi. E’ anche lo startupparo del gruppo: precedentemente ha lavorato a CNet e ha fondato il portale Digg, oltre a essere il cofondatore di Federated Media, una delle aziende pioniere nella pubblicità online. Anche le pubblicità sono estemporanee e “live”, una diversa per ogni spettacolo. Quest’anno per la rentrée che parte dalla California per arrivare dall’altra costa c’è una novità, il Pop Up Magazine diventa tematico, e il tema è la fuga. “Escape” è il titolo, e prevede fughe “dalla politica. Dal passato. Da paesi ostili. Dal climate change. Da Internet. Forse anche da noi stessi”. I biglietti si trovano online, e sono abbastanza cari.
Newsletter delle vanità “AIR MAIL”, LA NUOVA AVVENTURA EDITORIALE DI GRAYDON CARTER
Nella lotta per inventarsi giornali camuffati da non giornali, non somiglianti insomma a quei manufatti radioattivi che nessuno tollera più neppure gratuiti, adesso arriva “Air mail”, la newsletter diretta da Graydon Carter. Settant’anni da poco compiuti, ha guidato Vanity Fair America per venticinque, diventando la cosa più simile ad Anna Wintour (per temibilità, influenza, capigliatura che resiste alle mode). Ha inventato il party post Oscar, la Hollywood Issue, l’ossessione per celebrità e politica, insomma il modello del Vanity Fair che si è amato. Adesso, l’idea di questa newsletter, nata come “l’edizione del weekend di un giornale internazionale che non esiste”, secondo le intenzioni del fondatore. Arriva nella casella della posta col mittente “Graydon Carter”, che potrebbe servire come marketing snobistico. Ma non è la trovatina di un ex direttore star, anzi è, per usare un milanesismo, “tanta roba”. Sono circa venti articoli per volta, si parla di viaggi, celebrità, stili di vita, politica, perfino di Trump (Carter, che nel suo ufficio a Vanity Fair aveva un muro con incorniciati i 49 tweet che il presidente gli ha scagliato contro negli anni, “l’unico muro che è riuscito a costruire”, vagheggiava una newsletter “ideata per un mondo Trump-free”. Non ha mantenuto la promessa). Questo nuovo mondo postale di Carter costa 50 dollari all’anno, che andranno a retribuire trentuno giornalisti, tra fissi e collaboratori, la cofondatrice Alessandra Stanley (ex New York Times), il cartoon editor Bob Mankoff (ex New Yorker); e tanti, ovviamente, ex Vanity Fair.
10
ESTERI
Macron si prepara a un G7 senza accordi. Ricette anti-crisi e Iran spaccano i Grandi. Domani a Biarritz si apre il summit. Non ci sarà il documento finale. I timori per la frenata dell’economia. (Stampa p.11). G7, nell’Ue vince la linea di Berlino e Londra. «Porte chiuse ai russi». Bocciata la proposta di Trump. Via al vertice di Biarritz, tra i temi l’uguaglianza uomo-donna: per il Fmi «fa crescere il Pil mondiale» (Messaggero p.12). G6e mezzo. Da domani Biarritz blindata per il summit dei Sette Grandi. L’Italia ci arriva in piena crisi. E con un premier dimezzato. (Giornale p.10).
Stremati al G7. Conte, Trump, Merkel e tutti gli altri arrivano stropicciati e poco utili al vertice di sabato in Francia Bruxelles. Emmanuel Macron non poteva trovarsi in situazione peggiore per presiedere un vertice del G7. Il presidente americano, Donald Trump, è già lanciato in campagna elettorale e moltiplica i conflitti verbali minacciando perfino la gentile Danimarca dopo il rifiuto di vendergli la Groenlandia. La cancelliera tedesca Angela Merkel è a fine regno e alle prese con una probabile recessione. Il primo ministro britannico, Boris Johnson, è Boris Johnson e deve fare i conti con la Brexit tra due mesi. Il premier canadese, Justin Trudeau, è indebolito da scandali interni. Quello giapponese, Shinzo Abe, si è messo a fare il Trump asiatico con una piccola guerra commerciale contro la Corea del sud. Il presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, si sarà anche liberato dal peso salviniano ma ha dato le dimissioni. Non c’è da stupirsi se il presidente francese abbia rinunciato alla tradizione del comunicato finale del G7, ironizzando sui documenti “che nessuno legge”. (Foglio in prima).
Brexit, Macron non offre nulla a Johnson. Se Boris Johnson sperava di ottenere da Macron quel che Merkel non è disposta a concedergli, o viceversa, il suo viaggio tra Berlino e Parigi è stato abbastanza inutile. Il presidente francese e la cancelliera tedesca si sono mostrati uniti e compatti di fronte alle richieste del neo primo ministro britannico: niente cedimenti sul «backstop», niente concessioni al di fuori dei negoziati già conclusi da Theresa May e, ahilei, respinti dal parlamento. Ma, se il nuovo inquilino di Downing Street ha qualche brillante idea dell’ultim’ora per un’uscita concordata dall’Unione ben venga. (Corriere p.15).
Il popolo di Hong Kong: una catena umana come nell’Urss del 1989. Oggi gli attivisti comporranno un serpentone di 40 km nella città. L’iniziativa s’ispira a quanto fecero i Baltici esattamente 30 anni fa. (Stampa p.10).
Mosca porta l’energia nell’Artico con la centrale nucleare galleggiante. Salpa oggi la prima struttura mobile. La Cina raccoglie la sfida: 20 impianti nel prossimo decennio. I timori degli ambientalisti: rischiamo una Chernobyl sul mare. (Stampa p.11).
Amazzonia devastata dai roghi. Bolsonaro: “Sono state le Ong”. Il presidente incolpa le organizzazioni ambientaliste: “Hanno perso i finanziamenti, così seminano il panico”. Sui social e in piazza scatta l’indignazione: accuse false. I “fazendeiros”: pronti a occupare le terre bruciate. Ad Altamira solo il 10 agosto si sono registrati 194 incendi in poche ore. (Stampa p.13). Al ritmo di tre campi da calcio al minuto brucia il «polmone» del mondo. Bolsonaro: «Bufale per sottrarci la sovranità». Oslo e Berlino bloccano gli aiuti. Il presidente: «Merkel piuttosto riforesti la Germania». (Corriere p.15).
“L’Amazzonia muore nel fuoco. La colpa è di Bolsonaro”. Parla Galvão l’ex direttore dell’istituto brasiliano di ricerche spaziali che è stato licenziato dal presidente per aver diffuso dati che denunciano il drammatico livello di deforestazione: gli incendi sono aumentati dell’83% in un anno. Non crede al riscaldamento globale e neanche all’influenza dei nostri spazi verdi sui cambiamenti climatici. Ci porta verso il disastro. Se il governo non agisce rapidamente, in poco tempo è finita. Non solo per noi, ma per il mondo intero. La foresta tra dieci anni sarà arida come la savana. (Repubblica p.15). Ma l’Amazzonia è di tutti. Un commento di Federico Rampini su Repubblica (p.38).
Usa, le città ostaggio degli hacker. Il dilemma: pagare il riscatto? Telefoni, biblioteche, bollette bloccati. Chi non cede spende di più per rimettersi in piedi. (Corriere p.12)
I bambini soli del Mississippi: genitori (clandestini) in carcere. Centinaia si offrono di aiutarli. Gli adulti arrestati durante i raid nelle fabbriche. Solidarietà per i piccoli. (Corriere p.13).
Corridoio umanitario a Idlib. Assad prepara l’attacco finale. Damasco apre la strada ai civili che vogliono lasciare l’ultima roccaforte ribelle. (Repubblica p.24).
Un nuovo caso Regeni “Al Cairo gli arrestati spariscono nel nulla”. Sparito 74 giorni fa. Solo silenzi sull’attivista arrestato Ibrahim Ezz el-Din. La denuncia di Mohamed Lotfy, consulente legale della famiglia di Giulio. “C’è il rischio concreto che l’inchiesta su Giulio venga dimenticata. Almeno qui è tutto fermo. La strategia del regime è lasciar passare il tempo”. (Fatto p.16).
Stop del Quirinale al governo istituzionale mentre il Pd apre alla trattativa con i Cinque Stelle ed elenca cinque condizioni per iniziare a discutere. Mattarella: tempi rapidi, esecutivo politico o voto.













Che governo sarà. Mediazione possibile sulla prima donna a Palazzo Chigi. L’identikit somiglia a quello della giudice costituzionale Marta Cartabia. Tramonta il Conte bis. Dalla Bce si fa sapere che Draghi è onorato, ma indisponibile. Tommaso Labate sul Corriere a pagina 3.More
«Non ci impicchiamo al nome di Giuseppe Conte e possiamo lavorare a individuare un presidente del Consiglio “terzo”, fuori dai due partiti». A far decollare la trattativa tra Pd e M5S basta un segnale. E quel segnale raggiunge il quartier generale dei democratici qualche ora dopo la fine della Direzione del partito, che all’unanimità ha approvato la relazione di Nicola Zingaretti in cui si chiede — tra le altre cose — «discontinuità» rispetto al governo precedente. Mentre decine di peones passano il pomeriggio incollati alla tv ad aspettare una risposta del M5S alla proposta di governo di legislatura — che conicrismi dell’ufficialità arriverà soltanto nella giornata di oggi — quell’«ok», partito dalla cerchia ristretta di Luigi Di Maio, ha già raggiunto gli uomini più vicini al segretario Pd. Il fatto che il M5S sia disposto a sacrificare la sua pedina istituzionalmente più rilevante, agli occhi dei vertici del Pd, viene ritenuto un fatto nuovo. E importante. A cui bisogna dare una risposta, per uscire dallo stallo e presentarsi all’appuntamento con il presidente della Repubblica di oggi con una tela che ha già iniziato ad essere tessuta. La risposta arriva subito dopo il tramonto, quando gli ambasciatori del Nazareno lasciano intendere agli interlocutori pentastellati che «a questo punto, i nostri veti sulla presenza di Di Maio nel futuro governo», ove mai nascesse, «non ci sono più». Certo, il vicepremier uscente non potrebbe ambire ai galloni di vicepremier, forse nemmeno a quelli di un ministero di primissima fascia, tutte cose che comunque sarebbero oggetto della trattativa finale. Ma sull’ingresso nell’esecutivo, no; ostracismi di vario tipo non ne subentrerebbero. A tarda sera, quindi, i due fronti un piccolo passo in avanti l’hanno fatto. Eafari spenti. Il «nome» più atteso d’Italia potrebbe essere «terzo» rispetto ai due partiti. Da Francoforte, nel pomeriggio, fonti autorevoli della Bce hanno già fatto sapere che, seppure onorato dell’interessamento espresso da esponenti politici di più parti, Mario Draghi è indisponibile. Tolto l’asso di cuori, dal mazzo viene fuori una carta coperta, già oggetto del dialogo incrociato tra gli ambasciatori. «Il vero elemento di discontinuità, in grado di arrestare sul nascere la smania dei furbetti che potrebbero far nascere il governo per poi togliergli la fiducia a piacimento, sarebbe accordarsi su una donna presidente del Consiglio», riassume uno degli autorevoli «mister X» che fa la spola per tutto il giorno tra la Camera, il Senatoegli uffici in uso ai gruppi di Pd e M5S. La suggestione, prima che sia notte, avrebbe raggiunto sia Di Maio che Zingaretti. Una donna, insomma. La prima donna a Palazzo Chigi della storia d’Italia. Fuori dalle casacche di partitoesenza una storia politica di parte, un identikit che quindi non assomiglia ai profili di Emma Bonino o di Laura Boldrini, tanto per capirci. Un identikit che assomiglia e molto a quello di Marta Cartabia, classe 1963, giudice costituzionale. L’indicazione toglie dal panico il gruppo che guida il M5S. Un gruppo di senatori riunitosi attorno a Paola Taverna aveva iniziatoacaldeggiare elezioni anticipate. «Meglio andare adesso al voto che finirci dopo per mano di Renzi, no? Soprattutto se possiamo sfruttare la popolarità di Conte come candidato premier». Conte, interpellato, aveva già opposto il suo niet. Della serie, «non sono disponibile a candidarmi alle elezioni, se ci saranno». Il premier dimissionario, non è un mistero per nessuno, s’è defilato nella speranza che all’ultimo giro di giostra il suo nome possa di nuovo spuntare fuori. Nonostante il veto di Zingaretti. Già, Zingaretti. Dalle parti del segretario del Pd insistono su una maggioranza «il più ampia possibile» proprio per blindarsi aritmeticamente — soprattutto al Senato — dalla golden share dei renziani. E ottengono, nella massima riservatezza di un dialogo sottotraccia condotto con l’ala di Forza Italia che risponde agli impulsi di Gianni Letta, un risultato non da poco. I berlusconiani staranno all’opposizione, questo è ovvio. Ma un gruppo di «responsabili» che potrebbero diventare sensibili alle sirene di Arcore, qualora al governo nascituro servisse un soccorso, quel soccorso numerico sono pronti a offrirlo. Sempre che il governo nasca davvero.
Renzi vuole il governo, Zingaretti cerca un alleato per fermare tutto: Di Maio. La parola magica del segretario del Pd è “discontinuità”. Ma come si evita un esecutivo fotocopia del disastroso Conte? L’opzione Severino premier. Si fa sicuro, ma anche no. Sul Foglio in prima.
La prima mossa 5S: Conte bis e al Pd il commissario Ue. Ma il no dem al premier in carica è netto (renziani esclusi). La delegazione grillina oggi al Colle per aprire il dialogo sul programma. Ma c’è ancora chi spinge per la pace con la Lega. Repubbblica a pagina 2.
Pd-Cinquestelle, si tratta. I “piccoli”: «Noi ci siamo». Consultazioni al via, LeU e Autonomie pronti a entrare in un nuovo governo. I Misti: no al voto. Con l’appoggio dei gruppi minori numeri “blindati” alle Camere. La maggioranza potrebbe contare su almeno 355 voti a Montecitorio e 178 eletti a Palazzo Madama. Messaggero a pagina 2.
Il retroscena. Zingaretti e Casaleggio, la telefonata che ha aperto la trattativa: proviamoci. Il contatto a Ferragosto ha segnato il disgelo ma gli ostacoli restano molti. Il nodo del premier: tutti i dem convinti che sia necessario puntare su un nome terzo. Goffredo De Marchis su Repubblica a pagina 3.More
Si sono sentiti il giorno di Ferragosto. Nicola Zingaretti ha trovato un messaggio nella segreteria telefonica. «Sono Davide Casaleggio. So che mi sta cercando». Il segretario del Pd ha richiamato e si sono parlati. Partendo dagli auguri rompighiaccio, vista la data. Ma è un passaggio chiave della crisi. Segna il disgelo tra chi muove i fili del Movimento 5 stelle e il potenziale alleato del nuovo governo. Forse Casaleggio non aveva mai sentito o visto prima un dirigente del Partito democratico. Cosa si sono detti Zingaretti lo ha raccontato a pochissimi e non è entrato nei dettagli. Si è capito comunque che la chiamata può rappresentare un momento di svolta perché è un pezzo del dialogo tra le anime più prudenti nella trattativa. Né il leader del Pd né il figlio del fondatore del M5s escludono l’ipotesi del ritorno alle urne mentre intorno a loro ci sono quelli che farebbero l’accordo domani mattina, senza tante storie (Matteo Renzi, Dario Franceschini, Beppe Grillo, Roberto Fico). Casaleggio è andato oltre facendo intendere che in caso di voto anticipato il Movimento si affiderà alla guida di Giuseppe Conte. Il punto vero però è l’ipotesi dell’intesa per l’esecutivo rossogiallo. Zingaretti, nella telefonata, ha spiegato che avrebbe stilato un programma di pochi punti fondamentali. «Io rimango contrario ad accordicchi, a cose di corto respiro». Casaleggio ha risposto chiedendo una sola garanzia: «Il nuovo esecutivo, se nasce, non deve umiliare Luigi Di Maio». Come dire, l’ex vicepremier deve far parte di nuovo della squadra di ministri. Una possibilità che non si concilia con la richiesta di discontinuità promossa dal Pd. Ma per i leader si farà un’eccezione, se serve. Con una certezza. «Io non entro nel governo, questo è sicuro», è la condizione irrinunciabile di Zingaretti. Nessun pressing lo convincerà del contrario. Il nodo che tormenta ora il Partito democratico non è il toto-ministri, ma il toto-premier. L’altro paletto piantato da Zingaretti è il no al Conte bis. «Non possiamo fare le riserve della Lega, loro escono noi entriamo. Non è serio, è solo un ribaltone». Quando stasera la delegazione dem salirà al Colle non farà i nomi di possibili presidenti del Consiglio. La prima mossa tocca ai grillini, partito di maggioranza relativa con il 32 per cento di rappresentanti in Parlamento. Lo stop al ritorno di Conte è condiviso dall’intero Pd sebbene con sfumature diverse. Franceschini considera il bis difficilissimo, poco fair ma non da escludere a priori. Dipende come va la crisi. Se ci si impantana si può fare un sacrificio estremo. Il vicesegretario Andrea Orlando è per il no. Ma la convinzione generale è che serva un nome terzo, una figura di prestigio accettabile da entrambe le parti. Circola il nome dell’ex ministro Enrico Giovannini, quello di Raffaele Cantone. Ma sono solo voci. Adesso però Zingaretti ha il mandato pieno a trattare. Pronto a provarci davvero. La direzione di ieri ha approvato all’unanimità il suo documento, con i renziani tra i più calorosi nell’applausometro. Si è ripreso il ruolo centrale nella trattativa, quello che finora aveva recitato pubblicamente Renzi. C’è, nell’ordine del giorno finale, il programma del Pd per andare a vedere le carte grilline. Cinque punti: appartenenza leale all’Unione europea profondamente rinnovata; pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa; investimenti sulla sostenibilità ambientale; svolta nella politica migratoria basata su solidarietà, legalità e sicurezza; attenzione all’equità sociale; bloccare l’aumento dell’Iva. «Se queste condizioni saranno rispettate siamo disponibili a dar vita a un governo di svolta per la legislatura». È il via libera alla trattativa, è targato Zingaretti che ha scritto i punti martedì sera con Paolo Gentiloni, Orlando e Paola De Micheli. Non mancano i paletti contro alcune bandiere del M5s: la democrazia direttavien archiviata e c’è la puntualizzazione su come si sta nelle istituzioni europee. Ma anche grazie alla telefonata con Casaleggio, il segretario sa che il testo dei dem sarà accolto bene sulla sponda M5S. Con una differenza. «Il contratto — precisa il presidente della Regione Lazio nel discorso in direzione — è stato un errore. Lo dico non per spirito polemico ma per evitare di commettere di nuovo uno sbaglio». Deve cambiare tutto rispetto al patto gialloverde. Anche i ministri, a cominciare da quelli dem dei precedenti governi. Si ragionerà sui nomi, su eventuali ripescaggi. Per Zingaretti è troppo presto, anche se Renzi, al quale tutti chiedono garanzie sulla tenuta della linea, mette già in campo i fedelissimi Ettore Rosato e Luigi Marattin.
Salvini non s’arrende. “Governo con M5S”. E avvisa Berlusconi: “Chi fa accordi col Pd non li fa con noi”. Oggi la Lega al Colle: esecutivo a tempo su riforme e manovra o voto subito. Borghi rilancia: via dall’euro. Tommaso Ciriaco su Repubblica a pagina 6.More
Un ex premier per un ex premier: ecco la pazza idea coltivata dai vertici del Movimento per provare a sbloccare la crisi. Il piano, suggestivo ma dall’altissimo coefficiente di difficoltà, può riassumersi in due parole: scambio giallorosso. Prevede di mantenere la poltrona di presidente del Consiglio con Giuseppe Conte e di destinare quella di Commissario europeo a Paolo Gentiloni. Un ex premier per un ex premier, appunto. In modo da far nascere un esecutivo e siglare un patto di legislatura tra i 5S e il Pd. Questo progetto, considerato ragionevole anche dai renziani, è però osteggiato da Nicola Zingaretti. E non è un dettaglio. Di più: il veto del segretario dem sul presidente del Consiglio uscente è incrollabile, almeno per il momento. Per il leader del Pd, infatti, la mediazione deve partire da due punti fermi e non negoziabili: «Non diremo sì a un Conte bis e non entrerò al governo. Sul resto, possiamo ragionare». Il “resto” comprende anche la possibilità che Di Maio diventi ministro. E la casella del Commissario europeo che spetta all’Italia, un incarico che con il passare delle ore assume un peso decisivo nel risiko della crisi. In questa chiave, è impossibile tenere fuori a priori candidati del calibro di Paolo Gentiloni ed Enrico Letta, a patto di immaginare un ruolo all’altezza. Ed è proprio l’obiettivo dei pontieri del Movimento: fissare dei paletti in grado di “tentare” Gentiloni e il Pd. Il primo: il portafoglio affidato all’Italia sarebbe di alto profilo. Si ipotizza una casella rilevante come quella del Commercio, oppure la Concorrenza, che garantisce al Paese che la detiene un potere negoziale altissimo. Quasi impossibile, invece, strappare gli Affari economici, a causa dei conti pubblici italiani sempre in bilico. Il secondo punto fermo riguarda invece il contesto più generale: la missione di un ex presidente del Consiglio a Bruxelles andrebbe inquadrata in un’operazione di “ri-europeizzazione” di Roma, dopo quattordici mesi di attacchi populisti all’Unione. In questa chiave, i grillini pensano di avere incassato un credito risultando decisivi assieme al Pd per l’elezione di Ursula von der Leyen, e quindi sognano un dem a Bruxelles per garantire quella flessibilità che i gialloverdi hanno inseguito come una chimera. “Un premier per un premier”, insomma, se non fosse che Zingaretti non intende smuoversi dal suo veto e considera irrinunciabile quella discontinuità richiesta anche ieri durante la direzione del Pd. Non sarà facile raggiungere un compromesso, perché anche nel Movimento iniziano a scorgersi le prime crepe. L’ala filoleghista, assai minoritaria ma che conta su Alessandro Di Battista e Stefano Buffagni, è comunque decisa a farsi sentire. Pressa Di Maio, gli chiede di lasciare aperto uno spiraglio per una ricucitura che, al momento, appare più che improbabile. Il problema è che voci sempre meno isolate iniziano a mettere in discussione anche la figura di Conte. Bastava ascoltare ieri alcuni grillini di peso in Transatlantico: c’è chi gli rimprovera eccessiva arrendevolezza con Salvini nei quattordici mesi di governo, e chi invece gli imputa una strategia volta a scalzare Di Maio. Un ulteriore freno a un bis. Proprio Di Maio soffre in questa fase pene politiche di non poco conto. Sa che un patto con il Pd rischia di consegnarlo alle retrovie del governo, di spingerlo forse addirittura fuori dall’esecutivo, costringendolo a riporre nel cassetto il suo sogno: la Farnesina o, in seconda battuta, il Viminale. Ciononostante, ha bisogno di evitare il voto. Per questo oggi al Colle porterà i temi cari al Movimento – dal salario minimo all’acqua pubblica, il taglio dei parlamentari, la riforma della giustizia e del conflitto d’interessi – e chiederà di trattare un nuovo esecutivo partendo proprio dai contenuti. Non con tutti, però: con il Pd. Un modo per cogliere la mano tesa da Zingaretti, assecondare i cinque punti programmatici dem e accogliere l’invito del Colle a fare in fretta. È ovvio che il grillino chiederà qualche giorno per avviare la mediazione. E che lo stesso farà Zingaretti, senza escludere un secondo giro di consultazioni all’inizio della prossima settimana. Poi arriverà il tempo delle decisioni. Delle prove di governo. E dei nomi. Anche di quelli degli ex premier.
Sassoli premier sulla Verità. Avanza il mostro giallorosso con Conte, Tria o una donna. La marmellata Pd-M5s-Leu ha i numeri in Parlamento. I veri nodi: il nome del premier e la presenza dei leader. Ma Fico spera nel veto del Pd per conquistare Palazzo Chigi. Il presidente della Camera si gioca la partita della vita. Se i dem affossano il Conte-bis, corre per la premiership. Giornale a pagina 3.
I Dem sfidano i Cinquestelle: Sassoli dall’Ue a Palazzo Chigi e Letta jr alla Commissione. Oggi Zingaretti farà il nome dell’ex mezzobusto come premier. E chiederà di sostenere l’anti renziano a Bruxelles. Verità a pagina 4.
Le previsioni di Arturo Parisi. “Per adesso l’accordo è difficilissimo. C’è il pericolo che gli elettori dei due partiti si sentano traditi dalla politica e si rifugino nell’astensionismo. I tempi del confronto dem-grillini sono importanti quanto i contenuti. Non c’è bisogno di cessioni o concessioni Adesso serve una convergenza”. Francesco Grignetti intervista Arturo Parisi sulla Stampa a pagina 5.More
Professor Arturo Parisi, che pensa della possibilità di un accordo tra M5S e Pd?
«Non difficile, difficilissimo. Al momento lo direi al massimo non impossibile. E tuttavia non provarci equivarrebbe a riconoscere a Salvini non solo la prima parola ma anche l’ultima. Che il tentativo riesca o fallisca quello che conta è il come. Cioè a dire alla luce del sole, senza saltare nessun passaggio e dedicando ad ognuno il tempo che merita. Solo così si può immaginare di riuscire a spiegare perché quello che fu ritenuto impossibile l’anno scorso è diventato d’un colpo possibile ora. La scoperta improvvisa del pericolo che Salvini rappresenta per entrambe le forze non è sufficiente. Se la crisi fosse stata aperta da Conte e dai 5S, in risposta alla sfida che Salvini ha aperto alla democrazia di tutti, con la richiesta dei “pieni poteri”, e non invece dal suo tradimento verso il patto di parte con Premier e grillini, di certo l’accordo che ora cerchiamo sarebbe meno lontano».
Il problema è fissare un programma di governo, fatto di tante cose concrete, dove i sì e i no pesano.
«Che l’accordo debba essere serio, onestamente lo dicono quasi tutti. Ci mancherebbe pure il contrario. Ma se le scelte concrete sui temi che contano sono quelle che decidono è perché sono quelle che consentono di mettere a confronto la profonda diversità nelle ispirazioni di partenza. Come dimenticare che, se non fosse stato per Salvini, i 5S si riconoscerebbero accomunati ancora con lui in quella ispirazione che chiamiamo populismo. E mai avremmo sentito dalla bocca del Presidente Avvocato del Popolo la denuncia dei fatti e degli atteggiamenti che da troppo tempo erano sotto gli occhi di tutti».
Parlando di cose concrete, come far convivere la decrescita felice e una nuova stagione di investimenti? Qualcuno dovrà cedere.
«Non è di cessioni o concessioni quello di cui abbiamo bisogno, ma di una convergenza che tenga almeno per il tempo dato. Ecco perché i tempi e i modi del confronto contano non meno delle cose. Non vorrei che qualcuno si attendesse che in pochi giorni si potesse produrre un accordo migliore di quello che l’anno scorso ha chiesto ai 5S e alla Lega tre mesi. Non dico del percorso che in Germania aveva impegnato tra il settembre 2017 e il marzo 2018 democristiani e socialisti per dar vita al quarto governo Merkel».
E l’immigrazione? Zingaretti invita alla gestione dei flussi. Il M5S fino a ieri, sempre più a fatica in verità, ha appoggiato la linea di Salvini.
«Che si tratti della immigrazione o dell’assalto alla Unione Europea onestamente dobbiamo riconoscere che le posizioni dei partner del governo ora caduto si sono andate nel tempo allontanando. Se anche grazie ai cedimenti dei 5S la Lega si è sempre più radicalizzata, i 5S si sono in qualche modo moderati. Senza di questo l’accordo del quale parliamo non potrebbe essere neppure ipotizzato. E tuttavia senza la rottura di Salvini le due forze avrebbero continuato sulla strada seguita fino allora».
Lei una volta disse che è meglio perdere piuttosto che perdersi. Ecco, non teme che i due popoli, quello grillino e quello della sinistra, così accaniti tra loro, escano disorientati e ci sia un rifiuto ulteriore della politica?
«E’ la mia preoccupazione principale. Che in questo girotondo vorticoso, una volta “cascato il mondo” e “cascata la terra”, i rappresentanti in Parlamento finiscano “tutti giù per terra”. E i cittadini sconcertati si appartino nel cinismo o nell’astensionismo. Perderemmo e ci perderemmo tutti».
Perché chiamare Orsola l’incontro rosso-giallo, e non Ursula?
«Perché sono cose diverse. Prodi è stato chiarissimo. Ursula ha avuto l’obiettivo della difesa della costruzione europea dall’assalto sovranista. Ma un patto per il governo italiano prevede altri temi, dall’organizzazione della economia alle disuguaglianze e ai diritti sociali, non comuni a tutte le forze che in Europa si sono ritrovate nella elezione della Presidente della Commissione».
Mastella critica Salvini. “Ha agito malissimo ed è stato castigato per la sua disinvoltura. Sfiducia ma senza dimettersi. Da Salvini scene mai viste come patate e banane insieme. Zingaretti non può dire no a un governo perché non si fida di Renzi: così il Pd potrebbe esplodere. Stampa a pagina 5.
Mattarella 1. Stop del Quirinale al governo istituzionale. Le scelte di Mattarella per un esecutivo che non sia (soltanto) antielezioni. L’unica strada sarebbe quella di un governo politico, che si formi senza esploratori. Napolitano gli ha espresso le preoccupazioni sulle scelte economiche. Marzio Breda sul Corriere a pagina 2.More
Qualcosa comincia a muoversi, nel percorso tutto in salita per dare all’Italia un nuovo governo dopo che quello gialloverde si è dissolto in Senato l’altra sera. Ma siamo ancora agli inizi. La rincorsa di tweet, comunicati e interviste degli esponenti dei partiti che tentano di allearsi offre per il momento a Sergio Mattarella soltanto segnali di buona volontà. Per lui conterà davvero ciò che quelle forze politiche diranno oggi, presentandosi al Quirinale. Con una discriminante destinata ad avere un peso decisivo per il capo dello Stato: questo che si vorrebbe far nascere non dovrà essere unicamente un esecutivo «contro le elezioni», ma un’entità istituzionalmente salda, con una maggioranza numerica chiara e con un programma di forte respiro politico, tale da durare un’intera legislatura. È dunque in bilico tra speranza e scetticismo, e per forza di cose molto prudente, l’approccio del capo dello Stato ai primi scambi negoziali tra Pd, Leu e 5 Stelle, che si dichiarano impegnati a evitare — insieme — lo scioglimento delle Camere. La prima giornata di consultazioni non ha portato novità di rilievo. Si è aperta con il colloquio telefonico tra Mattarella e Giorgio Napolitano, fuori Roma, durante il quale il presidente emerito ha espresso sostegno per la linea scelta, girandogli però qualche osservazione preoccupata e dubbiosa sulla difficoltà che si riesca ad armonizzare fino in fondo le diverse visioni in campo economico (con inevitabili riflessi sulla prossima manovra) dei partiti candidati a formare la futuribile coalizione. Non avrebbero evocato, i due, il precedente del governo Monti, «inventato» il 16 novembre 2011 da Napolitano per superare il drammatico allarme finanziario che aveva portato lo spread a superare quota 560, oltre ad annichilire il gabinetto Berlusconi IV. Un caso troppo lontano dall’attualità, inverosimile solo parlarne. Tuttavia quell’esecutivo aveva forse in mente l’interlocutore (non ne è trapelato il nome) che ieri ha chiesto a Mattarella se, come extrema ratio, sia possibile un esecutivo istituzionale, scelto e insediato da lui stesso. Il presidente non gli ha neanche consentito di completare la domanda, pronunciando un secco no e aggiungendo che quel no troverà modo di ripeterlo pubblicamente, nei prossimi giorni. Insomma: non resta che un governo politico, che si dovrebbe materializzare da sé senza far scendere in campo «esploratori» di sorta, o il voto. E la praticabilità della prima alternativa sarà verificata con la sfilata delle formazioni maggiori, oggi. Il Partito democratico ha ormai messo le sue carte sul tavolo, con il mandato a trattare (purché in una logica di «discontinuità» rispetto all’esperienza gialloverde) che ha affidato all’unanimità a Nicola Zingaretti. Mentre i pontieri del Pd e dei 5 Stelle sono rimasti al lavoro per l’intera notte cercando di costruire convergenze, il capo dello Stato ha comunque già fatto capire il proprio metodo e i propri intendimenti a chi è sfilato ieri nel suo studio: lui non si schiera tra quanti vogliono nuove elezioni e quanti vogliono invece un nuovo esecutivo. Il suo compito, ha ripetuto, è quello di registrare la volontà del Parlamento. E di farlo presto, stavolta, per due motivi: 1) perché in un’eventuale emergenza d’agosto bisogna che ci sia un governo in carica, con unità di vedute e di intenti; 2) perché più tempo passa, più diventa concreto il rischio che si vada all’esercizio provvisorio di bilancio, con conseguenze sui risparmi degli italiani. Qui sta il nodo politico imposto da questa crisi e che lega le mani a Mattarella. Il quale, nell’ipotesi di un fallimento delle trattative in corso, spedirebbe tutti alle urne con un governo di garanzia elettorale. Se gli domanderanno qualche giorno di tempo in più, lo darà. Ma qualche giorno, non di più.
Mattarella 2. “Entro lunedì un nome o si va a votare”. Il presidente vuole impegni chiari per un governo di legislatura: risposte subito, nessun incarico esplorativo. Escluso un esecutivo del presidente: “I partiti si assumano la responsabilità”. Stampa a pagina 4.
Mattarella 3. “Senza accordo c’è solo il voto”. Primo giorno di consultazioni, il presidente della Repubblica invita i partiti a “fare presto” per evitare l’esercizio provvisorio. In caso di ritorno alle urne nascerà un esecutivo elettorale al posto dell’attuale. Non ci saranno mandati esplorativi Servono nome del premier e programma entro la prossima settimana. Repubblica a pagina 7.
Macron e la crisi. Sulla crisi interviene il presidente francese Macron: “L’Italia merita dirigenti all’altezza”. Il presidente francese sostiene Mattarella. “Stare con l’estrema destra non funziona mai. Di Maio è il grande perdente. La lezione che ci viene dall’Italia è una sola: pensare che allearsi con l’estrema destra sia un modo di reinventare la politica non funziona”. Repubblica a pagina 13.
Commissario Ue. Congelata la nomina del commissario Ue, la Lega protesta. Intreccio con la formazione del nuovo governo: un candidato Pd (Enrico Letta in pole) faciliterebbe l’intesa con M5S, ma c’è anche l’ipotesi Conte. Scadenza del 26 agosto non perentoria. Sassoli in campo con Von der Leyen per concordare qualche giorno in più. Il precedente della slovena Bartusek che da premier si candidò e fu bocciata. Sole a pagina 4.
Ipotesi Letta. “Io commissario Ue per l’Italia? Sono concentrato su altri temi”. È il massimo che i giornalisti sono riusciti a strappare a Enrico Letta che sono in molti ad accreditare per l’incarico che spetta al governo italiano indicare a Bruxelles. Oltreché per un ruolo nel nuovo esecutivo. L’ex presidente del Consiglio, oggi presidente dell’Istituto Delors in Francia, non sembra disinteressarsi alla scena politica nazionale da cui è lontano da qualche anno. “L’Italia ha bisogno dell’Europa e l’Europa ha bisogno dell’Italia. Una Ue senza un’Italia protagonista non è Europa e l’Europa è più debole senza una presenza attiva dell’Italia”, ha detto ieri al Meeting di Rimini. Fatto a pagina 3.
Ipotesi Conte. Ue, cresce l’ipotesi Conte. Merkel lo chiama. Per l’Italia ritorna possibile la Concorrenza. Von der Leyen apprezza l’avvocato in chiave anti-Salvini. Anche Bruxelles nella partita rosso-gialla. Le ipotesi di Letta e Moavero. Da sabato il premier uscente al G7 di Biarritz. Messaggero a pagina 3.
A CASA DEL PD.
Obiettivo. Primo obiettivo di Zingaretti è cancellare il «contratto». Il segretario soddisfatto del sì unanime in direzione. Trattativa possibile, ma con una personalità nuova. Corriere a pagina 5.
Zingaretti al Messaggero. «Nessun veto su Di Maio. Renzi? Passa la mia linea». Il leader del Pd: «Ok a Luigi ministro. M5S accetti i nostri punti o salta tutto. I grillini non si fidano di Matteo ma la sua scissione è un’eventualità. Io premier? Ho già altro da fare, sono governatore del Lazio e segretario Dem. Non ci deve essere un contratto sui programmi, si è già visto che questo strumento non funziona». Simone Canettieri sul Messaggero a pagina 4. More
Vuole tenersi leggero. Forse per sfuggire alle trame di Renzi o a quelle dei grillini. E così Nicola Zingaretti, dopo aver incassato l’unanimità in direzione sui suoi 5 punti, si concede un’insalata all’ultimo piano della Rinascente. Per poi ficcarsi al Nazareno. Un tragitto di poche centinaia di metri a piedi. Abbastanza sufficienti per provare a capire come si muoverà il Pd oggi al Quirinale.
Segretario Zingaretti, con questi cinque punti proposti al M5S sta togliendo gli alibi ai grilini o a Matteo Renzi?
«Non si tratta di togliere alibi a nessuno. Il M5S accetta questi punti o fa saltare il banco e se ne prende la responsabilità. Ma almeno così è chiaro che da parte nostra, come Pd, non c’è alcun tipo di subalternità».
Di Maio però sembra non cedere sul Conte-bis: ci sono margini di trattativa?
«Zero. Conte non va bene: non si può dire che gli altri, ovvero Salvini, hanno sbagliato, e riprendere a governare come se nulla fosse cambiando solo alleato».
Quale figura immagina: serve un civil servant?
«Sta dicendo un uomo di Stato, un alto servitore delle istituzioni?»
Sì.
«Questa può essere una soluzione, una di quelle sul tavolo, ma bisogna fare un passo per volta e ascoltare, soprattutto, il Capo dello Stato».
Ma non potrebbe essere lei il premier di questo governo di legislatura?
«Faccio il presidente della Regione Lazio e il segretario del Pd e credo siano già due impegni molto gravosi e intendo continuare a fare questo».
Se sarà, sarà comunque un matrimonio complicato tra voi e il M5S. Non servirebbe un contratto?
«Per carità. Il contratto di governo non funziona: lo abbiamo visto in questa triste pagina gialloverde. Non si può pensare che ci siano due vicepremier che si curano i rispettivi orticelli e che poi litigano su tutto. Cinque punti chiari sono la soluzione. Con la manovra al primo posto».
Lei chiede forte «rinnovamento» ai grillini nei temi e anche nei nomi. Sta sbarrando la porta a Di Maio nell’esecutivo?
«No, anzi. Non ho alcun veto su Di Maio nel governo. Ma non si potrà far scendere in campo la stessa squadra che ha perso già una partita. Comunque è veramente molto presto per parlare di nomi. Per il resto mi fermo qui. In questa fase, in cui tutto è ancora precario, occorre fare un passo per volta».
Ma non la preoccupa in questa trattativa il ruolo di Matteo Renzi? La scissione nel Pd è un elemento che potrebbe complicare il quadro?
«Qui non ci sono camere segrete. La scissione di Renzi è un’eventualità che nemmeno il diretto interessato nasconde, vedremo. Ma io sono il segretario del partito e devo tenere tutti dentro la stesso schema di gioco. E ci stiamo riuscendo bene».
Ma la prima apertura al M5S è arrivata da Renzi, non da lei.
«Allora mettiamo in ordine i fatti. La proposta di Renzi, cioè quella di un governo istituzionale di breve durata, non ha ricevuto alcun tipo di reazione nel M5S».
E perché secondo lei?
«Perché, credo, che i grillini non si fidino di lui. Sfido a trovare una dichiarazione di un esponente politico che gli abbia detto di sì».
E la giudica allora una mossa di puro protagonismo?
«Non so se sia stato una mossa di puro protagonismo, quella di Renzi. Il dato politico è un altro: nessuno ha risposto alla sua sollecitazione. Mentre con il M5S, dopo la direzione di oggi, adesso c’è un ragionamento aperto grazie alla nostra proposta forte e cristallina. Che mette i grillini davanti a una scelta di campo. Ma che soprattutto, allo stesso tempo, dice che il Pd è pronto a spendersi per il Paese, senza aver paura di tornare al voto. Senza un governo forte e con obiettivi evidenti per noi ci sono solo le urne».
Ma quante sono le probabilità che l’intesa arrivi in porto? Si sente di sbilanciarsi. E più per il sì o per il no?
«Innanzitutto, aspetteremo come è ovvio le decisioni del presidente della Repubblica e quello che avrà da dirci. Ma il partito è unito su una proposta forte. Per il resto, non mi sento di sbilanciarmi in alcun modo. E’ tutto molto prematuro. A proposito cosa ha detto Di Maio dei nostri cinque punti? Ha parlato? Ci sono dichiarazioni del M5S?»
No, al momento silenzio di tomba. O d’oro (Sono le 14.30, ma le bocche dei grillini rimarranno cucite per tutta la giornata). Al di là delle smentite di prassi, quante volte al giorno si sente con Di Maio al telefono? Zingaretti, ride, i suoi occhi si fanno piccoli.
«Diciamo che sento molto spesso il mio portavoce al telefono».
Si apre il cancello posteriore del Nazareno, il segretario dem entra nel cortile. Si tocca le tasche dei pantaloni per cercare il telefono. Chissà chi lo avrà cercato nel frattempo: Dario o Luigi?
Nuovo premier. E svolta europeista. I paletti del Pd per l’intesa con il M5S. Il segretario Zingaretti: “No accordicchi, serve un esecutivo di cambiamento o meglio il voto. Per me la partita inizia ora: dobbiamo attendere la risposta degli interlocutori che finora non c’è stata”. Gentiloni: La direzione del nostro partito? Bene, direi. Un buon documento, un ottimo documento. Delrio: L’agenda ora conta più dei nomi. Il Pd ha abbastanza chiaro che a trattare sarà il segretario Zingaretti. Stampa a pagina 2.
Contro Zingaretti. Il segretario alza il tiro col M5S. Ma il Pd lo lascia subito solo. Zingaretti prova a dettare le condizioni per l’accordo. La direzione approva all’unanimità, ma intorno sono già tutti pronti a firmare la tregua con Di Maio & C. Il veto sul premier e la caccia ai numeri: Delrio e Marcucci però non la pensano così. Fatto a pagina 3.
No al Conte bis. Il no al Conte bis, la paura di una scissione, i timori di un sabotaggio del nuovo esecutivo: i due partiti si fronteggiano La diaspora dei dem dietro l’unanimità in direzione Il leader: “Se si fa il governo merito mio, non di Renzi”. Stampa a pagina 2.
Boschi. «Darò una mano. Nel governo con i grillini? Anche no, grazie…» dice al Corriere a pagina 5 e poi intervistata da Repubblica: “Il governo con i 5S durerà fino al 2023. Se Renzi non fosse intervenuto saremmo già sotto elezioni. Anche chi lo odia dovrebbe ammetterlo. La mia foto in bikini in risposta a Salvini? Gli uomini possono mostrarsi seminudi e le donne no?” Giovanna Casadio intervista Maria Elena Boschi su Repubblica a pagina 4.More
«Anche chi odia Matteo Renzi dovrebbe riconoscere che la sua mossa ha rovinato i piani a Salvini». Maria Elena Boschi, deputata dem ed ex ministra delle riforme, pensa che il Pd dovrebbe apprezzare l’iniziativa dell’ex premier nei confronti dei 5Stelle. Ed esclude di entrare in un possibile governo rossogiallo: «No, grazie. Non farò il ministro ostaggio. Chi lo farebbe?». Boschi, Salvini è sempre un rischio o è fuori dai giochi? «Salvini ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare. Ha aperto una crisi di governo nella settimana di ferragosto per poi ritirare addirittura la mozione di sfiducia a Conte una settimana dopo. Voleva andare al voto e ora fa di tutto per non mollare la poltrona. Sicuramente non ha più l’aura di invincibilità che aveva fino a qualche giorno fa e anche dentro il suo partito cominciano a dubitare della sua lucidità politica. Certo la sua spregiudicatezza politica lo porta a fare e dire tutto e il contrario di tutto senza vergogna. Ma ora è in un angolo grazie a Matteo Renzi». In che senso, grazie a Renzi? «Se non ci fosse stato l’intervento di Renzi oggi saremmo con Salvini in campagna elettorale sulla spiaggia a parlare di immigrazione. Anche chi odia Renzi dovrebbe riconoscerlo». Ma un governo di responsabili con i 5Stelle non rischia invece di fare crescere i consensi per il leader leghista? «No, se il governo farà cose buone per gli italiani a cominciare dall’evitare l’aumento dell’Iva al 25%. E comunque non penso che andare al voto subito sia una garanzia di successo per il Pd». Lei è uno dei bersagli preferiti di Salvini. «Lo considero un punto di merito, sicuramente non ha gradito la mia proposta di presentare una mozione di sfiducia nei suoi confronti per lo scandalo dei rubli russi. Più Salvini attacca me, Renzi e in generale il nostro gruppo, più certifica che stiamo facendo la cosa giusta: siamo stati capaci di rovinargli i piani». Avere risposto con un selfie in bikini, all’insulto del ministro dell’Interno di essere una mummia, è stata una mossa di cui si pente? La hanno accusata di prestarsi al sessismo. «Per niente, lo rifarei. Fatemi capire: un uomo può fare foto seminude e una donna non può fare foto in costume? Questo mi pare sessismo. Peraltro mi hanno fotografato per anni in bikini sulle spiagge. Non mi pare una grande novità vedermi in costume». Farebbe il ministro di un governo 5Stelle-Pd? «No. Ho già chiarito che posso dare una mano sui contenuti se può essere utile. Voterò la fiducia anche se con fatica, se nascerà il governo. Ma fare il ministro con i 5Stelle, no grazie». Però per molti dem sarebbe l’unica assicurazione contro il sospetto che poi voi renziani ve ne sganciate. «Mi piacerebbe che fosse riconosciuto a Renzi e ai renziani di avere fatto una cosa per il bene comune non per l’interesse privato. Basta con i retroscena e i retro pensieri, guardiamo alla realtà. Il nostro appoggio ci sarà finché l’ipotetico governo farà cose utili per gli italiani, non farò il ministro ostaggio. Chi lo farebbe?». Cosa ci si deve aspettare dalla Leopolda? Un primo passo verso la scissione di Renzi, del resto annunciata e poi congelata? «No. A parte che non abbiamo mai annunciato scissioni, casomai l’abbiamo subita, la Leopolda è l’occasione per fare proposte utili al paese, molte sono diventate leggi come le unioni civili o la fatturazione elettronica». Le condizioni poste da Zingaretti per il patto con i grillini la convincono? Voterebbe il taglio dei parlamentari su cui il segretario glissa? «Zingaretti ha il sostegno unanime di tutti. Nessuna polemica. Tutti avanti insieme. Sul taglio dei parlamentari, ne discuteremo». Quale durata prevede per un governo rossogiallo, se nascerà? «Se devo fare una previsione dico che si va alla scadenza naturale. Sicuramente all’elezione del presidente della Repubblica, ma secondo me fino al marzo 2023». Il nodo premier: esclude un Conte bis? Un nome o una rosa di nomi che le piacerebbero? «Adesso che la crisi è aperta dobbiamo aspettare le indicazioni che verranno dal capo dello Stato visto che è una sua prerogativa». Le urne sono per Zingaretti la prima opzione, mentre per Renzi no. E per lei? «Le urne sono l’ultima opzione per gli italiani: rischiamo un salasso per le famiglie e la recessione per il paese. Quanto alla paura di Renzi di andare a votare, ho apprezzato che abbia sfidato Salvini a correre nel collegio di Firenze o di Milano. La strada maestra è evitare l’aumento dell’Iva. Nel 2014, dopo il 41% del Pd alle europee, abbiamo rinunciato a chiedere elezioni che sarebbero servite a noi, ma non al paese. Abituiamoci al fatto che si vota ogni cinque anni, non a ogni cambio di sondaggio».
Modello Lazio. “Il governo si può fare”. Parla Smeriglio, braccio destro di Zingaretti e teorico del modello Lazio: dove Pd e grillini sono quasi fratelli. Davide Allegranti intervista Massimiliano Smeriglio sul Foglio in prima.More
Massimiliano Smeriglio, europarlamentare, vicinissimo a Nicola Zingaretti, di cui è stato vicepresidente in Regione, è da tempo un teorico e un pratico (nel Lazio) del dialogo fra Pd e M5s. “Con – divido profondamente l’esito della direzione del Pd di oggi (ieri, ndr). La strada è molto stretta e le condizioni sono complicate”, dice Smeriglio al Foglio, “ma la via maestra è quella di un governo di legislatura, forte e politicamente qualificato. Bisogna superare la farsa dei contratti, che normalmente regolano i rapporti tra privati, mentre qui stiamo parlando del paese”. Dunque, dice Smeriglio, “dobbiamo provare a trovare un programma condiviso, pur tenendo conto delle differenze che esistono tra sinistra e M5s. Il tentativo va fatto a partire dalle cose che ha detto Zingaretti su Europa, tenuta repubblicana, sulle questioni climatiche, sul modello di sviluppo, sul welfare, sui diritti individuali delle persone e verificare se esistono le condizioni per costruire un governo di legislatura. Da tempi non sospetti predico nel deserto il disgelo tra queste due forze, per favorire una forma di normalizzazione del M5s, che poi nei fatti è avvenuta”. Il percorso, tuttavia, osserva Smeriglio, “è a ostacoli. A oggi l’opzione delle elezioni anticipate rimane sul tavolo. Ma il Pd vuole tentare la strada in salita e ambiziosa del governo di legislatura”. Il tema è “come noi arginiamo e sottraiamo consenso popolare alle tesi razziste e nazionaliste di Salvini che, pur essendo un personaggio poco credibile e grottesco, è però il terminale italiano di un movimento mondiale che predica forme di governo post democratiche. Quelle di Salvini sono istanze mondiali che hanno una loro solidità e che hanno egemonizzato una parte consistente del popolo. Magari con l’aiuto di qualche rublo. Noi dobbiamo ripartire da qui. Quindi niente schemini tecnocratici, un errore che la sinistra ha già commesso in altre fasi storiche del paese. Dobbiamo verificare con coraggio se esiste un’opzione politica alternativa a quella razziale del capro espiatorio, della ferocia e della paura rappresentate da Matteo Salvini”. Eventuali elezioni a ottobre “le faremmo col coltello tra i denti, ma sarebbero in contemporanea alla Brexit e alle elezioni in Polonia, dove potrebbero vincere gli ultranazionalisti. La crisi democratica potrebbe non riguardare solo il nostro paese ma l’intera Unione. C’è dunque molto in ballo, non è solo una vicenda provinciale. Per noi il nemico da battere è Matteo Salvini, cioè colui che in questi mesi ha avvelenato i pozzi e tentato di cambiare il dna del nostro paese, rendendolo un luogo feroce e disumano”. Naturalmente, sottolinea Smeriglio, non bisogna dimenticare le responsabilità dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. “A noi va bene il processo postumo a Salvini ma non basta. Perché anche il M5s deve fare i conti con un’esperienza di governo assolutamente negativa, di cui sono stati protagonisti. Non raccontiamoci favole, il M5s era presente e aveva incarichi di prestigio. Quindi servono piena discontinuità programmatica e figure che possano rappresentare un nuovo modello per il paese. Quindi faccio fatica a immaginare che possano farne parte persone che hanno già avuto un ruolo nel governo che ha aperto la porta a Salvini, lo ha legittimato e fatto crescere”. Si riferisce a Di Maio? “A chiunque abbia avuto un ruolo in questo fallimento. Si vada avanti con altri”. Ma questo eventuale nuovo governo fra Pd e Cinque stelle dovrebbe mantenere il reddito di cittadinanza? “Su questi temi le mie posizioni sono più simili al M5s che a quelle della mia area. Io credo nel reddito cittadinanza, il basic income esiste in 24 paesi Ue su 27, qui però è stato fatto un disastro, lo hanno trasformato in un meccanismo clientelare e parassitario. Penso sia giusto investire nell’empowerment delle persone e noi in piccolo nella Regione Lazio abbiamo fatto un reddito di cittadinanza per gli studenti universitari. Quindi il reddito e il salario minimo sono due misure su cui si può discutere insieme. Magari subito dopo aver detto parole chiare sulla vergogna della guerra alle ong e ai poveri cristi presi in ostaggio, come nel caso della Open Arms”.
Grillini no grazie. M5s? Preferirei di no: “Diffido di questa conversione grillina. Sono gli stessi antidemocratici di sempre. Non vorrei aver lottato contro Salvini per ritrovarmi con Rousseau”. Intervista a Emma Bonino. “Governare col M5S? Tutte le maggioranze sono legittime, ma non tutte sono accettabili”. Carmelo Capone intervista Emma Bonino sul Foglio in prima.More
E’ insomma è vero, come ha detto Giuseppe Conte servendosi del Manzoni, che “chi il coraggio non ce l’ha non se lo può dare”, ma chi lo ritrova alla fine, somiglia agli eroi della sesta giornata, quella specie di cui scriveva Leonardo Sciascia e molto diffusa in Italia, “persone dedite all’eroi – smo che non costa nulla”. Dice quindi Emma Bonino: “Scopro anche io una deferenza subitanea nei confronti di Mattarella e più si gonfia questa deferenza e più mi appare sospetta. Direi interessata”. E c’è anche la deferenza del Pd, nei confronti di Roberto Fico, (“impressiona la sua imparzialità”), quella verso Conte (“bene il suo discorso”) che si dimette ma che spera di rimettersi dopo aver mostrato i muscoli che non sapeva di avere. “Chi ha avuto ruoli e si è messo nei pasticci ha il dovere di tirarsi fuori da nuovi e possibili governi”. Il Pd ha il dovere di trattare con il M5s? “Io credo che la trattativa sarà difficilissima. E non solo per il Pd. Il M5s dovrebbe disfare tutto il suo programma, rimettere al centro il ruolo del parlamento e dell’Eu – ropa. Naturalmente cancellare immediatamente il decreto sicurezza primo e secondo che ha votato con convinzione. Così come dovrebbe rinunciare al taglio dei parlamentari”. E insomma c’è tutta l’enciclopedia radicale nella voce della Bonino, la sola capace, in Senato, di fare imbarazzare Conte, gentiluomo ma pur sempre complice, e oggi l’unica ad avere memoria del vaffa. “E’ vero che in Parlamento tutte le maggioranze sono legittime, ma questo non significa che tutte siano accettabili”. E’ compatibile l’idea di democrazia del M5s con quella del Pd? “A differenza di tanti, io diffido da questa conversione sulla via di Damasco del M5s. Non dimentico il tonno, le sardine, il parlamento che dicevano di voler superare. E ancora, la democrazia del sorteggio: ‘I parlamentari? Perché non li tiriamo a sorte’ consigliava Beppe Grillo. Improvvisamente sono passate in secondo piano tutte le loro stupidaggini, le castronerie – non mi riferisco alle gaffe geografiche, quelle le posso anche giustificare – pronunciate dal M5s. Non mi preoccupa questo florilegio che però andrebbe riproposto, ma l’assoluta mancanza di rispetto delle regole democratiche da parte di questo Movimento”. E però, non hanno ancora chiesto pieni poteri come ha fatto Salvini “E’ vero. Sono la prima a spaventarmi e denunciare il lessico crudele utilizzato fino a oggi dal ministro dell’Interno. Sono la prima a ritenere che con la sua lingua, Salvini abbia sdoganato l’odio razziale, ma è sufficiente? Basta questo per fare finta di non vedere l’idea che ha della giustizia il M5s?”. E davvero lo dice con tutto lo spavento e il raccapriccio di chi le ha viste tutte e non può tollerarne altre, ma lo spavento successivo sarebbe quello di transitare dalla democrazia autoritaria del Papeete Beach a quella diretta, ma da Davide Casaleggio. “Non vorrei trovarmi ad aver lottato contro Salvini per poi ritrovarmi a lottare con la piattaforma Rousseau. Io non vorrei imbarcarmi”. Non sono cambiati i parlamentari del M5s? “L’esperienza o ti ammazza o ti fa crescere. Non andrò sull’Aventino, non mi opporrò perinde ac cadaver, ma spero soltanto che il prossimo non sia un governo necessario ma che sia un governo decoroso”. Sarà di certo un governo che dovrà presentare la legge di bilancio all’Europa. “E finalmente, dato che è in nome dei conti che si dovrà formare, può essere l’occasio – ne per spiegare una volta per tutte che non è materia da radical chic. Vede, io non sono pessimista e neppure ottimista. Ma sono determinata”. Pieni poteri? “Determinata a recuperare un po’ di stato di diritto”.
I cinque punti del Pd.
«L’impegno e l’appartenenza leale all’Ue. Non l’Europa di Visegrad — sottolinea il segretario Zingaretti— ma quella del lavoro, dei diritti e dei doveri, delle libertà». Il M5S aveva assunto posizioni critiche nei confronti di Bruxelles.
Il punto sulla centralità del Parlamento serve al Pd per ribadire che il luogo del confronto è l’Aula dove i parlamentari agiscono «senza vincolo di mandato». Il M5S ha invece regole stringenti per i suoi «portavoce», pena l’espulsione.
È il punto su cui probabilmente ci sono le maggiori affinità tra le due forze politiche. Già l’ex segretario Renzi puntava sulla green economy e il M5S ha sempre espresso sensibilità ambientale. Ma resta il nodo grandi opere.
«Rispetto delle convenzioni internazionali e l’impegno per affermare un pieno e diverso protagonismo dell’Europa in questi temi». Zingaretti richiama i valori dell’accoglienza contro i decreti sicurezza votati dal M5S.
«La legge di bilancio è il punto di partenza», ha preso atto Zingaretti. Il Pd ha bocciato il reddito di cittadinanza e insiste sugli investimenti. Il M5S punta alla legge sul salario minimo. Entrambi vogliono la riduzione del cuneo fiscale
A CASA RENZI.
A scuola. Sulle colline del lucchese, l’ex segretario Pd, lontano dalla capitale, avvia la scuola politica per 200 under 30. Stampa a pagina 3.
L’ex premier apre la sua scuola politica in Toscana: con la mia proposta ho superato il solco tra Pd e M5S. Renzi nel suo fortino. «Io starò fuori, ora tocca a Nicola». Corriere a pagina 6.
Le Frattocchie renziane con 224 ragazzi ma senza social. Fatto a pagina 3.
Al Ciocco la scuola politica dell’ex premier. E Renzi fa votare i ragazzi: “Sì all’intesa coi grillini”. Repubblica a pagina 4
Renzi dice sì a Conte: “Io farò lo sminatore”. Non si può far saltare tutto per un nome. Questo governo deve nascere e durare: servono due anni per uccidere la Bestia. Marco Lillo sul Fatto a pagina 3. More
Matteo Renzi, pur di far nascere il governo M5S-Pd, è disposto a trasformarsi da “rottamatore” in “sminatore”. Nel giorno in cui Nicola Zingaretti mette il veto sul ritorno di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, l’ex presidente del Consiglio ancora una volta rischia di rubargli la scena. E prima che Zingaretti giri per sempre la chiave per serrare la strada del ritorno dell’avvocato, mette un piede nella porta che si sta per chiudere: “Non ho nessuna preclusione verso il Conte bis”, è quello che ha confidato ieri l’ex premier ai suoi. Al Fatto risulta che il ragionamento fatto da Renzi ai suoi (diametralmente opposto a quello ascoltato dagli stessi interlocutori la settimana scorsa) sia questo: “Non ci possiamo permettere di far saltare questa delicatissima operazione politica per i nomi. Ormai è tutto noto: il Paese sa del nostro tentativo di formare una nuova maggioranza con il M5S. Sarebbe da idioti farne una questione di poltrone. Salvini ci distruggerebbe nelle urne. Siamo a metà del guado, non possiamo fermarci. Questo governo deve nascere e durare almeno due anni”. Renzi ai suoi ha spiegato così il ruolo che vuole disegnarsi: “Gli altri sminestrano, noi sminiamo”. Renzi vuole il Giglio magico fuori dai ministeri e preferisce togliere questo e altri ostacoli sulla via del governo giallo-rosso. La metamorfosi è anomala e repentina come questa crisi. Appena cinque giorni fa, Renzi era un fiero sostenitore del veto a Conte. Ieri così spiegava la sua inversione a U: “Resto dell’idea che il M5S avrebbe dovuto proporre un premier diverso per una maggioranza diversa, però ho apprezzato il suo discorso e se la conferma di Conte diventa il problema sul quale salta tutto, sono disposto a votarlo”. LA PRIMA SCELTA a Palazzo Chigi, per lui, sarebbe Raffaele Cantone, ma crede che sbagli chiunque si irrigidisca sul nome. Sia chi mantiene il veto nel Pd sia chi, come alcuni M5S, dice “o Conte o morte”. Un atteggiamento, secondo Renzi, figlio dell’euforia eccessiva seguita alla corrida di martedì al Senato. “Io e Conte abbiamo fatto nero Salvini –ha detto Renzi ai suoi –ma attenzione: non è finito. Sarebbe un’illusione scambiare il Senato per l’Italia. Lo abbiamo umiliato ma nella piazza è un altro film. Per uccidere ‘la Bestia’ ci vogliono due anni”. L’ex premier teme che il Pd e il M5S non abbiano compreso il livello della sfida: “Dobbiamo avere un uomo forte al ministero dell’Interno”, ha detto Renzi ai suoi, ricordando la capacità comunicativa e operativa dell’attuale capo della Polizia, Franco Gabrielli. La ‘trimurti’, come la chiama Renzi, che dovrebbe reggere l’urto dell’onda di ritorno del sovranismo cacciato dal Viminale, è composta da Raffaele Cantone (ministro, se non premier), Nicola Gratteri alla Giustizia e Gabrielli appunto al Viminale, al posto di Salvini. E il premier? Renzi vuole così tanto il governo da essere di manica larga: “Si parla dell’ex ministro Paola Severino o di altri professori universitari con esperienza di governo. Mi va bene tutto. Sono disponibile – ha spiegato senza ironia Renzi – ad accettare anche un professore che ha detto no al mio referendum, purché si faccia questo governo”. Su Roberto Fico, molto gradito all’ala che fa capo a Franceschini, Renzi non chiude del tutto ma dubita dell’autorevolezza internazionale. Comunque una cosa è chiara. Il governo se sarà, sarà politico. Nessun appoggio esterno: “Ci vogliono persone in grado di andare in Europa a trattare. Abbiamo bisogno di una Finanziaria espansiva nel 2021”. Il ministro dell’Economia? Renzi, come il M5S, boccia Tria, che è gradito al Quirinale. Molto meglio un politico del Pd. Non un renziano ma un uomo di Nicola Zingaretti. L’europarlamentare Roberto Gualtieri potrebbe essere l’uomo giusto. Per Renzi.
A CASA CINQUESTELLE.
Si al dialogo. Il M5S dice sì al dialogo con i dem e Di Maio frena su Fico premier. Il leader alla ricerca di un nome da offrire al Pd. Ma la base resta divisa su un esecutivo con Zingaretti. Barillari: no a un’intesa col Pd. L’idea di allearsi con loro fa inviperire molti attivisti. Carlo Sibilia: è chiaro che i rapporti con la Lega non si sciolgono dall’oggi al domani. Fattori: «C’è voglia di proseguire. Luigi si concentri sul ruolo di capo politico. Non è indispensabile il bis del premier».
Corriere a pagina 7.
I nomi. La questione dei nomi blocca i Cinque Stelle: nessuna risposta per ora ai democratici. Il leader del Nazareno: ok al capo politico grillino ministro. No invece a Di Battista. Di Maio insiste su Conte e mette il veto su Fico: in cambio Gentiloni all’Ue. I parlamentari 5 Stelle contrari all’ipotesi di far votare l’intesa sulla piattaforma web. Stampa a pagina 3.
“Noi ci siamo”: Di Maio oggi dà il primo via al Quirinale. Il capo del Movimento incontra i capigruppo delle commissioni per preparare la campagna elettorale. Ma è per l’accordo con i dem. Fatto a pagina 4.
Tentazione Viminale per il leader di M5S Grillo: la base capirà. Dopo le consultazioni Di Maio riunirà i gruppi per avere un mandato pieno. Ma i dubbi restano. Mail di Rousseau ai parlamentari: le urne sono possibili. Messaggero a pagina 7.
Paola Taverna: “I 5 punti del Pd? Vaghi, non dicono nulla: ora parola a Colle e iscritti”. Fatto a pagina 4.
A CASA LEGA.
Urne lontane. Salvini vede le urne lontane e cerca la rivincita alle Regionali. Il leader ai suoi: l’accordo c’era da settimane, forse mesi. E spiega: con le loro percentuali alle elezioni rideremo. Corriere a pagina 8.
Ultimo appello ai grillini. Salvini, ultimo appello: porte aperte ai grillini. Ma è allarme sondaggi. Il leader prova a puntare su un governo di transizione per la legge di bilancio. E avverte FI: «Se va col Pd addio centrodestra». I suoi: molti M5S ci chiamano. Messaggero a pagina 8.
Abbiamo la manovra pronta. Salvini ai deputati: “Andate in giro e spiegate ai militanti le nostre ragioni”. E sulla scelta dei tempi: “Evitiamo i consiglieri del giorno dopo”. Giorgetti: “Voto o governo Pd-grillini? 50 e 50”. Annuncia di avere una manovra già pronta da 50 miliardi di euro, ma sotto il 3% di deficit-Pil. Annuncia di avere una manovra già pronta da 50 miliardi di euro, ma sotto il 3% di deficit-Pil. Stampa a pagina 6.
Le mosse del Carroccio. «Che diranno gli Usa di un governo Pd-5S?». E Matteo si prepara all’opposizione dura. Oggi salirà al Colle coi due capigruppo: «Mattarella escluderà governini». Giornale a pagina 8.
La Bestia. Così la «Bestia» prepara la nuova offensiva. La macchina della propaganda leghista contro l’asse tra il Pd e il Movimento. Corriere a pagina 8.More
«Libera la bestia che c’è in te»: l’invito ai lettori de Ilpopulista.it, sito internet vicino a Matteo Salvini, suona come una dichiarazione di guerra nel bel mezzo della crisi di governo. La macchina della propaganda del Carroccio, che sembrava imballata nella snervante attesa dell’epilogo del governo Conte, ha ripreso subito velocità. Sotto la regia di Luca Morisi, spin doctor del Capitano e ideatore delle strategie del consenso, è ripartita la campagna rivolta alla pancia degli elettori. Dalla ministra Trenta a Prodi, dalla Merkel all’asse M5S-Pd: ieri Salvini su Twitter ha attaccato tutti a testa a bassa. E lo staff della comunicazione, finora in carico al ministero per quasi 300 mila euro l’anno (ma a breve pagato dai gruppi parlamentari del Carroccio), ha attivato il tam tam della Rete. Morisi stesso è sceso in campo con il profilo personale, pubblicando una foto di Conte con un effige di Padre Pio: «Quello che oggi criticava Salvini per l’esposizione di simboli religiosi. Lo riconoscete???» ha cinguettato su Twitter il super comunicatore da 65 mila euro all’anno più la consulenza per la società di cui è azionista. «E siamo solo all’inizio, racconteremo agli italiani la verità sui social» trapela dal Viminale. La parola chiave della nuova campagna è #inciucio, con riferimento alla possibile alleanza Pd-M5S, che accompagna l’hashtag principe del credo salviniano: #portichiusi, un evergreen. La strategia è chiara: Matteo Salvini e Luca Morisi sferrano l’attacco sul web, supporter e troll rilanciano creando l’onda che non teme di infrangersi sulla scogliera del politicamente corrette. Come suggerisce ilpopulista.it, «sii audace, istintivo e fuoricontrollo».
Critiche. Sui social di Matteo ora parlano i leghisti delusi. Sui profili del “Capitano” le critiche arrivano anche dai suoi elettori: “Stai sbagliando”. Fatto a pagina 6.More
N on sono molti, non sono molto evidenti ma ci sono. I delusi della Lega hanno messo fuori la loro testolina social e nei commenti ai post del loro “C a pi ta no ”, nei giorni scorsi, hanno iniziato a esporre dubbi sulle mosse di Salvini. Le reazioni sono arrivate mentre, nell’ordine, il leader del Carroccio sfoderava cartucce ormai vecchie e ritrite: dal colloquio tra Giuseppe Conte e Angela Merkel a un meme-confronto tra le politiche di accoglienza del ministro Elisabetta Trenta e quelle di Laura Boldrini. Nulla di nuovo, dunque. ANCHE I NUMERI sono i soliti, decine di migliaia di commenti, di “mi piace” e condivisioni (come naturale su una pagina Facebook da oltre 3 milioni di fan), moltissimi i messaggi di soste- (quello degli italiani ) non ti interessi lo abbiamo capito”, scrive una utente che, da una verifica sul suo profilo, sembra simpatizzare da tempo per la Lega. “Tardi ma lo abbiamo capito!”. In molti le si oppongono, le consigliano di andare su altre pagine più affini. “A me dei 5 stelle non interessa – risponde –, io ho votato Salvini e ho creduto nella sua fermezza (come un mantra ha ripetuto che il governo avrebbe resistito fino all’ultimo giorno del mandato e invece…). Proprio perché sapeva che diamine sarebbe successo dopo, giammai avrebbe dovuto far cadere questo governo. Ora sono cavoli amarissimi!”. NON È LA SOLA. “Per me hai sbagliato strategia, dovevi arrivare a fine legislatura”, scrive un altro. “Spero vinca Salvini, ma purtroppo credo che non tornera (refuso dell’utente, ndr) mai piu in un governo. Ha fatto una cazzata di proporzioni bibliche”, c’è chi risponde. Scrive Barbara: “Sa l vi ni , mi dispiace solo di averti difeso in alcune occasioni e aver creduto in te. Ora ti mando a quel paese”. E ancora: “Avevi la mia stima, ma con le cose di Dio non si scherza. Lei ha seminato solo oddio (refuso dell’utente, ndr) ora in Italia c’è solo il terrore”. Pietro, prima dell’in te rvento in Senato, scriveva preoccupato: “Matteo però pensa bene a cio (refuso dell’utente, ndr) che fai noi non sapremo mai i veri motivi che ti hanno portato a questa scelta, siamo tutti con te comunque vada, ma pensaci bene perchenstai (refuso dell’utente, nd r) consegnando il paese alle sinistre più becere e antiitaliane… chissà perché poi tutto questo… mah hai è andata… però da questa cosa ci aspettano tempi duri di patimento…”. L’eco di Elisabetta è simile: “Ho paura!!! Molta paura di quello che può succedere. Salvini credo in te ma non capisco bene perché adesso far cadere il governo. Lo so i Cinque stelle non sono il massimo, ma stavi facendo cose che nessuno ha mai fatto. Sei sicuro dei sondaggi? Sei sicuro che andremo a votare? Mahhh!!!”.
Il successo di Conte. «I like per Conte sui social? Di sinistra, mi sembra Fini». Lo stratega web della Lega: Matteo ha perso contatti ma risale. Messaggero a pagina 8. More
«I o genietto? Sono sopravvalutato, dai». Luca Morisi è il domatore della Bestia, la macchina della propaganda social di Matteo Salvini, il Capitano (soprannome coniato proprio da questo mantovano di 46 anni, laureato in Filosofia). «È vero: Matteo nei giorni della crisi ha perso sui social, ma ora stiamo risalendo», ammette Morisi di passaggio alla Camera. Anticipando la domanda successiva. «Conte – continua – ha fatto un incredibile exploit su Facebook e Instagram negli ultimi giorni perché prende i like di quella di sinistra». Ricorda un po’ il Gianfranco Fini che fronteggiò Berlusconi? «In parte sì, ma ha sempre volato alto e soprattutto non ha un profilo politico: piace alle casalinghe». Intorno alla Bestia girano miti, veleni e forse fatti verosimili. Per esempio quanto costa? «Non è vero che la Bestia per andare avanti abbia bisogno di chissà quanti soldi e né che usiamo i bot russi (falsi profili sui social network che fungono da moltiplicatori per Salvini e orientano l’opinione pubblica-ndr). Morisi ha la faccia da bambino e lo sguardo un po’ luciferino, da genietto del male come lo chiamano nel Carroccio. «La verità è che Matteo Renzi è ossessionato dalla Bestia. Fondi russi per alimentarla? Ma figuriamoci, ma quando mai. Queste sono ossessioni». Ora per Salvini inizia la traversata nel deserto: sarà dura la propaganda sui social senza la rampa di lancio del Viminale? «Macché, non abbiamo paura di andare all’opposizione. Ricordo che abbiamo preso la Lega quando era al 3%, figuriamoci se ci spaventa uscire dal governo». Intanto, il Capitano ha appena terminato un’intervista al Tg2, Morisi lo segue nei corridoi. Salvini getta lo sguardo sul Transatlantico vuoto con l’Aula chiusa: «Scusate ragazzi, ma dove si esce?».
Parla Morisi. Il colloquio con l’uomo del digitale di Salvini. Morisi: “Sì, con la crisi abbiamo perso like e Conte ne ha presi tanti”. La crescita sui social del premier è stata incredibile. La Bestia? Non costa molto, siamo gli stessi da quando eravamo al 3%. Repubblica a pagina 7. More
La Bestia sanguina. E il domatore è scosso. «Beh – sospira Luca Morisi – non svelo un segreto se dico che sui social in questa crisi Conte è cresciuto tantissimo. Ha avuto un exploit in-cre-di-bi-le». Eccolo, il genietto che gestisce le piattaforme Facebook, Twitter e Instagram di Salvini. Che lo condiziona più di Giancarlo Giorgetti. Eccolo nella saletta stampa di Montecitorio, ombra del leader che parla alle telecamere il giorno dopo il pestaggio politico al Senato. Come si dice, nella buona e nella cattiva sorte. La battaglia in Senato ha chiuso una parabola infernale lunga dodici giorni. Per la prima volta da anni, Salvini ha perso contatti sui social, like, follower. Ed è come se gli avessero tolto l’aria. «È vero – non si sottrae Morisi – nei giorni della crisi siamo calati. Però da ieri siamo tornati a crescere, abbiamo questi dati. Sì, Conte cresce da giorni. Perché prende i like di quelli di sinistra, tantissimi like». Perché parla ai mondi lontani da Salvini, dice il guru che dissemina post lungo la rete. «Piace a sinistra. Come Fini con Berlusconi? Mah, in parte. Però Conte ha un profilo più alto. Ha sempre scelto argomenti in cui si mostrava “esterno”. Una faccia nuova, non contaminata dalla politica». Lo ascoltasse Rocco Casalino, che è un po’ il Morisi del premier dimissionario, brinderebbe di gioia. Perché Morisi e la sua Bestia sono potenti, assetati di like e senza scrupoli social: «La verità è che siete voi a descriverci così. Non è vero che il nostro sistema costa molto. Non è vero che va avanti con chissà quali soldi. Non è vero che usiamo i bot russi (dei finti account che amplificano l’audience sui social, ndr). Solo Renzi non lo capisce, è ossessionato». Sarà, ma molti pensano che questa macchina di propaganda costi tantissimo, sia benvoluta ad Est e rischia di restare senza benzina quando Salvini lascerà il Viminale. «Ma no, non c’è nulla di vero. Se la Bestia costa tanto? Siamo gli stessi di quando avevamo al 3%». Come Salvini, anche Morisi ha vissuto giorni migliori. La sconfitta è stata bruciante. La Lega si è ficcata in un bel guaio con la crisi ad agosto. E chi ha conquistato milioni di follower con la Bestia soffre, inevitabilmente. «La verità è che mi sopravvalutate…». È lui, in realtà, ad aver deciso da consulente di postare le foto del leader col mitra. Che ha costruito la battaglia contro chi bussa ai nostri porti. Che del Capitano – lo chiamano così, tra loro, anche se magari domani qualcuno lo retrocederà a Caporal maggiore –ha fatto pubblicare centinaia di foto mentre mangia sushi, carbonara, pasta al ragù, tortellini e tortelloni. A furia di giocare con gli algoritmi della macchina infernale soprannominata Bestia, il guru dei social l‘ha condotto dal 3% al 34,3% delle ultime Europee. «Ma adesso non ci spaventa nulla, neanche andare all’opposizione». Difficile che la Bestia approvi.
La base. Da Pontida a Treviso, la voce dei territori dopo il flop del governo. “Grillini inaffidabili, noi da mesi chiedevamo di staccare la spina”. Tra i sindaci delusi della Lega: “Matteo è finito nel trappolone”. Giusto tornare alle urne, ma occhio che non ci rifilino lo stesso bidone di Scalfaro nel ’94. Stampa a pagina 6.
Giorgetti. Lo sfogo di Giorgetti: «Salvini non può più fare tutto da solo». Il sottosegretario: il «one man show» non basta più, gli servono struttura e consiglieri. Giornale a pagina 8.
Insofferente. L’insofferenza di Salvini alle critiche di Giorgetti. Foglio a pagina II More
“Dei consigli del giorno dopo non me ne faccio niente”. Parola di Matteo Salvini. La frase, racconta chi c’era, è scivolata quasi inosservata, nel solito profluvio di slogan motivazionali. E però chi doveva capire, pare che per un attimo abbia in effetti strizzato gli occhi. “I consigli li accetto il giorno prima, non il giorno dopo”, ha scandito il leader della Lega davanti ai suoi deputati, riuniti a Montecitorio per una ennesima, e abbastanza inconcludente, assemblea di gruppo. E il riferimento che tutti i più accorti hanno colto era ovviamente a Giancarlo Giorgetti, che nelle ultime settimane ha espresso più volte, in modo più o meno esplicito, la sua divergenza di vedute rispetto al leader sulla gestione della crisi. E se anche quell’allusione pungente di Salvini non fosse stata abbastanza chiara, a rendere plastica la non eccelsa intesa tra il Capitano e lo stratega, il front-man e l’“eminenza ligia” del Carroccio, è bastata la scena che s’è svolta pochi minuti dopo, proprio davanti l’entrata di Montecitorio. Perché lì tutti i deputati, e anche qualche esponente di governo leghista, sono stati precettati per fare la claque, sul modello delle coreografie sdoganate dalla Casalino&Associati nei mesi scorsi. Salvini parlava coi cronisti, e tutti applaudivano. Tutti, tranne Giorgetti. Che un po’ sbuffando e un po’ mugugnando, se ne stava in disparte, all’ombra, a parlare al telefono. Finché Iva Garibaldi, l’infaticabile portavoce di Salvini, gli si è avvicinata e lo ha richiamato all’ordine. “Giancarlo, i giornalisti stanno chiedendo delle tue critiche alla strategia di Matteo. Vieni a dire che non c’è alcuna divergenza, che tu non dissenti?”. Al che Giorgetti s’è messo a ridere: “No, io dico che dissento da Salvini perché convoca le conferenze stampa sotto il sole a 40 gradi”, ha scherzato. E però l’ansia con cui gli spin doctor leghisti si sono affannati a esibire una concordia un po’ posticcia, con tanto di foto del leader e del suo vice a favore dei cronisti, ha reso paradossalmente ancora più evidente la crepa.
Lo sfiduciato immaginario. Non ha spiegato il perché della crisi, né perché vuole il voto. Né risposto alle critiche. Il disperato discorso di Salvini in Senato smontato punto per punto da Giuseppe De Filippi. Foglio a pagina I. More
Matteo Salvini, ministro dell’Interno. Ri – farei tutto quello che ho fatto. Tutto!. Con la grande forza di essere un uomo libero; ciò vuol dire che non ho paura del giudizio degli italiani. In quest’Aula ci sono donne e uomini liberi e donne e uomini un po’ meno liberi. Chi ha paura del giudizio del popolo italiano non è una donna o un uomo libero. Già si parte male, con un’affermazione contraddittoria rispetto al suo stesso operato, sia nella nascita del governo del cambiamento, quando si fece un accordo parlamentare incoerente rispetto agli schieramenti con cui si era condotta la campagna elettorale, sia nella scelta successiva di sfiduciare il presidente del Consiglio senza fornire una chiara ragione per un atto così grave, resa poi ancora più insensasta con il ribaltamento in poche ore che ha portato alla decisione di ritirare la mozione per ragioni puramente opportuninstiche. La preferenza per il voto, espressa in modo così stentoreo, non ha un legame logico con quelle due scelte e con il rovesciamento della seconda scelta. Molto semplicemente. E’ il sale della democrazia. Mi permetta, Presidente, però di dire che mi spiace che lei mi abbia dovuto mal sopportare per un anno. E’ una novità di oggi. Non l’avevo capito, me ne dolgo. Pericoloso, autoritario, preoccupante, irresponsabile, opportunista, inefficace, incosciente: bastava il Saviano di turno a raccogliere tutta questa sequela di insulti. Non serviva il Presidente del Consiglio. Bastavano un Saviano, un Travaglio, un Renzi, non il presidente del Consiglio. Sarà anche vero che ciascuno a modo suo – Saviano, Travaglio e Renzi – non apprezzano Salvini, ma in quest’Aula è il presidente del Consiglio a rivolgergli le contestazioni sulla sua persona e sulla sua azione politica. Insomma, è comodo scegliersi gli interlocutori con la fantasia e decidere di litigare con chi fa comodo. Ma in quell’Aula Salvini era chiamato a confrontarsi con i senatori e con un presidente del Consiglio verso il quale aveva promosso una mozione di sfiducia (e quindi comprensibilmente un po’ arrabbiato). Anche perché noi abbiamo a cuore l’Ita – lia che sarà non domani mattina in base ai sondaggi o ai social, ma l’Italia del 2050. E chi gli ha chiesto di intervenire sul 2050? Ma che dibattito è? Non dovrebbe invece illustrare le ragioni della sua mozione? Dire perché non voleva più Conte e dire poi dire perché invece lo voleva ancora, avendo ritirato la mozione? Vorrei rilevare, come attestano i numeri, quale sarà la situazione del paese nel 2050, se esso non verrà guidato con coraggio e libertà. Spero che chi è in quest’Aula lo sappia, ma tengo a trasferirlo a chi è a casa, all’Italia reale, non all’Italia virtuale che spesso e volentieri ha interesse a mantenere solo la sua poltrona. Altre affermazioni senza legame con quanto sta accadendo in Aula e con quanto era accaduto sulla scena politica dall’8 agosto esclusivamente su sui iniziativa. Salvini voleva la sfiducia nel 2019, non nel 200, di cui parla da futurologo improvvisato e senza alcuna pertinenza con i temi in discussione. Al Paese reale, che lavora, che oggi è in ospedale, in azienda, in ufficio. Perché – permettete – mi – la critica più surreale di tutte è stata che non si fanno le crisi d’agosto, perché agosto per i parlamentari è sacro. Questa critica è pura invenzione salviniana, nessuno ha mai contestato la sua volontà politica di portare alla crisi di governo in agosto per ragioni legate alla centralità delle vacanze, tuttavia vediamo che il leader della Lega continua a fare riferimento a una crisi di governo della quale sembra disconoscere la paternità. Insomma non lo dice da papà, ma da passante. I parlamentari lavorano a ferragosto, come lavorano tutti gli altri italiani. Non si capisce perché agosto no; luglio sì, settembre sì, ma agosto no. Facciamo i senatori o i Ministri un mese sì e un mese no. I problemi ci sono. E’ evidente. Io, presidente del Consiglio, non parlavo male di alcuni colleghi, non mi permetto. Tuttavia, da Ministro dell’interno, per quanto pericoloso e autoritario a suo dire, porto a casa un’Italia più sicura dopo questo anno di Governo. E chi lo dice? Quali dati? Quali giudizi? E poi chi glielo ha chiesto? Io non ho fretta, ho il tempo che hanno gli uomini liberi che non hanno paura di mollare la poltrona e metterla in mano al popolo italiano. Non c’è problema. Signor Presidente, mi permetta solo una sfumatura e poi racconto a quest’Assem – blea e a chi è fuori l’Italia che abbiamo in testa e che abbiamo nel cuore, che non è un’Italia che cresce dello zero virgola, bensì un Paese che merita visione, coraggio, lealtà, sacrificio e giustizia, quella vera. Parlo di un Paese dove ci sono 60 milioni di presunti innocenti fino a prova contraria e non 60 milioni di presunti colpevoli. Questa è la differenza tra uno Stato di diritto e il ritorno alla giungla. Molto generico, ma ancora fuori tema. Lui doveva dire in Aula perché non voleva proseguire nell’azione di governo e non parlare genericamente di programmi politici, che comunque stridono con le ralizzazioni concrete della Lega in termini legislativi, sia riguardo al presunto garantismo rivendicato in Aula, sia riguardo allo stimolo della crescita. A proposito di sovranità, libertà ed Europa, citazione per citazione, torno a Cicerone: la libertà non consiste nell’avere un padrone giusto, ma nel non avere nessun padrone. Io non voglio un’Italia schiava di nessuno, non voglio la catena lunga come i cagnolini, non voglio catene. Ancora affermazioni non collegte al dibattito e neppure alla realtà dell’operare leghista e alla stessa azione di governo salviniana, delle quali si ricordano invece le frequenti e pubbliche iniziative per legare l’Italia alla Russia putiniana, configurando anche rapporti di sudditanza politica anche attraverso la recezione di finanziamenti negoziati in un noto hotel di Mosca. Siamo il paese più bello e potenzialmente più ricco del mondo Affermazione incoraggiante ma fondata su dati di fantasia, e sulla quale sarebbe comunque impensabile un confronto sensato e razionale come quello che si dovrebbe svolgere nelle Aule parlamentari, e in un dibattito di sfiducia causato dalla sua stessa mozione. E sono stufo che ogni nostro passo (parlo di governi, Regioni, Comuni, imprese o lavoratori) debba dipendere dalla firma di qualche funzionario dell’Unione europea. Qui siamo all’invenzione totale. Una sparata senza alcun fondamento e di cui non viene fornita alcuna spiegazione ulteriore. Siamo o non siamo un paese libero e sovrano? Siamo o non siamo un paese libero di difendere i suoi confini, le sue aziende, le sue spiagge? Certo che lo siamo, e chi ha detto il contrario? Salvini prosegue un dialogo con nemici immaginari e con oppositori che abitano nella sua fantasia. Questo non facilità il dibattito parlamentare né spiega perché Conte dovrebbe essere sfiduciato. Né perché si debba andare a votare. Forse Conte aveva ongiurato con potenze straniere per mettere a repentaglio le nostre spiagge? Non risulta da alcun atto allegato da Salvini. A me non è mai capitato di parlare con la cancelliera Merkel a proposito di interesse di partito, chiedendo consigli per vincere la campagna elettorale, perché Salvini ha chiuso i porti. Peccato per lui, perché la cancelliera avrebbe potuto dargli buoni consigli. In ogni caso, ricordiamo che Salvini non ha chiuso alcunché né tantomeno i porti. A me non è mai capitato. A me non è mai capitato di prendere il caffè con qualcuno con la lamentela che Salvini chiude i porti. L’ho fatto e lo rifarò, se il buon Dio e gli italiani mi ridaranno la forza di tornare al Governo. In Italia si arriva se si ha il permesso di arrivare. Punto e a capo. Se qualcuno ha nostalgia dell’immigrazione di massa e del business dell’immigrazione clandestina non può andare d’accordo con me. Come vuole, va bene. Ma il business dell’im – migrazione è definizione di sua invenzione e non ha riscontri nella realtà. Se qualcuno a tavolino, da settimane se non da mesi, pensava a un cambio di alleanza – molliamo quei rompipalle della Lega e piuttosto ingoiamoci il Pd – non aveva che da dirlo in quest’Aula. Beh, lo ha detto prima lui, però. Salvo non spiegarci perché sfiduciava e poi revocava. Non abbiamo paura. Però, a proposito di quello che ha fatto questo Governo, vi vedo a portare avanti la legge di riforma sulle banche e risarcire i risparmiatori truffati con Maria Elena Boschi. Vi vedo a riformare il Csm con Lotti e a fare la riforma del lavoro con Matteo Renzi, padre del jobs act. Vi vedo! Salvini li vede, ma lui solo ha queste visioni. Perché non ha alcuna proposta concreta di incarichi come quelli citati da attribuire alle persone da lui citate. Anche in questi casi la replica degli altri gruppi diventa impossibile rispetto a un discorso solipsistico che inventa una realtà di comodo. Io penso che in democrazia la via maestra sia, sempre e comunque, quella di chiedere il parere ai nostri datori di lavoro, che sono i cittadini italiani. Noi siamo dipendenti pubblici al servizio del popolo italiano e non dovremmo mai averne paura. Non sono dipendenti pubblici, ma sono eletti e liberi, e qui torniamo all’incoerenza del Salvini che dava vita al governo del cambiamento. L’IVA non aumenta se si vota a ottobre e c’è un Governo in carica a novembre. Lo dico a chi è a casa: in Austria si vota a fine settembre, in Polonia a metà ottobre, probabilmente anche in Spagna si voterà a ottobre, non ci sono disastri. Funziona così in democrazia. Si vota e il destino di questo Parlamento è nelle mani del popolo italiano, non di 30 senatori che, pur di non andare a casa e mollare la poltrona, voterebbero anche il Governo della fata turchina. Non venite a parlarci di IVA, di spread, di esercizio provvisorio e di recessione. Vediamo se ci sarà la voglia e la forza di andare al voto. L’Iva aumenta eccome per una norma votata e approvata da Salvini cioè la legge di Bilancio in vigore. La lista delle scadenze elettorali esterne non è pertinente. Parliamo di ciò che i numeri dicono, al di là di tutto quello che di buono ha fatto questo Governo. È innegabile e ce ne prendiamo la metà dei meriti: non tutti, ma la metà, fifty fifty, anche se leggo che qualcuno dice che hanno fatto tutto altri. Ci prendiamo la metà, cinquanta e cinquanta, dei meriti e dei demeriti. Abbiamo fatto cose buone e abbiamo commesso degli errori, perché chi fa sbaglia e solo chi non fa niente pontifica e non sbaglia mai. Chi lavora sbaglia: può essere… Io non mi rassegno all’Italia disegnata per il 2050 dall’Istat, quella dello zero virgola e delle regolette europee. Ma che c’entrano le regole europee? Che comunque Salvini al governo ha rispettato, seppure facendo la faccia truce. In occasione della manovra e dell’assunzione degli impegni per evitare la procedura di infrazione.E per evitare che non l’Europa, che anzi è uno scudo, ma i mercati ci travolgessero. Lo facciamo, però, se da Bruxelles ce lo lasciano fare, sennò la manutenzione delle scuole, la manutenzione delle strade e l’au – mento delle pensioni di invalidità possono aspettare. Non c’è alcuna indicazione contraria, né Mai potrà esserci, da Bruxelles sulle spese per strade scuole pensioni e invalidità. Rispondere a Salvini in Aula, di fronte ad affermazioni apodittiche non sarebbe stato possibile. E infatti nessuno lo ha fatto, confinando questo suo strambo intervento nell’ambito della masturbazione mentale. Perché c’è il padre padrone che ci deve dire se si può o non si può. A furia di “si può” e di “non si può”, nel 2050 l’Italia perderà 6 milioni di persone in età lavorativa tra i quindici e i sessantaquattro anni e rischia di essere uno dei pochi Paesi al mondo a sperimentare una riduzione della popolazione in età lavorativa. Va bene, l’Istat fa i suoi giusti conti. Ma che c’entra il dibattito sul povero Conte? E poi, per dirne una, Quota 100 che contributo ha dato all’aumento delle persone in età lavorativa? L’Italia perderà, perché emigreranno altrove, 4,5 milioni di italiani e in cambio importerà 10,5 milioni di immigrati. Io non mi rassegno a un paese impaurito. Mentre lo impaurisce E sempre più anziano. Mentre tenta di bloccare l’arrivo dei giovani. Che deve dipendere da quelli che sono i nuovi schiavi. Sua invenzione retorica. Con cui ha condotto mesi di polemiche per dimostrare, senza riuscirci, che le ong e la stesa guardia costiera sarebbero all’opera per importare schiavi. Che a qualcuno fanno comodo. No. Per questo serve una manovra economica coraggiosa, su cui stiamo lavorando da mesi. Non risulta alcun lavoro leggibile, né articolato in preparazione di questa manovra economica leghista, tenuta al segreto evidentemente anche al governo di cui facevano parte e allo stesso ministro Tria, che era invece al lavoro sulla vera manovra governativa. Signor presidente del Consiglio, lei ha detto che si andrà a dimettere. Noi abbiamo raccolto ancora la settimana scorsa in quest’Aula la sfida degli amici del MoVimento 5 Stelle. Ricordo Luigi Di Maio… Stavo parlando dell’Italia che vogliamo lasciare ai nostri figli, che ovviamente ha radici nella Costituzione e nelle regole parlamentari. Non ho capito però i plurimi accenni del presidente del Consiglio al presunto disvalore di uscire anche dai Palazzi per ascoltare gli italiani, dove vivono e lavorano. Secondo me è fondamentale, per un buon politico, non perdere mai la voglia di ascoltare i cittadini , di capire, di raccogliere consigli, proposte, critiche e suggerimenti. Altrimenti si rischia di parlare a se stessi. E quando mai si è parlato di questo presunto disvalore? L’emergenza di questo paese è il fatto che non nascono più bambini, per cui la Lega è pronta a sostenere una manovra economica se avrà a bilancio almeno – lo sottolineo – 50 miliardi per ridurre le tasse agli imprenditori, alle famiglie e ai lavoratori italiani, stando sotto a quanto farà la Francia. Adesso chiedono alla seconda potenza industriale – questo paese – di rispettare gli zero virgola, quando da anni Francia e Germania se ne fregano delle regole con cui stanno rovinando un popolo composto da 60 milioni di donne e uomini liberi. Possiamo investire in sanità, in diritto alla vita, in diritto al lavoro, in diritto alla felicità, come da dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America? Non mi rassegno allo zero virgola, ma capisco che il coraggio, come scriveva Manzoni, uno, se non ce l’ha, difficilmente se lo può dare; l’ascolto dei cittadini, sotto questo profilo, è quindi fondamentale, però non cadrò mai nell’errore che ho sentito da parte di qualcuno in queste settimane – senza voler dare lezioni – dell’insulto quotidiano e sistematico. Va bene, qui ripete, mettendo in mezzo l’in – nocente Manzoni, affermazioni precedenti sulla sua manovra di fantasia. Anche perché, se questo governo si è interrotto, è perché da mesi c’erano in Commissione, in Parlamento e in Consiglio dei ministri dei signor no che bloccavano tutto. E non si tratta di un attacco personale, perché non mi interessano gli attacchi personali; però, se in qualche Ministero, invece di sbloccare, si blocca, come in un porto delle nebbie, non si fa un servizio utile al Paese. Per settimane e mesi, testardamente e pazientemente, ho detto alle nostre donne e ai nostri uomini “andiamo avanti, perché ci credo e ho fiducia”: ma la risposta era no, no, no. Può essere, ma chi governa dovrebbe essere capace di superare le resistenze ministeriali. E comunque, colpa di Conte? Mi permetta di ricordare, signor presidente del Consiglio, che la settimana scorsa in quest’Aula – non seimila anni fa, ma nel 2019 – la forza maggioritaria del governo le ha votato la sfiducia, dicendo no alla Tav. Ma di cosa stiamo parlando, allora? E no qui, e no là: ovunque al mondo, se trovi del petrolio, fai festa, perché significa ricchezza e posti di lavoro; ma noi no, li blocchiamo e rimettiamo in discussione aziende che danno migliaia e migliaia di posti di lavoro, pensando di tornare indietro. Vero, è andata così. Ma è anche vero che il Parlamento aveva invece promosso la prosecuzione dei lavori. La decrescita felice non la conosco: gli italiani vogliono crescere e vogliono sviluppo, strade, autostrade, porti, aeroporti, ferrovie, scuole e ospedali che funzionano. Ci mancheranno 20.000 medici nei prossimi anni; assumiamoli. No, bisogna chiedere il parere dell’Europa per assumere 20.000 medici; oibò, ma se la gente sta male, devo assumere i medici. Quando mai si chiede il parere dell’Europa per assumere i medici? Casomai è evidente che molti medici non sono disponibili per via ella Quota 100 salviniana. Da ministro dell’Interno, so benissimo che verranno meno 40.000 donne e uomini in divisa nei prossimi anni: o stanziamo i soldi per assumere questi 40.000 donne e uomini della Polizia di Stato o completiamo il disastro portato avanti dal Partito Democratico, che ha bloccato le assunzioni e il Paese per anni. Altra affermazione senza fondamento. Ma come può pensare qualcuno di riportare al Governo Renzi, che gli italiani hanno buttato fuori dalla porta, elezione dopo elezione, dopo elezione, dopo elezione? Auguri! Ho sentito il presidente Prodi, e poi saremmo noi… Ancora i nemici immaginari. E’ questo che vorrei offrire agli italiani: un futuro di crescita, sviluppo, prosperità, benessere, famiglia e coraggio. Mi permetta poi, signor presidente del Consiglio, lei fa un torto al popolo italiano e ai cattolici italiani, quando lei pensa che votino in base a un rosario. Gli italiani, cattolici o non cattolici, votano con la testa e con il cuore e io sono orgoglioso di credere e di testimoniare con il mio lavoro il fatto che credo e non ho mai chiesto per me la protezione, ma per il popolo italiano la protezione del Cuore Immacolato di Maria la chiedo finché campo, perché questo è un Paese che merita tutto. Un crescendo di rivendicazioni di religiosità che risponde a una falsa domanda, ancora una volta da lui inventata. Io punto era ovviamente l’uso strumentale dei simboli religiosi e nell’ostentazione, estranea al confronto politico. Non me ne vergogno, anzi ne sono ultimo e umile testimone, l’ultimo degli ultimi, ma ne sono orgogliosamente l’ultimo e umile testimone. State facendo un torto al buon senso, prima ancora che alla fede del popolo italiano, anche perché non faccio la vittima, ma in quest’anno lei si è sacrificato, è vero… E sono contento di aver cominciato a lavorare con lei l’anno scorso, così come non coltiverò mai la rabbia e il rancore che in queste settimane sento da parte di qualcuno. Omnia vincit amor, l’amore vince sempre. Non ho paura, avete scelto il bersaglio, eccomi. Avete scelto il pericolo per l’Italia e per l’Europa, eccomi, pronto a sacrificarmi. Pronto, non c’è problema. Il mio Paese e il futuro degli italiani valgono più di mille poltrone, non ho paura a mollare le nostre poltrone. Non hanno paura le donne e gli uomini della Lega, non hanno paura i Ministri della Lega, gente libera che risponde solo e soltanto al popolo italiano, non alla Merkel o a Macron, solo e soltanto al popolo italiano, fiero, libero, orgoglioso, sovrano, sovrano! Con un’idea di futuro, di figli, di famiglia; di figli che hanno una mamma e un papà, aggiungo, se proprio bisogna dirla tutta. E buon lavoro col partito di Bibbiano. Grazie mille, Presidente. E poi gli autoritari saremmo noi, cosa strana. Siamo gli unici presunti fascisti che vogliono il voto, siamo gli unici dittatori che vogliono il voto. Pensate che dittatura strana che vorremmo instaurare: la dittatura del voto del popolo italiano, pensate un po’, che roba incredibile. Non mi dilungo, ma diteci molto semplicemente, al di là di questo, degli attacchi personali che mi sono dispiaciuti, per carità di Dio, a cui però sono anche disposto a soprassedere, perché mi sembrava di aver capito che se da parte del MoVimento 5 Stelle non c’era già un accordo preconfezionato col Partito Democratico… Stavo dicendo che i casi – e lo sa solo chi in questi giorni e in queste settimane è stato al telefono per trattare – sono solo due: o c’è già un accordo per andare avanti, cambiando semplicemente di settimana in settimana la giacca, cioè: “governavo con la Lega fino alla settimana scorsa e governo col PD la settimana prossima, a seconda della stagione autunno-inverno”. Se c’è già un accordo preso… Però, per essere noi pericolosi autoritari… È faticoso fare il pericoloso autoritario! Posso finire, umilmente? I casi sono due: se c’è un accordo di potere e di spartizione, già fatto, fra 5 Stelle e Partito Democratico, che sarebbe lecito, ditelo agli italiani e spiegate loro che cosa intendete fare nei prossimi tre anni. Secondo me, è irrispettoso della volontà del popolo italiano, che mi sembra chiara da due anni a questa parte. Però in politica – per carità – le abbiamo viste tutte; basta che lo diciate. Appunto, lui stesso ha visto, anzi ha visstuto, un accordo coi Cinque stelle e dunque non si capisce tutto questo tono stupito e costernazione. In ogni caso non si capisce perchP non bloccare subito, appena dice di essersene accorto, gli abboccamenti tra 5s e Pd di cui parla come cosa certa, ma senza fornire prove. Aveva un programma in comune, poteva rinsaldare l’azione di un governo in cui diceva di credere. Se non è così e invece c’è voglia di costruire e di terminare un percorso virtuoso, perché ho letto che qualcuno vuole fare il taglio dei parlamentari, bloccare l’aumento delle tasse e poi andare subito al voto, io l’ho detto la settimana scorsa e lo ripeto ancora in quest’Aula. La via maestra è quella delle elezioni, perché niente e nessuno meglio del popolo italiano potrà giudicare chi ha lavorato bene e chi ha lavorato male; questa è la via maestra. Se volete, noi ci stiamo: non abbiamo certo paura di andare avanti e di ultimare il percorso. Non siamo mica il Renzi di turno, che ha votato contro fino a ieri ed è disponibile a votare oggi a favore per mantenere la poltrona. Volete tagliare i parlamentari e poi andare a votare? Ci siamo: tagliamo i parlamentari e poi restituiamo la parola al popolo italiano. Ci siamo. Se poi uno volesse metterci una manovra economica coraggiosa per bloccare aumenti – e non solo – e ridurre le tasse a 10 milioni di italiani, ci siamo. Concludo. Giovanni Paolo II… Voi citerete Saviano ed io cito San Giovanni Paolo II. Ognuno può essere libero di citare e di rifarsi alla vita, alle opere e ai miracoli di chi meglio crede? Signor Presidente del Consiglio, signor Vice Presidente del Consiglio, lo dico a voi con la massima serenità e – ripeto – da donne e uomini liberi che non hanno paura a chiedere la conferma o meno al popolo italiano del loro buon lavoro, perché sono convinto che questa conferma ci sarebbe. San Giovanni Paolo II diceva e scriveva – e sembra scritto oggi – che la fiducia non si ottiene con le sole dichiarazioni o con la forza; la fiducia bisogna meritarla con gesti e fatti concreti. Se volete completare il percorso di riforme che abbiamo cominciato, noi ci siamo: si tagliano i parlamentari e poi si va a votare. Punto e a capo. Se invece volete governare con Renzi, Boschi e Lotti, auguri e spiegatelo agli italiani. Noi ammucchiate non ne faremo.
Savoini. La vacanza di Savoini. “Non parlo, per ora”. Repubblica a pagina 6.
I due Mattei. Opportunismo politico, tecniche di comunicazione e strategie di sfida ad avversari e alleati. Renzi buon narratore, Salvini ancorato agli slogan. Caparbietà, debolezze ed egocentrismo, uguali e diversi: i due Matteo allo specchio. Renzi: La sfido dove vuole, signor ministro Salvini, anche nel collegio di Bibbiano. Ma non giochi sulla pelle degli italiani perché in gioco ci sono le famiglie. Salvini continua a citarmi, ossessivo e ossessionato. Averti mandato a casa, caro omonimo, è per me un grande onore: fattene una ragione. Salvini: Sono simpatici coloro che sfidano, bullizzano e poi scappano. Per farlo devi avere un posto di confronto: le elezioni. Renzi insieme a Conte si confrontino col voto. Io sul comodino ho la foto della Boschi e non di Renzi. Non lo vota neanche la sua famiglia, ma farò tutto quello che è possibile perché lui e la Boschi non governino più. Sofia Venturi sulla Stampa a pagina 8.More
L e istituzioni democratiche vanno strette ai capipopolo, perché imbrigliano l’appello alle folle – emotivo, esaltato e esaltante – che costituisce invece la cifra dei demagoghi. Le istituzioni funzionano attraverso dialoghi, confronti, scontri. L’argomentazione, per quanto sostenuta da narrazioni e slogan, non può essere espunta dall’azione che prende forma al loro interno. E qui Matteo Salvini è caduto. Dopo aver preteso nuove elezioni come se ciò fosse nella sua disponibilità, una volta accerchiato ha reagito come un animale nella rete. Le difficoltà del “capitano” Nel lungo pomeriggio di due giorni fa, terminato con le dimissioni di Giuseppe Conte, con espressioni e parole il leader della Lega ha mostrato con tutta evidenza il suo disagio una volta calato nell’arena parlamentare. La sua replica a Conte ha evidenziato una scarsa dimestichezza con il ragionamento e l’argomentazione. Meno necessari nei talk show, dove di rado il politico di turno viene messo con le spalle al muro, l’uno e l’altra avrebbero potuto soccorrerlo di fronte al profluvio di accuse mosse contro di lui dal presidente del Consiglio. Tardive, piuttosto ipocrite, già diffusamente circolate nel dibattito pubblico, una volta pronunciate nell’aula del Senato dal capo del governo dimissionario quelle accuse hanno assunto una forza nuova, dirompente. Come risposta Salvini ha saputo soltanto tirar fuori il suo armamentario da demagogo: slogan sovrapposti, accuse di complotti orditi già da tempo dal Pd e dal M5s, evocazione dei soliti nemici, risentimento per gli «insulti» ricevuti, come un fidanzato abbandonato che all’amata rimprovera di non averlo mai amato. Un susseguirsi confuso di flash uniti solo da uno stato emotivo dominato da una rabbia a stento contenuta sovrapposta allo stordimento per i colpi ricevuti e al tentativo di mantenere viva la classica baldanza. La narrazione renziana Così Salvini con la sua pessima performance ha fatto apparire magistrale il successivo discorso di Matteo Renzi. Buon narratore, con un’esperienza politica in luoghi e partiti dove si apprendono le sottigliezze della politica, Renzi è così apparso ben più efficace, grazie anche a un eloquio più consono al ruolo. Le sue sono sembrate ragionevoli argomentazioni, condite da evocazioni – peraltro condivisibili – di quei sentimenti di umanità perduti dal governo gialloverde. «Sono sembrate» perché, in realtà, di nuovo in scena grazie agli errori del suo omonimo, il «senatore semplice di Rignano» ha fatto ricorso a un classico frame della sua narrazione. Ma non quello che ha lungamente usato in passato, ovvero quell’antipolitica soft che ha poi reso più digeribile quella hard arrivata in seguito, bensì quello degli interessi urgenti del Paese, del pericolo imminente che incombe sugli italiani. Ha dimostrato così di possedere una narrazione più ricca e articolata del ministro dell’Interno uscente e soprattutto di saperla adattare alla contingenza. Tuttavia, sempre di narrazione si tratta, quella del politico disinteressato animato solo dal bene dei cittadini. Peccato che il suo appello per un un governo di emergenza per evitare l’aumento dell’Iva e rimettere «i conti in ordine», ovvero fare una finanziaria, istituzionalmente sia del tutto infondato, poiché sia nell’uno sia nell’altro caso è possibile giungere agli stessi obiettivi anche procedendo subito a nuove elezioni. I punti in comune Così diverso da Salvini, come Salvini Renzi persegue le proprie ambizioni personali. Ancora non sa se rimarrà o meno nel Pd, nel frattempo conta sul controllo dei gruppi parlamentari eletti durante la sua segreteria e al tempo stesso prepara le sue truppe per una eventuale uscita. Ma ha bisogno di tempo. Il tempo di un governo fatto da altri, al quale fare eventualmente lo sgambetto al momento opportuno. Non sarebbe la prima volta. D’altro canto, con la sua narrazione del politico disinteressato, dai banchi del Senato Matteo Renzi, come è suo costume, ha parlato soprattutto al Paese. E infatti ripete il suo refrain in ogni dove. Lo scranno del Senato anche per lui è soprattutto una variante delle dirette Facebook. L’opportunismo politico Matteo e Matteo: una politica dominata ormai da una esasperata personalizzazione diventa inevitabilmente ostaggio delle ambizioni, dei profili di personalità, delle umane debolezze di pochi protagonisti. L’uno chiede pieni poteri, l’altro surfa su partiti e istituzioni per giocare le proprie partite. Il primo è certamente più pericoloso per la democrazia. Ma nel medio e lungo periodo la democrazia è fiaccata anche da una politica che avanza di opportunismo in opportunismo. La sfida di Salvini non si è certo esaurita in un giorno d’agosto nell’aula del Senato. Ricacciato all’opposizione indosserà nelle piazze, reali e virtuali, i suoi panni di tribuno efficace. La sfida di Renzi è soprattutto al suo partito e al suo segretario. Se riuscirà a imporre la soluzione di un governo ora, di breve durata o di lunga durata solo sulla carta – a causa sia della stessa mina vagante Renzi, sia della estrema difficoltà di interagire con una bizzarria politica come il M5s – alle prossime, e forse non troppo lontane, elezioni, Zingaretti e il Pd si troveranno a contrapporre un partito ulteriormente logorato dall’innaturale (e fallita) alleanza a un Salvini ringalluzzito dai bagni di folla e a una Lega rafforzata dalla propaganda contro l’«inciucio». Ma almeno Matteo Renzi avrà potuto finalmente costruire il suo agognato partito personale.
La solitudine dei numeri Due. La lotta per il potere e i veleni finali. L’anno vissuto in disaccordo su tutto dei due proconsoli gialloverdi (come nella Roma di Giulio Cesare). Dalle promesse «impossibili» di Di Maio ai dubbi di Salvini di aver sbagliato i tempi. Gian Antonio Stella sul Corriere a pagina 9.More
Manca solo la «Regina di Bitinia». Tolti i tweet, i post e le dirette facebook, però, lo scontro in corso fra Matteo Salvini e Luigi Di Maio ricorda l’odio insanabile che divise Gaio Giulio Cesare e Marco Calpurnio Bibulo. I due consoli che, a dispetto del nome (consules: «coloro che decidono insieme») si spaccarono nel giro d’un anno su tutte ma proprio tutte le decisioni per governare Roma. Certo, dopo essersene dette di tutti i colori, i proconsoli decaduti ieri un accordo nella scia del voto 2018 pareva l’avessero trovato. E sottoscritto. Sul potere, però. Poca stima. Zero convergenze su troppi principi. Anche nei giorni del famoso murale in via del Collegio Capranica dove il maschio alfa milanese baciava l’imberbe pomiglianese. Murale subito rimosso da zelanti pittori al servizio dei nuovi podestà. E adesso? Eccoli là, sempre più distanti. Un’ultima telefonata: «Mi hai tradito». Non un incrocio di sguardi alla cerimonia per i morti di Genova. Broncio nero senza un’occhiata martedì al Senato. E per quanto possano strillare, come ha fatto il Capitano leghista, o starsene zitti come ha preferito fino a ieri il Capo grillino, i due di colpo si ritrovano, spiazzati dagli eventi, dentro una situazione simile. La solitudine dei numeri secondi. Lo scontro per la supremazia Vice uno, vice l’altro. Ma convinti tutti e due, uniti da un patto generazionale oltre che politico, d’essere in realtà ciascuno il «vero» presidente del primo governo vicepresidenziale (copyright Fabio Bordignon) della Repubblica. E tutti e due, in momenti diversi, pronti a rivendicare la propria supremazia. Nella prima fase l’ex venditore di bibite dello stadio San Paolo, che si picca d’avere scelto personalmente, posandogli sulla spalla la spada Gioiosa, «l’avvocato del popolo Giuseppe Conte» e declama: «Sul contratto sta andando tutto bene. Naturalmente stiamo scrivendo la storia per cui un po’ di tempo ci vuole». La storia… Poi l’ex comunista padano e neosovranista, che a ogni porto chiuso cresce nei sondaggi e vince elezioni locali a ripetizione e allaga il web invitando i suoi fedeli a inviare a lui personalmente, il Capitano, le foto dei loro «bambini felini» (geniale una risposta: «Molti mici, molto onore») finché comincia a battere e ribattere su un tema: chi comanda sui porti? Lui. Altro che il ministero dei Trasporti o quello della Difesa: «Siccome io sono l’autorità nazionale garante della pubblica sicurezza, la decisione su chi entra e chi esce è mia». «I ministri dei Cinque Stelle sono brave persone, oneste e con la voglia di cambiare il Paese. Ma se i porti si chiudono o si aprono lo decido io». «Se ho ricevuto telefonate per sbloccare il nuovo sbarco? Ho tanti difetti, ma decido con la testa mia». Sempre più anche su temi estranei al Viminale. Basti ricordare il brusco richiamo salviniano sui mini-Bot, per bocca del fedelissimo Claudio Borghi, al ministro Giovanni Tria: «È giusto che un tecnico abbia le sue idee, ma la responsabilità politica è nostra: decidiamo noi». Non andò tanto diversamente, ricorda Luciano Canfora nel suo libro Giulio Cesare. Il dittatore democratico, il consolato del 59 a.C., quando furono eletti da una parte l’autore del De bello Gallico e dall’altra appunto Marco Calpurnio Bibulo. Non si sopportavano. Andarono presto alla rottura. E questa, in un clima sempre più incandescente dove i nemici di Cesare rilanciarono anche una vecchia maldicenza allusiva sui suoi rapporti con Nicomede IV di Bitinia, fu «così irreparabile e drammatica che Bibulo si barricò in casa emanando durissimi quanto impotenti editti contro il collega» mentre Cesare prese a governare da solo e, scriverà Svetonio, «a suo pieno arbitrio». Tanto che il consolato che di solito era ricordato coi nomi dei due consoli, passò come quello «di Giulio e Cesare». Il tunnel della crisi Andrà così anche questo giro? Nella scia del voto alle Europee molti avrebbero scommesso I PERSONAGGI Dalle promesse «impossibili» di Di Maio ai dubbi di Salvini di aversbagliato i tempi fino a un paio di settimane fa sulle elezioni anticipate e su un nuovo consolato unico «a pieno arbitrio». Ma lo stesso leader della Lega, tra collaboratori perplessi, non è più così sicuro. E non c’è chi non abbia visto l’altro pomeriggio, dietro le mille smorfie fatte per mascherare la collera furibonda che lo possedeva mentre Giuseppe Conte lo infilzava con lo spadino del torero, un vistoso sbandamento. Magari non il «terrore di essersi infilato in un tunnel senza uscita» descritto dai nemici: quella è propaganda. Il dubbio d’aver sbagliatoitempi, però, ora ce l’ha. Il timore d’aver sottovalutato la risposta dei parlamentari che aveva invitato giorni fa ad «alzare il culo» per accorrere a farsi licenziare, ora ce l’ha. E così quello d’averla fatta grossa, forse rintronato dalla musica sparata del Papeete Beach, nell’invocazione dei «pieni poteri». Una fanfaronata dai ricordi sinistri che da giorni cerca, quello sì disperatamente, di sopire. L’isolamento del Capitano È la solitudine, però, quella che pesa di più. Certo, una solitudine strapiena di leghisti, fedeli, ammiratori, camerati. Un grande zoccolo duro. Ma intorno? Sicuro che i famosi «moderati» siano disposti a seguirlo su percorsi sempre meno sereni e più avventurosi, come quello rilanciato ieri dell’uscita dall’euro? E sarebbe sul serio in grado, Salvini, direggere ancora per mesi e mesi una campagna elettorale durissima e costosissima (sul groppo restano quei 49 milioni di debiti…) senza più gli enormi vantaggi degli aerei blu, delle auto blu, delle moto d’acqua blu? Magari senza quelle spintarelle quotidiane che gli vengono dalle tivù? Le vanità del capo politico Vale per lui, vale per Luigi Di Maio. Che dopo avere a lungo maramaldeggiato, forte dell’investitura di Beppe Grillo, dentro il suo stesso partito sempre più percorso da inquietudini, rischia oggi di pagare care la vanità di promettere «un nuovo boom economico come quello degli anni Sessanta» e gli appelli spericolati ai piazzaroli francesi («Gilet gialli, non mollate!») e le retromarce su antiche promesse («Se mi vedete in auto blu linciatemi») e le urla di giubilo sul balcone (il balcone!) di Palazzo Chigi al grido di «oggi è cambiata l’Italia! Abbiamo portato a casa la Manovra del Popolo che per la prima volta nella storia di questo Paese cancella la povertà!» Come andrà a finire non si sa. Probabilmente neppure Sergio Mattarella, nella sua saggezza, lo sa. Certo è difficile che, per come si son messe le cose negli ultimi giorni, possano avverarsi le tonanti sicurezze salviniane: «Si rassegnino i compagni: governeremo per i prossimi trent’anni…». È già sceso a dieci. Poi si vedrà…
8 Rosario
Bassetti critica il rosario in Senato
«Ho una visione più laica della politica che per noi è fatta di contenuti evangelici». Il presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti, fa riferimento a Giorgio La Pira rispondendo alle domande sul rosario baciato da Matteo Salvini in Senato nel corso del dibattito dopo l’intervento del premier Conte. «La religiosità – ha aggiunto l’arcivescovo di Perugia – si esprime in chiesa e nei luoghi della fede». —
Stampa a pagina 6
8 Canfora
Il professor Luciano Canfora commenta le citazioni dei politici: dai latini ad Habermas. “Il leghista forse non ricorda che il Cicerone che non voleva padroni poi se ne scelse uno. L’ex segretario Pd usa il Vangelo sui migranti: ma se lo ricorda che fu Minniti a chiudere i porti?”.
Fatto a pagina 3.
8 Conte
Conte adesso fa l’osservatore: «Io non sono più in gioco». Il primo ministro ai suoi: «Torno a fare il professore». L’idea di chiudere con la politica, almeno per ora. L’urgenza della manovra imporrà decisioni immediate e improrogabili. Nessuno deve preoccuparsi di darmi una sistemazione o un ruolo, né in Italia né in Europa. Sono dimissionario. Massimo Franco sul Corriere a pagina 10.
«Nessuno deve preoccuparsi di darmi una sistemazione o un ruolo, né in Italia né in Europa. Io non sono proprio in gioco. Dunque, rassicuro tutti: non sono io il problema. Sono dimissionario e quando avrò finito con gli affari correnti del governo tornerò alla mia professione…». Il giorno dopo le sue comunicazioni al Senato, che hanno aperto la crisi di governo con parole abrasive nei confronti di Matteo Salvini, Giuseppe Conte conferma a quanti gli parlano in queste ore di avere chiuso con la sua esperienza a Palazzo Chigi. E, sembrerebbe di capire, con la politica: almeno per ora. Difficile capire se il suo distacco sia indizio di somma furbizia o rassegnazione, o serenità. Rimane la sensazione che sia soddisfatto del modo in cui ha deciso di uscire di scena. E su quanto potrà succedere si sta ritagliando il ruolo di osservatore più che di protagonista. Di nuovo: almeno per ora. La soddisfazione maggiore è quella di avere evitato all’Italia per due volte una procedura di infrazione per debito eccessivo, e di avere contribuito all’elezione del nuovo presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Il suo timore era e rimane quello di una Lega decisa a contrapporsi in modo sterile alle istituzioni di Bruxelles, isolando l’Italia politicamente ed economicamente; ed esponendola alla speculazione finanziaria. Il fatto che ieri il presidente leghista della commissione bilancio, Claudio Borghi, abbia rilasciato un’intervista al settimanale tedesco Capital riproponendo l’uscita dell’Italia dalla moneta unica, suona come una conferma dei peggiori timori. La prospettiva di muoversi come se i vincoli e i patti sottoscritti potessero essere disdetti unilateralmente mostra una sottovalutazione dei rapporti di forza. Con una Germania che registra una congiuntura economica sfavorevole, l’idea di chiedere aiuto a un Vladimir Putin o all’ungherese Viktor Orban, sovranista come Salvini, e sotto schiaffo più di lui, è un’illusione velleitaria. Non è ancora chiaro come finirà la crisi formalizzata martedì sera, con le dimissioni nelle mani del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il rapporto con l’Unione europea e con la Nato, tuttavia, rimane un pilastro al quale anche il prossimo premier dovrà e non potrà che attenersi, se vuole proteggere l’interesse nazionale italiano. E sullo sfondo rimane quella che Conte continua a definire «l’incognita», alla quale ha fatto cenno esplicitamente anche nel discorso al Senato: i veri motivi che hanno spinto Salvini ad accelerare l’apertura della crisi, sorprendendo perfino alcuni leghisti che pure premevano da settimane perché rompesse con i Cinque Stelle. È un mistero che forse si capirà nel prossimo futuro, magari con il nuovo esecutivo. Anche se a Palazzo Chigi non danno per scontato che ci si riuscirà. Il fantasma di una soluzione abborracciata è sempre sullo sfondo; e dunque rimane in piedi l’opzione di un voto anticipato. Per formare un esecutivo serio, molto più di quello appena caduto, e cementato da un programma stringente e non da un «contratto» giallo-verde rivelatosi effimero e ambiguo, occorrerebbe tempo. Al contrario, l’urgenza della manovra economica imporrà decisioni rapide; e un confronto serrato con le istituzioni europee e soprattutto con i mercati finanziari che può essere sottovalutato solo in un’ottica di spesa irresponsabile: un altro lascito avvelenato che a Palazzo Chigi si attribuisce, in modo un po’ troppo autoassolutorio, soprattutto se non solo a Salvini.
9 Fi
«No al governo degli sconfitti». FI chiede il voto e riavvicina la Lega. La convinzione maturata nelle ultime ore in Forza Italia è che «il governo alla fine nascerà, Pd e M5S stanno già trattando sui ministeri», come ammette un alto esponente del partito. Restano dunque poche le mosse a disposizione di Silvio Berlusconi, arrivato ieri sera a Roma per fare il punto con i fedelissimi prima di salire al Quirinale oggi per esprimere la posizione del partito a Mattarella.
Corriere a pagina 6
Forza Italia si prepara a chiedere il voto Berlusconi spera in un segnale dal Colle
Messaggero a pagina 8
Berlusconi detta le condizioni «Voto subito, è la sola strada» Il Cavaliere oggi al Quirinale dopo il summit con i suoi «Al governo? Soltanto con tutti dentro, è improbabile»
Guiornale a apgian 9
Tajani: «Spero che non prevalga l’interesse del Palazzo» L’azzurro: «Assurda una maggioranza tra due forze che si sono insultate fino a ieri»
Giornale a pagina 9.
10 Conti spread
Tesoro e Colle Accordo con l’Ue per far slittare gli aumenti Iva Un decreto per il governo appena insediato o un’intesa in Parlamento in caso di voto anticipato
I funzionari di Bruxelles hanno già fatto sapere di non avere obiezioni
Stampa a pagina 7
La manovra rosso-gialla parte dal taglio del cuneo
`5Stelle e Pd pronti a disinnescare l’Iva ma non sono esclusi incrementi mirati
Vertice di Tria con tutti i collaboratori Boccia: rischi di recessione, ora risposte
Mesasggero a pagina 9.
I Conti. Messi in sicurezza a luglio. Per l’Iva ora servono 15 miliardi. Il prossimo governo troverà un quadro economico meno drammatico di qualche mese fa, ma non sono permessi passi falsi con il reddito degli italiani in fondo alla classifica Ocse.
Lo spread. C’è la crisi ma scende a 200. I mercati non vedono il voto. Si raffredda il rischio-Italia con l’uscita dall’esecutivo della Lega che avrebbe potuto portare il Paese a un nuovo scontro con l’Ue e anche fuori dall’euro. Determinanti comunque le mosse di Draghi
Per 20mila rider solo promesse. Decreto imprese ultima beffa.
Repubblica a pagina 10.
Una prima voce dal Nordest industrioso Vescovi di Confindustria Vicenza pone qualche seria domanda sulla crisi
Foglio a pagina 3
Voto subito? Il partito del Pil ora ha dei dubbi. Dario Di Vico sul Corriere a pagina 8.
«Il partito del Pil, almeno per ora, non vuole esporsi su voto sì/voto no. In una primissima fase Matteo Salvini, in virtù dei legami e dell’ampio consenso di cui gode presso i ceti produttivi del Nord, pensava di trovare negli industriali uno sponsor incondizionato dei propri progetti elettorali. Ma dopo le prime dichiarazioni pro-voto (corrette il giorno dopo) del veneto Matteo Zoppas e del lombardo Marco Bonometti, ora tutti sono attenti a non sbilanciarsi. La Confcommercio tiene ovviamente il punto sul tema consumi all’insegna di «fate tutto che volete ma guai se aumentate l’Iva» e ieri è uscito allo scoperto il presidente di Confindustria Vicenza, Luciano Vescovi che ha chiesto provocatoriamente ai partiti «qual è la vostra agenda? Quando iniziamo a parlare di cose importanti anziché di tematiche da spiagge?». In materia di elezioni Vescovi non ha chiesto il voto subito ma addirittura che il prossimo governo «metta mano al Rosatellum, una legge che non permette di governare».
Boccia: non importa il colore politico, il governo dia risposte all’economia.
«Non entriamo nel merito voto sì, voto no ma servono risposte su lavoro, giovani e crescita». Apprezzamento per Mattarella. «Figura autorevole per il commissario Ue». Allarme del presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia: per l’Italia «c’è un rischio stagnazione e possibile recessione, soprattutto per il rallentamento della Germania». Per Boccia «serve una manovra economica che ponga attenzione al lavoro e alla crescita».
Sole a pagina 6.
Consigli non richiesti per una manovra senza gonfiare la spesa. I partiti sono incagliati tra le boutade salviniane e le incertezze di zingaretti & co. Ecco come uscirne. Una strategia che non voglia condurre a un ulteriore aumento del disavanzo pubblico, e che invece avvii una stabilizzazione del rapporto tra debito e pil, passa da una revisione delle aliquote Iva, delle agevolazioni e delle spese fiscali introdotte dai gialloverdi, più l’abolizione degli 80 euro. Purché poi si investa.
Foglio a pagina 3
1 Politica si grazie
Politica, si grazie. Il Senato come la Nazionale Tv, in 14 milioni per Conte
Il discorso del premier parte col 33% e cresce di 10 punti di share Viale Mazzini, Salini corregge la rotta
Nelle maratone Rai1 fa il 21,1, Mentana l’11,8 da record Il Tg de La 7 fa il doppio del solito
Repubblica a pagina 8.
2 Open arms
L’inchiestaLa Procura intende verificare se l’emergenza sia frutto del rifiuto allo sbarco deciso dalle autorità italiane competenti Nave Open Arms, il pm di Agrigento “punt a” il Viminale
A bordo c’erano soltanto due bagni alla turca per 189 persone, usati anche come doccia
Fatto a pagina 10.
Lampedusa. E adesso l’emergenza è nel centro di accoglienza.
Repubblica a pagina 12.
Migranti, scambio di accuse tra forze armate e Viminale
Scontro sui controlli in mare: «Indebolite la lotta ai clandestini». «Screditate la Difesa»
Migranti, lite Salvini-Trenta sull’uso delle navi militari
“Depotenziata l’opera di contrasto al traffico di essere umani” La replica: “È lui che ha chiesto di arretrare il raggio di azione”
Repubblica a pagina 12.
«Inciuci». «Falso» Salvini-Trenta, è lite sui migranti. L’attacco delViminale e la dura replica dellaDifesa sui compiti affidati a chisvolge pattugliamenti inmare
Il leader leghista al governo di Madrid: «Si faccia carico di chi è arrivato»
Corriere a pagina 11.
«Roba da matti. Non hanno perso tempo, i nuovi ordini della Difesa sono stati formalizzati ieri. Prime prove tecniche di inciucio Pd-5 Stelle sulla pelle degli italiani, riaprendo i porti e chiudendo un occhio sulle Ong?». È Matteo Salvini, ieri su Twitter, a riaprire la campagna elettorale sui migranti attaccando la collega di governo — almeno ancora formalmente — Elisabetta Trenta, responsabile della Difesa, che secondo questa notizia fatta circolare dal Viminale col suo ministero avrebbe «modificato unilateralmente i compiti affidati a coloro che intervengono nelle operazioni di pattugliamento».
Per il ministero dell’Interno le nuove indicazioni, formalizzate martedì, per gli assetti militari in azione nel Mediterraneo centrale, «denotano un chirurgico ma significativo arretramento rispetto a quanto concordato per il contrasto dell’immigrazione clandestina». Tutto falso, fanno invece filtrare dal ministero della Difesa, chiarendo che «nessun indebolimento è stato apportato al dispositivo Mare Sicuro». Semmai, continuano sempre dal ministero, il 17 luglio — quindi quando ancora la crisi era nell’aria ma non ufficialmente aperta — la ministra Trenta ha inviato al capo di Stato maggiore della difesa Enzo Vecchiarelli una lettera in cui tra l’altro «si dispone di intensificare le attività di polizia marittima». Lettera ribaltata, nel suo significato, dal Viminale, che a questo punto fa circolare anche la risposta del 19 luglio: «Corre l’obbligo di trasmetterti la preoccupazione—scriveva il capo di Gabinetto del Viminale al suo omologo della Difesa — che l’ipotizzato incremento del pattugliamento aeromarittimo in acque internazionali possa fungere da fattore di attrazione per le partenze dalle coste libiche». Così si arriva ad agosto. Per la Difesa le novità additate da Salvini sarebbero in realtà solo modifiche assolutamente non sostanziali, solo definizioni — contenimento, contrasto, dissuasione — che non implicherebbero cambiamenti numerici delle missioni, né di uomini né di mezzi.
I migranti che hanno raggiunto Lampedusa dopo 19 giorni di attesa in mare: “Non vogliamo rinunciare ai nostri sogni”. Aarif e gli sbarcati dalla Open Arms: “Siamo scappati da bombe e torture”.
Stampa a pagina 9
Una rotta a forma di cuore. L’appello della Ocean Viking, la nave è tra Linosa e Malta da 12 giorni con 356 persone.
Stampa a pagina 9
3 Buttarelli
La privacy violata del Garante. La scomparsa di Buttarelli. Google rivela la causa della morte, che non era stata divulgata. L’interrogativo è come facessero a sapere della malattia e che ha determinato il decesso.
Corriere a pagina 19.
L’uomo che tutelava gli italiani con l’Europa
Ancora a fine giugno, la voce di Giovanni Buttarelli suonava squillante al telefono e non si sarebbe detto che la malattia fosse a poche settimane dall’avere la meglio. Accettò di buon grado di concedersi in un’intervista in cui sfidare ancora Facebook e difendere così i diritti dei cittadini degli europei. «Le regole ci sono, ma non vengono osservate», ammise, non senza precipitarsi a promettere che «l’Europa andrà avanti». L’Europa andrà avanti, si spera, ma senza di lui. Si è arreso al destino nella notte fra martedì e mercoledì. Nato a Frascati nel 1957, s’era laureato «summa cum laude» alla Sapienza di Roma nel 1984. Nel 2014 aveva assunto l’incarico di Garante Ue della protezione dei dati.
Stampa a pagina 19.
3 Gronda
L’ultimo blitz di Toninelli Bocciata la Gronda di Genova
Il governo è già oltre l’ammazzacaffè m a è vivo più che mai lo scontro tra Lega e Movimento 5 stelle sulle grandi opere. Il ministero dei Trasporti ha pubblicato sul suo sito internet le analisi costi benefici e l’analisi giuridica relative alla Gronda di Genova e i collegamenti A7-A10-A12. «La risultanza delle valutazioni suggerisce – scrivono gli uomini di Toninelli in perfetto stile burocratese – di cogliere l’opportunità di perseguire opzioni infrastrutturali più efficienti in termini trasportistici, ambientali e finanziari, che il ministero auspica possano essere approfondite e individuate attraverso un confronto con i livelli istituzionali territoriali». Il ministero ricorda poi come l’analisi costi benefici ha riguardato il progetto originario e alcune soluzioni alternative. I costi per la Gronda sono alti (4,7 miliardi) e i tempi da matusalemme (120 mesi). La Lega è partita subito alla carica. In un documento ha elencato le opere bloccate dal ministero. Tra queste il Terzo valico, la riforma dei porti, tra cui lo scalo di Pescara. —
Stampa a pagina 7
4 Medici
Meglio trovare un medico che nessuno Il Veneto chiama in corsia i non specializzati. Proteste, ma niente buon senso
Foglio a pagina 3.
4 app
L’“eredità”di Simon Gautier: boom dell’app Where are U. In pochi giorni 30 mila download per il servizio del numero unico di emergenza europeo.
Funziona anche senza connessione dati. Le coordinate vengono inviate alla centrale.
Fatto a pagina 11.
Corsaascaricarelaappchetilocalizza Oltre 18mila nuovi utenti al giorno dopo il decesso del turista francese. La chiamata al112 rivela la posizione
Corriere a pagina 17
«E se accadesse a me?», si sono chiesti molti, e anche se non sono escursionisti o camminatori solitari, devono essersi immedesimati nella storia di Simon Gautier, ferito e solo su una scogliera del Cilento, in quella mattina del 9 agosto in cui ha chiesto aiuto ma non ha saputo indicare con precisione dove si trovasse, né i soccorsi sono riusciti a localizzarlo. Ecco, si può supporre che ci sia quell’interrogativo, e quel pensiero d’angoscia, in tutte le persone che in questi giorni hanno scaricato sui propri smartphone l’applicazione Where are U. Perché con quell’app non c’è bisogno di sapere e spiegare nulla sul luogo dal quale si chiede aiuto. Latitudine, longitudine e quota vengono trasmessi in automatico alla centrale del 112.
5 Editorilai
ECONOMIA
1 Fed
Dopo anni di stimoli i banchieri centrali sono rimasti senza munizioni Il summit a Jackson Hole per cercare la ricetta della crescita La Fed si prepara a tagliare i tassi L’ultimo tentativo contro la recessione
Stampa a pagina 18.
La Fed nel mirino di Trump “Il nostro problema è Powell”
Il presidente Usa incerto sulle tasse: annuncia un taglio poi torna indietro
Repubblica a pagina 28
2 alibaba
La società è già in borsa a new york. con la nuova operazione punta a raccogliere 15 miliardi di dollari Due mesi di proteste a Hong Kong Alibaba rinvia la quotazione sull’isola Il gigante cinese del commercio elettronico vuole evitare problemi politici con Pechino
Stampa a pagina 19
Alibaba si piega a Pechino slitta lo sbarco a Hong Kong L’indice azionario ai minimi da 7 mesi Le proteste frenano l’economia della città
Repubblica a pagina 22
3 fca
Fusione tra Fca e Renault. La Borsa torna a crederci. Nuove voci di accordo, boom dei titoli.
«Non c’è effetto senza causa», amava ripetere Candide ai suoi interlocutori nel celebre racconto di Voltaire. E forse il protagonista del pamphlet settecentesco sarebbe della stessa opinione anche adesso guardando all’andamento delle quotazioni di Fca, salita ieri del 3,33%, di Exor, la holding di controllo di Fca, su del 4,07%, e di Renault, che ha chiuso in rialzo del 3,73%. Performance più che doppie rispetto all’andamento medio dei listini di Parigi e di Milano, cresciuti entrambi di circa l’1,7% nella tonica seduta di ieri.
Corriere a pagina 32.
Auto, la via obbligata alle alleanze Gli investimenti spingono le fusioni
Alleanze indispensabili per raggiungere il target 15 milioni di vendite
Il nodo delle piattaforme modulari: il modello Vw e il ritardo di Fiat Chrysler
«La svolta elettrica comprimerà ancora i margini»
«La riduzione dell’incidenza del diesel era attesa, ma non con questa rapidità»
Sole a pagina 13
4 rinnovabili
Elettricità sempre più verde. Rinnovabili vicine al sorpasso. A giugno le fonti alternative, secondo le stime di Terna, in aumento a quota 48%
Investimenti per 11 miliardi e monitoraggio dei fattori di debolezza del sistema.
Sole a pagina 7
Sorpasso inglese Più colonnine elettriche che pompe di benzina
Entro il 2040 il Regno Unito vieterà la vendita di auto con motore a scoppio per favorire le vetture “verdi”
È avvenuto uno storico sorpasso, in questi giorni in Gran Bretagna, ma le auto che ne sono state protagoniste non si muovevano di un millimetro: erano tutte ferme. Le colonnine per ricaricare le vetture a elettricità hanno infatti superato i distributori di benzina: le prime hanno raggiunto quasi quota 9.200, i secondi sono invece scesi a circa 8.400. La tendenza era nell’aria da tempo, ma ha accelerato più del previsto: nel 2016 si stimava che ci sarebbero voluti quattro anni perché i punti di ricarica elettrici superassero le tradizionali stazioni di rifornimento per automobili a carburante. Invece il sorpasso è accaduto con sei mesi di anticipo.
Repubblica a pagina 29.
5 ex Ilva
ArcelorMittal chiude l’altoforno due Piano da 60 milioni per i nuovi filtri
Attesa per il decreto sull’immunità per poter proseguire gli interventi
Ieri a Taranto fuga di gas vicino all’impianto causata dalle cokerie
Sole a pagina 8.
6 libra
Faro antitrust di Bruxelles sulla criptovaluta di Facebook
Aperto dossier preliminare su Libra per la valutare una procedura formale
Sospetti di limitazione della concorrenza per informazioni e dati
Sole a pagina 14.
La Commissione europea ha lanciato un’indagine preliminare su Libra, la nuova moneta digitale di Facebook. Secondo un documento Ue, citato in una nota dell’agenzia Bloomberg, l’Antitrust sta «indagando su possibili pratiche anti-concorrenziali». Nel mirino membri e struttura della governance dell’associazione Libra, cioè il consorzio che gestisce la criptovaluta, composto da una trentina membri tra cui i colossi dei pagamenti Visa, Mastercard e PayPal, oltre a operatori telefonici come Vodafone e Iliad e, ovviamente, Facebook.
Corriere a pagina 33.
7 bund a zero
Il Bund a rendimento zero fa flop. Qualcuno vuole ancora rischiare
Foglio a pagina 3.
E anche il bund a trent’anni rende sotto zero
È di qualche settimana fa la notizia che i rendimenti sui bond sovrani tedeschi sono ormai negativi per tutte le scadenze; e ieri l’asta del trentennale è andata, prevedibilmente, male. Complice, anche, la prospettiva di una nuova tornata di quantitative easing da parte della Banca centrale europea di acquisti di titoli sovrani che riguarderanno in quota maggiore proprio la Germania.
Repubblica a pagina 28.
8 crac
Crac bancari, al via le richieste di indennizzo. Attivato il portale del Mef per le domande dei risparmiatori. Ci sono sei mesi di tempo. 35 mila euro è il valore Isee al di sotto del quale i risparmiatori avranno diritto a essere soddisfatti con priorità negli indennizzi.
Corriere a pagina 30.
9 reddito famiglie Ue
Ue, cresce il reddito delle famiglie. Ma quelle italiane restano in coda. L’Ocse: nel G7 solo il RegnoUnito fa peggio dell’Italia (+0,5%) a causa dell’Irlanda del Nord.
Corriere a pagina 30.
Il reddito reale delle famiglie ha ripreso a crescere in modo consistente nei primi mesi dell’anno, in tutto il mondo industrializzato aumenta più del Prodotto interno lordo pro capite, segno che le disponibilità delle famiglie sono maggiori di quanto non dicano i numeri del Pil, ma in Italia le cose vanno peggio che negli altri Paesi. Nel primo trimestre, secondo i dati diffusi ieri dall’Ocse, il reddito delle famiglie italiane è cresciuto dello 0,5%, dopo la brutta flessione dell’ultimo trimestre dell’anno scorso (-0,4%), a fronte di una crescita del Pil dello 0,1% (a fine 2018 era -0,1%) . Ma ancora una volta l’Italia è il fanalino di coda tra tutti i maggiori Paesi industrializzati del mondo.
10 Huawei
Sfida alla Cina. Trump inserisce Huawei Italia nella lista nera L’azienda: «È una mossa politica». Questa volta, nella «lista nera» di Donald Trump del commercio con gli Stati Uniti c’è anche l’Italia. Tra le filiali e i centri di ricerca del colosso cinese inseriti nella nuova Entity list, infatti, c’è Huawei Italia, con il Microwave R&D Center di Segrate, Milano.
Corriere a pagina 19
10 Commerzabamk
Commerzbank pronta a tagliare fino a 200 filiali. Continua il momento difficile dei grandi gruppi bancari tedeschi. Dopo che il campione nazionale, Deutsche Bank, a inizio luglio, ha approvato un drastico piano di ristrutturazione che prevede il taglio di 18 mila dipendenti (uno su cinque) entro il 2022, adesso è Commerzabank, secondo gruppo bancario del Paese con attivi per oltre 2 mila miliardi di euro, a pensare a un piano di rilancio. Secondo indiscrezioni starebbe preparando a un taglio di cento o duecento filiali.
10 Fmi
Effetto Quota 100 in dodici mesi via 35 mila prof. A settembre scatta il primo esodo degli insegnanti. A rilento invece le altre uscite nel pubblico impiego. Quota 100, già in piena azione nel privato, comincia a far sentire i suoi effetti anche nelle amministrazioni dello Stato. Anche se le uscite, che partono proprio ad agosto, sono molto inferiori alle aspettative del governo. Se in dodici mesi se ne sono andati 35 mila professori, negli altri settori l’esodo va a rilento. Messaggero a pagina 17.
10 Fmi
Fondo monetario, Georgieva più vicina. Un ostacolo in meno per la nomina della bulgara Kristalina Georgieva alla posizione di direttore generale del Fondo monetario al posto di Christine Lagarde. Il Fondo ha infatti comunicato che i 24 membri del suo consiglio esecutivo hanno raccomandato la rimozione del limite di età (65 anni) per la carica. Una proposta che sarà portata al consiglio dei governatori, che comprende rappresentanti di tutti i 189 Paesi membri. Georgieva ha compiuto 66 anni proprio la settimana scorsa.
«Più tecnologia e automazione. Il Pil può crescere anche dell’1%». McKinsey: l’impatto dell’intelligenza artificiale su lavoro, welfare, salute, scuola e ambiente. Uno studio dal titolo «Tech for good» ha tentato di valutare l’impatto della smart automation e dell’intelligenza artificiale sul welfare e sulla crescita del Pil. Analizzando 600 casi di studio, il report afferma che l’aumento potenziale del benessere, una somma di crescita economica e di altre componenti come la salute, il tempo libero e la parità di diritti, possa contribuire entro il 2030 a portare dallo 0,5% fino a un punto di Pil in più all’anno, pari a circa 13 mila miliardi di euro, sia in Europa che negli Usa.
Corriere a pagina 31.
ESTERI
1 Trump 1
Trump sul sentiero di guerra in vista del G7 di Biarritz
Minaccia dazi ai partner Ue e vuole ricostituire il G8 riammettendo la Russia
Sole a pagina 16
1 Trump 1
“Non vendono la Groenlandia” Trump via Twitter cancella la sua missione in Danimarca Schiaffo del presidente a Copenhagen. La regina: era pronto il tappeto rosso
Sono sorpresa dalla decisione di Trump di annullare la visita dopo il rifiuto di vendere, ma non c’è alcuna crisi tra noi
Rimanderò l’incontro ad un altro momento Così la premier farà risparmiare spese e sforzi a entrambi i Paesi
Il Paese dei ghiacci dovrebbe dichiarare la propria indipendenza e poi entrare negli Usa
Stampa a pagina 10
TrumpoffesononvainDanimarca Il presidenteUsa voleva comprare laGroenlandia. La premier: «Assurdo».Arriverà inveceObama
Corriere a pagina 12
2 Trump 2
Stretta americana sui migranti Trump: aboliamo lo ius soli Pronta anche la nuova norma sulla detenzione a tempo indefinito per le famiglie di stranieri che attraversano la frontiera senza un visto valido. Genitori e figli uniti, ma dietro le sbarre. Quello della cittadinanza è un vecchio bersaglio L’idea del presidente è che le donne vadano apposta in America a partorire
Repubblica a pagina 14.
washington intende mettere fine al diritto di cittadinanza per nascita Stretta sui migranti dalla Casa Bianca Ius soli addio e detenzione dei bambini
Le famiglie con minori entrate illegalmente saranno fermate a tempo indeterminato
3 Trump 3
Il senso di Trump per gli ebrei: buoni solo se lo votano
Il presidente fa arrabbiare la comunità mettendo in dubbio la sua fedeltà. La lobby ‘J Street’:“Il razzismo non ci piace”
Fatto a pagina 19.
3 Trump 3
«I bimbi in cella senza limiti di tempo» «Nessun bambino dovrebbe essere usato come una pedina per aggirare le regole», ha spiegato il ministro per la sicurezza interna di Trump Kevin McAleenan, illustrando le ragioni della nuova stretta sull’immigrazione: ribaltando un regolamento secondo il quale i nuclei con minori non possono essere fermati per oltre 20 giorni, l’amministrazione ha deciso di consentire la detenzione a tempo indeterminato delle famiglie con bambini che attraversano il confine.
Corriere a pagina 11.
4 G7
Usa pronti a invitare Putin al G7 del 2020 in America
Le porte del G7 si stanno riaprendo alla Russia. Martedì il presidente Usa Trump aveva detto che era favorevole a riammettere Mosca al vertice dei grandi della Terra, da cui secondo lui era stata esclusa perché Obama si era lasciato raggirare da Putin, quando aveva invaso la Crimea. In serata poi ne ha parlato con il collega francese Macron, che ospiterà il prossimo G7 a Biarritz a partire da sabato, e i due hanno concordato di rinvitare il Cremlino. Il capo della Casa Bianca ne parlerà agli altri Paesi membri durante l’incontro in Francia, ma la riammissione di Putin sembra ormai certa, perché nel 2020 il G7 sarà organizzato dagli Usa, che quindi come Paese ospitante avranno il diritto di invitare chi vogliono. Il capo dell’Eliseo ha detto che la chiave per riaprire la porta del vertice sarebbe una soluzione della crisi in Ucraina, ma i maligni sospettano che l’intera operazione sia una trappola ordita dallo stesso Macron per imbarazzare Trump. Putin infatti verrebbe negli Usa per il G7 proprio nell’anno delle elezioni presidenziali, rilanciando polemiche e sospetti legati al «Russiagate» e le interferenze con il voto del 2016.
Stampa a pagina 10
5 Iran
Documenti d’intelligence svelano le operazioni delle nuove cybertruppe: colpiti ministeri e hotel in Turchia, Serbia e Austria L’Iran schiera un esercito di hacker “Rubati i dati di milioni di turisti”
Stampa a pagina 11
6 Nave
Pressing americano, Atene chiude i porti alla petroliera Adrian Darya diretta in Siria. La nave era rimasta ferma a Gibilterra. La Grecia chiude i porti alla petroliera iraniana Adrian Darya che era rimasta sequestrata a Gibilterra per 5 settimane con l’accusa di trasportare greggio verso la Siria. Le autorità di Atene, che hanno affermato di aver subito pressioni dagli Usa, – che hanno mandato di sequestro della nave cisterna – hanno fatto sapere che non faciliteranno il trasporto del greggio in Siria in nessuna circostanza.
Stampa a pagina 11.
7 Yemen
I ribelli sciiti abbattono con un missile un drone Usa. I ribelli yemeniti Houthi abbattono un drone statunitense con un missile iraniano e il duello fra America e Iran si allarga ancora di più. Il tutto nel giorno che vede le milizie sciite dell’Iraq, alleate di Teheran, accusare Washington di essere dietro i raid misteriosi che da settimane colpiscono i loro depositi di armi. È una sfida che abbraccia il Golfo, il Mediterraneo, con la vicenda della petroliera, e il Mar Rosso, dove si fronteggiano militari sauditi e i guerriglieri sciiti.
Stampa a pagina 11.
8 Brexit
Brexit, trenta giorni per trattare Merkel tende la mano a Londra
Incontro a Berlino con il premier Boris Johnson. Una soluzione sul confine irlandese “è possibile”
Ho vissuto 34 anni dietro alla Cortina di ferro. So cosa significa quando i muri cadono e so che bisogna impegnarsi al massimo per la convivenza pacifica
Repubblica a pagina 15
Merkel riceve Johnson: Brexit una soluzione in trenta giorni Merkel riceve Johnson a Berlino e dice che l’accordo con la Ue non si può rivedere e che Berlino è pronta all’eventualità di un’uscita senza intesa di Londra dalla Ue. Ma apre sul backstop, il protocollo di garanzia per evitare il ritorno a una frontiera fisica fra le due Irlanda. Si era pensato che una soluzione definitiva potesse essere trovata in due anni, «ma forse si potrà trovare anche nei prossimi 30 giorni», ha detto Merkel.
Stampa a pagina 12.
Brexit, gli industriali tedeschi chiudono la porta. Secco ‘no’ a Johnson. Il premier inglese dalla cancelliera Merkel propone un nuovo accordo ma i “panzer ” lo spianano. Berlino non vuole il confine fisico fra le Irlande, ha già i suoi problemi di crescita economica.
Fatto a pagina 19
Merkel-Johnson, patto per evitare la «catastrofe» I due leader: 30 giorni perrisolvere il nodo del confine irlandese. Negato il visto Usa alla fidanzata di Boris
Corriere a pagina 14.
Londonderry, città divisa dove la Brexit fa paura «Può riaccendere le micce» In Irlanda del Nord. «Ricordiamo la guerra per salvare la pace». Il reportage sul luogo simbolo del conflitto.
Massimo Nava sul Corriere a pagina 14.
Brexit violenta In Irlanda del nord aumentano le imboscate contro la polizia in vista del ritorno dell’ “hard border”
Foglio in prima
9 Kashmir
Kashmir, la scommessa (per ora) vinta dall’India
Danilo Taino sul Corriere a pagina 15
10 Siria
Le voci inascoltate che arrivano dalla Siria di Assad. C’è poco di nuovo nelle dinamiche della terrificante operazione lanciata dalla dittatura siriana contro l’ultima enclave delle forze ribelli nella regione di Idlib. Lo si ripete da almeno cinque anni: senza l’aiuto militare russo e iraniano Assad sarebbe caduto da un pezzo. Ma, proprio grazie a tali alleati, i suoi soldati possono da tempo colpire impuniti, torturare gli oppositori, farli sparire, lanciare agenti chimici, bombardare ospedali, cliniche, campi profughi, terrorizzare col fine dichiarato di stroncare qualsiasi spirito di rivolta. Noi europei siamo distratti. Nessuno crede più all’anelito di libertà e rinnovamento democratico che, soprattutto in Siria, aveva improntato lo scoppio della «primavera araba» locale nel 2011. Lorenzo Cremonesi sul Corriere a pagina 28.
GIUSTIZIA
1 Fuerali
Applausi e saluti fascisti ai funerali dell’ultrà. È una coreografia da stadio quella che ieri ha fatto da cornice al funerale di Piscitelli, ucciso con un colpo di pistola alla testa il 7 agosto scorso nel parco degli Acquedotti, in zona Tuscolana, nella Capitale. Una coreografia che – per ragioni di ordine pubblico, in base agli accordi presi nei giorni scorsi con la famiglia in vista delle esequie – si è sviluppata all’esterno, lungo la strada e sul piazzale che conduce al Santuario, in un’area presidiata da 300 uomini delle forze dell’ordine. Proteste della famiglia. Sulla bara di Piscitelli la scritta “Irriducibili”. La vedova si scaglia contro la polizia, poi ha un malore. Tensione quando non viene rispettata la sosta di 3 minuti prima di portare via il feretro.
Stampa a pagina 13
Doveva essere una funzione privata, ma la tifoseria laziale pretende di omaggiare la salma e allontana le forze dell’ordine
Funerali Diabolik, gli ultrà comandano la cerimonia
Fatto a pagina 15
Saluti romani e cori da stadio per l’addio a Diabolik Capitale blindata e tensione ai funerali del capo ultrà laziale assassinato Trecento tifosi presenti. Le urla di moglie e figlia contro la polizia
Repubblica a pagina 16
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Buongiorno. Conte pronuncia un durissimo intervento contro Salvini e va al Quirinale a dimettersi. Oggi le consulazioni. Il colle cerca una soluzione rapida. Telefonata Zingaretti – Di Maio per far nascere un governo giallorosso. Buona lettura a tutti. PS Stamattina la rassegna è incompleta per problemi tecnici. Scusate.













Conte lascia. Tempi stretti per la crisi. Il presidente del Consiglio Conte ha annunciato ieri al Senato la fine del governo M5S-Lega, attaccando a tutto campo il vice Salvini: «Ha perseguito interessi di parte, una decisione grave» quella di aprire la crisi, «dettata da opportunismo politico». La scelta di rompere, ha detto Conte, interrompe l’azione di governo ed «espone a seri rischi il nostro Paese», compreso lo spettro di ritrovarsi in esercizio provvisorio con un nuovo Esecutivo «nella difficoltà di contrastare l’incremento dell’Iva e con un’economia esposta a speculazioni e sbalzi dello spread».More
In serata, al termine del dibattito, Conte è salito al Quirinale per rassegnare le dimissioni; resterà per gli affari correnti. Già oggi il capo dello Stato Mattarella darà via alle consultazioni con le forze politiche per verificare entro due giorni l’eventuale maggioranza parlamentare per tentare un nuovo governo di legislatura. In alternativa resta la strada del ritorno al voto entro fine anno o inizio 2020. Salvini nella sua replica ha tirato dritto: «Rifarei tutto quello che ho fatto. Continuo a pensare che si debba andare al voto». Il leader leghista da un lato ha attaccato a testa bassa «l’inciucio» tra M5S e Pd, ma dall’altra ha tentato di lasciare aperto uno spiraglio per il dialogo con il M5S, confermando di essere disponibile a «votare il taglio dei parlamentari, fare una manovra coraggiosa e poi andare al voto». La Lega ha quindi ritirato la mozione di sfiducia a Conte. Resta da vedere che cosa succederà sull’asse M5S-Pd. Nel corso del dibattito al Senato c’è stata un apertura del Pd: «Sì a un confronto con i Cinquestelle, poi vedremo se ci saranno le condizioni per dare vita a un governo» ha detto il capogruppo dem Marcucci. Ma i 5 Stelle restano divisi sul governo.
Cala il sipario. Accuse, smorfie e rosari nella corrida del Senato. Giù il sipario sul governo Conte feroce con Salvini: “Irresponsabile”. Applausi dai banchi del Pd. Il divorzio dei due ex alleati si fissa in una sequenza nell’Aula del Senato verso la metà del discorso del premier Conte. «Far votare i cittadini è l’essenza della democrazia», sta dicendo l’inquilino di Palazzo Chigi. Pronuncia questa frase e gli spalti, pardon i banchi della Lega si incendiano, applausi scroscianti, Salvini sorride e fa un gesto come dire «eh infatti», per qualche secondo il premier si interrompe. «Ma sollecitarli a votare ogni anno è irresponsabile», prosegue, e stavolta ammutoliscono i leghisti e si accende il battimani in un altro settore dell’emiciclo, un’altra tifoseria si direbbe. Un intervento via l’altro fino alla replica piccata del premier dimissionario: «La responsabilità della crisi porta la firma del ministro Salvini, ma se gli manca il coraggio me la assumo io». Le ultime parole della giornata, prima di lasciare Palazzo Madama in direzione Quirinale. E aprire un altro film.
Stampa a pagina 2.
Il selvaggio e il leader per un giorno.
Cechov ha costruito i suoi racconti più belli su figure di funzionari e di professori di provincia che appena escono dall’anonimato rimangono schiacciati dal “fuori luogo”. Pensate infatti a Conte, alla sua politica come gentilezza e, per contrasto, alla forza delle accuse finali – come non condividerle? – con le quali ha condannato Salvini.
Francesco Merlo su Repubblica. More
Bastonato e frastornato, Matteo Salvini, che pure aveva salutato Giuseppe Conte stringendolo a sé, per un momento abbassa la testa fra le braccia sdraiate sul tavolo come a proteggerla da una lapidazione. Conte gli sta dando dell’irresponsabile, ma senza mai brillare di odio e di collera, solo ogni tanto fremendo, come percorso dalla corrente elettrica: dice «caro Matteo» e poi lo accusa di slealtà, mancanza di cultura istituzionale, opportunismo, autoritarismo, abuso di religione… Ed è la scena madre, “la morte nel pomeriggio”, direbbe Hemingway, del toro più infoiato della politica italiana di tutto il dopoguerra. Infatti in sala stampa e nelle tribune nessuno più badava alla rumorosa e movimentata sarabanda che pure si svolgeva tutt’intorno a loro, con i senatori che inalberavano cartelli e i commessi che glieli strappavano dalle mani, con gli applausi, i buuh e gli insulti che nessuno più capiva non perché, dall’estrema destra all’estrema sinistra, tutti insultavano tutti e tutti insieme, ma perché nessuno più li sentiva: come in certi film, quando i suoni del mondo si sospendono, continuavano a vivere solo i due protagonisti, Salvini il selvaggio domato e il suo torero feroce e gentile, nell’ultimo duello, quello dove anche il vincitore muore insieme allo sconfitto. Perché senza Salvini non c’è il governo e dunque non c’è quel Conte che, per 14 mesi, più si sentiva fuori posto, più si incatenava al suo posto. Quel quasi premier, che esce di scena insieme al suo alleato-nemico, è finalmente diventato un premier intero, ma per un giorno soltanto, l’ultimo. Mai Conte era stato così freddo e così efficace stando accanto all’ex eroe ormai suonato. Difficile dire quale sarà il futuro di ciascuno di loro, ma certamente non li vedremo più insieme. Dunque ieri sono morti entrambi perché è morta la politica del “famolo strano”, l’alleanza impossibile, quella che, nel Transatlantico del Senato, faceva sospirare Aldo Cioffi e Michele Geraci, i due sottosegretari di Di Maio, il primo grillino e il secondo leghista, che camminavano abbracciati: «Ci stanno separando e nessuno può capire quanto ci dispiace. La colpa è di questa schifezza dei partiti». E intanto il senatore Morra, presidente grillino della commissione Antimafia, si spingeva sino ad accusare Salvini di avere inviato messaggi in codice alla ‘ndragheta di Isola Capo Rizzuto. Accanto, il vecchio Scilipoti si inginocchiava davanti all’effigie di Cavour. Come si vede, si può raccontare anche ridacchiando la giornata di ieri, che è stata, come al solito, commedia e neppure troppo raffinata. L’intera squadra dei grillini di governo, per esempio, è arrivata mezz’ora prima degli altri per prendere posto occupando tutti gli scranni dorati sotto la cattedra della presidente Casellati, per l’occasione vestita di raso giallo come Raffaella Carrà. Riservati al governo, quegli scranni sono solo venti. Guidati dal capoclasse Di Maio, i grillini di vaffa e di governo volevano costringere i leghisti a sedersi nei banchi ordinari, insieme agli altri senatori: pussa via. Ma, sveltissimo, il leghista Fontana ha rubato la sedia a Bonisoli e poi Salvini, con i pugni sui fianchi, ha preteso il suo posto di vice, accanto a Conte. E ovviamente l’ha ottenuto. Quindi Salvini ha abbracciato Conte che gli ha lungamente sussurrato frasi all’orecchio e tra loro è stato un bel ridere, pochi minuti prima della lapidazione. Banchi rubate, barzellette sotto voce…: è roba da terza C, da Pierino e la supplente? Sicuro, ma questa cifra di racconto per una volta non è sufficiente, non è adeguata alla giornata di ieri, sicuramente non al Conte che ha descritto come un’epopea il bullismo che subiva da Salvini, del quale era il garante e al tempo stesso la vittima. Cechov ha costruito i suoi racconti più belli su queste figure di funzionari e di professori di provincia che appena escono dall’anonimato rimangono schiacciati dal “fuori luogo”. Pensate infatti a Conte, alla sua politica come gentilezza e, per contrasto, alla forza delle accuse finali – come non condividerle? – con le quali ha condannato Salvini. Eppure la politica come politesse è stata la sua unica trovata e cioè modestia e amabile rispetto, una riconoscenza leggera e fugace, una complicità ingenua, prepolitica e antipolitica, con la complessità sociale. Qualche volta questa gentilezza lo ha collocato nell’inattualità, nel limbo delle qualità senza spazio e senza tempo, dove anche il vaffa, che pure l’aveva prodotto, diventava il suo contrario. Era il Conte del bacia mano alla Merkel ma anche di quel fuori-onda dove, sempre con la Merkel, parlava male sia di Di Maio e sia di Salvini promettendo: «Li controllo io, perché io quando dico basta, è basta». Ma, come dicevamo, quel Conte “paglietta” che si diceva fiero «d’aver coagulato Salvini attorno a un tavolo per evitare iniziative che potrebbero soggettivizzare il conflitto» ieri è diventato leader per un giorno. Ha lavorato per tutta la notte lasciando platealmente accese le luci di Palazzo Chigi e ha scritto con il sapiente Casalino un j’accuse che è la sua dichiarazione d’indipendenza, la sua liberazione ma anche il suo canto del cigno. «Troppo comodo accorgersene ora» gli ha detto Emma Bonino. E Renzi: «Come mai non se n’è accorto prima, presidente Conte?». E lo stesso Salvini: «Dunque non mi sopportavi, ma non me lo dicevi. E ora parli di me, come di me parla Saviano». E invece c’è qualche cosa di drammatico nella figura di Conte, che va ben oltre il trasformismo italiano. E c’è qualcosa di misterioso in questo veloce precipitare di Salvini che sembrava avere in mano sia il Paese sia il governo dove gli alleati a cinque stelle erano ormai diventati suoi gregari. E invece in una settimana di cattivo umore, di spleen ferragostano, Salvini ha provocato la sua caduta. «Un colpo di sole» gli ha detto Renzi, che finalmente ieri, come nel film di Moretti, ha detto qualcosa di sinistra (sui migranti, sul garantismo, sulla recessione economica) e gli ha profetizzato la fine del mondo: «Per esperienza personale, ministro Salvini, la avverto: quegli stessi che lo osannavano, già oggi sono pronti a crocifiggerla, perché anche questa è l’Italia». E difatti, più dei sondaggi che già lo danno in calo, è la giornata di ieri che ha mostrato la fragilità del successo di Salvini, il disperato niente di cui erano fatti la richiesta dei pieni poteri e quel ghigno e quel grugno che pure divennero l’illustrazione dell’epoca, il ceffo compiaciuto del razzismo creativo sulla copertina (ricordate?) di Time. E invece ieri, Salvini, in un finale sconnesso, dopo avere preso le botte di Conte, ha persino proposto di andare avanti così, come se non fosse successo niente: «Per fare insieme le riforme che avevamo in cantiere, il taglio del parlamentari per cominciare, e subito dopo la finanziaria». Ma Conte ha respinto anche quest’ultima “giravolta”, e nella replica ha rimproverato Salvini di avere addirittura ritirato la mozione di sfiducia perché non è capace di «prendersi la responsabilità dei propri comportamenti». Ma «se non hai tu il coraggio, il coraggio me lo prendo io, e vado dal presidente Mattarella». Fuori, per Salvini niente bagno di folla e niente selfie, ma la claque grillina che gridava: «Conte, Conte, l’Italia è con Conte». E Giorgetti, l’infido e fidatissimo Giorgetti, ai grillini che gli hanno chiesto di mollare Salvini, ha mormorato: «In famiglia non ci si ama, ma ci si aiuta». Salvini se n’è andato denunciando l’inciucio, «un accordo con il Pd che evidentemente c’era già». Ma per la verità l’applauso della sinistra, il più intenso e il più corale, non è andato alle meritatissime bastonate che Conte ha dato a Salvini ma alla frase secca e precisa: «Il governo si arresta qui». Se infine Renzi ha visto giusto su Salvini, su se stesso e sull’Italia, il capitano potrebbe non vincere le prossime corse e continuare a cadere e cadere. Qualche caporale insolente del suo partito si sta già manifestando, vedremo se, finiti gli osanna, ci saranno ad attenderlo le pernacchie.
Conte. Un premier a scoppio ritardato. La convenienza elettorale, il non-senso delle istituzioni, la Russia. Bordate a Salvini. Così ieri Giuseppe Conte, al suo ultimo giorno, si è ricordato che il suo è un ruolo politico.
Il Foglio a pagina I.
Da premier a candidato anti Salvini. Conte si rilancia ma pensa già al voto da candidato M5S. Spunti di programma che sembrano su misura per un accordo con i dem: “Ricerca, università e maggiore attenzione all’ambiente”. I grillini faranno il suo nome al Quirinale per la guida di un nuovo governo. Ma il discorso in Senato fa di lui il naturale anti-Salvini al prossimo giro elettorale. L’ultimo affondo al rivale: “Non hai il coraggio di prenderti il peso della rottura”.
Goffredo De Marchis su Repubblica. More
Nel giorno dell’addio lo staff di Giuseppe Conte non ha perso la voglia di scherzare. In un corridoio del Senato si sorride guardando un meme che gira sul web e riproduce una finta pagina di un sito hard, con una foto dell’aula di Palazzo Madama e la didascalia: «Il primo ministro italiano brutalizza il ministro dell’Interno». Non vedevano l’ora di sbugiardare pubblicamente Matteo Salvini, di inchiodarlo alle sue responsabilità nel crescendo di questi 14 mesi che dunque si è retto sulle cose non dette e finalmente rivelate in diretta televisiva e di fronte ai senatori. Lo staff segue la diretta nel Transatlantico del Senato con lo sguardo adorante perché, dicono, non si può trovare un capo migliore di Conte. Un capo che forse non chiude qui la sua corsa. Un governo bis con lui a Palazzo Chigi, che è la prima scelta ovvia del Movimento 5 stelle, appare una strada troppo difficile, troppo esposta al rischio di accuse, fondate, di trasformismo. Ma si apre un altro portone per la carriera dell’avvocato del popolo, tanto più dopo il duello con Salvini in aula. Se alla fine si andrà al voto, Conte può ritagliarsi il ruolo di leader dei grillini proprio nella chiave di avversario del segretario leghista suggellata dal discorso di ieri. È un’ipotesi suggestiva ma anche così reale da terrorizzare molti nel Partito democratico. Se la sfida sarà Conte contro Salvini i dem possono rimanerne schiacciati perdendo l’appeal di unica alternativa al pericolo sovranista. Salvini non si aspettava un attacco così diretto. Non quei toni, non quelle parole. Doveva sistemarsi da un’altra parte, nei banchi della Lega, perché l’immagine di lui seduto e del premier dimissionario in piedi che lo bacchetta guardandolo e posandogli una mano sulla spalla non è di quelle che possono andare giù alla macchina comunicativa del Capitano. Ieri ridotto alla figura di un bambino dispettoso rimproverato dal maestro. Sei «un opportunista politico», gli dice l’ex premier. «Hai incassato il decreto sicurezza bis e hai aperto la crisi senza però ritirare i ministri». Gli dà anche del codardo implicitamente e poi esplicitamente quando nella replica lo fulminerà: «Non hai neanche il coraggio di prenderti il peso della rottura. Hai ritirato la mozione di sfiducia. Ma il coraggio ce l’ho io e vado al Quirinale a dimettermi». Gli “schiaffi” metaforici sono tantissimi. Salvini fa delle facce strane, bacia il rosario. Sa bene che le telecamere lo stanno inquadrando in una posizione scomoda, non da leader. Pesantissimo il ceffone sull’uso dei simboli religiosi. «Non te l’ho mai detto Matteo — dice Conte — ma accostare agli slogan politici i simboli religiosi significa che hai un’incoscienza religiosa. Offendi il sentimento dei credenti e oscuri il principio di laicità». Altra botta sulla Russia. «La vicenda merita di essere chiarita — incalza l’ex premier riferendosi a Moscopoli — . E sono venuto io in aula al posto tuo, senza ottenere neanche le informazioni dal ministero. Ma sappi che il caso ha risvolti internazionali». Conte non si ferma. «La tua grancassa mediatica sul governo dei No ha finito per macchiare 14 mesi di buon lavoro». E ancora: «Dopo il 26 maggio hai attuato un progressivo distacco che ti ha distolto dai tuoi compiti istituzionali». Come dire: hai smesso di lavorare e pensato solo alla campagna elettorale. Nei confronti del Parlamento Salvini è stato «irriguardoso». Eppoi anche «imprudente» nel momento in cui ha evocato le elezioni. E «quando hai immaginato di avere pieni poteri, beh devo dirti che questa concezione dello Stato mi preoccupa. Lo Stato è fatto di pesi e contrappesi studiati per evitare tentazioni autoritarie». Niente viene perdonato. «E non per fatto personale», spiega nella replica alle otto di sera. «Io con Salvini andrei a prendere un caffè in qualsiasi momento», confida Conte ai suoi collaboratori. Lo ha ferito anche l’accusa del Partito democratico di essersi svegliato tardi, di aver condiviso questo percorso senza battere ciglio. «Non è vero. Ogni volta che è stato necessario ho rimarcato in consiglio dei ministri la scorrettezza istituzionale di Salvini. L’ho fatto però senza passare veline ai giornali». Più o meno quello che dice in aula quando accusa il Capitano di «invasioni di campo in settori non di sua competenza», delle risse consumate con altri ministri, delle «accuse ai colleghi» che dovevano rimanere nel chiuso di quattro mura e invece venivano sventolate nella pubblica piazza. «Foga comunicativa», dice l’ex premier. «Controcanto incessante persino durante i vertici internazionali. Questo non ha rafforzato il tuo prestigio», aggiunge Conte alludendo ai sentimenti delle Cancellerie nei confronti del leader della Lega. «Il rispetto delle istituzioni non s’improvvisa», è l’ultima accusa prima di delineare un possibile programma per andare avanti, per chi verrà, magari lui stesso. Ricerca, università. Un «nuovo umanesimo» e un’attenzione maggiore all’ambiente. Ammicca al Pd? O già pensa a una campagna elettorale? «Bisogna fare la politica con la P maiuscola. Io non ho mai insultato un avversario e non creo nemici dietro ogni angolo». Può partire da qui una seconda vita da leader?
Il Colle. Mattarella non vuole la melina dei partiti. Subito un accordo o si andrà alle elezioni. Via alle consultazioni rapide. Senza intese tra Pd e M5S in un paio di giorni nasce il governo “di garanzia”. Mattarella ha urgenza di sciogliere i nodi per mettere in sicurezza l’Italia nel caso di elezioni. Ugo Magri sulla Stampa. Governo vero o elezioni scrive Marzio Breda sul Corriere. More
Prima si voterà e più tempo avrà il futuro governo per scrivere la manovra economica e bloccare l’aumento automatico dell’Iva. Inoltre, un percorso rapido e ordinato verso le urne ridurrà il rischio che su di noi si avventi la speculazione finanziaria. Sul Colle nessuno lo ammetterà mai, ma qualche timore sussiste.
Stampa a pagina 4.
La linea del Colle: governo vero o bisogna andare alle elezioni.
Non aveva bisogno di riassumere le proprie comunicazioni al Senato, Giuseppe Conte, né la replica del leader del Carroccio o gli altri interventi in aula. Il presidente della Repubblica aveva seguito la seduta in diretta tv, sommando le parole pronunciateeil body language dei protagonisti, comprendendo già tutto da quel mix rivelatore: un premier come sempre molto stilè, ma orgogliosamente acuminato nella sua requisitoria; un Di Maio aggrondato e, anzi, pietrificato; un Salvini che scuoteva testa e mani per ispirare la claque delle truppe leghiste. Il risultato del confronto era chiarissimo, per Sergio Mattarella: quello del capo del governo è stato il passo d’addio di chi salutava un’esperienza personale, intonando, al tempo stesso, il de profundis del governo gialloverde. Così, ha accolto l’inquilino di Palazzo Chigi, presentatosi dimissionario al Quirinale all’ora di cena, con un «ho visto tutto… grazie per l’impegno profuso, auguri» e pochi altri convenevoli. È andata come immaginava, insomma, la resa dei conti tra gli azionisti dell’esecutivo populista-sovranista che avrebbe dovuto inaugurare la «legislatura del cambiamento» e che ha invece regnato appena 18 mesi. Un esito, e un congedo, ufficializzati in serata dal segretario generale, Ugo Zampetti, che riferiva l’invito presidenziale a Conte per «curare il disbrigo degli affari correnti». Da adesso tocca a Mattarella guidare l’uscita dalla crisi. Comincerà a farlo fin da oggi, aprendo sul Colle un rapido giro di consultazioni, sentendo in un paio di giorni il suo predecessore Giorgio Napolitano, i presidenti di Senato e Camera e le delegazioni delle forze politiche. Un consulto delicato, anche perché nello smarrimento generale tutti ora dichiarano di affidarsi a lui, «arbitro saggio, serio e imparziale». Definizioni ricorrenti, nelle quali c’è però un errore di fondo per questo capo dello Stato. Infatti, la responsabilità di trovare uno sbocco alternativo al voto d’autunno, indicando nuove maggioranzeeintese politiche, spetterà ai partiti e soltanto ad essi. Certo, Mattarella preferirebbe una soluzione di nuova stabilità alrebus delle urne, se non altro perché c’è da mettere in sicurezza l’economia nazionale alla vigilia di scadenze decisive, che richiederebbero scelte fortemente politiche. Ma non orienterà in alcun modo gli attori della partita. Perciò, naufragata la possibilità di una riedizione del governo tra 5 Stelle e Lega, che si sono messi fuori gioco da soli, non gli resta che verificare il perimetro — cioè i numeri — dell’ipotetica alleanza prospettata (con diverse variabili, compresa la «formazione Ursula» vagheggiata da Prodi) tra democratici e grillini. Potrebbe essere l’unica carta per non sciogliere le Camere.Epotrebbe prendere corpo, sia pure in forma ancora piuttosto vaga, nelle prossime ore. Probabilmente ai potenziali partner giallorossi sarebbe necessario qualche giorno di decantazione e di approfondimenti, se davvero volessero esplorare questa strada, per mettereafuoco un contratto di programma e relative strategie. Il capo dello Stato concederà un supplemento temporale per i negoziati, purché gli venga esplicitamente chiesto. Ma non sarebbe questione di settimane, per lui, quanto di giorni. Trascorsi i quali non potrà che far scattare il tutti a casa, rassegnandosi al voto. Al quale non potrebbe portarci questo esecutivo dimissionario, ma un governo di garanzia elettorale insediato personalmente da Quirinale. Una mossa obbligata, che non ci sarebbe neppur bisogno di spiegare. Non a caso Matteo Salvini, ministro dell’Interno (che per prassi dovrebbe custodire la macchina elettorale), si candida a premier. Per di più minacciando già di convocare le piazze se nascesse un nuovo governo. Assurdo immaginare che resti al Viminale.
Marzio Breda sul Corriere a pagina 6.
Matteo Renzi in Aula. Dal suo scranno del Senato parla da leader e benedice un governo istituzionale, che salvi il Paese e faccia la manovra. Scagliando un dardo velenoso al leader del suo partito, con quell’accusa di «connivenza» con Salvini per andare al voto a ottobre, impedendo la formazione di un nuovo esecutivo. Si premura pure, Renzi, di chiarire che lui non ne farà parte per tenersi le mani libere e nemmeno Lotti e la Boschi del suo «giglio magico».
Stampa a pagina 6.
EDITORIALI E OPINIONI
Il rischio di allungare i tempi. I fautori di un rapido sbocco della crisi, grazie a un capovolgimento delle alleanze in Parlamento, con al primo posto la volontà della maggioranza dei parlamentari di evitare le elezioni e quella dei partiti più in difficoltà di impedire la vittoria nelle urne di Salvini, l’avevano fatta troppo facile.
Marcello Sorgi sulla Stampa. More
Da ieri sono più in salita, sia la strada del ribaltone 5 stelle-Pd vagheggiato in questi giorni d’attesa della consacrazione parlamentare della crisi, sia quella di un Conte-bis che lo stesso presidente del Consiglio dimissionario ha lasciato intuire al termine del suo intervento al Senato, durissimo con Salvini ma contenente le linee essenziali del programma di un nuovo governo, a cominciare da una robusta iniezione di ambientalismo ed ecologismo occhieggiante a sinistra. E non solo per i toni esagerati e per i giudizi pesanti che tutti i protagonisti di questo complicato passaggio si sono scambiati, avendo cura – vedi soprattutto Salvini, nella veste del maggiore imputato della rottura, che ha ritirato la mozione di sfiducia – di accompagnarli con qualche apertura, spiragli di interlocuzione tattica quasi obbligatori all’inizio di una trattativa complessa. Conte contro Salvini e la Lega, quindi. E Salvini contro Conte e Di Maio. E Renzi contro tutti, ma deciso a portare avanti il suo progetto di intesa con i 5 stelle. E Zingaretti contro Renzi e Conte. Come si possa arrivare, partendo da queste posizioni, a comporre una nuova maggioranza e un nuovo governo, è difficile dire. Il compito del Presidente della Repubblica, che comincia oggi le consultazioni, si presenta assai arduo. E i fautori di un rapido sbocco della crisi, grazie a un capovolgimento delle alleanze in Parlamento, con al primo posto la volontà della maggioranza dei parlamentari di evitare le elezioni e quella dei partiti più in difficoltà di impedire la vittoria nelle urne di Salvini, l’avevano fatta troppo facile. È vero che siamo solo all’inizio. Le vere strategie, e le ipotesi subordinate, fondamentali in questo genere di negoziati, verranno fuori nel chiuso dello studio alla Vetrata del Quirinale. Dove, ad esempio, è prevedibile che il Capitano leghista si presenterà con un volto più dimesso, come suol fare sovente in privato, rivolgendosi al Capo dello Stato, magari con parole diverse, così: io avrò anche sbagliato ad aprire la crisi, sebbene abbia detto in Parlamento che rifarei tutto quel che ho fatto. Ma basta questo per mandare all’opposizione il primo partito del Paese, uscito dalle Europee con il 34 per cento e accreditato nei sondaggi di arrivare al 40? E un simile atteggiamento avrà anche il leader del Pd: mi è perfettamente chiaro cosa ha spinto Renzi a fare la sua proposta, spiegherà a Mattarella, ma il segretario del partito sono io. E senza un accordo chiaro, di medio termine e sorretto da una larga maggioranza (la famosa “formula Ursula”, cara a Prodi, comprensiva di Forza Italia), in quest’avventura non mi ci metto. Salvini e Zingaretti, insomma, chiederanno al Quirinale di essere garantiti. E il Capo dello Stato, nel delineare il quadro politico che uscirà dalle consultazioni, prima di assumere l’iniziativa anche di questo dovrà tener conto. Per evitare che, come l’anno scorso, la crisi prenda tempi interminabili in attesa che ad esempio maturi un nuovo accordo giallo-verde. Ma anche che si indirizzi verso un andamento frettoloso, con un ribaltone che aprirebbe nel Paese una mezza guerra civile. Inoltre Mattarella dovrà annotare le incompatibilità già maturate prima ancora dell’apertura della crisi. Pur non potendo escludere del tutto un rammendo tra 5 stelle e Lega, infatti, immaginare Conte e Salvini di nuovo insieme nello stesso governo è impossibile. E allo stesso modo, pensare a un governo Pd-5 stelle guidato dallo stesso Conte e magari senza Di Maio, non esiste. Poi c’è la questione Renzi: dentro o no? Lui s’è chiamato fuori, perché ha altri progetti politici per la testa, ma Zingaretti il nome dell’ex-premier lo userà, per non lasciargli mano libera e per rendere più corposa e difficile la trattativa con i pentastellati, per i quali ingoiare il rospo non è facile, e un incubo l’idea di Salvini che tutti i giorni dall’opposizione gridi contro il “governo Renzi-Boschi-Lotti”. Tra il dire e il fare, al dunque, c’è di mezzo il mare. In condizioni normali e nel regime proporzionale in cui siamo riprecipitati, il Quirinale valuterebbe l’ipotesi di proporre un “governo di scopo”, “elettorale” o “di decantazione”, come si chiamavano ai vecchi tempi, per approvare la legge di stabilità e evitare l’aumento dell’Iva. Ma si sa, qui di normale non c’è rimasto più niente.
Il sentiero stretto. Il premier che i capi di Cinque Stelle e Lega avevano designato e presentato come mero esecutore del loro trionfale e velleitario contratto del cambiamento, alla fine esce a testa alta. E ridimensiona i presunti «padroni» della maggioranza giallo-verde. Conte potrebbe diventare uno dei candidati naturali a guidarlo. Ma qui si entra nella terra incognita di una crisi dai contorni inediti. Alle diffidenze tra un partito e l’altro si sommano i contrasti all’interno di ogni forza politica. Il rischio di tenere l’Italia in sospeso mentre si affastellano le decisioni da prendere è quello che il capo dello Stato, Sergio Mattarella, vuole evitare.
Massimo Franco sul Corriere.More
La crisi è aperta. Ma sarà necessario qualche giorno, se non qualche settimana, per capire come si chiuderà: se con elezioni anticipate entro l’autunno, accompagnate da un esecutivo di garanzia; oppure con un rilancio della legislatura su nuove basi, in termini di alleanze e di programma. L’unica cosa altamente improbabile sembra una riedizione del governo Movimento Cinque Stelle-Lega guidato da Giuseppe Conte. Nonostante le manovre disperatamente tattiche con le quali gli orfani della maggioranza giallo-verde cercano di farla sopravvivere. La durezza inaspettata e il rigore usati ieri dal presidente del Consiglio nei confronti del suo vice e ministro dell’Interno, Matteo Salvini, uniti a un paio di bacchettate nei confronti dello stesso grillino Luigi Di Maio, sono il testamento di una persona che voleva uscire da Palazzo Chigi con dignità. Bisogna dare atto a Conte di esserci ampiamente riuscito, togliendosi non un paio ma un mucchietto di sassolini dalle scarpe. Il premier che i capi di Cinque Stelle e Lega avevano designato e presentato come mero esecutore del loro trionfale e velleitario contratto del cambiamento, alla fine esce a testa alta. E ridimensiona i presunti «padroni» della maggioranza giallo-verde. Faceva impressione osservare ai banchi del governo, seduto accantoaConte, un Salvini nervoso, inquieto, e alla fine quasi annichilito mentre il premier, impassibile, demoliva i suoi comportamenti da vicepremier e da titolare del Viminale. Lo ha accusato di avere esposto l’Italia alla speculazione finanziaria provocando a freddo una crisi in piena estate solo per il proprio tornaconto elettorale. Ha passato in rassegna le assenze dal Parlamento quando si trattava di parlare dei collegamenti Lega-Russia; le consultazioni parallele con le parti sociali al ministero dell’Interno; gli sconfinamenti nelle competenze di altri ministri; il sabotaggio di fatto delle trattative con la Commissione europea: tutto subordinato alle sue mire su Palazzo Chigi tramite blitz elettorale. Con malizia, si dovrebbe pensare che se il prossimo governo prendesse forma intorno a un patto con ambizioni di legislatura tra M5S e Pd, con le «comunicazioni» di ieri in Senato Conte potrebbe diventare uno dei candidati naturali a guidarlo. Ma qui si entra nella terra incognita di una crisi dai contorni inediti. Alle diffidenze tra un partito e l’altro si sommano i contrasti all’interno di ogni forza politica. Il rischio di tenere l’Italia in sospeso mentre si affastellano le decisioni da prendere è quello che il capo dello Stato, Sergio Mattarella, vuole evitare. Per questo, dopo le dimissioni presentategli ieri sera da Conte, ha intenzione di capire quanto prima quali sono le indicazioni dalle quali partire, senza ulteriori rinvii e perdite di tempo. Le opzioni rimangono due: o un nuovo governo che segni una netta discontinuità rispetto all’attuale, e cerchi di arrivare fino alle elezioni del prossimo capo dello Stato, nel 2022; o un esecutivo che prenda atto dell’impossibilità di trovare in Parlamento una maggioranza duratura, e dunque porti quanto prima alle urne. Ipotesi intermedie, come quella di un governo che dovrebbe preparare l’eventuale accordo M5S-Pd, non esistono. Prolungherebbero solo la precarietà e l’opacità dei rapporti, senza assicurare un esito positivo e senza scongiurare tensioni sociali crescenti. La sensazione è che la stragrande maggioranza di deputati e senatori non voglia la fine della legislatura. Ma potrebbe non bastare. La cautela che i protagonisti stanno mostrando è dunque quasi obbligata. Conferma la consapevolezza di una situazione tuttora in bilico. La discontinuità invocata dal Pd di Nicola Zingaretti lascia indovinare una fondata diffidenza nei confronti di Cinque Stelle e Lega; e in parallelo la consapevolezza del segretario di avere un controllo relativo sui gruppi parlamentari plasmati dal renzismo. I piani scissionistici dell’ex premier gettano un’ombra pesante sulla prospettiva di un’alleanza duratura tra Pd e M5S. Gli attacchi che i Dem hanno intensificato contro Conte sembrano fatti per scongiurare la sua permanenza a Palazzo Chigi in nome della rottura con la Lega; e per pretendere dal Movimento il «mea culpa» per quattordici mesi di «contratto». Ma è difficile che la discontinuità possa arrivare a questo punto. Eppure, il sentiero è stretto sia per i grillini, sia per il Pd. Se restano lontani, diventeranno alleati involontari e impotenti del progetto salviniano di elezioni subito. E se si alleeranno senza convinzione, potrebbero favorire una vittoria della Lega ancora più netta all’inizio del 2020.
La partita del 2022 per gestire l’operazione Colle. L’idea che attraversa il Parlamento è che si possa riproporre a distanza di anni lo «schema Ciampi», il cui percorso politico rimase sempre dentro il perimetro delle istituzioni: da Banca d’Italia a Palazzo Chigi, fino al Quirinale. Che poi è il vero oggetto della contesa di questa crisi. Perché in ballo non c’è (tanto) il governo ma chi eleggerà il prossimo capo dello Stato.
Francesco Verderami sul Corriere. More
La maggioranza dei senatori lascia Palazzo Madama con la convinzione che Pd e M5S abbiano già l’accordo. È come se tutto fosse già fatto, tutto scontato. Ma la realtà si incarica di confutare una facile scommessa. Perché da una parte c’è l’intenzione del Quirinale di non dilatare i tempi della crisi, dall’altra c’è l’esigenza del Pd di non costruire soluzioni improvvisate «con un altro premier per caso». In mezzo c’è il rischio che la toppa politica si riveli peggiore del buco. Dunque servirà del tempo per quanto il tempo stringa, e serviranno — secondo le previsioni dei dirigenti dem — «almeno un paio di giri di consultazioni e un paio di settimane» per verificare la possibilità di formare un nuovo governo. Di Maio e Zingaretti, per esempio, dovranno finalmente incontrarsi, siccome non basteranno più gli sherpa a tenere i contatti, visto che finora Grillo e Casaleggio si sono negati persino al telefono. Fare un governo solo per farlo, sarebbe fare il gioco di Salvini, consentirgli di trasformare la sconfitta vissuta ieri nel Palazzo in una successiva vittoria nel Paese. Nel Pd soprattutto si avverte la preoccupazione di chi ritiene che non siano solo in ballo le sorti del partito «ma del sistema», e che per superare questo tornante sia necessaria a Palazzo Chigi «una personalità capace di affrontare la complessità dei problemi italiani connessi a loro volta alla fragilità del sistema europeo». Tradotto dal politichese, dall’analisi finisce per emergere il profilo di «Draghi, il cui nome da solo vale cento punti di spread. Il problema è verificare se i grillini reggerebbero un simile nome». Allora si capisce come mai il Pd abbia bisogno di tempo, anche perché quel nome potrebbe essere pronunciato «solo se fosse una soluzione, non un’ipotesi. E solo se si verificasse una chiara condizione di praticabilità». E il nodo della «praticabilità» non si limiterebbe alla reazione dei 5 Stelle, ma — secondo la tesi di autorevoli dirigenti dem — riguarderebbe anche l’impatto su «un Paese che alle Europee ha votato in larga misura per i populisti» e su «certi settori della sinistra dove alberga ancora una certa ritrosia». Tuttavia, se «al nome si giunge attraverso l’analisi» e se l’analisi della situazione è che «in gioco c’è il sistema», le altre ipotesi darebbero l’idea di «un ripiego», e alcune sarebbero «impraticabili»: come il Conte-bis. I grillini sfruttano la sopravvenuta notorietà del premier dimissionario, sono pronti a lanciarlo come proprio candidato nel caso si scivolasse verso il voto, che è una prospettiva ancora in campo. Il Pd studia le loro mosse, teme che in caso di elezioni lo scontro Conte-Salvini possa bipolarizzare la sfida, utile a far dimenticare la disastrosa gestione gialloverde e ad oscurare gli altri partiti. Perciò il Nazareno è guardingo, per questo c’è bisogno di tempo. Ed è così che si torna allo schema originario: o si arriva a un governo di legislatura o si va alle urne. Per evitarle non basterebbe un «contratto alla tedesca», sarebbe «indispensabile» una personalità capace di gestirlo. Nelle scorse settimane il nome di Draghi veniva citato solo dai maggiorenti dei partiti, nei conciliaboli riservati, da ieri ha preso a circolare anche nei capannelli dei senatori presenti al dibattito a Palazzo Madama, e in modo bipartisan. In fondo era a Draghi che siriferiva giusto un mese fa Renzi, quando sosteneva che «all’Italia servirebbe la guida di una personalità di statura internazionale», è a Draghi che con regolarità si appella lo stesso Berlusconi, ed è sempre stato Draghi lo spauracchio dei sovranisti. L’idea che attraversa il Parlamento è che si possa riproporre a distanza di anni lo «schema Ciampi», il cui percorso politico rimase sempre dentro il perimetro delle istituzioni: da Banca d’Italia a Palazzo Chigi, fino al Quirinale. Che poi è il vero oggetto della contesa di questa crisi. Perché in ballo non c’è (tanto) il governo ma chi eleggerà il prossimo capo dello Stato.
Crisi, tempi stretti soluzione lontana. Ieri il Senato poteva vivere una memorabile giornata di vita parlamentare e invece ne ha vissuto una abbastanza mediocre. L’epilogo del governo del cambiamento doveva essere l’occasione per una riflessione corale intorno ai quattordici mesi dell’esperienza populista e invece ognuno ha recitato la sua parte secondo schemi prevedibili e con scarsa passione civile. Il premier aveva promesso di aprire la crisi in Parlamento e lo ha fatto, ma il suo discorso è stato una resa dei conti con Salvini, caricato di tutte le accuse che Conte gli aveva risparmiato fino a ieri.
Stefano Folli su Repubblica.More
Ieri il Senato poteva vivere una memorabile giornata di vita parlamentare e invece ne ha vissuto una abbastanza mediocre. L’epilogo del governo del cambiamento doveva essere l’occasione per una riflessione corale intorno ai quattordici mesi dell’esperienza populista — un doppio populismo, come è noto — fino al collasso traumatico. Una pagina a dir poco controversa che resterà comunque nella storia del paese, soprattutto perché pochi credono che il populismo si dissolverà in pochi mesi per il solo fatto di vedere Salvini all’opposizione. Purtroppo a Palazzo Madama ognuno ha recitato la sua parte secondo schemi prevedibili e con scarsa passione civile. Il premier aveva promesso di aprire la crisi in Parlamento e lo ha fatto: gliene va dato atto. Ma il suo discorso è stato per metà dedicato a una resa dei conti con Salvini, caricato di tutte le accuse che Conte gli aveva risparmiato fino a ieri, e per l’altra metà volto ad adombrare una sopravvivenza “al servizio del Paese”, magari alla testa di un esecutivo “bis” fondato sulla nuova alleanza Pd-5S. Naturalmente da oggi l’intera vicenda politica è nelle mani del presidente della Repubblica, per cui le ambizioni e le speranze del premier dimissionario e dei suoi sostenitori a Cinque Stelle sono appese a un filo di fumo. È ovvio che per Grillo, Di Maio e gli altri riuscire a cambiare alleato mantenendo lo stesso presidente del Consiglio equivarrebbe a un trionfo, date le circostanze. Ma per lo stesso motivo c’è da dubitare che il Pd, pur nella cacofonia delle voci, possa mai accettarlo: quindi il premier non è assolto, non gli si perdonano i lunghi silenzi e la connivenza con un ministro dell’Interno che all’improvviso, e solo a crisi aperta, viene dipinto come responsabile di ogni nefandezza. Anche da questo si capisce che il rovesciamento della maggioranza, del tutto legittimo in una democrazia parlamentare, presenta straordinarie difficoltà politiche. Nessuno crede che l’operazione andrà in porto facilmente. Nel Pd si avverte crescente freddezza di fronte alla prospettiva di un abbraccio con i Cinque Stelle. Al punto che Renzi, di nuovo al centro della scena e oratore non del tutto rappresentativo della sua parte politica, ha detto: «Se Salvini vincerà e si andrà a votare, lo dovremo all’accordo di una parte importante del Pd». Frase clamorosa da cui traspare la critica feroce a uno Zingaretti non solo messo all’angolo, ma addirittura accusato di intelligenza con l’avversario. Quando invece, se si tornerà al voto, sarà per l’astrusità di un disegno alternativo che non persuade del tutto né il centrosinistra (riserve sono venute anche da Emma Bonino) né in fondo il movimento grillino nella sua interezza. Questo spiega perché Salvini, al termine di un intervento impacciato, ripetitivo e dai toni più adatti alla campagna elettorale che a un dibattito in Parlamento, abbia sentito il bisogno di tendere la mano ai 5S, dicendosi disposto a un’intesa di breve durata (manovra di bilancio e riforme) prima di votare. L’operazione appare oggi inverosimile e l’uscita sembra concepita pensando più che altro agli elettori grillini a cui si offre un amo. Tuttavia se la crisi si aggroviglia, nonostante la regia del Quirinale, tutte le bizzarrie torneranno in campo. Ecco perché i tempi dettati da Mattarella saranno brevi, forse molto brevi. E i diversivi non saranno ammessi.
Il ballo delle anime perse. È un’anima persa Giuseppe Conte, dal quale ci si aspettava un discorso finalmente all’altezza del ruolo, che trasformasse il vacuo “avvocato del popolo” in un vero “uomo di Stato”. E invece non è stato così, e per offrirsi senza un serio disegno politico a un bis purchessia il premier uscente ha pattinato sulle miserie di questo “anno bellissimo”, raccontandolo per quello che non è stato.
Massimo Giannini su Repubblica. More
Finisce qui. Il “governo del cambiamento” doveva rivoltare l’Italia “come un calzino” e aprire il Parlamento “come una scatoletta di tonno”, e invece va a casa così, in un pomeriggio d’agosto qualsiasi. Senza dignità e senza qualità. Nell’inutile spargimento di recriminazioni tardive e invocazioni blasfeme. Tra rosari e Marie Immacolate, miserie umane e furbate dorotee. Tra un altro trimestre di crescita zero e un’altra nave di disperati bloccata a un braccio di mare da Lampedusa. Finisce con il capolavoro al contrario di Salvini, l’infallibile Capitan Mitraglia, l’Uomo che non doveva chiedere mai e che invece ha sbagliato i tempi e i modi della crisi, e in un colpo solo è riuscito, nell’ordine, a uccidere il governo, a suicidare la Lega, a rianimare Di Maio e a resuscitare il Pd. “Parlamentarizzare” la crisi, come si è detto fin dall’inizio, era un atto dovuto. Sancire solennemente e pubblicamente, di fronte al Senato, la rottura del ridicolo contratto tra privati siglato un anno fa dagli azzeccarbugli lega-stellati era un passaggio necessario. Ma in Parlamento vagano ormai solo anime perse. È un’anima persa Giuseppe Conte, dal quale ci si aspettava un discorso finalmente all’altezza del ruolo, che trasformasse il vacuo “avvocato del popolo” in un vero “uomo di Stato”. E invece non è stato così, e per offrirsi senza un serio disegno politico a un bis purchessia il premier uscente ha pattinato sulle miserie di questo “anno bellissimo”, raccontandolo per quello che non è stato. Momentaneamente ridisceso da Marte, Conte si è accorto quattordici mesi dopo che Salvini non è Churchill e forse neanche De Gaulle. Solo adesso ha trovato il coraggio di dirgli in faccia tutto quello che in 445 giorni di umiliante convivenza gli ha invece lasciato fare serenamente. Le norme anti-migranti e la scarsa “cultura delle regole”, la “grancassa mediatica” e la “foga comunicativa”, la fuga sulle vicende russe e persino l’abuso dei “simboli religiosi”. Oggi il Matteo Furioso che “invoca le piazze e chiede pieni poteri” lo preoccupa: ma dov’era, l’ineffabile Sor Contento di Palazzo Chigi, mentre Salvini sulla Ruspa Illiberale spianava lui e Di Maio con le leggi del neo-sovranismo criminogeno, dalla circolare sui prefetti-sceriffi alla nuova legittima difesa, dalla direttiva sulle Ong ai due decreti sicurezza? È giusto chiedere al padre-padrone della Lega un’assunzione di responsabilità rispetto alla crisi. Ma è ancora più giusto che chi ha guidato il Paese insieme a lui per un anno, ed ora gli rimprovera in ritardo gli eccessi ideologici da ultradestra, compia un’analoga assunzione di responsabilità rispetto al governo. Tanto più se ora si immagina candidato a presiederne un altro, stavolta con un alleato di centrosinistra. Un’ipotesi che, a questo punto, sembra davvero marziana. Ma è un’anima persa anche Salvini, che ha miseramente fallito proprio nel giorno in cui avrebbe dovuto spiegare con parole forti e chiare le ragioni di un’eutanasia politica che era nelle cose, già all’atto di nascita di un governo insensato e innervato solo da una comune venatura sfascio-populista. Il beach-leader è stato penoso nei toni e nei contenuti, dimostrando una volta di più che il suo posto non è il Parlamento ma il Papeete. Tra madonne e fate turchine, ha riciclato agli eletti il solito ammuffito teorema dei troppi “signor no” (i ministri pentasellati che hanno fatto saltare il governo) e rifilato agli elettori una sua implicita Italexit (una manovra-monstre da 50 miliardi che farebbe saltare il bilancio). Nient’altro: solo bullismo a buon mercato, senza sbocco né costrutto. Salvini ora rischia tutto. Ha perso il Viminale, e questa è comunque una buona notizia per gli italiani, e può perdere anche le elezioni anticipate. Non è affatto scontato che le otterrà. Ed anche se le ottenesse, ci arriverebbe comunque ammaccato dal caos nel quale ha precipitato il Paese e braccato dalle inchieste giudiziarie dalle quali non riesce ad uscire. Resta un’anima persa anche Di Maio, nonostante Salvini gli abbia regalato l’alibi del “tradimento”. Non può essere una rimpatriata a Casa Grillo a rimettere insieme i cocci di un Movimento che in un solo anno ha perso tutto: la testa, il cuore e sei milioni di voti. Non può essere un’assemblea di condominio nella villa di un comico, a suggellare la “svolta” di una forza politica che chiude un’esperienza di governo con quello che solo oggi si rivela un “cuginetto di Orban” e pretende di aprirne un’altra con quello che solo ieri era il “partito di Bibbiano”. Come se Lega e Pd fossero intercambiabili, esecrabili e/o riabilitabili secondo la convenienza del momento. Come se questa inversione di marcia non implicasse un ripensamento totale dell’identità e dei valori che devono giustificarla, e dunque un cambiamento radicale della missione politica e dei gruppi dirigenti che devono incarnarla. Queste non sono “semplificazioni organizzative”: sono solo mistificazioni democratiche che un vero, grande partito di massa non si può piu permettere. Può sembrare un paradosso, ma in questa folle estate italiana l’unico che finora ha forse salvato la faccia, restando fermo mentre la giostra girava e impazziva, è Zingaretti. Ha subito l’incredibile sterzata movimentista di Renzi, ma ha sopportato anche a costo di apparire ancora una volta troppo arrendevole. Non si è precipitato al capezzale del Colosso Gialloverde morente e non ha benedetto Il Frankenstein Giallorosso nascente. E adesso può aspettare, senza bruciarsi, le mosse del Quirinale. L’unico porto sicuro, nello sciagurato Paese che li ha ormai chiusi tutti.
Chi ha paura di Conte. Il presidente del Consiglio stava crescendo troppo per lasciargli altro campo libero da fiore all’occhiello del M5S. È lo stesso timore che anima Zingaretti e Renzi, divisi su tutto fuorché sull’ostilità a Conte, tanto comprensibile per ragioni di bottega quanto miope per gli interessi dell’Italia.
Marco Travaglio sul Fatto. More
Rivedendo la nostra copertina sulla sfida all’Ok Corral e parafrasando Clint Eastwood, possiamo tranquillamente dire che quando un pistola incontra un uomo col fucile, il pistola è un uomo morto. Ieri Conte ha sottoposto Salvini al trattamento dell’asfaltatura completa, aiutato dall’ennesimo harakiri mediatico del Cazzaro Verde che si è piazzato al suo fianco sperando di spaventarlo e poi riducendosi a fargli le faccette: solo che era seduto sotto, in posizione di minorità rispetto al premier in piedi che lo prendeva a sberle dall’alto al basso, con una lezione di politica, democrazia, diritto parlamentare e costituzionale, ma anche di dignità e di stile allo scolaretto bullo e somaro. Il quale ha raddoppiato l’autogol parlando subito dopo e rendendo ancor più evidente l’abisso morale, intellettuale e dialettico che lo separa dal premier, con un discorso sgangherato, senza capo né coda: doveva almeno spiegare la crisi più pazza del mondo, invece se n’è scordato o non sapeva che dire. Meglio sbaciucchiare rosari e sacri cuori, fra gli applausi dei leghisti più pii, tipo Calderoli che si sposò col rito celtico davanti al druido. Il confronto ravvicinato fra quei due modelli politico-antropologici crea, agli occhi degl’italiani, un nuovo bipolarismo tutto nel campo “populista”. Conte, a dispetto della doppia propaganda leghista e sinistrista, non è uomo dell’establishment né del vecchio centrosinistra. È l’interprete più apprezzato di un populismo-sovranismo dal volto umano che ottiene risultati in Italia e in Europa, diversamente da quello parolaio, inconcludente e dannoso delle destre. Perciò, oltreché per capitalizzare i sondaggi e liberarsi delle indagini, Salvini ha rovesciato il governo: Conte stava crescendo troppo per lasciargli altro campo libero da fiore all’occhiello del M5S. È lo stesso timore che anima Zingaretti e Renzi, divisi su tutto fuorché sull’ostilità a Conte, tanto comprensibile per ragioni di bottega quanto miope per gli interessi de ll’Italia: se mai nascesse un governo M5S-Pd, l’unica speranza di renderlo popolare sarebbe di affidarlo all’“avvocato del popolo”. Ieri è bastato sentirlo parlare, in un dibattito parlamentare di livello infimo, per instillare in tutti una domanda spontanea: ma perché uno così deve dimettersi? E perché non lo rincorrono tutti per affidargli il nuovo governo? Se non per convinzione, almeno per convenienza, essendo Conte da mesi l’unico leader che batte Salvini nei sondaggi. Figurarsi dopo ieri. Ora il Cazzaro è al punto più basso della sua parabola politica. Solo il Pd può salvarlo. E pare che, ancora una volta, stia lavorando per lui.
Fenomenologia del salvinismo democratico che preferisce il Truce. Ex comunisti di destra, terzisti e bella gente. Idiosincrasie, ubbie politiche, qualche ragione e molti errori. L’unica domanda che conta: ha senso dare il vantaggione al Truce? Ci vorrebbe, da parte loro, una autoanalisi e una presa di coscienza su uno schietto dilemma politico: gliele diamo le elezioni risanatrici e glieli diamo i pieni poteri, sì o no?
Giuliano Ferrara sul Foglio. More
Provo a essere serio, serioso, noioso, dunque autorevole. La fenomenologia di Salvini, il Truce, l’ha scritta benissimo Giuseppe De Filippi qui lunedì. Resta da definire la fenomenologia del salvinismo democratico: gente insospettabile (non parlo dei tonti e dei vili) preferisce il Truce al potere, in circostanze emergenziali da lui scelte, piuttosto che il Truce fuori dal Viminale e all’opposizione di un qualsiasi governo e di una maggioranza fondata sul minimo comune denominatore della sua umiliazione politica. Infatti è chiaro che la scelta di fronte a cui si trova una persona sensata di parte democratica e liberale, oggi, è di stabilire quale sia il male minore. L’8 agosto, al culmine di una marcetta autoritaria torsonudista e razzistoide, il truce ha sfiduciato il contratto con i grillozzi e ha chiesto immediate elezioni per passare all’incasso e attribuirsi pieni poteri. Concedergli questo vantaggio di tempi e di posizione, piegando la schiena al suo Diktat, o negarglielo, questo è il problema. Non è che ci siano altri problemi. La legittimità di elezioni anticipate, ovvia. L’aggiramento delle clausole di salvagardia sull’Iva, ovvio. La legittimità teorica di una diversa maggioranza composta dal primo partito e dal secondo partito usciti dalle urne del 4 marzo, ovvia. Il contorsionismo da guappo di cartone del would be dictator che fa retromarcia sulla marcia, salvo nuova giravolta per ridare la voce al popolo, coglionando gli elezionisti in coro un giorno sì e l’altro no, altra legittima ovvietà. Ovvio anche che il Pd trarrebbe qualche vantaggio residuale, roba buona per gli apparati, da una sconfitta ottenuta con presunto onore, passando forse sul cadavere elettorale dei grillozzi. E c’è chi pensa che il Pd dovrebbe attenersi all’idea di un governicchio transitorio per preparare le elezioni, mascherando convergenze impossibili (la posizione di Umberto Ranieri, qui, ieri) o puntare al pasticcio di un governo di legislatura detto Ursula, con un programma “dettagliatissimo”, evidentemente irrealizzabile (Prodi o è intontito o ci fa): vabbè, sono proposte legittime ma non ragionevoli, perché queste sì offrono al Truce la prateria della polemica contro un governo tecnico alla Monti, e in più sono incompatibili con lo stato effettivo delle truppe grillozze, nemiche strategiche ma alleate potenziali contro il nemico principale (rileggersi la storia degli Orazi e Curiazi).
Ma c’è sopra tutto il problema unico, quello del vantaggione. Per negarglielo, il vantaggione, occorre convergere con gli ex alleati buggerati dal Truce, verso i quali esiste una avversione antropologica, politica, sociale e, come dice Calenda, di valori. La cosa “fa senso”, cioè repelle, visto che qui si disse e si conferma che certi figuri vanno combattuti per quel che sono più ancora che per quel che fanno (non si accettano lezioni di antigrillismo da gentucola che lo ha votato e preparato con la polemica anticasta figlia del terzismo). Ma la cosa “fa senso” a nche intendendo il senso come senso comune, come significato, al di là degli umori: il male minore è togliere con ogni mezzo lecito il Truce dal Viminale, dove ha ricoperto il doppio ruolo abusivo e contrario alla costituzione materiale democratica di questo paese, capo della forza e caporione di fazione, in pieno conflitto di interessi, altro che il Cav. E’ un passo elementare semplice, decisivo, specie se accompagnato dalla sua messa in minoranza e dallo sforzo di isolarlo da Berlusconi e dalla stessa Lega amministrativista e di governo seria. Perché dunque esiste un’area salvinista democratica che questa evidenza la trascura o non la comprende affatto? Come è composta? Quali sono le sue ragioni folli? Gli ex comunisti della destra riformista o migliorista guidano nel Pd il gruppone salvinista democratico. Vedono nel Truce one of us, perché è implicato con il suo partito e i suoi uomini nelle affaires, e l’ex comunista, quorum ego, ammira di più il politico che si sporca le mani nel segno dell’effettualità che il politico ipocrita dell’onestà-tà-tà. Vedono nel Truce un produttivista, chissà perché, e un riformatore fiscale, chissà perché, insomma gli offrono un anticipo di simpatia sottolineato dalla convergenza sulle grandi infrastrutture e dall’idea di un blocco sociale-impenditoriale-popolare e perfino sindacale di amici del pil, chissà perché, per non parlare del mito amministrativista e regionalista della Lega. Gli altri gli (ci) hanno tagliato i vitalizi, il Truce non lo avrebbe mai fatto di suo. Sulle politiche per l’immigrazione i destri ex Pci sono naturalmente dalla sua parte, come quei sindaci comunisti francesi delle periferie che cominciarono a pestare sui neri e gli abbronzati e le loro case ben prima che il lepenismo attecchisse e li rapisse, baracca e burattini: detestano l’esibizionismo umanitario, e questo, che è un sentimento genuino, li acceca davanti al razzismo disumano, che è peggio. Il giustizialismo autentico e belluino dei gognanti grillozzi li fa inorridire, ne sono stati vittime e preferiscono, a ogni costo, perfino la minaccia dei pieni poteri, scelgono un teorico e un pratico della giustiziabilità dei deboli e delle zingaracce accoppiata all’impunità per chi governa il sistema (49 milioni, Tribunale dei ministri per la Diciotti). Del crocifisso non sanno che farsene, non sono passati per l’ateo-devozione, ma usato come portachiavi nei comizi ne comprendono il significato bassomachiavellico. Il berlusconismo degli anni passati è stato da un lato pop e tendenza Veronica (e quello si fece giustamente renziano e nazarenico) ma anche, dall’altra parte dello spartiacque, serioso e destrorso e strettamente aziendalista, e questo berlusconismo si incontra bene con la staffetta in cui al posto di Renzi c’è il Truce. Ecco. Quanto ai liberali, terzisti e altra bella gente. Qui prevale uno spirito antirenziano di establishment. Furono trattati male, senza riguardi, da quel cattolico margheritico tracotante, di successo, americanizzante, uno che non sentiva i direttori dei giornali, uno che nella sua ansia di disintermediazione non parlava né con i sindacati né con la Confindustria, e se la giocava in solitario con miti imprenditoriali dell’innovazione cosiddetta e Marchionne. Conta anche il revisionismo storico benemerito, la polemica con l’antifasci – smo all’insegna dell’antiantifascismo. Il Truce si comporta da fascista di balera, ma non bisogna dirlo perché non vogliamo più sentire i cori di “Bella ciao” e ascoltare lezioncine stantie che in nome della battaglia contro l’autoritarismo, il razzismo e il piatto e sciatto mussolinismo torsonudista, rifanno dell’antifasci – smo una pietra di paragone (qui c’è anche la concorrenza tra Corriere terzista e Repubblica). Decisiva anche l’avversione comprensibile verso l’assistenzialismo clientelare e sudista dei grillozzi, e certi modi antipartito e antisistema che un liberale perbene non può sopportare quando nascano da spinte anarchiche. Contro la casta ma con le élite è il loro incauto slogan interiore. Anche Croce pensò per un lungo momento che Mussolini avrebbe rimesso le cose a posto, e pazienza per le squadracce e il progetto autoritario che ai suoi occhi si vedeva e non si vedeva. Insomma, nella fenomenologia del salvinismo democratico si affollano ragioni buone e cattive, comprensibili e meno comprensibili, ma radicate e serie. Per questo ci vorrebbe una autoanalisi, una presa di coscienza, e una scelta formulata non sulle ubbie, sulle idiosincrasie, sulle premesse ideologiche, ma su uno schietto dilemma politico: gliele diamo le elezioni risanatrici e glieli diamo i pieni poteri, sì o no?
Caro Matteo, che pasticcio ci hai combinato. Diavolo di un Salvini. Da un anno le chiediamo di staccare la spina al governo con Di Maio, ma mai più immaginavamo che lo avrebbe fatto in questo modo e soprattutto con questi (probabili) esiti.
Alessandro Sallusti sul Giornale.More
La bella notizia è che questo governo è ufficialmente finito. Ma la giornata di ieri ce ne ha offerte altre due. La prima: Conte, parlando al Senato, ha sbattuto con violenza la porta in faccia a Salvini («è mosso da interessi personali, irresponsabile, imprudente, opportunista, maldestro») decretando la fine dell’alleanza presente e futura con la Lega. La seconda: Conte, nella sua «comunicazione» ha fecondato l’embrione di un nuovo governo tra Cinque Stelle e Pd e si è candidato, con un discorso programmatico più da premier entrante che uscente, a guidarlo – con eccesso di ambizione – lui stesso. Dopo aver ascoltato la replica di Renzi, direi che la pratica è ben avviata. Le elezioni, quindi, si allontanano e si avvicina un governo di sinistra-sinistra (Cinque Stelle-Pd). Per ora, in attesa del lavoro di Mattarella, parliamo di «tendenze», ma se il buongiorno si vede dal mattino non siamo messi bene. Diavolo di un Salvini. Da un anno le chiediamo di staccare la spina al governo con Di Maio, ma mai più immaginavamo che lo avrebbe fatto in questo modo e soprattutto con questi (probabili) esiti. Affidare il Paese a un partito, i 5 Stelle, che ha portato l’Italia in recessione (oltre che dimezzato i suoi consensi in dodici mesi) e al partito, il Pd, che ha clamorosamente perso le ultime elezioni, è un controsenso, oltre che cosa ingiusta e folle. Due debolezze non potranno mai fare una forza, se non quella di aggrapparsi alle poltrone per più tempo possibile. Non sappiamo quali siano i margini di manovra del presidente Mattarella per evitare di replicare il disastro del contratto gialloverde cambiando semplicemente il verde con il rosso. È vero che la politica si regge sui numeri, ma i numeri del Paese virtuale (il Parlamento, dove Pd e M5s sono maggioranza) non possono valere più di quelli del Paese reale che da anni premiano a ogni elezione, sempre più chiaramente e stabilmente, il centrodestra a trazione leghista. Io spero ancora che Mattarella non permetta a un leader fallito e commissariato dai suoi (Di Maio) e a un premier cacciato dagli italiani e dal suo partito (Renzi) di riprendere il potere attraverso giochi di palazzo. Un modo ci deve essere. A me vengono in mente le elezioni, ma se qualcuno ha idee migliori, si accomodi.
Così la crisi al buio terrorizza il Palazzo: tutti sono a rischio. Ieri al Senato Salvini non ha dato il meglio di sé e il timore di non avere le elezioni, di non essere più al riparo nel governo e, magari, di dover subire un governo che nasce per emarginarlo con una nuova legge elettorale proporzionale, lo ha costretto a subire oltre agli insulti di Conte anche una porta in faccia dai grillini.
Augusto Minzolini sul Giornale. More
A volte la paura tira fuori il coraggio. Nel giorno del giudizio Giuseppe Conte ha sfoderato gli artigli. Il suo «j’accuse» contro Matteo Salvini (non gli ha risparmiato neppure l’«affaire russo», agitando, di fatto, un drappo rosso per aizzare i magistrati), pronunciato con il ministro dell’Interno seduto accanto, gli ha conquistato la simpatia degli ex nemici piddini: forse non sarà lui il prossimo premier, ma si è iscritto di diritto nella rosa dei papabili. «Fantastico – il commento del suo portavoce, Rocco Casalino – sembrava Forlani. Un coniglio mannaro». Altre volte, invece, la paura fa brutti scherzi. Ieri al Senato Salvini non ha dato il meglio di sé e il timore di non avere le elezioni, di non essere più al riparo nel governo e, magari, di dover subire un governo che nasce per emarginarlo con una nuova legge elettorale proporzionale, lo ha costretto a subire oltre agli insulti di Conte anche una porta in faccia dai grillini quando ha tentato di riaprire la strada ad un esecutivo gialloverde per ridurre i parlamentari, fare una legge di bilancio e andare alle urne: più che una proposta, una serie di convulsioni. Tant’è che il leghista Gianmarco Centinaio si è sorbito una battuta al vetriolo di Matteo Renzi in mezzo al transatlantico di Palazzo Madama: «Ma che avete fatto? Vi siete capottati nel parcheggio!». E ancora: la paura di scansare i guai si sposa con la speranza di chi è nei guai. Così Pierluigi Castagnetti, amico di lunga data di un Mattarella per ora attento a non pestare troppo i piedi ai sovranisti, volge al pessimismo sul governo nascituro: «Io vorrei una legge elettorale proporzionale, ma per approvarla ci vuole un governo. Ed è difficile. Troppe le distanze tra il Pd e i grillini. Poco il tempo a disposizione per ridurle». Un ragionamento che fa rima con l’ultima speranza di Salvini: «Non hanno possibilità di mettere in piedi un governo ad agosto, a meno che non l’avessero già pronto». C’è un sentimento che muove i fili in questa paradossale crisi di governo: appunto, la paura. «Il momento – confida Pierferdinando Casini – è dominato dalle paure di tanti. Addirittura penso che sotto sotto il Cav faccia gli scongiuri per avere un altro governo e non il voto». La paura pervade l’intero Parlamento. «Almeno l’80% dei deputati e dei senatori – spiega il sottosegretario grillino Vito Crimi – non vuole le elezioni. Elezioni che comunque non si terrebbero prima di marzo: basta farsi due conti – e Mattarella li avrà fatti – per scoprire che si rischierebbe l’esercizio provvisorio. Ci sono i timori di chi rifugge il voto e di chi, invece, lo vorrebbe perché gli risolverebbe un sacco di problemi. Zingaretti, ad esempio, vorrebbe le urne. Pensa che la campagna elettorale contro Salvini darebbe una ragione sociale a questo Pd. Pensa un po’. Solo che è un calcolo sbagliato. Eppure avrebbe pure lui tutto da guadagnare da una nuova legge elettorale proporzionale: una legge che bisognerebbe fare in silenzio. Una legge che terrorizza Salvini. Per evitare una simile prospettiva sarebbe pronto anche ad accettare l’umiliazione di tornare con noi, lasciando addirittura ad uno di noi il Viminale». Già, i tormenti di Zingaretti che andranno in scena nella direzione del Pd di oggi, sono uno dei rebus di questa crisi. Tutti ne sono a conoscenza: c’è chi confida che sia solo tattica, convinto che alla fine il segretario sia pronto a dire «sì» al governo con i grillini; e chi, invece, sostiene che vorrebbe evitarlo perché qualcuno nella sua cerchia lo giudica scabroso. Così Renzi, vero motore del partito «anti-voto», per evitare scherzi nel suo intervento al Senato ha messo i dilemmi di Zingaretti sotto i riflettori: «Spero che qualcuno del nostro schieramento non aiuti Salvini in questa irresponsabile rincorsa alle urne». Poi ha spiegato i rischi che il segretario correrebbe ad impuntarsi in favore delle elezioni: «Zingaretti dovrebbe spiegare perché è andato alle elezioni per perderle e per perdere poi anche l’Umbria, l’Emilia. Sarebbe davvero difficile spiegare una mossa del genere, la “ratio” di chi corre verso la sconfitta. Anche perché le cose si stanno mettendo per il meglio. Non credo che si possa arrivare ad un Conte bis, ma l’ex premier potrebbe andare in Europa. Mentre per il governo i nomi seri sono Cantone, Giovannini e qualcun altro». Divisioni nel Pd, ma anche tra i grillini. Del resto come potrebbe un grillino come Gianluigi Paragone, di origini leghiste, essere contento di un’alleanza con il Pd. «Un governo grillini e Pd? – sospira – Alla fine lo faranno. Tutti hanno paura di votare. Io, invece, alle elezioni ci andrei, ma naturalmente non mi ricandiderei. Tornerei alla professione». Anche sull’altro versante, quello di chi agogna al voto e immagina un nuovo governo come un’agonia, regna la paura. Le speranze sono riposte proprio sui vari Zingaretti, o sui vari Paragone. «Come gira il vento – confida Lorenzo Fontana, uno degli esponenti più vicini a Salvini – si vedrà solo tra due giorni. Loro non hanno molto tempo e c’è chi si oppone a questo epilogo sia nel Pd, sia tra i 5 stelle». Eppoi c’è chi punta, avendoli visti da vicino, sull’imperizia dei grillini. «Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare» è il proverbio in cui si rifugia il sottosegretario all’Economia, Massimo Garavaglia. «E c’è bisogno – aggiunge – di due che sappiano lavorare. Ma con i grillini dove cavolo vanno…!». Paure, timori, speranze per una «crisi» di governo che, a cose fatte, ora non vorrebbe aver aperto nessuno. Salvini si mangia le dita. I suoi sono disorientati. E i dubbi e i timori per il futuro si leggono tutti sul viso stralunato di Giancarlo Giorgetti, che siede proprio sotto Conte, mentre il premier strapazza Salvini: alla fine del discorso Salvini ignora Conte, mentre Giorgetti gli stringe la mano. Il numero due della Lega è interdetto, ancora si domanda come tutto questo sia potuto accadere. E a chi gli pone la fatidica domanda: perché Salvini ha tentato l’azzardo di Ferragosto? Risponde con un’espressione che è un poema, accompagnata solo da due parole laconiche: «Che volete che vi dica? Chi lo sa? Chiedetelo a lui». Una domanda che resta senza risposta e rimane un enigma. Solo che alla fine tanti destini sono in ballo in quella che Renzi ha ribattezzato «la crisi più pazza del mondo». Una commedia poco seria, ma che rischia di trasformarsi per molti in dramma. «Niente paura!» è il sarcasmo di Stefania Craxi: «Visto che la politica non c’è più un buffone vale l’altro!».
Zingaretti-Di Maio. La trattativa è partita. No del Pd al bis del premier e il nodo Renzi. Telefonata tra i leader e prima intesa: serve un accordo di legislatura. Il 5S: “Puoi darmi garanzie su Matteo?” La risposta: “No”. Il timore che l’ex premier faccia la scissione per pesare di più nel nuovo governo. Oggi la direzione dem. More
«Ma voi siete sicuri che se facciamo partire un governo politico di legislatura, poi Renzi non lo faccia cadere tra due o cinque mesi?». La domanda è di Luigi Di Maio a Nicola Zingaretti, almeno a sentire il racconto di chi ha assistito al primo contatto diretto tra i due. E con sincerità, Zingaretti non prova a rassicurarlo, anzi. «Non possiamo dare alcuna garanzia su cosa potrà fare Renzi».
Stampa pagina 4
«Penso che possiamo ripartire solo da Conte. Anche perché il Movimento, e la mia leadership, possono reggere soltanto con lui a Palazzo Chigi». Pausa breve, replica gelida del dem: «Non posso accettare un bis di chi è stato presidente del Consiglio del governo gialloverde». Non siamo neanche alla prima puntata della crisi, tutto può ancora succedere e molto può ancora cambiare. E i due protagonisti della trattativa prendono posizione ai blocchi partenza. Hanno convinzioni divergenti e un obiettivo in comune: dare il colpo di grazia a Salvini. Al telefono – non è il primo contatto di questi giorni, ma ovviamente il più importante – decidono di partire da ciò che può unire. «Se facciamo questo governo – sostiene Di Maio – deve durare tre anni». Zingaretti è d’accordo: «È la condizione che pongo per sedermi al tavolo». Sanno bene entrambi che 36 mesi di vita segnano il confine da superare per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica.
Repubblica pagina 5.
Il paletti del partito del voto. C’è un gioco di sponda tra Pd e Quirinale per costringere il M5s alla resa immediata. Le condizioni di Zingaretti per far partire il nuovo governo, la battaglia in vista della direzione. Lorenzo Fontana conserva un residuo di speranza: “Tutto si decide nei prossimi due giorni. Pd e M5s hanno poco tempo per trovare l’intesa”. More
E certo Zingaretti, e ancor più di lui il presidente Paolo Gentiloni, mostrano una ferrea irremovibilità. “Se qualcuno pensa che basti cambiare i nostri ministri con quelli della Lega, si sbaglia di grosso”, conferma Antonio Misiani, responsabile economico del Pd. E però, dietro questa apparente fermezza, traspare in controluce la voglia di farlo nascere, il nuovo governo, solo però tenendo il coltello dalla parte del manico. Utilizzare, cioè, lo spauracchio del voto, che per i grillini sarebbe “un suicidio” – parola di un ministro del M5s – come arma di ricatto per costringere Luigi Di Maio a cedere senza condizioni. Che poi, a detta di chi frequenta il Quirinale, è un po’ la stessa strategia che anche Sergio Mattarella ha in mente: paventare il ritorno immediato alle urne per scongiurare il rischio di tatticismi esasperati. “E’ complicata”, dice Pier Luigi Castagnetti, amico del capo dello stato, quando gli si chiede dell’intesa tra Pd e M5s: ma nel dirlo si frega le mani, quasi a volere dare l’idea delle trattative frenetiche in corso e che vivranno domani, nella direzione del Pd, un momento decisivo. Zingaretti vuole un mandato chiaro. Andrà al Colle, con Andrea Marcucci e Graziano Delrio, per spiegare a Mattarella “il minimo sindacale” che il Pd chiede per accettare la responsabilità di governo. La prima richiesta sembra già esaudita, ed è lo scalpo di Giuseppe Conte. E basta sentire Luigi Zanda per capirlo: “Ho apprezzato a tal punto le critiche del premier a Salvini – dice il tesoriere del Pd, subito dopo la requisitoria dell’“avvocato del popolo” contro il Capitano – che quasi mi è sorto il dubbio che non fosse lo stesso premier che ha guidato questo governo per un anno e più”. Ed è un’anticipazione quasi perfetta del post che di lì a poco Zingaretti consegnerà ai social. E oltre al premier – per il quale si parla di un futuribile incarico da commissario europeo – bisognerà pretendere anche un ridimensionamento degli incarichi di Di Maio, che di certo non potrà fare il vicepremier né il doppio ministro. E neppure la riscrittura di un “contratto” è negli auspici di Zingaretti, che pretende invece una “ampia maggioranza parlamentare”. Sembra il preludio a un allargamento a Forza Italia che complicherebbe tutto, a meno che non si formi una pattuglia di responsabili azzurri. Condizioni troppo pesanti? “Spero che il Pd lavori per far nascere il nuovo governo – dice il renziano Davide Faraone – e non per dimostrare che farlo nascere è impossibile”. Timore legittimo, certo, che non tiene però conto della paura che dilaga nel M5s, mista all’ansia di scalata di chi al giro precedente è rimasto escluso dalla spartizione delle poltrone. “Cambiare i nostri ministri? Mi sembra una richiesta ragionevole, che di fatto noi stessi avevamo avanzato mesi fa”, dice il senatore Enzo Presutto. Giovanni Currò, deputato vicino a Stefano Buffagni, aggiunge che “un ricambio sarà salutare, visto che dal 32 siamo passati al 17 per cento”. Insomma, “si sdraieranno”, scommettono i ministri leghisti: “Si sdraieranno come hanno in fondo sempre fatto con noi”. E se non lo faranno, a Zingaretti andrà comunque bene. “Perché a quel punto il No lo diranno i grillini”, afferma Valeria Fedeli. E allora, Renzi o non Renzi, “il voto sarà inevitabile”.
In casa Cinquestelle. La strategia di Di Maio: ripartire da me e Conte. Ma il Movimento sbanda. Nel M5S resta forte la spinta a un accordo con i dem E c’è anche chi loda l’intervento dell’ex leader pd. Corriere pagina 6. Luigi pensa al passo indietro pur di confermare il premier “Non ci può essere alternativa” Pressing dei grillini: il leader lascerebbe il governo come scalpo al Pd Messaggio a Conte di Von der Leyen. L’M5S spera nella sponda europea. Stampa pagina 7.
In casa Lega. Salvini grida al complotto. Ed è pessimista sulle urne. Ai suoi: c’è il10% di possibilità di votare. Giorgetti: dibattito interno? Da noi decide il capo. Corriere a pagina 7.
Il flop di Salvini agita la Lega. Può perdere subito il Viminale. L’estrema giravolta del ministro dell’Interno: il ritiro della mozione di sfiducia, a dimissioni di Conte già annunciate. La stoccata di Giorgetti: “Ha deciso tutto lui, da noi non c’è democrazia”. Repubblica a pagina 8.
Salvini: l’Europa voleva sabotare la manovra. I peones scettici: “Matteo consigliato male”. La decisione di rompere dopo lo scandalo dell’incontro al Metropol. Ma nel partito cresce la delusione. Stampa a pagina 8.
Harakiri di un leader Salvini come Berlusconi e Renzi: arrivato all’apice è diventato nemico di se stesso. In pochi giorni il leader leghista ha sbagliato tutte le mosse. Come, prima di lui, quei capi che hanno confuso alto consenso e delirio di onnipotenza. Nel 2009 il Cavaliere a Onna aprì alle opposizioni. Due giorni dopo era da Noemi Letizia. Il 40% e poi la caduta del referendum per il Pd. Europee e poi Papeete per l’altro Matteo. Filippo Ceccarelli su Repubblica a pagina 9.
Social. Si studia la controffensiva sul web. Matteo pronto a scatenare la “Bestia”. «Salvini non si discute», dicono in tanti. Ora prima di portare la gente in piazza per protestare, scenderà in campo la “Bestia”, la macchina social di Salvini che sta già scaldando i motori. «Movimento 5 Stelle e Partito democratico cadranno prima nella rete, poi nei palazzi», la convinzione. E Morisi, l’uomo della comunicazione sul web della Lega, già pianifica la battaglia: «Nessuna spallata, ma gli elettori del Movimento 5 stelle e del Pd non ci staranno a questo inciucio». Messaggero a pagina 6.
Centrodestra. Forza Italia chiederà le elezioni. «Salvini? Ci ha vendicato Conte». Berlusconi cerca l’unità della coalizione. Anche la Meloni spinge per le urne anticipate. Messaggero a pagina 8.
Rosari. Spadaro: “Quei rosari strappati alla devozione per pura propaganda”. Il direttore di Civiltà Cattolica: “Mi ha colpito l’espressione di Conte sull’incoscienza religiosa. San Giovanni Paolo II parlava di sana laicità”. Rosy Bindi. “Salvini profana i simboli religiosi Adesso con i 5S serve discontinuità”. Il presidente Conte ha tenuto un discorso condivisibile nella critica al suo vice leghista ma non ha rinnegato nulla della sua azione di governo. Anzi.
L’altro Matteo si è ripreso la scena. “Niente ministeri”. A me sembra naturale che nessuno di noi entri al governo. Non parlo per Boschi o Lotti ma se mi chiedono un consiglio dico di restare fuori. Matteo Pucciarelli su Repubblica. More
Un anno di governo. Il dibattito in Senato ha messo a nudo l’insanabile distanza tra leghisti e grillini I ripetuti scontri nella maggioranza in altri tempi avrebbero subito aperto la crisi Litigi, polemiche e insulti Un anno gialloverde vissuto pericolosamente. Stampa pagina 9.
Il governo aveva approvato un decreto per garantire la continuità produttiva in alcune fabbriche Ma il provvedimento non è ancora stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Dalla Whirlpool all’ex Ilva, lavoratori abbandonati. Dal presidio della fabbrica di lavatrici un appello a Mattarella. Repubblica pagina 11.
Il dibattito in Senato ha messo a nudo l’insanabile distanza tra leghisti e grillini I ripetuti scontri nella maggioranza in altri tempi avrebbero subito aperto la crisi Litigi, polemiche e insulti Un anno gialloverde vissuto pericolosamente. Stampa a pagina 10.
Sui giornali nel mondo. Evidenziati gli attacchi di Conte al vicepremier, definito “irresponsabile” Il New York Times: è stato il governo più nazionalista e disfunzionale “La fine dei populisti” L’Italia in prima pagina sulla stampa straniera. Stampa pagina 10.
Open Arms. Il procuratore di Agrigento, Patronaggio, arriva in elicottero e decide dopo un’ispezione con alcuni medici sulla nave umanitaria. Il governo spagnolo aveva fatto salpare un’imbarcazione militare per prendere e trasportare a Maiorca chi era rimasto a bordo Open Arms sequestrata dalla Procura. Sbarcati a Lampedusa tutti i migranti. Intanto dall’inizio di agosto arrivati 648 fantasmi. Ieri la finanza ha intercettato un veliero: 69 a bordo. Stampa a pagina 11.
Il capo missione dell’altra nave in attesa: “Tocca a noi, l’Europa smetta di ignorarci”. Da 12 giorni siamo in stand by dopo aver salvato 350 persone. A bordo non c’è ancora emergenza ma non potremo resistere all’infinito. Repubblica a pagina 12.
Mimmo Lucano. L’esilio e il padre malato. Giustizia, non pietà. Diritti, non concessioni. «Anche se mio padre non dovesse farcela, non chiederò di tornare a Riace». In quell’appartamento prestato di Caulonia che abita da ottobre ma non riesce ancora a chiamare casa, ostaggio di un provvedimento di esilio che gli impedisce persino di assistere il padre 93enne e malato, Mimmo Lucano non cede. Mentre in migliaia si mobilitano perché possa tornare in paese, lui ripete: «Non voglio carità». Della petizione lanciata dal Comitato 11 Giugno per invocare «un gesto umanitario» del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non ha saputo nulla fino a quando Facebook si è riempito di messaggi di solidarietà. Né immaginava che potesse avere tanto sostegno. In 24 ore l’hanno firmata in 25mila e appelli a sostenerla sono arrivati dai soggetti più diversi, dal vignettista Vauro Senesi al direttore di Civiltà Cattolica Antonio Spadaro, da don Tonio Dell’Olio di Libera a Beppe Giulietti della Fnsi. Repubblica a pagina 18. More
Tremonti sull’Iva. Quella clausola di salvaguardia imposta dall’Europa nel 2011. Tutto cominciò con la crisi delle grandi banche tedesche e francesi. Giulio Tremonti scrive al Sole. Ho letto sul sito del Sole 24 Ore l’articolo di Dario Aquaro e Cristiano Dell’Oste pubblicato nei giorni scorsi in materia di “clausole Iva… un prologo che risale all’estate del 2011. More
Prologo, clausole Iva? Dopo otto anni è forse il caso di fare chiarezza su quanto è stato nella primavera, poi nell’estate, infine nell’autunno del 2011: a) nelle Considerazioni finali della Banca d’Italia dette dal governatore Draghi il 31 maggio del 2011 era scritto tra l’altro quanto segue: «La gestione del pubblico bilancio è stata prudente… le correzioni necessarie in Italia sono inferiori a quelle necessarie negli altri Paesi dell’Unione europea». Ancora più positivo fu il giudizio espresso in giugno dal Consiglio europeo; b) dato che i conti pubblici di un grande Paese non possono variare in negativo e addirittura drammaticamente in pochi giorni, è ragionevole porsi qualche domanda su quanto è stato il 5 di agosto quando Bce/Banca d’Italia hanno inviato al Governo della Repubblica italiana una lettera contenente la richiesta ultimativa di fortissime “correzioni” di bilancio pena – in caso di risposta non tempestiva (entro l’8 di agosto) – la minaccia di mandare in default il debito pubblico italiano. In uno scenario normale sono i Governi che non devono minacciare la Banca centrale, nel caso era la Banca centrale che violando ogni regola minacciava un Governo! c) quale la ragione di tutto questo? Era una ragione che torna a essere drammaticamente evidente in questi giorni: la strutturale risalente e permanente crisi delle grandi banche tedesche (e francesi). Allora la crisi era sui crediti verso la Grecia. L’avere iniettato allora 200 miliardi di “aiuti europei” per le perdite sulla Grecia non è stato evidentemente sufficiente (c’erano già anche a latere i derivati!); d) nella primavera del 2011 fu ipotizzato l’utilizzo del Fondo salva Stati (suggerito dall’Italia nel 2008) per salvare non solo gli Stati ma anche le banche. Il Governo italiano pose la condizione che il contributo al Fondo in caso di utilizzo per salvataggi bancari non fosse calcolato in base al Pil (come giusto per la funzione salva Stati) ma calcolato sul rischio bancario: Germania e Francia erano a rischio sulla Grecia per 200 miliardi, l’Italia per 20! e) la soluzione proposta all’Italia determinò reazioni negative fortissime non solo perché aumentava esponenzialmente l’onere a carico dei pubblici bilanci tedesco e francese ma anche perché evidenziava l’effettiva origine della crisi che non era tanto connessa alle finanze pubbliche avendo piuttosto causa in una profonda crisi del sistema bancario, crisi che non si voleva assolutamente evidenziare (e che ancora a lungo e per le stesse ragioni ancora si tende a nascondere); f) è in quanto sopra che si trova l’origine prima degli sberleffi recitati in televisione da una coppia di leader europei in conferenza stampa, quanto dal parallelo altrimenti ingiustificato scatenarsi degli spread contro l’Italia; g) per evitare il default minacciato con la lettera del 5 agosto il Governo della Repubblica italiana emanò il Decreto di Ferragosto. La stampa internazionale lo definì «perfect». In realtà, dato tutto quanto sopra, il Decreto non fu comunque sufficiente per bloccare la pressione politica necessaria per forzare l’Italia verso l’ipotesi di un abnorme finanziamento del Fondo salva banche! La “clausola di salvaguardia” non è stata dunque un’invenzione italiana, ma una imposizione europea. Tuttavia con una specifica, una differenza tra quanto è stato nell’agosto del 2011 e quanto è poi avvenuto negli otto anni successivi; h) nella formulazione iniziale (agosto-settembre 2008) l’adempimento alla clausola-imposizione era assolutamente programmatico e generico e comunque subordinato all’ipotesi del non raggiungimento di altri e vasti obiettivi di bilancio.
Alla larga nel testo si ipotizzava infatti nel caso denegato di un insufficiente raggiungimento di questi obiettivi una “possibile rimodulazione delle tax expenditures o delle aliquote delle imposte indirette incluse le accise o l’Iva”; i) nell’ottobre-novembre del 2011 il Governo entrò in crisi interrompendo la sua azione di finanza pubblica. È solo con il primo Decreto del Governo Monti che appare la clausola Iva come è poi stata iterata nei lunghi otto anni successivi. Una serie di clausole vincolanti e cifrate per importi e date. È del resto poi forse il caso di ricordare che oltre ad avere importato dall’Europa e montata in loco una clausola Iva di tipo imperativo, come da allora così ancora, uno dei primi atti del Governo Monti fu quello per cui il Governo italiano consentì il calcolo del contributo italiano al Fondo salva banche non in base al rischio, ma in base al Pil così che la crisi rispetto alla quale l’Italia era totalmente estranea (si rileggano le citate Considerazioni finali) fu prima addebitata all’Italia come se si trattasse di una crisi della finanza pubblica italiana per poi essere – per beffa – messa sul conto dell’Italia gravandola – in aggiunta alle clausole – per un importo assolutamente spropositato.
Savona contro Draghi. L’idea di Savona: patto Roma-Bruxelles e poi debito targato Ue. Al Meeting di Rimini attacco a Draghi: «L’Europa e la Bce impreparate alla crisi 2011». La Banca centrale europea è intervenuta in ritardo dopo la crisi del 2008 e con strumenti non risolutivi. L’attacco all’istituto di Francoforte arriva da Paolo Savona, presidente Consob ed ex ministro degli Affari economici del governo gialloverde, in occasione del Meeting di Rimini. More
Apple vs Netflix. L’amministratore delegato Cook punta a generare 50 miliardi di ricavi entro nel 2020 grazie ai servizi televisivi in streaming Apple lancia la sfida a Netflix e Amazon “Investiremo sei miliardi per la Tv+. Stampa a pagina 20.
Aumenti. L’Osservatorio sulle comunicazioni Agcom ha fatto i conti sui principali rincari degli ultimi 10 anni Al terzo posto la tassa per i rifiuti con una stangata del 26%, scendono solo le tariffe telefoniche Bollette, il record degli aumenti va all’acqua e all’elettricità.
Istat: i dati positivi riguardano solo le esportazioni e l’occupazione. Anche l’Istat comincia a vedere nero. “Ora l’Italia rischia la stagnazione”. Il presidente Blangiardo: l’industria frena, un problema la popolazione sempre più anziana.
Dazi. La guerra dei dazi creerà tensioni al G7 di Biarritz Trump cerca di evitare la caduta “Allo studio il taglio delle tasse”.
Isis. Fra Iraq e Siria ancora attivi 18mila militanti. In soli 6 mesi 139 attacchi Washington suona l’allarme “L’Isis sta rialzando la testa”.
L’Isis sta rialzando la testa in Iraq e in Siria. Non è in condizione di ricostruire il Califfato, ma combatte per destabilizzare i due paesi e minaccia l’Occidente col terrorismo. More
Russia Turchia Siria. Soldati russi al fianco di Assad. Bombe sui turchi in Siria. Soldati russi e turchi sono vicinissimi nella battaglia di Idlib che ha preso nelle ultime 48 ore un’improvvisa accelerata. Ma non sono dalla stessa parte. Le forze speciali di Vladimir Putin hanno un ruolo decisivo negli assalti notturni che hanno frantumato le linee di difesa dei ribelli a Sud della provincia siriana, e permesso ai governativi di accerchiare ed espugnare Khan Sheikhoun, una delle loro roccaforti meglio fortificate. I militari turchi, arrivati nell’autunno del 2018 per sorvegliare una zona cuscinetto ormai in pezzi, sono finiti intrappolati, e ora Mosca e Ankara cercano una soluzione per tirarli fuori senza incidenti, e senza far perdere la faccia a Erdogan. L’intervento in prima persona dell’esercito russo è stato rivendicato lunedì da Putin, nel suo colloquio con Emmanuel Macron. E ribadito ieri dal ministro degli Esteri Serghei Lavrov: «I nostri uomini sono schierati sul terreno», ha spiegato. E ha aggiunto: «La Turchia è stata informata in anticipo dell’imminente attacco contro gli jihadisti. Ha avuto tutto il tempo per prevenire ogni incidente». Stampa pagina 13
Russia e Cina: i missili Usa sono un rischio per la sicurezza.
Seppellito il trattato antimissili «Inf», il rischio di una nuova corsa agli armamenti si fa sempre più concreto. Gli Stati Uniti non hanno aspettato molto per sfidare Russia e Cina. Domenica scorsa, cioè neanche tre settimane dopo che Putin e Trump hanno fatto carta straccia dell’accordo, gli Usa hanno testato un nuovo siluro a media gittata: un’arma fino a poco tempo fa proibita dal trattato che 32 anni fa contribuì a mettere fine a decenni di Guerra Fredda. La mossa della Casa Bianca è stata accolta con aspre critiche sia da Mosca sia da Pechino. «Avrà gravi ripercussioni sulla sicurezza regionale e internazionale». Stampa a pagina 14.
Da G7 a G8. Sarebbe meglio avere nuovamente il G8. Per il presidente Usa, Donald Trump, la Russia dovrebbe rientrare nel club dei Grandi della Terra, ricreando il G8. Sarebbe «molto più appropriato» aggiungere la Russia al G7, ha affermato l’inquilino della Casa Bianca, che si è detto favorevole a sostenere una proposta in tal senso. Per Trump, il presidente Putin è stato estromesso dal G8 da Obama perché «lo aveva superato in astuzia», ma la cacciata di Mosca è avvenuta come risposta all’invasione russa della Crimea.
Hong Kong, la governatrice Lam: cortei pacifici, ora si può dialogare. Tensioni con la Cina, sparito al confine con Shenzhen un impiegato del consolato britannico. Stampa a pagina 14. More
Archiviata la prova della piazza, con «la protesta delle mascherine» che domenica ha riempito Victoria Park e l’intero quartiere di Causeway Bay scongiurando l’escalation violenta, Hong Kong riparte dalla politica su un sentiero promettente in casa ma insidioso sul piano dei rapporti con la madrepatria. Di buon auspicio è l’apertura della governatrice Carrie Lam che, dopo una prolungata latitanza, è tornata a farsi sentire ieri felicitandosi per il sit-in pacifico di due giorni fa ed eleggendolo a punto di partenza per un dialogo «a questo punto possibile» a cui lei stessa starebbe già lavorando, così come starebbe già lavorando la task force dell’Independent Police Compaints Council incaricata di verificare le denunce degli ultimi mesi. Coincidenza o no, nelle stesse ore il quotidiano «South China Morning Post» pubblicava il monito del capo dell’Ipcc, Anthony Neoh, secondo cui «l’unica via possibile per uscire dalla crisi è quella politica». Se dal fronte interno arrivano segnali positivi, su quello dei rapporti con Pechino la tensione è massima, come prova l’insistenza dei media cinesi sulle «oltraggiose interferenze americane» e su una protesta assimilabile per potenziale destabilizzante al terrorismo.
Brexit, Merkel stoppa Johnson “L’accordo non si tocca”. Se Boris Johnson sperava di arrivare a Berlino questo pomeriggio da Angela Merkel, con in mano una mezza promessa di far ripartire i negoziati sulla Brexit, dovrà riporre nel cassetto sogni e piani. More
Buongiorno a tutti. Attesa per il discorso di Conte al Senato. Il premier non farà sconti a Salvini, la crisi aperta è seria e il rapporto con la Lega è insanabile. Cinque Stelle divisi sull’eventuale scelta di dar vita a un nuovo governo con il Pd. Cauto Di Maio e Cauto anche il segretario del Pd Zingaretti che pare frenare sull’ipotesi di un governo di transizione: o nasce un esecutivo forte o meglio le urne. E mentre gli americani scoprono l’etica negli affari Putin e Macron fanno affari. Buona lettura.













Conte oggi alle 15 in Senato spiegherà la crisi al Paese. Il premier si sente fuori dal totonomi. Ue, reputa inelegante designare se stesso. Non farà sconti e dedicherà la parte centrale al difficile rapporto con Salvini (Corriere p.2). “Mai più con la Lega”. Il premier accuserà Salvini per la crisi. La decisione di non chiedere il voto dell’Aula per evitare il rischio di pasticci istituzionali. Poi rimetterà il suo mandato al Quirinale. “Nessun rinvio, è questione di dignità”. (Repubblica p.2). Poi un Conte bis e un governo ponte per aiutare i negoziati coi dem. L’ipotesi è dar vita a un esecutivo per mettere in sicurezza i conti e sterilizzare l’aumento Iva. In un secondo momento sarà siglato un contratto sul modello tedesco proposto da Delrio (Stampa p.2). L’idea di Di Maio un bis del premier con il sostegno Pd. Il capo politico pronto a chiamare Zingaretti: pensa a un esecutivo ponte che accompagni la trattativa con i dem (Repubblica p.3). L’ultimo pressing di Di Maio ma Conte verso le dimissioni. Il capo M5S vuole il taglio dei parlamentari: «Lascia giovedì». No del premier: «Questione di dignità personale e istituzionale». Grillo lo vorrebbe di nuovo a Palazzo Chigi e l’avvocato fa filtrare di non essere interessato a fare il commissario Ue (Messaggero p.3). L’avvocato e l’arringa per restare in campo (ma non a ogni costo) (Fatto p.2).
E spunta l’idea «senza Salvini» mentre va avanti il negoziato tra gli ambasciatori di M5S e democratici. Ma Di Maio non chiude la porta all’ex alleato: l’ipotesi di offrire un asse con lui fuori dai ministeri (Corriere p.3). Il consiglio di Giorgetti a Salvini: “Ricuci però stai fuori dal governo. Come fece Bossi nel 1994”. Tra le ipotesi anche le dimissioni del ministro prima delle comunicazioni di Conte (Stampa p.4). Stop del capogruppo della lega Molinari: “Niente governo senza il Capitano. Di Maio dovrà spiegare il tradimento. Il paese potrebbe reagire” (Qn p.4).
Urne sempre più lontane Spunta il governo-ponte per saldare M5s e Pd Conte potrebbe restare a Palazzo Chigi in attesa del «patto alla tedesca» tra Di Maio e Zingaretti (Giornale p.3).
Un monocolore per mazzolare il Truce. Ma quale formazione Ursula. Governo Bisconte finché la Lega si sgonfia. Troppi ostacoli sulla via del governo giallorosso. L’alternativa è semplice. Giuliano Ferrara sul Foglio.
Una telefonata a Draghi ci allungherebbe la vita scrive Alessandro Sallusti sul Giormale. Non voglio dare consigli, ma io una telefonatina a Mario Draghi la farei. Ad alcuni il nome di Draghi provoca l’orticaria perché associato all’euro alta burocrazia. Ma si tratta di un pregiudizio. Mario Draghi è in realtà un arci italiano, europeista convinto e intelligente che da presidente della Banca centrale europea ha tenuto testa agli egoismi e alle spinte franco-tedesche. Non l’ha fatto urlando e insultando ma facendo valere con autorevolezza la ragione, le regole e la sua autonomia di governatore sancita dai trattati.
Assalto finale al salvinismo. «Col proporzionale è finito». Patuanelli (M5s) rivela l’arma letale anti Matteo: «Arriverà una nuova legge elettorale che lo rovinerà». Renzi sbeffeggia il leghista: «Dovrebbero assegnargli il premio Coglion d’oro». Giorgetti: «Matteo non ha ammazzato chi doveva al momento opportuno». Augusto Minzolini sul Guiornale.
Chi tifa Ursula non ha capito la lezione Monti. L’ammucchiata che usa il nome della strega di una fiaba sarà la maledizione dei partiti che la sostengono. Il bocconiano issato al governo contro il voto popolare favorì il vento grillino che spazzò il sistema. Il bis che si prepara spianerà la strada al Carroccio. Maurizio Belpietro sulla Verità.
Il Colle avverte i partiti: adesso niente bluff e chiarezza immediata. Nel caos e nell’incertezza la bussola del Quirinale, che ribadisce la neutralità. Forse già da domani le consultazioni Mattarella pensa a un giro molto rapido (Messaggero p.4). Il Colle si attende le dimissioni del premier. Ma nulla obbliga Conte a dimettersi, tantomeno a gettare la spugna domani stesso. Nessuna ipotesi di governo del presidente. Mattarella, a richiesta, potrebbe dare più tempo: ma c’è rischio paralisi con la riforma Fraccaro. Da arbitro non fornirà indicazioni e aspetterà le proposte dei partiti durante le consultazioni (Stampa p.4).
Di Maio: “Salvini ha fatto un disastro”. I grillini lo processano: “Ora con il Pd”. Il leader dei 5S chiede tempo. Un ministro ai parlamentari: non trattate con la Lega. Molti leghisti mi hanno scritto che non sapevamo nulla: questa crisi è tutta colpa di Salvini (Stampa p.2). Il capo M5S non vuole chiudere al Carroccio. Ma c’è il muro dei gruppi: «No Luigi, è un errore». I dubbi del leader: con i lumbard possiamo rinegoziare il contratto come vogliamo, con il pd sarà dura. Deputati e senatori convergono sulla linea Conte–Fico e spuntano 14 saggi per la crisi (Messaggero p.2). Di Maio: “Torniamo centrali”. Ma il gruppo ora vuol contare (Fatto p.4). Il partito di Bibbona: il Movimento è tornato alla corte di Grillo. Con il vertice nella sua villa in Toscana il fondatore riprende la guida anche per evitare la rottura tra l’ala governista e quella anti-Lega (Repubblica p.7). I filo-dem contro i «nostalgici». Accuse e sospetti nel Movimento. Carla Ruocco dice sì al Pd. Da Buffagni un invito a Salvini: ha il telefono acceso? Lo usi (Corriere p.4). 5 Stelle decisi a fare il governo col Pd, avanza l’idea del Conte-bis (o Tria). Un esecutivo a tempo, che dia agio di scrivere il contratto di alleanza. “Renzi e Boschi inaffidabili ma c’è Zingaretti”. Salvini teme la riforma elettorale (Foglio in prima).
Salvini: Noi della Lega siamo pronti al taglio dei parlamentari mentre quelli del Pd sono contrari.
Di Maio vuole ottenere prima il voto della Camera sul taglia-parlamentari (Stampa p.3).
Salvini, ultima offerta ai 5S. “Fermerò l’inciucio con Renzi”. Il vicepremier riunisce i suoi collaboratori più stretti: “Per noi le elezioni restano la via maestra ma decido dopo il discorso di Conte”. Rotondi: “So che ha telefonato a molti parlamentari grillini per offrire posti in lista” (Repubblica p.6). «Nulla è scontato, tutto è possibile». Ma Salvini vuole tenere il Viminale. Nel partito c’è chi pensa a un nuovo governo gialloverde (con un altro premier) (Corriere p.6). Salvini prova a ricucire. «Ma se vogliono rompere è guerra senza quartiere». Il vicepremier aspetta Conte, poi parlerà in aula. Questa mattina doppio vertice con i suoi: il governo 5Stelle-Pd per noi è una manna (Messaggero p.6). La lunga cavalcata del leghista finita nel classico cul de sac (Fatto p.3). Dopo Salvini il diluvio. “Non abbiamo classe dirigente”, dice Borghezio. E Gianni Fava: “Se si eclissa lui è finita anche la Lega” (Foglio in prima).
Le condizioni di Zingaretti: «Esecutivo forte o si va al voto». Il segretario resta molto cauto: dal tono di Conte capiremo. L’idea di «impegnare» Renzi (Corriere p.8). Timori, veti e sospetti incrociati. Frena la trattativa 5Stelle-dem. M5S e Zingaretti temono che Renzi faccia cadere il nuovo governo in primavera. L’ex premier: falso. I grillini puntano su un Conte bis: «C’è solo questa ipotesi». Il Pd chiude, ma non troppo (Messaggero p.5). Zingaretti tratta ma ha un sospetto. “Lega e M5S torneranno insieme”. Grillini e Dem puntano a una piattaforma europea. Renzi: “Votiamo la sfiducia a Conte” (Stampa p.5). Prove di trattativa tra Pd e 5S. Prime ipotesi sui ministeri. Negoziato sottotraccia, big in campo: da Franceschini a Delrio. Ma grillini e Zingaretti temono le mosse di Renzi (Repubblica p.8). In casa Pd riesplode la guerra per bande: una guida ragionata. Chi vuole cosa: da Prodi a Franceschini. L’unico per il voto è Zingaretti, ma i dirigenti non lo seguono. Renzi tra qualche mese si farà un partito e ricatterà tutti. Boschi ministro? È una boutade per far capire ai rignanesi che, nel caso, devono legarsi al patto coi 5S (Fatto p.5). Calenda: “Non si risorge con un governo Frankenstein. Si possono fare esecutivi con chi ha idee diverse, non con chi ha valori diversi. Lo abbiamo sostenuto fino a 15 giorni fa” (Repubblica p.8).
Stefano Fassina di Leu: ”Le cose potrebbero solo peggiorare. Un governo rossogiallo deve riaprire il negoziato con Bruxelles e rivedere il deficit. Bisogna prendere le distanze dalla maggioranza Ursula di Prodi” (Stampa p.5).
Forza Italia e l’opposizione (con riforma elettorale). La strategia di Gianni Letta permetterebbe a Berlusconi di avere un peso nelle scelte. Il telefono «sempre acceso» del leghista è servito all’ex premier per riprendere i contatti. Gelmini: ora la Lega deve darci segnali chiari. Bisogna ricostruire il centrodestra tenendo conto di tutte le componenti. Se il Colle si appellasse al Paese per un governo d’emergenza, tutti i partiti faranno una valutazione (Corriere p.9).
Giovanni Toti fondatore di Cambiamo: “Non si troverà un governo capace di incidere sul Paese, siamo il fanalino di coda in Europa. Adesso andiamo a votare, tutto il resto è un compromesso. Con Mara Carfagna ho un ottimo rapporto, l’idea è di cambiare il centrodestra” (Stampa p.4). Toti cala a Roma per la campagna acquisti: pensa a gruppi suoi e ci prova con Mara. Se la legislatura proseguisse potrebbero completare la scissione anche in aula (Fatto p.4).
Ferma e coerente: la Meloni è l’unica seria e continua a crescere. Il partito di Giorgia si schiera contro ogni ipotesi di ammucchiata. E lei: «Per qualcuno è un limite, io ne vado fiera. Adesso al voto» (Libero p.6).
Il presidente della Cei al Meeting di Cl Il cardinale Bassetti: “Si aiuta chi ha bisogno, italiano o straniero” (Repubblica p.7). Crisi, i vescovi apprezzano la svolta ma sul nuovo corso la Chiesa è divisa. Il presidente Bassetti: «Primavera italiana? Arriverà ma siamo ancora nella notte. Aspettiamo Conte» (Messaggero p.4).
Altro naufragio in Libia. “Temiamo una strage con cento morti”. La segnalazione dal servizio telefonico Alarm Phone. Tra Linosa e Malta in 356 sulla Ocean Viking (Stampa p.9).
La Open Arms non si muove. Sullo sbarco tutti contro tutti (Fatto p.11). A Lampedusa 99 ancora in mare. Il governo spagnolo: “Posizione incredibile. Abbiamo offerto ogni tipo di aiuto. La guardia costiera scorti i migranti in Spagna”. No di Open Arms: “Questa non è una soluzione” (Stampa p.9). Toninelli sul web: Guardia Costiera pronta a trasportare i migranti in Spagna (Corriere p.11). La denuncia del fondatore Camps, “le leggi di Sanchez peggio del decreto Sicurezza bis di Salvini”. Perché la Spagna non è “porto sicuro” (Fatto p.11). Oscar Camps, fondatore dell’Ong. “Non faccio politica salvo vite umane. L’unico porto è qui. La proposta dell’Italia arriva tardi, per giorni non ci hanno neanche voluto ascoltare (Repubblica p.13).
Appello a Mattarella: “Lucano torni a Riace per l’addio al padre”. Una petizione al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, affinché intervenga «urgentemente» per consentire a Mimmo Lucano «di poter tornare nel comune di Riace» per un ultimo saluto all’anziano padre malato. A lanciarla, via Facebook, il Comitato undici giugno, nato a sostegno di Lucano e del progetto Riace.
“Simon morto 40 minuti dopo l’allarme”. Ma si indaga sugli errori nei soccorsi. Recuperato il corpo del 27enne francese disperso in Cilento dall’8 agosto. “Richiamato, non ha più risposto” (Repubblica p.15). Polemiche per la mancata geolocalizzazione del francese. Il caso del numero unico (Corriere p.16).
Ipotesi tecnica dell’Iva sterilizzata a tempo. Per la Ragioneria è fattibile un blocco dell’aumento fino ad aprile con copertura ad hoc (Sole p.5). Il gioco dell’Iva. Dal primo di gennaio del 2020 scatterà l’aumento dell’imposta per 23,1 miliardi. L’intervento per evitarlo dipenderà dalla soluzione alla crisi di governo. Clausole, la trovata di Tremonti è diventata una scorciatoia obbligata. Monti e Gentiloni le ridussero, Letta scelse il rincaro. Tornate con Renzi e Conte
(Repubblica p.9). La tagliola dell’Iva. Il commento di Tito Boeri su Repubblica in prima.
Svolta dei capitalisti Usa: «Prima degli azionisti ci sono etica e ambiente». Manifesto di 200 imprese quotate a Wall Street: «Il profitto a tutti i costi danneggia il business» (Giornale p.12). La svolta etica del capitalismo. Un documento di 181 top manager dice che l’impresa deve arricchire i lavoratori e la società. Ogni compagnia deve avere come scopo l’arricchire la vita dei propri dipendenti, dei consumatori e delle comunità, servendo gli azionisti in modo etico. La Business Roundtable è una grande associazione di imprese americane: ne riunisce oltre 180, con dieci milioni di dipendenti. Ieri ha aggiornato i suoi valori: al centro ci sono contributi e responsabilità nei confronti di lavoratori, ambiente e comunità. Le critiche. Larry Summers: «Sono diffidente, temo sia una strategia per evitare una riforma fiscale» (Corriere p.13). Se il manager diventa verde. Il commento di Federico Rampini su Repubblica (p.30).
Berlino: piano da 50 miliardi per rilanciare l’economia. La Bundesbank prevede un peggioramento del Pil nel terzo trimestre. La paura della recessione spaventa la Spd anche in chiave elettorale. L’ipotesi di un programma di spesa come quello usato contro la crisi del 2008 (Stampa p.20).
Tassi e superdollaro, l’incubo di Trump. Dietro le tensioni fra il presidente e la Fed le critiche degli esperti alla politica dei dazi (Repubblica p.20).
L’economia rallenta, ma per le cedole è nuovo record. È stato raggiunto un nuovo record, a livello globale, di dividendi pagati agli azionisti delle società quotate in Borsa. Il secondo trimestre dell’anno, secondo l’indice di Janus Henderson Global Dividend, ha registrato quota 513,8 miliardi di dollari, in aumento dell’1,1% rispetto al 2018, nonostante il rallentamento del tasso di crescita dovuto al rafforzamento del dollaro e al rallentamento dell’economia globale (Corruere p.30). Crisi aziendali in salita, rischiano il posto 250 mila lavoratori. Sono 158 i tavoli aperti (138 a inizio anno). Timori per settembre (Corriere p.31). La recessione e camper: un nuovo indice. Per gli addetti ai lavori della finanza è l’inversione della curva dei tassi di interesse dei T-Bond, i titoli di stato americani. Per l’uomo della strada è il crollo della vendita dei camper. I due eventi, quando si verificano, hanno lo stesso comune denominatore: la recessione economica. Nei giorni scorsi, analisti, quotidiani e siti economici hanno ricordato come da 40 anni a questa parte tutte le nove recessioni (più o meno profonde) che si sono verificate sono sempre state anticipate dall’inversione della curva dei tassi di interesse: ora, i tassi che pagano i titoli con scadenza a breve sono più alti di quelli con scadenze più lunghe. Certo, per essere recessione l’inversione deve durare qualche settimana. E quindi c’è tempo per intervenire. Ma l’agenzia Ansa da New York, ieri, ha fatto notare come le vendite di camper siano scese del 20% da inizio anno (mentre la frenata era stata del 4% in tutto il 2018). Simbolo dell’americano medio che spende, le ultime tre recessioni sono sempre state anticipate da meno camper venduti.
“Aumenti a raffica delle telefonate. L’Agcom controllerà gli operatori”. Francesco Posteraro, commissario dell’Autorithy: “Sulla fatturazione a 28 giorni abbiamo avviato un procedimento. Dopo 150 giorni scatteranno le sanzioni fino a 5 milioni per colpire le compagnie che non hanno rimborsato i clienti” (Stampa p.21).
Jobs act e diritto al reintegro, deciderà la Corte Ue. Ai giudici comunitari il caso di una lavoratrice non riassunta: presunta discriminazione (Corriere p.30). Si tratta di un licenziamento collettivo ingiusto: tutti i lavoratori coinvolti sono stati reintegrati tranne l’unica assunta con il Jobs Act e quindi l’unica a non avere diritto a riavere il proprio posto di lavoro, ma solo a un indennizzo. La palese dimostrazione di quanto le norme violino non solo la Costituzione, ma «sia i principi di parità di trattamento e di non discriminazione contenuti nella direttiva europea 99/70, sia la tutela contro i licenziamenti illegittimi stabilita dagli artt.20 e 30 della Carta dei diritti fondamentali della Ue».
Ex-Ilva appesa a un filo. Il decreto tarda ancora. ArcelorMittal tentenna Repubblica (p.30). Immunità, tempi più lunghi Mittal avvia i tagli all’indotto. Slitta la pubblicazione, attesa per ieri, del decreto sulla Gazzetta Ufficiale. Riorganizzazione nei servizi e novità per la controllata Alliance green service (Sole p.7).
Asse Putin-Macron. Sull’Ucraina prove di dialogo prima del G7. Verso un vertice con Berlino e Kiev per parlare del Donbass. La Ue resta ai margini (Repubblivca p.10). Macron incalza Putin sui diritti umani. Risposta: e i gilet gialli? Anche l’Ucraina al centro dei colloqui. Il presidente russo: «Il G7 non esiste» (Sole p.3). Macron-Putin, prove di dialogo verso il G7. Ma l’unica apertura è sulla crisi in Ucraina. Il leader del Cremlino: sì ai raid di Assad a Idlib. Sui cortei a Mosca: non voglio proteste come i gilet gialli (Stampa p.10). Altro che geopolitica, Putin e Macron pensano agli affari (Fatto p.18).
Merkel e Orban si vedono al confine che fu la breccia nella Cortina di ferro. Meeting a Sopron, citta’ ungherese da cui fuggirono migliaia di tedeschi della Ddr. Il premier: 30 anni fa aprire i confini era libertà. Oggi chiuderli significa sicurezza (Stampa p.10). Merkel rassicura Orbán. Incarichi in Europa per i Paesi di Visegrad. Insieme per ricordare l’«inizio» della caduta del Muro
(Corriere p.12).
Alleanze. L’America First di Trump è isolata? Non ha mai avuto tanti «amici». Da Bolsonaro a Modi, metà dei leader del G20 è con il presidente. Sono nove i Paesi del G20 che hanno ottimi rapporti con Donald Trump e lo preferiscono di gran lunga al suo predecessore Barack Obama. Per i Paesi democratici l’attrattiva di Trump è la sua capacità di parlare agli elettori emarginati. L’intervento di Ian Bremmer sul Corriere (p.12).
La classe media contro “il popolo delle mascherine”: gente accecata dall’odio verso il partito, la Cina ci ha dato il benessere. I filo-cinesi della città ribelle: “Hong Kong ingrata con Pechino”. Sono undici le settimane di protesta che stanno scuotendo la società di Hong Kong. Trump avverte Xi Jinping: zero accordi se usate la violenza (Stampa p.11).
Trump, negoziato segreto con Caracas per far capitolare il regime di Maduro. Washington ha contatti con il leader socialista Cabello per cercare di fare breccia fra i militari e garantire immunità ai leader. Il presidente Usa frustrato per l’incapacità di Guaidó di prendere il potere (Stampa p.12).
Con l’amico Epstein e due ragazzine. Un video imbarazza il principe Andrea. Frequentò il finanziere anche dopo la condanna per pedofilia. I reali britannici in difesa: ipotesi orribile. Se gli Usa incriminassero il figlio di Elisabetta si aprirebbe un caso diplomatico mai visto (Corriere p.14).
Brexit: Londra ferma la libera circolazione. Boris Johnson sceglie la linea dura: nessuna transizione per i cittadini europei in caso di uscita dalla Ue senza un accordo. Scatta la protesta: “Irresponsabile” (Repubblica p.11). Brexit, la mossa di Corbyn: “Sfiduciamo Johnson”. Come evitare il no deal. Mettere alle corde il premier Tory che ha un solo voto di vantaggio ai Comuni e indire le elezioni. Confini blindati. Il governo: in caso di uscita senza accordo dalla Ue, stop alla libera circolazione delle persone (Fatto p.19).
I fantasmi della Diciotti. Sui migranti di Open Arms Salvini teme guai giudiziari. E fa bene. More
Garantisti per Salvini (ohibò). Nordio preoccupato dal governo Pd-M5s. E quando la Lega approvava tutto?More
In un editoriale pubblicato ieri sul Messaggero, l’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio ha lanciato un allarme sul “pericolo giustizialista” che si celerebbe “dietro l’asse dei rosso-gialli”. Non vi è dubbio che negli ultimi anni, in particolare durante l’epoca renziana, il Pd abbia visto emergere al suo interno una timida tendenza garantista e una maggiore consapevolezza dei mali della giustizia italiana (come l’abuso della carcerazione preventiva e il circo mediatico-giudiziario). Così come non vi è dubbio che, in caso di accordo di governo, attorno alla giustizia e alla tutela dei diritti fondamentali il Pd si ritroverebbe in una posizione opposta e difficilmente conciliabile con quella di un movimento che ha fatto della gogna la sua ragion d’essere. Sorprende, però, che le stesse preoccupazioni per un “pericolo giustizialista” non siano state espresse da Nordio e dagli altri improvvisati “liberali per Salvini” durante i quattordici mesi del governo gialloverde, quando cioè la Lega ha accettato di sostenere tutte le riforme populiste e forcaiole proposte dal M5s (dall’abolizione della prescrizione alla legge “spazzacorrotti” e a quella sul voto di scambio) e anche di cancellare, sempre insieme ai grillini, le precedenti riforme delle intercettazioni e delle carceri. Se c’è il rischio di tornare al Medioevo, insomma, bisognerebbe avere il coraggio di dire che qualcun altro già ci è tornato da un bel pezzo. (Foglio p.3)
L’ultima offerta di Salvini. Ma il M5S lo scarica: inaffidabile. Il leghista: «Conte è ancora il mio premier». Poi avverte: i nostri ministri pronti a lasciare. I vertici dei pentastellati riuniti da Grillo: non è credibile. Di Maio: «Ha pugnalato il Paese». Il leader del Carroccio invoca la piazza.













Capriola di Salvini: “Ascolterò Conte. Ma se non mi convince si voti subito”. Il vicepremier tende la mano al premier ma avvisa: “Non voglio dargli la soddisfazione di far entrare Renzi nel governo” (Stampa p.4). La linea dura dei Cinquestelle nel vertice a casa di Grillo (Corriere p.2). E si dice pronto alla mobilitazione: “Se in Parlamento non avrò i numeri, scenderemo pacificamente in tutte le piazze. Do la mia anima e la mia vita per dare un governo serio a un popolo serio, io vado avanti. I grillini dicono che sono inaffidabile? Ma se loro sono pronti ad andare con Renzi e la Boschi. La tattica del “Capitano”: attaccare Renzi e il Pd per delegittimare i 5Stelle (Stampa p. 4). Intervistato dal Giornale il leghista aspetta il premier in Senato: “Magari mi stupisce e propone la flat tax domani… Se il deficit è fatto per investimenti e opere pubbliche con Bruxelles si potrà trattare”. Le elezioni: “Siamo in mano a una trentina di senatori renziani: pure loro sanno che non li vota più nemmeno il babbo”. L’inciucio: Pensano a un esecutivo con Renzi, Boschi e Prodi Dovranno passare sul mio corpo”. I Conti: “Vorrei che si votasse a ottobre: a novembre nuovo governo e a dicembre la manovra taglia-tasse”. Open Arms: “Non la do vinta ai compagni: resto ministro per difendere i confini. Non siamo il campo profughi Ue, basta sbarchi”. La Riforma: “Io ho accettato la sfida dei 5s di tagliare i parlamentari per poi andare al voto ma loro poi si sono tirati indietro”. L’Unione Europea: “Io il maggior pericolo per l’Europa? Con onestà e umiltà dico che vado avanti pure senza poltrone” (Giornale p. 2 e 3). Salvini grida e preme su Mattarella: “Dovrà valutare se i governi Arlecchino vanno bene”. Rifiuta la richiesta di dimettersi, ma lascia ancora aperta la porta del dialogo con i grillini (Repubblica p.2).
Il siluro 5S: Salvini inaffidabile. Grillo ricompatta i vertici. “Pd? Dipende per cosa”. Tutti i big a Bibbona nella villa del fondatore. Provocazione alla Lega: se Salvini fa un passo indietro si può ragionare. Resta l’opzione urne. I dubbi di Casaleggio sui dem. Le condizioni del comico: “Con Renzi non si tratta”. Di Maio e Dibba ricuciono (Repubblica p.3). Grillo convince i big. E vuole un contratto con i democratici. Di Maio: «Nessuno più di me ha perso la stima in Matteo». Il rammarico per gli altri leghisti (Corriere p.2). Di Maio è terrorizzato da Renzi. Il tentativo impossibile di spaccare la Lega lascia spiragli per una ricucitura. Con le urne e gli eletti dimezzati Casaleggio perderebbe introiti per Rousseau (Stampa p.5). Sì alla linea Grillo, Di Maio cede. «Ma la prima mossa tocca al Pd». Nella villa del fondatore in Toscana ci sono il vicepremier, Casaleggio, Fico e Di Battista. L’ex comico: con Matteo abbiamo chiuso ora il contratto di governo con i democrat. Il capo politico però adesso è più debole il garante coinvolge il presidente della camera (Messaggero p.3). Da pensionato a salvatore del gregge, i discepoli tornano dal padre rinnegato. Beppe Grillo celebra la svolta a sinistra e lancia un video anti carroccio «hanno accoltellato Mamma Italia». Sul Messaggero Mario Ajello (p.3)
Perché fermarlo. La tragedia di un uomo simpatico. Con la guerra anticasta, le iperboli sui costi della politica e la colpevolizzazione dei migranti la cattiva coscienza nazionale si dava una ripulita. E Salvini ne è stato l’incarnazione. Un ex buono frustrato e quindi banalmente incattivito. Più guitto che attore. Più calcolatore che leone. Chi è davvero il leader della Lega? E perché deve far paura a chi ama la società aperta? I tweet e le folle, l’insulto e il richiamo agli italiani. Conoscere Matteo Salvini, per contrastarlo. Un ritratto di Giuseppe De Filippi. Sul Foglio in prima.
Salvini: «Meglio in galera che governati dal Pd». Pioggia di denunce: vogliono processare Matteo come Milosevic per “crimini contro l’umanità”. Ma più che permettere ai migranti di sbarcare l’obiettivo è far arrivare in porto l’esecutivo giallo-rosso. Renato Farina su Libero (p.3).
Zingaretti sul pressing anti-urne: sì, ma in Aula ci vogliono i numeri. Vigilia spartiacque tra i democratici. Pesa l’invito di Prodi al patto con i 5Stelle. Gentiloni: mi basta che il governo vada via (Corriere p.6). L’ex ministro dell’Interno Marco Minniti intervistato da Luca Telese sulla Verità: «Per fare un governo noi e i pentastellati da soli non bastiamo. ll Colle vuole soltanto maggioranze ampie. Ma la storia di amore tra Lega e grillini può ricominciare» (Verita p.6).
Il Pd pronto a valutare il bis di Conte. Nel negoziato cade il tabù. L’altro fronte della trattativa è il veto su Di Maio al governo. I 5Stelle non possono accettarlo (Corriere p.5). Prodi apre ai 5Stelle Zingaretti frena: teme la scissione renziana. L’ex premier per un governo “Ursula” allargato a Fi. Il segretario vuole Renzi nel futuro esecutivo. In pista Letta, Cantone e il Professore. Tra i nomi per Palazzo Chigi anche Giovannini (Repubblica p.4). Renzi vuol fare il commissario Ue. L’obiettivo segeto del Bullo è arrivare a Bruxelles. Maurizio Belpietro sulla Verità in prima.
Intervista al capogruppo al Senato Andrea Marcucci: “Un’intesa per l’interesse nazionale. Fico? È imparziale, mi ha impressionato. Inaccettabile un veto su Renzi. Comunque lui non entrerà in nessun governo. L’idea di un partito di Matteo non c’è mai stata. Ma dipende da quello che succederà (Corriere p.6). Francesco Boccia a Repubblica: “No al patto con M5S, ma se lo facciamo davvero Boschi sia ministro. Meglio andare al voto. Penso sia più giusto sfidare Salvini a viso aperto. Un eventuale accordo con i grillini solo dopo nuove elezioni (Repubblica p.4). Spunta l’ipotesi Boschi ministro per sminare le trappole di Renzi. Il rischio paventato da Calenda: Matteo crea il suo partito e poi fa cadere il governo. Prodi vede Zingaretti e lancia la “coalizione Ursula” di chi ha votato la von der Leyen (Stampa p.6). Debora Serracchiani, vicepresidente e deputata del Partito democratico “Parliamo col M5S senza pregiudizi. Conte si è ricavato uno spazio politico. Sediamoci a un tavolo e scriviamo nero su bianco i temi su cui possiamo condividere un percorso” (Stampa p.6).
Percorso lungo e pieno di ostacoli Palazzo Chigi, ipotesi Conte o Fico. Il Pd vuole un tecnico, ma il presidente della Camera lascerebbe il posto a un dem. La possibilità che la nuova coalizione si saldi in Senato durante il voto sulla risoluzione M5S (Messaggero p.5). Contratto giallo rosso: Possibili punti di accordo, ma con molte differenze programmatiche aggravate dalle aspre liti del passato. Grandi opere: Il braccio di ferro sulla Gronda dopo l’ok alla Tav. Legge di bilancio: Linee divergenti su deficit e regole europee. Giustizia: I contrasti più duri sui termini della prescrizione. Taglio deputati: I dem puntano a una riforma di un altro tipo. Il caso del salario minimo: Il Pd ha un progetto ma vuole comunque difendere la negoziazione (Messaggero p.7).
Il premier e il giorno più lungo: seguirò il Quirinale. I contatti con il capo dello Stato. Dopo il dibattito in ogni caso Conte salirà al Colle (Corriere p.5). Il premier sfida Matteo: «Ministro delle assenze, adesso devi sfiduciarmi». I dubbi di Conte sul bis: «Non sono uomo per tutte le stagioni». L’ipotesi Ue. Mattarella è pronto alle consultazioni, annoterà i sì al governo di legislatura. Il capo dell’esecutivo ha chiesto ai 5stelle di scrivere una risoluzione «invotabile» per il Carroccio (Messaggero p.6). Conte si riscopre di sinistra per restare a Palazzo Chigi. Il premier pronto ad attaccare il suo vice Salvini per accreditarsi col Pd. E Casalino aizza i giornalisti (Giornale p.5). Conte non pensa a ll’Ue e nominerà il commissario. Il premier nega di essere interessato ad un posto a Bruxelles: “Presto il nome scelto sarà pubblico”. Tutti gli offrono la poltrona, lui declina.
Alla Concorrenza, andrà un europeista, apprezzato dall’establishment e dalle cancellerie (Fatto p.3).
Il Colle vaglia due ipotesi. Governo politico o istituzionale per evitare il voto. Se gli verrà chiesto del tempo per il negoziato il presidente lo darà. Ma non permetterà il gioco dei due forni adottato dal M5S nel 2018 (Corriere p.4). L’attesa del Quirinale è che domani sera il premier si dimetta. Il timore di Mattarella: una crisi senza fine dominata dai tatticismi. Il presidente non ha preferenze sulle soluzioni, ma vuole tutelare le istituzioni (Stampa p.7).
Cresce la voglia di maggioranza in Forza Italia. Berlusconi per ora prende tempo. La tentazione di creare un gruppo di responsabili. I contatti con Renzi che continua a elogiare il Cav (Messaggero p.4). Il ritorno di Letta (Gianni): “Sganciamoci da Salvini”. L’ex sottosegretario, aiutato da Tajani, spinge Berlusconi verso il sì alla coalizione Ursula. Ma in Forza Italia la fronda leghista guidata da Ghedini e Ronzulli è ancora forte (Repubblica p.6). Il Capitano si perde l’ex Cavaliere: Letta e i forzisti che trattano coi dem. Il braccio destro di B. propone al Pd i possibili premier (Fatto p.2). Ma non basta votare Ursula per essere un’alleanza. Il commento di Stefano Cappellini su Repubblica (p.6). Forza Italia non cede: un governo giallorosso è alleanza innaturale. Gli azzurri attendono gli eventi. La linea: centrodestra o esecutivo di unità nazionale (Giornale p.8). Toti intervistato dalla Verità: «Voglio un centrodestra dei sì per un piano di grandi opere». Il leader di Cambiamo: «Fi che sostiene l’accordo Pd-5 stelle sarebbe imbarazzante Salvini spiazzato dai poltronari. L’esecutivo di sconfitti non è sintonizzato con il Paese» (Verita p.7). Brunetta in un’intervista a Qn: «Governo dei responsabili. Con la Lega. Abbiamo bisogno di tutti per salvare il Paese. Visioni inconciliabili con democratici e 5 Stelle ma è l’ora dell’unità» (Qn p.9).
Ottimati contro barbari. Galli della Loggia sul Corriere in prima. Una marcia indietro senza alcun decoro. Pierluigi Battista sul Corriere (p.29). La buona politica e i grandi camaleonti. Ezio Mauro su Repubblica in prima. La mossa di Prodi e un patto difficile. Stefano Folli su Repubblica (p.27). Una democrazia per caso. Ilvo Diamanti su Repubblica (p.26). Una vigilia con tre punti fermi. Francesco Bei sulla Stampa in prima. L’Uomo Cadrega. Marco Travaglio sul fatto in prima. Che cosa significa dare pieni poteri a Salvini. L’ha spiegato lui stesso, e vengono i brividi. Le cinquanta sfumature di anti salvinismo possono sembrare più o meno pazze, e tuttavia se il leader della Lega non ha cambiato idea rispetto alle promesse di due anni fa, contrastarlo non è un’opzione ma una necessità inderogabile. Claudio Cerasa sul Foglio in prima. Evviva il Risorgimento del sindacato in politica. Sorprese dell’estate. Il segretario della Cgil Maurizio Landini è in vacanza a Gabicce Mare e da lì rilascia interviste: senza megafono, realiste e intelligenti su tutto. Giuliano Ferrara sul Foglio in prima.
Il presidente del Senato Casellati al Meeting: “Aiutare le famiglie”. Oggi parla Bassetti, presidente della Cei.
La Spagna offre porti ai migranti. Open Arms: «È troppo lontano». Salvini: «Rifiuto inaccettabile». Parigi: ne accogliamo 40. I 107 naufraghi sulla nave da 18giorni. Il pm attende gli sviluppi, stop all’indagine. La Ong: «Non conteniamo più la disperazione». Dopo il no ad Algeciras, nella notte spunta l’ipotesi delle Baleari (Corriere p.8). Open Arms, in cinque si buttano in mare. “A bordo panico e litigi, fateci scendere” Alcuni volontari li hanno seguiti e riportati sulla nave. La storia di Hikma: “Tre anni di torture in Libia”. Il portavoce della Ong: «Cosa dobbiamo aspettare, che muoia qualcuno?». A ogni micro-sbarco seguono discussioni e tensione tra i migranti. Lo psicologo di Emergency: “Passano in continuazione dalla rabbia alla depressione. Tra scabbia, tubercolosi e ferite da arma da fuoco il dolore di queste ore riacutizza i traumi del passato”. Conte ha la disponibilità delle Comunità evangeliche per accoglierli. Sanchez: L’inconcepibile risposta di Salvini di chiudere i porti ha portato la Spagna a guidare ancora una volta la risposta alla crisi umanitaria (Stampa p.2 e 3). Intervista a Richard Gere. «Vorrei incontrare il vostro vicepremier. Fare leva sulla paura è cattiva politica». L’attore: la sfida è globale, va affrontata con generosità (Corriere p.9). Da Sanchez a Macron la doppia morale dei leader Ue: solidali, ma non a casa loro (Messaggero p.8). Sbarchi fantasma. A terra in 57, erano su un barchino. Nuovo sbarco sull’isola di Lampedusa sabato sera. I migranti soccorsi dalla Guardia di Finanza, che li ha intercettati vicino all’isolotto di Lampione. Dovrebbero essere tutti di nazionalità tunisina: subito trasferiti all’hotspot (Stampa p.3).
La criminalità non arriva con i barconi. SoundCheck. Tra gli stranieri, la maggior parte dei reati è commessa da chi migra all’interno dell’Europa. E dagli irregolari. Ecco perché, riducendo le possibilità di integrazione, Salvini sta scoraggiando molti richiedenti asilo a rispettare le regole (Foglio p.IV).
Le urla ai bimbi di Bibbiano «Vai via, non ti voglio più». Nelle intercettazioni i rimproveri alla minore che si rifiuta di accusare i genitori naturali (Messaggero p.13).
Speranza finita nel burrone la tragica agonia di Simon. Il corpo dell’escursionista francese ritrovato dal soccorso alpino. Aveva 27 anni. Probabilmente è scivolato in un canalone, era scomparso il 9 agosto (Messaggero p.14). La tecnologia poteva salvarlo. Come funziona e dov’è attiva (Corriere p.14). “Ancora due anni per geolocalizzare le chiamate urgenti” (Repubblica p.17). Chiedere giustizia per Simon. Il commento di Ottavio Ragone su Repubblica (p.26).
Le famiglie che devono procurarsi i libri scolastici e i quaderni per i figli troveranno ad aspettarli aumenti medi dell’1,3%, che non sembrano altissimi ma sono più del triplo dell’inflazione rilevata venerdì scorso dall’Istat per il mese di luglio: appena lo 0,4%. Si tenga presente questo parametro nel valutare anche tutti gli altri rincari. Più care spiagge e luce elettrica. Sconti sul metano e i carburanti. Per i servizi balneari un +4,4% (Stampa p.17).
Da Tim a Vodafone a Wind Tre, gli operatori telefonici annunciano rialzi di 2 o 3 euro al mese nei piani tariffari. La stangata viaggia col cellulare Le chiamate costano il 50% in più (Stampa p.17).
Dalio (Bridgewater): sempre più probabile una crisi dell’economia americana entro le elezioni presidenziali del 2020. Commercio, Argentina, India e Cina: ecco i focolai della recessione globale
L’industria cinese è salita del 4,8%, il dato peggiore degli ultimi 17 anni (Stampa p.20). I mercati mondiali adesso temono la crisi: «L’Italia è un rischio». I media internazionali hanno lanciato l’allarme. E a breve ci sono 90 miliardi di Btp da piazzare (Giornale p.6).
Ex Ilva, ok allo scudo legale per i vertici il 26 al Mise summit con ArcelorMittal. Oggi la pubblicazione in gazzetta ufficiale delle norme che tutelano i manager dell’azienda sul fronte del piano ambientale (Messaggero p.7).
Iva, 80 euro e pace fiscale: il rompicapo della manovra. La riduzione del prelievo sui redditi e sugli immobili è al centro del dibattito, ma occorrono coperture strutturali. Il primo scoglio è trovare 23,1 miliardi per evitare l’aumento Iva (Sole p.4).
Iva, la cambiale in scadenza. Dal 2011 si discute delle clausole di salvaguardia, ma quest’anno gli aumenti possono scattare davvero. Corriere Economia.
L’aumento dell’Iva, che potrebbe costare fino a 750 euro a famiglia, scatterà davvero se si arrivasse a un esercizio provvisorio del Bilancio, visto come una sorta di Armageddon della finanza pubblica. Disinnescarlo è la nuova priorità. Occorrono 23,1 miliardi solo per il 2020, e non sono spiccioli. Peccato che la clausola esista dal 2011 e che nessun governo negli ultimi otto anni, sia di destra sia di sinistra, abbia trovato la forza per attaccare seriamente l’evasione o per puntare sugli investimenti produttivi che l’avrebbero resa inutile. Ferruccio De Bortoli su Corriere Economia (p.2).
Si chiamano clausole di salvaguardia, ma quelle sugli aumenti dell’Iva previste per le leggi di Bilancio dal 2011 e che ogni anno ci si attende siano disinnescate sono, in verità, una cambiale nascosta. «È un’invenzione bizantina e ingannevole — scrive Ferruccio de Bortoli sull’Economia del Corriere della Sera, in edicola domani gratis con il quotidiano —. In realtà sono come dei “pagherò”, delle cambiali emesse per spese già fatte. E al momento di doverle onorare, sostituite con altre cambiali. Nuove.Ascadenza più lontana». Ma «prima o poi il conto arriva», dice de Bortoli. E quest’anno, vista anche la crisi di governo a ridosso della Finanziaria, la cambiale probabilmente andrà onorata. È salata: fino 756 euro all’anno per una coppia con due figli, è il calcolo. A meno di trovare 23,1 miliardi (limitandosi al 2020) per evitare l’aumento dell’Iva (dal 22 al 25% l’aliquota massima e dal 10 al 13% l’intermedia). «Chi eviterà il rincaro?Ecome?», si chiede de Bortoli. Eppure basterebbe che tutti pagassero le tasse. Secondo l’Ocse in Italia «l’evasione Iva nel 2018 è di 26 miliardi, un quarto dell’evasione totale. Sarebbe bastato avere un tasso di evasione in linea con quello europeo e non avremmo avuto la lunga e interminabile stagione delle clausole di salvaguardia». Ma la lotta all’evasion
L’incertezza politica ha un costo alto: 5 miliardi d’interessi extra sul debito. È l’esborso aggiuntivo che, a causa dell’instabilità, il Tesoro ha pagato quest’anno e pagherà nel prossimo su tutti i titoli di Stato emessi durante il Governo gialloverde (Sole p.5).
Turismo, cala la spesa degli italiani. «La classe media non va in vacanza». Lettini e spiagge con molti spazi vuoti, segnali d’allarme dalla Toscana alla Sardegna. Federalberghi: «Resiste il settore del lusso ma la crisi ora ferma tedeschi e inglesi» (Corriere p.17). Basta ombrelloni segnaposto. Per i furbi ondata di sequestri. Arrivano in spiaggia all’inizio della vacanza e piantano l’attrezzatura in prima fila per tutte le ferie. Ma le liti con gli altri bagnanti spingono Comuni e Guardia costiera a intervenire. Multe di 200 euro (Repubblica p.23).
Intervista all’ex presidente della Bce Jean-Claude Trichet: “Riforme o la crisi vi colpirà duro. L’Italia ci ha abituati a stare col fiato sospeso. Il vostro Paese, per le economie avanzate, è una specie di esperimento da laboratorio. Con la guerra commerciale di Trump dobbiamo essere preparati a tutto compresa una recessione negli Usa che avrebbe pesanti effetti in Europa” (Repubblica p.8).
Il sommerso che non vediamo. Non chiudiamo gli occhi: è così. C’è una responsabilità collettiva che produce l’economia sommersa così estesa, uno scarso senso civico, una carenza di solidarietà, una miopia disarmante. Editoriale di Roberto Menia su Repubblica (p.27)
Galassia Agnelli. Fca al bivio, Elkann studia le alleanze. Riprende il toto-nozze: Renault o Psa? Iveco, intanto, torna a guardare agli Usa (Giornale p.16).
Durigon difende Quota 100. «Pur di attaccarci M5S mente sulle pensioni». Per il sottosegretario al Lavoro è merito del provvedimento voluto dalla Lega se in 124mila hanno trovato un posto in 3 mesi. «Chi lo critica è in malafede o peggio ignorante, perché i numeri circolati in questi giorni riguardano addirittura il 2018» (Libero p.7).
“Non ci arrendiamo”. Hong Kong sfida le minacce di Pechino. Un milione e 700 mila per le strade, la più alta partecipazione da giugno. Una marea pacifica per denunciare le violenze della polizia (Repubblica p.13). Anti-maoisti e teenager Il popolo di Hong Kong sfida Xi senza violenza. Una marea umana di 1,7 milioni di persone al sit-in nonostante la pioggia. Famiglie, imprenditori, studenti con magliette nere simbolo della protesta. Il primo obiettivo dei manifestanti resta l’archiviazione della legge sull’estradizione. La chiesa locale dopo aver sposato la rivolta ora tiene un basso profilo. Fra i cattolici che pregano invocando Desmund Tutu: ora tre mesi di tregua (Stampa p.8). La marcia vincente di Hong Kong. Nell’undicesimo weekend consecutivo di protesta, quasi due milioni di persone occupano il centro dell’ex colonia. E la polizia si fa da parte (Corriere p.11).
Schiaffo a Pechino di Trump che vende 66 caccia F-16 ai nazionalisti di Taiwan. Con un valore di 8 miliardi di dollari si tratta della commessa per singolo armamento più ricca di sempre destinata a sollevare le ire della Cina che definisce la fornitura una violazione della sovranità nazionale e un’interferenza interna agli affari del Paese (Stampa p.9).
Taiwan è di fatto uno Stato a sé dal 1949, la sua indipendenza è riconosciuta e sostenuta dagli Usa, mentre Pechino la considera una «provincia ribelle» ed è convinta che ci sarà presto la sua riunificazione alla Cina. Anche con la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Washington e Pechino negli anni Settanta, gli Usa si sono impegnati a rifornire Taiwan di armamenti e apparecchiature per la difesa del territorio nell’ambito del Taiwan Relation Acts approvato dal Congresso nel 1979. Stampa p.9
Kabul, l’Isis rivendica l’attentato alle nozze. “Abbiamo punito i soldati afghani traditori”. Dopo il massacro nel centro commerciale con 63 vittime. Il governo tratta con gli Usa il ritiro delle truppe Nato (Stampa p.11). A Trump serve la pace per vincere le elezioni. L’Afghanistan è la guerra più lunga della storia degli Stati Uniti: portare a casa i soldati darebbe al presidente un forte vantaggio elettorale. Federico Rampini su Repubblica (p.12). Il rompicapo afghano, tra stragi, isis, talebani e i rischi del ritiro Usa. Franco Venturini sul (Corriere p.26).
Lancio di missili da Gaza, entra in azione lo scudo di difesa nel Sud. Tre palestinesi intercettati e uccisi al confine con la Striscia. Hamas, razzi e commando per colpire Israele Netanyahu: “Stop o guerra”. Se Hamas non si calma, siamo pronti a scatenare un nuovo conflitto. Potrà accadere anche durante le elezioni (Stampa p.11).
Respinta la richiesta Usa di fermare la nave iraniana. H a cambiato nome e bandiera, e forse è riuscita a evitare l’ultima secca (Stampa p.18).
La superpetroliera iraniana bloccata da oltre 40 giorni a Gibilterra ha ricevuto il via libera per la partenza. Le autorità della Rocca ieri hanno respinto la richiesta di una corte Usa di prolungare il sequestro, in base a una legge degli Stati Uniti. I giudici accusavano la nave di aver violato le sanzioni nei confronti dell’export di petrolio verso la Siria e sul finanziamento dei Pasdaran. Ma le autorità della Rocca hanno risposto che i provvedimenti in questione non erano applicabili sul territorio della Ue. «Le sanzioni europee – ha spiegato in una nota il governo locale – hanno un ambito molto più ristretto rispetto a quelle applicabili negli Stati Uniti». La Grace 1
Stampa p.18
Operazione zigolo giallo. È il nome di un dossier del governo britannico: in caso di una Brexit senza accordo, sarà il caos (Corriere p.10). Dossier segreto di Downing Street rivelato dal «Sunday Times». Brexit, Londra senza cibo e medicine. Il rapporto: con «no-deal» sarà il caos (Giornale p.11). Brexit più vicina. Firmata la legge che cancella le norme europee. La Brexit è più vicina. Il governo britannico ha emesso un decreto che mette fine dal prossimo 31 ottobre (o comunque dal giorno dell’effettiva uscita britannica dal consesso europeo) a tutte leggi dell’Ue in vigore in Gran Bretagna (Stampa p.19).
Fra Macron e Putin un summit per farsi da sponda. Stefano Stefanini sulla Stampa (p.21). Macron riceve l’ospite Putin, «indispensabile» su Iran e Siria. Nella residenza di Brégançon (Corriere p.10).
Via il ministro liberista e pacchetto anti-crisi. Macri prova a risalire. In Argentina aumento dei salari minimi e taglio di tasse. La preoccupazione è il voto del 27 ottobre: l’opposizione peronista è in vantaggio. Lascia Dujovne che aveva negoziato l’accordo con l’Fmi, al governo entra Lacunza.
E il campionato mondiale di tango non si ferma (Corriere p.12). Argentina a rischio default. Si dimette il ministro del Tesoro garante degli aiuti da 56 miliardi. Dujovne esce dal governo. Macrì sconfitto alle primarie (Giornale p.16).
Nella villa di Epstein una scala a chiocciola verso l’inferno. Due piani, stanze spartane, un corridoio con le foto delle ragazze nude. È la residenza in Florida dove il miliardario pedofilo suicida attirava le vittime. Le prime denunce nel 2005. “Ma lui donava un sacco di soldi e nessuno voleva indagare”, raccontano i vicini. Un luogo insipido ma appartato. C’è un corridoio pieno di immagini erotiche delle ragazze che porta alle stanze da letto (Repubblica p.15).
Quel pericolo giustizialista dietro l’asse dei rosso-gialli. L’editoriale di Carlo Nordio sul Messaggero in prima affronta nel dettaglio due questioni. La prima il salvataggio di Salvini sul caso Diciotti. E la seconda il rischio che in caso di governo giallorosso i dem siano costretti ad abdicare al loro garantismo a scapito del giustizialismo dei grillini.
La Diciotti e il salvataggio di Salvini. Se c’era un punto sul quale Conte, Di Maio e Salvini erano indissolubilmente uniti, era proprio quello della disciplina migratoria. Lo erano politicamente, perché tutti avevano stragiurato di condividere la rigorosa linea comune, e soprattutto lo erano giuridicamente, perché nel caso della Diciotti avevano testimoniato per iscritto, davanti alla Commissione, che la decisione di impedire lo sbarco dei profughi era stata collegiale. Questa affermazione, è utile ricordarlo, aveva prodotto due conseguenze decisive: la prima, di presentare come “concorrenti” nell’eventuale reato i tre vertici dell’esecutivo; la seconda, ancor più importante, di indurre la Commissione ad applicare l’esimente costituzionale che aveva determinato l’archiviazione dell’inchiesta di Agrigento. Ora Conte, con un acrobatico scambio di ruoli, smentisce tutta la precedente strategia, obbligando Salvini ad accettare il sostanziale ripudio di una scelta che, pur tra tante polemiche, aveva ridotto il numero degli sbarchi e dei morti, e aveva costretto l’Europa a prender atto di un problema non solamente italiano. Un ennesimo giro di valzer che ci screditerà davanti ai nostri partners più di uno sforamento di deficit, perché nulla in politica è più pernicioso della volatilità programmatica interna e internazionale. Messaggero Carlo Nordio in prima.
Garantismo giustizialismo. Ora la Giustizia si rivela di nuovo come fonte di conflitti insanabili. E questo ci induce a un’altra considerazione. Noi non sappiamo se e come si possa costituire una coalizione tra Pd e pentastellati. Ma sappiamo che, se ciò accadrà, i grillini dovranno cedere sulla legge finanziaria, che costituisce l’unico alibi di Renzi (ed eventualmente di Zingaretti) per evitare le urne. I grillini dovranno pagare il prezzo di una manovra economica rigorosa, certamente incompatibile con le loro precedenti promesse assistenziali, che invece erano state assecondate da Salvini in cambio della sua politica migratoria. Ma poiché anche i democratici dovranno pagare un prezzo, vi è il rischio che esso consista anche nel ripudio di quella timida tendenza garantista che in questi ultimi anni il Pd era andato assumendo proprio sulla Giustizia. Lo stesso Renzi, che aveva sperimentato sulla pelle sua e dei suoi vicini le aberrazioni del connubio tra stampa ostile e toghe motivate, aveva impresso un chiaro indirizzo sulla disciplina delle intercettazioni, dell’abuso della carcerazione e più in generale su quegli aspetti civili che trovano fortunatamente attenzione anche in buona parte del suo partito. Il quale ora rischierebbe di regredire a un nuovo medio evo, se, come tutto lascerebbe supporre, i pentastellati avessero mano libera in questo settore delicato, che ha fatto cadere tante teste. Messaggero Carlo Nordio in prima.
Contratto giallo rosso. Possibili punti di accordo, ma con molte differenze programmatiche aggravate dalle aspre liti del passato.
I contrasti più duri sui termini della prescrizione. Due visioni molto diverse sulle garanzie e sul sistema giudiziario da cambiare. Giustizialisti i pentastellati, garantisti i dem. È sul tema della giustizia, o meglio della sua riforma, che potrebbero emergere le maggiori differenze tra le due formazioni politiche. La questione della prescrizione è una nota dolente. La sua riforma, peraltro già realizzata, è ancora oggetto di un acceso dibattito: unico caso al mondo, la norma prevede che l’orologio del processo si blocchi con la sentenza di primo grado. Una polemica che i grillini avevano affrontato anche con gli ormai ex alleati del Carroccio. Di fatto i tempi sulla nuova prescrizione sono legge dal gennaio 2019, tuttavia i leghisti si erano messi di traverso sin dal primo momento, e con la minaccia di bloccare l’intera legge, erano riusciti a vincolare l’entrata in vigore della prescrizione al gennaio 2020. Ebbene su questa materia così delicata anche il Pd è fortemente critico rispetto alla nuova norma. Per i dem l’approccio “tutti colpevoli” non è accettabile. E dunque, per molti parlamentari del Pd sarebbe imbarazzante dare il voto favorevole ad altri progetti del ministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede (Messaggero p.7).
Open Arms: Conte ordina, Salvini obbedisce. «Ma la colpa sarà soltanto sua». Il ministro cede e scarica lo sbarco sul premier: «Precedente pericoloso, si prenderà la responsabilità». Intanto per il governo spunta l’ipotesi Draghi scrive Alberto Gentili sul Messaggero. Ma lo dice solo un anonimo alto esponete del Pd. Tanta economia. Tante notizie dal mondo. E tante letture.












La notizia del giorno secondo me. Non è il giovane francese scomparso nel Cilento. Ma che l’Italia sia senza localizzazione delle chiamate d’emergenza. Scrive il Corriere: Sarebbe stato possibile localizzare con relativa facilità e precisione il telefonino e, quindi, il punto in cui è caduto Simon Gautier se in Italia funzionasse già, come in altri Paesi europei, il sistema tecnologico Advanced Mobile Location (AML) che invia automaticamente un sms al 112 con le coordinate Gps dello smartphone dal quale parte una richiesta d’aiuto. Creato in Gran Bretagna nel 2014, l’AML dovrebbe essere già attivo in Italia «che ha ricevuto denaro pubblico europeo per una prima fase di test nel 2016/2017. Tutti i telefoni hanno di serie questa tecnologia, che funziona senza internet, ma occorre una piattaforma che riceva i dati Gps e li inoltri ai servizi di soccorso». Costa una decina di migliaia di euro. Senza è possibile individuare solo l’ultima cella, che però copre un’area troppo estesa.
Nodo al fazzoletto per il nascente nuovo governo o per la riedizione del gialloverde: sapete come spendere i primi diecimila euro della Finanziaria.
Open Arms. Conte: «Sbarcate i minori di Open Arms». Il ministro: «Obbedisco, ma è un precedente pericoloso». L’ultima mossa del ministro per togliere alibi al premier. Salvini cede sui migranti per disarmare Conte in vista del duello di martedì al Senato. More
Si sente più forte Conte proprio nel momento – e questo può sembrare un paradosso – del tramonto del suo governo. E c’è una perfidia, e l’esibizione plateale della metamorfosi che lo ha riguardato, era il vice dei suoi vice e adesso l’Europa lo ha adottato e Salvini si è sgonfiato, nello schiaffo che tira a Matteo sulla Open Arms. E Matteo quasi gli porge l’altra guancia. Come mai? E’ diventato buono, anzi buonista, rinnegando l’identità politico-culturale sui migranti che non si può certo far rientrare tra i tanti errori che il ministro ha compiuto e che finora non si è rivelata svantaggiosa per l’Italia? Nessuna abiura del rigore securitario. E’ solo che «gli altri provocano ma noi – dice Salvini ai suoi – dobbiamo evitare provocazioni. E cercare di ricucire». O meglio: la mossa di Salvini, che per una volta non fa il duro, mira a togliere argomenti a Conte in vista del duello di martedì al Senato.
MAI DIRE MAI Dunque si è preso lo schiaffo di Conte il Capitano e lo ha fatto come ultima dimostrazione di come ci tenga a proseguire – come se la crisi non l’avesse innescata lui – l’esperienza del governo attuale, magari rimpastato. Lo fa per tattica Salvini a prendersi lo schiaffo e a dire «mio malgrado» obbedisco all’ordine di sbarco dei minori dalla nave. Non vuole dare alibi a Conte, anche se la virulenza con cui il premier uscente martedì parlerà in Senato contro Salvini è la riprova che ogni possibile mediazione è saltata. Ma «mai dire mai» è il mood di Salvini in queste ore, e così si spiega lo schiaffo che accetta sulla Open Arms. Pronto naturalmente a ridiventare lo sceriffo implacabile – e gradito in questo agli italiani che in stragrande maggioranza secondo i sondaggi sono per i porti chiusi – appena questo governo non ci sarà più e ci sarà da combattere il nuovo esecutivo rosso-giallo. Che sull’immigrazione sarà più orientato all’umanitarismo dem («Precedente pericoloso» definisce questa vicenda infatti Salvini, considerandola l’antipasto dell’Italia in giallo-rosso) piuttosto che alla linea M5S finora in linea con quella del Carroccio ma che poi subirà una torsione di 180 gradi in direzione sinistra. A riprova che nella neo-politica principi e contenuti sono ribaltabili con scioltezza e a la carte. E il «tradimento» filo-dem dei grillini sui migranti sarà dalla prossima settimana – c’è da giurarci – uno dei cavalli di battaglia di Salvini.
LA NOSTALGIA La “bontà” tattica e strumentale del Capitano che evita il braccio di ferro, in vista del dibattito in Senato, può valere insomma come una sorta di avance salvinista per non far precipitare tutto ciò che in verità è già precipitato. Ma in questa vicenda Open Arms c’è anche la riprova della metamorfosi di Conte. Che è come se dicesse a Salvini: «I pieni poteri di cui ha parlato, ora li prendo io!». E lo sfoggio della forza sta nel fatto che Conte va a colpire Salvini proprio sul tema dei migranti, quello qualificante per il salvinismo. Il premier in uscita si sente le spalle ben coperte dall’Europa, dove forse sarà il commissario italiano (e che beffa per il Capitano che aveva prenotato invano quel posto per uno dei suoi) e soprattutto può muoversi, in questo schiaffo dell’Open Arms, nel solco inattaccabile tracciato dal presidente Mattarella a suo tempo a proposito della Diciotti. Il premier uscente e il presidente della Repubblica non si sono sentiti ieri e Mattarella è voluto restare fuori da questo ennesimo caso. Ma Conte, più baldanzoso che mai, ha guardato ieri al precedente della Diciotti, quando fu il Capo dello Stato che chiese al governo di risolvere al più presto e in maniera umanitaria quella questione. Ecco, si è sentito in sintonia con il Colle e con l’Europa l’«avvocato del popolo». Lo stesso che però, lui e M5S, difese Salvini indagato sulla Diciotti e l’intero compagine giallo-verde fece scudo intorno al vicepremier di cui «abbiamo condiviso le scelte». Ma sembrano tempi archeologici quelli. Adesso lo scenario è cambiato, gli equilibri di potere anche, ma resta il tema dei migranti e su quello, al netto della momentanea ritirata di queste ore, Salvini da ex ministro dell’Interno è deciso a battere «ancora più di prima». Ma senza il Viminale è un’altra cosa, perciò per Matteo è cominciato il momento del rimpianto ma anche di una nuova lotta.
Mario Ajello sul Messaggero a pagina 3.
Il premier e il vice mai così lontani. Quei segnali al Pd. La mossa del presidente del Consiglio sul caso Ong prologo della rottura tra i due attesa per martedì. Le lettere scritte a distanza di pochi giorni per sbloccare la vicenda sono la sconfessione di un anno di politica sull’immigrazione. More
«Non c’è nessuna possibilità di pace. Con Salvini ho rotto definitivamente». La plastica dimostrazione che non esistono margini di ricucitura tra Lega e 5 stelle, di sicuro non attraverso Giuseppe Conte, l’avremo martedì in Senato quando il premier punterà il dito contro il leader della Lega citando riunioni mancate, vertici disertati, appuntamenti internazionali saltati. Una requisitoria in piena regola anche se a farla sarà un avvocato abituato alle arringhe. Le lettere sui migranti della Open Arms, prima quella di Ferragosto poi quella di ieri, sono solo un assaggio della rivincita che Conte si vuole prendere nei confronti del suo vice. In quelle missive è stata demolita la politica sull’immigrazione dell’ultimo anno con una presa di distanza netta. Il resto arriverà martedì. La corrispondenza sui profughi al largo di Lampedusa va dunque letta come il prologo di uno scontro pubblico. Ma anche come un segnale alla parte politica pronta a sostituire il Carroccio nella maggioranza: il Pd. La trattativa è già molto avanzata, con i nomi dei ministri sul tavolo. Ma i dem per favorire la nascita di un nuovo esecutivo potrebbero ingoiare anche un Conte bis? Sembra quasi impossibile. La partita però è tutta da giocare e il premier vuole stare in campo anziché in panchina. Secondo Matteo Renzi, tifoso della soluzione istituzionale, il Conte bis è uno scoglio insormontabile.
Come si fa a votare la fiducia al presidente del Consiglio «che ha firmato i decreti sicurezza»? Dicono al Nazareno: si chiamerebbe, a ragion veduta, trasformismo. Ma qualche sacrificio il Partito democratico dovrà pur farlo, tanto più che ormai sta aprendo porte e finestre all’intesa con Luigi Di Maio. Romano Prodi dirà nelle prossime ore che solo un esecutivo con i grillini può salvare il Paese. Paolo Gentiloni, che era sulla linea di Carlo Calenda del “voto subito”, sta cedendo e viene descritto ora come «non più ostile» alla nuova maggioranza. La verità è che Conte, grazie alle mosse degli ultimi mesi, sarebbe il candidato perfetto a guidare un governo Pd-M5s. Le lettere a Salvini dimostrano la sua sensibilità ormai più vicina alla sinistra che all’ala sovranista. Ma sarebbe un’operazione temeraria. «Pensiamo che il premier non ce lo chiederà nemmeno», osservano nel Pd.
C’è invece la volontà di non umiliarlo anzi di premiarlo perché con la sua resistenza ha favorito l’ipotesi di un’alternativa al patto gialloverde. Può fare il ministro degli Esteri del nuovo esecutivo o, meglio ancora visto che è un suo desiderio, il commissario europeo. I tempi ci sono a dispetto della scadenza del 26 agosto che non è perentoria, è un’indicazione di massima. Ursula Von der Leyen presenterà la sua squadra alla plenaria dell’Europarlamento il 15 settembre. Per quella data potrebbe essere già nato il governo giallorosso. Conte diventerebbe la scelta principale per la commissione.
Il premier è tentato, martedì, di dire «tutta la verità» sui 14 mesi trascorsi accanto a Salvini. Significa accusarlo di assenze, storture istituzionali, sgarbi, della latitanza dal suo ufficio al Viminale. Vedremo se andrà fino in fondo. I 5 stelle fanno notare il successo social del premier, la crescita del suo consenso popolare già certificato dai sondaggi. Sono 319 mila i like alla durissima lettera di Ferragosto sui migranti pubblicata su Facebook. I post più recenti di Salvini, finora incontrastato mattatore della rete, viaggiano sui 50 mila like, non di più. Una battuta di arresto per la Bestia, la macchina propagandistica i cui fili sono mossi dal burattinaio Luca Morisi. Questi numeri stanno convincendo il premier a essere «il più trasparente possibile» nel passaggio parlamentare. E a rifiutare ogni tipo di dialogo con la Lega. Dialogo che ormai, anche nell’entourage di Di Maio (il quale potrebbe rimanere ministro anche con un altro esecutivo), considerano difficile. Tutto dev’essere ancora consumato quindi ma tutto è in movimento per preparare il terreno al ribaltone.
La base dei 5 stelle si sta convincendo dell’impossibilità di un ritorno coi leghisti. Nel Pd solo Calenda è rimasto fermo sulla linea di una sfida elettorale a Salvini. Gli altri pensano a come gestire il dopo, addirittura immaginando un’alleanza politica con il M5s in grado di salvare molte regioni prossime al voto: Umbria, Emilia e Calabria. Come si capisce il filo che lega Pd e grillini sta diventando sempre più robusto. La prima mossa toccherà al M5s quando, dopo le dimissioni di Conte, inizieranno le consultazioni al Quirinale.
Molti dicono «ci penserà Mattarella». È vero l’esatto contrario: devono pensarci le forze politiche e presentare al Colle una solida maggioranza parlamentare. Secondo il capo dello Stato sarà ancora più solida se a guidarla sarà una figura politica o istituzionale (garanzia di durata e di stabilità) e non un tecnico (Cantone). Il primo passaggio spetta ai 5 stelle, partito di maggioranza relativa in Parlamento. Saranno loro a dover dichiarare chiusa l’esperienza di governo con la Lega e a suggellare l’abbraccio col Pd.
Goffredo De Marchis su Repubblica a pagina 3.
Salvini: “Decisione di ordine emozionale”. L’Ue: “Prima lo sbarco, poi la distribuzione tra Paesi”. Su mandato dei pubblici ministeri, disposta un’ispezione a bordo della nave dove restano in 107, con l’equipaggio della Ong spagnola. Le voci tra la folla dei curiosi sul molo: “Non siamo razzisti, ma nazionalisti”. La polizia chiede al Viminale le carte sul mancato sbarco. Ipotesi di sequestro della nave. È stato acquisito anche il documento con cui la guardia costiera chiedeva di procedere all’attracco. Dubbi sullo stato di salute a bordo. Il medico di Lampedusa: «Quelli che abbiamo visitato stavano bene».
Il Ministro della Difesa Elisabetta Trenta intervistata dalla Stampa: “Ci sono due neonati con problemi respiratori”. E sulla situazione politica: “La Lega ha tradito una volta. Non dobbiamo più fidarci. Ho subito attacchi incredibili sui social. Partiranno tantissime querele, dobbiamo lottare”. More
È arrivata da pochi minuti la notizia dello sbarco, nel porto di Lampedusa, dei 27 minori presenti sulla nave Open Arms dopo sedici giorni in mare. «Finalmente», dice la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta. E sarebbe difficile sintetizzare meglio l’attuale distanza da Matteo Salvini e dalla «politica dei porti chiusi e dei muri che non funziona, serve semmai più Europa», dice infatti Trenta, ma anche da chi crede che si possa tenere in piedi questo governo, perché «chi ha tradito una volta lo farà ancora. E a questo punto, la porta della Lega io non la riaprirei». A bordo della Ong rimangono però ancora 107 migranti. Lo sbarco dei minori è stato il primo passo verso una risoluzione della vicenda? «Non ne posso ancora avere contezza, ma dopo tanti giorni in mare la situazione a bordo è certamente negativa. Eccoperchémisonoattivatapersonalmente per risolvere la questionedeiminoriabordo». Salvini parla di «presunti minori». «Tra di loro ci sono due neonati di nove mesi, uno dei qualiconproblemi respiratori. Dal 13 agosto, ad ogni modo, ci siamo coordinati con il presidente Conte, il ministro Toninelli,e abbiamocoinvolto anche Salvini ma lui non ha mai risposto ai nostri messaggi. Avevo persino chiesto alCapodistatomaggioredella Difesa se ci fosse una nave vicina che potesse intervenire e prendere a bordo i minori; poi è arrivata la sentenza del Tar che ha sospeso il decreto sicurezza bis e non ce n’èstatopiù bisogno». Lei si è anche rifiutata di firmare il divieto di ingresso nelle acque italiane che voleva Salvini. Solo una questione di «umanità»? «Ho deciso di non controfirmare il decreto anche perché l’hoconsideratounattoelusivodelladecisionediungiudice, senza che fossero intervenute delle novità sostanziali. Ho ritenuto più forti le ragionidella sospensivadel Tar». Ma è d’accordo con i contenuti del decreto sicurezza bis? «Condivido l’idea che le migrazionivadanogestiteecontrollate.E l’hofirmato, anche se credo non sia sufficiente. Lafermezzasuiconfini,lapoliticadeiportichiusiedeimuri, non funziona di fronte a un fenomeno come quello migratorio.Serveunmaggiore coinvolgimento dell’Europa e un intervento massiccio per stabilizzare economicamente e politicamente alcuneregionidell’Africa». Per le sue posizioni è stata messa recentemente alla gogna da Salvini e dalla galassia social leghista. Come ha reagito? «Hosubitoattacchiincredibili sui social. E voglio dirlo chiaramente:partirannotantissime querele. Abbiamo strumenti per poterci difendere e dobbiamo lottare contro questi strumenti di manipolazione dell’opinione pubblica,utilizzati spessoperdestabilizzareunesecutivo». In questo caso, sarebbe un pezzo del governo che ne destabilizza un altro. Non le sembra assurdo? «Dopo il tradimento di Salvini, le giudico medaglie. Se luimiidentificacomeilnemico da abbattere, vuol dire che sto lavorando bene. Eppure, proprio ieri rileggevo dei vecchi messaggi che gli avevo inviato. Il tono era collaborativo, amichevole. Gli dicevo di essere convinta come lui che ci dovesse essere una regolamentazione dei flussimigratori». E adesso è tutto finito? «Vedocheognistradaè ancora aperta. Le confesso che la prima reazione è stata di grande tristezza. Ci sono ancora così tanti dossier aperti sui quali stavo lavorando, soprattutto per il personale della Difesa, e che temevo di dover abbandonare incompiuti. Ma tanta gente ci sta dicendo di andare avanti». Il punto è con chi. Lei tornerebbe con la Lega? «Io penso che chi ha tradito una volta, tradirà di nuovo. E che quella della Lega sia una porta che non vada riaperta». D’accordo, resta solo il Pd. «Non saprei. In questo momento serve silenzio e tempo per trovare una soluzione. Ho assoluta fiducia nel Presidente Mattarella e nella capacità di negoziazione del premier Conte». Senza Lega cambierebbe la politica migratoria? «Qualsiasi governo arriverà, dovrà puntare i piedi e al tempo stesso collaborare con l’Europa. Non si può aprire a tutti, come era prima. Dall’altra parte, però, se decidiamo di aprire in un certo modo, dobbiamo avere la capacità di comunicarlo e di non creare attriti tra le fasce più deboli della popolazione». Intanto Angela Merkel ha annunciato di voler riaprire la missione europea Sophia per il pattugliamento del Mediterraneo e di voler mettere alla guida la Germania. L’Italia resta a guardare? «Sarebbe un errore enorme perdere l’unica missione europea, finora a guida italiana, che ci permette di giocare un ruolo centrale nel Mediterraneo. Se la Germania o la Francia o un altro paese europeo ne si metterà al comando, lasceremo il controllo di un’area strategica per il nostro Paese. Credo sia ancora possibile riprendere il timone di Sophia. Ne sto parlando con Conte e lui è assolutamente d’accordo con me».
Elisabetta Trenta intervistata da Federico Capurso sulla Stampa a pagina 3.
Ipotesi Draghi. I 5Stelle: «Palazzo Chigi a Conte». No del Pd, spunta l’ipotesi Draghi
Alberto Gentili sul Messaggero a pagina 5. More
Il Movimento gioca la carta con il Pd. Meglio, con quella coalizione larga aperta a Leu, +Europa e persino a qualche fuoriscito da FI che renderebbe meno imbarazzante – sia ai dem che ai grillini – l’eventuale alleanza per un governo di legislatura. L’ampio fronte dem, guidato da Matteo Renzi e Dario Franceschini e benedetto da Enrico Letta e dai padri nobili Romano Prodi e Walter Veltroni, non ha alcuna voglia di fare un governo con Conte presidente del Consiglio. «Per mettere su un esecutivo forte e di legislatura, serve una marcata discontinuità e questa non può avvenire con la sostituzione in corsa dei ministri leghisti con i nostri», spiega un altissimo esponente del Pd vicino a Renzi. E aggiunge: «I 5Stelle devono capire che bisogna andare su un premier autorevole e terzo. Pensiamo a Raffaele Cantone, che piace anche ai grillini. Oppure a Mario Draghi, molto apprezzato da Mattarella. Se il presidente della Bce, che scade tra due mesi, potrebbe accettare di buttarsi in questo caos? E’ probabile, visto che dopo aver fatto il premier, nel 2022 potrebbe essere eletto capo dello Stato». Suggestioni. Tanto più perché i grillini molto difficilmente potrebbero dire sì al presidente uscente della Banca centrale Ue, considerato la massima espressione dell’establishment europeo. Perché, a giudizio di un altro esponente dem, «l’avvento di Draghi potrebbe ricordare a una parte dell’opinione pubblica l’esperienza Monti, dimenticando che da presidente della Bce Draghi ha salvato il Paese».
Editoriali.
Editoriali. Due congressi e un conclave per costruire un esecutivo, Romano Prodi sul Messaggero in prima. Bisognerebbe creare una coalizione filoeuropea. “Orsola”, cioè la versione italiana dell’accordo raggiunto per l’elezione della nuova presidente della Commissione europea. Un accordo duraturo nella prospettiva dell’intera legislatura. Perché questo sia credibile è innanzitutto necessario che contenga, in modo preciso e analitico, i provvedimenti e i numeri della prossima legge finanziaria con l’adozione di politiche dedicate in modo organico a due fondamentali obiettivi: la riorganizzazione degli strumenti necessari per la ripresa economica e la messa in atto di una politica socialmente avanzata. More
È vero che il confronto fra democristiani e socialisti muoveva da passate esperienze comuni, ma le differenze fra loro erano state raramente così radicali come nell’ultima campagna elettorale. Eppure è stato formato un governo che, anche nelle difficoltà dell’attuale congiuntura, riesce ad avere una condivisa linea di condotta. Ciò è stato possibile grazie a una lunga trattativa, nella quale sono stati definiti non solo gli orientamenti politici ma anche le priorità delle decisioni e i numeri degli impegni finanziari necessari per metterle in atto. Un accordo completo, rigoroso ed analitico. Si dirà che l’Italia non è la Germania, ma la necessità di un tentativo di questo tipo è maggiore a Roma che a Berlino perché non solo noi, ma tutti i nostri amici stranieri, si stanno chiedendo cosa faremo in futuro. Poiché le tensioni nel governo per ora in carica sono divenute ingestibili solo dopo la divisione fra Lega e 5Stelle sul voto europeo, è chiaro che l’accordo deve prima di tutto fondarsi sul reinserimento dell’Italia come membro attivo dell’Unione europea. Forse bisognerebbe battezzare questa necessaria coalizione filo europea “Orsola”, cioè la versione italiana del nome della nuova presidente della Commissione europea. Non so se si possa chiamare una coalizione con un gentile nome femminile ma credo che, in questo caso, il gesto avrebbe un preciso significato politico. In secondo luogo deve essere un accordo duraturo: non per un tempo limitatoma nella prospettiva dell’intera legislatura. Perché questo sia credibile è innanzitutto necessario che contenga, in modo preciso e analitico, i provvedimenti e i numeri della prossima legge finanziaria. Quindi l’impegno deve essere per il lungo periodo e la garanzia che quest’impegno venga rispettato può arrivare solo dall’approvazione dettagliata, rigorosa e perfino pedante, delle misure da prendere già a partire dalla prossima Legge finanziaria che, secondo Salvini, avrebbe dovuto segnare la rottura con i nostri partner europei. In terzo luogo le condizioni del Paese obbligano all’adozione di politiche dedicate inmodo organico a due fondamentali obiettivi: la riorganizzazione degli strumenti necessari per la ripresa economica e lamessa in atto di una politica socialmente avanzata. Al perseguimento dei diritti civili bisogna infatti accompagnare, con più vigore di quanto avvenuto in passato, uno sforzo per il rafforzamento dei diritti sociali, partendo dalla lotta alle disuguaglianze, dalla difesa del welfare e da una nuova attenzione per la scuola e la sanità, messe pericolosamente a rischio dalla politica degli ultimi anni. Gli italiani non sono angosciati solo dalle migrazioni (in entrata e in uscita) e il problema deve essere riesaminato insieme ai partner europei sia per l’aspetto dell’accoglienza sia per quello dell’inserimento. Tutti noi abbiamo anche una crescente paura di essere sempremeno garantiti nel campo della scuola e in quello della sanità. Tutte queste paure sommate assieme stanno disgregando l’Italia. Non sarà certo facile trovare l’unità necessaria per definire questo programma fra partiti che si sono tra di loro azzuffati per l’intera durata del governo e che hanno perfino un diverso concetto del ruolo delle istituzioni nella vita del Paese. La definizione di una linea comune al loro interno deve quindi accompagnare (e forse precedere) l’accordo di governo. In genere, in questi casi, si deve pensare a qualcosa che possa perlomeno potersi paragonare a un congresso di partito. Non ho laminima idea di come possa svolgersi un congresso dei 5Stelle perché sono cresciuto con la convinzione che per confrontarsi sia necessario almeno guardarsi in faccia, ma ho un’idea ben chiara sulla necessità di aprire un dibattito nell’ambito del Partito Democratico così che la posizione prevalente possa portare avanti inmodo credibile e fermo le decisioni prese, senza che esse vengano continuamente messe in discussione anche ponendo sul tavolo ipotesi di scissione. Un dibattito ancora più necessario per preparare una posizione unitaria sul grande problema delle autonomie che non possono essere lasciate all’iniziativa di alcune Regioni ma che debbono coinvolgere “prima gli italiani” e necessariamente “tutti gli italiani” come veri protagonisti. Mi sto accorgendo infatti che questa incomprensibile crisi, insieme a tutte le preoccupazioni e le paure che suscita, sta risvegliando in tutto il Paese un’attenzione alla politica che sembrava ormai appartenere al passato.
Romano Prodi sul Messaggero in prima.
Sabino Cassese sul Corriere in prima.
I Cinquestelle che sono venuti dalla predicazione di Grillo hanno appunto tentato di abolire le classi dirigenti. A guardare la situazione dieci anni dopo non si può dire che questo obiettivo sia stato realizzato: i Cinquestelle una classe dirigente l’hanno creata, è la loro, ma un programma vero e proprio non c’è. Hanno oscillato tra sinistra e destra, attirando cittadini demotivati. In certi momenti la predicazione grillina ha fatto presa ed è arrivata sopra il 30 per cento dei voti in elezioni nazionali o locali; ma erano elettori che entravano e uscivano, votavano e non votavano, guardavano a sinistra e alla fine approdavano a destra. Forse attratti dal barbaro Matteo Salvini. Ciò che sta accadendo oggi somiglia decisamente alla materia friabile dei Cinquestelle: allo stato dei fatti i loro attuali elettori vengono valutati intorno al 15 per cento, molliche di pane di quella che fino a pochi mesi fa era una grossa pagnotta. Questo è una parte di ciò che avviene ma certo è ben lontana dal tutto.
L’Italia sta attraversando una sorta di maremoto permanente in politica e questo è certamente l’aspetto più importante della situazione attuale visto che la politica muove le società. E tuttavia accanto a essa c’è la situazione economica. L’economia condiziona la politica e viceversa: sono due attività sociali fortemente intrecciate, l’una determina l’altra reciprocamente. Un’economia che va a rotoli lascia la politica priva di difese e costretta soltanto a rigenerare l’attività economica. E viceversa. Sono dunque due facce della stessa medaglia. Com’è stata la situazione italiana a partire dalla fine della guerra mondiale e la sconfitta del nostro Paese? Per capir bene l’andamento economico e finanziario, l’analisi ha come punto di concentrazione la Banca d’Italia: non siamo un’eccezione, avviene in tutti i paesi l’importanza operativa delle banche centrali. In Italia i banchieri centrali sono stati: Luigi Einaudi (che poi diventò presidente della Repubblica italiana), Donato Menichella, Guido Carli, Paolo Baffi, Carlo Azeglio Ciampi, Antonio Fazio, Mario Draghi (poi presidente della Banca centrale europea per la quale il suo mandato scadrà tra pochi mesi), Ignazio Visco. È stata una banca centrale adeguata a un paese come il nostro, in un continente come l’Europa e con una moneta comune, l’euro, adottata dai diciannove Paesi principali dell’Unione europea? Sì, è stata una banca adeguata e se vogliamo esser chiari ha costituito la spina dorsale di sostegno dell’economia nazionale. La sua politica è stata coerente: sviluppo dell’economia, sbarramento contro la deflazione, controllo adeguato dell’inflazione, investimenti in obbligazioni ed emissione valutaria. Una politica di investimenti in obbligazioni pubbliche e anche private e il tentativo di mantenere il debito pubblico in condizioni accettabili. Quest’ultimo è stato il tentativo riuscito a metà, poiché il debito pubblico è fortemente aumentato negli ultimi decenni e tuttavia con un volume ancora accettabile, specialmente se sarà contenuto e leggermente diminuito negli anni a venire. Da questo punto di vista la politica della Bce di Draghi ha avuto una funzione assai positiva. È sperabile che i suoi successori la proseguano. Una delle misure che ritengo estremamente importante è l’abolizione del cuneo fiscale. Ha avuto fino a qualche anno fa una certa utilità ma poi l’ha persa del tutto e quindi non vale la pena, come talvolta in questi anni è stato fatto, di tagliarne il 5 o il 10 o addirittura il 20 per cento, va abolito completamente e sostituito con una politica finanziaria che tenga conto dei redditi e dei patrimoni. La scala dei redditi è quella che più dimostra la struttura socio-economica del nostro Paese. Vanno sostenuti i redditi bassi, con il denaro pubblico. Man mano che dai redditi bassi si va verso il reddito medio che è quello più numeroso dei percettori, il dare e l’avere tenderanno a uguagliarsi, il reddito medio cioè campa da solo. Ma poi i redditi diventano alti e allora una parte crescente di essi viene utilizzata per il sostegno dei redditi inferiori. Questa situazione cresce con il crescere dei ricchi, sia dei redditi sia dei patrimoni ed entrambi vanno tassati in misura crescente, fino a un taglio notevole. Filosoficamente parlando, questa politica non è altro che l’introduzione del criterio dell’uguaglianza accanto a quello della libertà. Perfino la morale cattolica di papa Francesco ha il criterio dell’uguaglianza come uno dei valori principali del Dio Unico che governa il mondo.
La politica italiana ha avuto finora come attore principale Matteo Salvini, ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio assieme a Luigi Di Maio dei Cinquestelle. Entrambi vicepresidenti con un presidente: Giuseppe Conte. In questi ultimi mesi Salvini ha messo a punto una politica molto determinata: vuole elezioni entro il mese di ottobre, per la Lega e i suoi alleati Meloni e Berlusconi. Risulterebbe sicuramente vincente. Di Maio? È ridotto al minimo, poco più che una mosca, ma nella valutazione di Salvini noie non ne darà, non ne ha la forza né politica né personale. Sta lì, anche loro a destra con qualche tentazione verso sinistra, ma la mosca cocchiera non serve a niente. Il progetto di Salvini ha un seguito molto importante: a elezioni vinte e a Camere sciolte, c’è posto per una nuova struttura costituzionale più autoritaria. Questo progetto dovrebbe realizzarsi nel 2022, quando l’attuale presidente della Repubblica concluderà il suo mandato. Di qui ad allora la Lega ha in mano il governo, il premier Conte potrebbe essere destinato a un incarico europeo. Di Di Maio abbiamo già detto: respira a fatica. Salvini sarebbe il premier d’un governo che il presidente della Repubblica dovrebbe tollerare poiché, nella testa salviniana, non avrebbe altra scelta. Da una settimana in qua il progetto di Salvini sta attraversando una fase di grande agitazione: Conte lo contrasta, bene o male è il presidente del Consiglio ed è lui l’interlocutore del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La mosca cocchiera dei Cinquestelle rappresenta tuttavia un intralcio ai progetti salviniani. Un altro intralcio può venire da Berlusconi, il quale detesta i sovranisti e ostenta una politica filoeuropeista. Sullo sfondo resta l’inchiesta su Moscopoli. Inoltre c’è in campo la sinistra e non è più un avversario da poco.
Da parecchio tempo la sinistra si era addormentata. Sussisteva ancora in certi luoghi ed era stata ravvivata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il quale di fronte all’ondata di crisi economicamente sconvolgente arrivata dall’America e simile in molti aspetti a quella che ci fu nel 1929, aveva incaricato di fronteggiare quella tempesta il grande esperto dell’economia Mario Monti e la ministra Fornero come sua principale collaboratrice. Dopo nemmeno due anni, per effetto del voto, Monti fu sostituito da Enrico Letta, il quale governò un anno e continuò a tenere sotto controllo la situazione economica. A quel punto sbucò fuori Matteo Renzi il quale, molto abile in queste scalate personali, conquistò il Partito democratico e fece fuori Letta andando lui al governo. La sinistra democratica non soffrì della conquista renziana, anzi arrivò fino al 40 per cento alle Europee. Poi Renzi, che assommava le cariche di segretario del partito e presidente del Consiglio, varò la sua riforma costituzionale con l’abolizione del Senato (adibito a compiti importanti ma locali). Propose per la Camera una legge elettorale con un meccanismo che avrebbe premiato il partito vincitore, dotandolo di grande potere. Contro la riforma costituzionale ci fu la richiesta di un referendum nel quale il voto negativo stravinse. Renzi perse le staffe. Il governo fu affidato a Gentiloni. Alle elezioni del 2018 il Pd crollò al 18 per cento. Questo è il passato recente. La sinistra democratica si è risvegliata con la discesa in campo del governatore del Lazio Nicola Zingaretti il quale la sta rilanciando, sia come partito con il suo stato maggiore di notevole efficienza e anche come movimento diffuso in tutta Italia. Il partito ha oggi una stima tra il 23 e il 25 per cento (notevole). Intorno, un’area di simpatizzanti e scontenti di sinistra valutato tra il 15 e il 20 per cento. Il totale della sinistra insomma viaggia verso il 40 per cento. Non è poco e potrebbe crescere ancora di più con alleanze piccole ma non da buttar via. E Renzi? Parla molto, Renzi. Ha rilanciato la sua collaborazione con Zingaretti, ma ha anche ripetuto più volte la sua primazia per la conduzione del partito. Non contro Zingaretti ma con lui. Si dovrebbero dividere il potere? Non è chiaro. Zingaretti è disponibile ad affidare a Renzi un compito importante, ma non a condividere il potere tanto più che Renzi non è un personaggio che condivide. La sinistra potrebbe anche contare su un disgregarsi di quanto resta dei Cinquestelle. Si vedrà. «Bisogna cambiare le cose, tutte le cose, con idee, programmi, comportamenti», Machiavelli insegna, ce l’ha ricordato Asor Rosa.
Lettera che di fatto è già una resa da parte dell’intransigente teorico dei porti chiusi, ma senza le dimissioni che sarebbero logiche. Ora i porti si stanno aprendo per iniziativa di Conte, che sull’orlo delle dimissioni ha trovato il coraggio da tempo smarrito. Facile immaginare che dopo la Open Arms altre navi approfitteranno del mutato clima in Italia. E non si tratta solo di operazioni di soccorso. Il conflitto tra favorevoli e contrari all’immigrazione ha segnato l’ultimo anno: è stato il vero cavallo di battaglia del ministro dell’Interno, proiettandolo verso il 34 per cento delle Europee e il 37-38 dei sondaggi successivi (prima della crisi d’agosto). Peraltro l’intero dibattito pubblico ha ruotato intorno all’agenda imposta dal capo leghista, al punto che oggi la riapertura dei porti può diventare il discrimine tra due stagioni politiche. Dipende da come finirà la crisi che, bisogna rammentarlo, non è ancora conclamata. Sentiremo Conte martedì in Parlamento, vedremo se farà un discorso di rottura con la Lega, come certi indizi farebbero pensare. E capiremo se l’arrocco di Salvini, che non parla più di elezioni anticipate e si tiene stretto il Viminale, è solo un estremo riflesso difensivo ovvero l’inizio di una diversa strategia. Un analista di Bloomberg, l’agenzia finanziaria, ha scritto della complessità e dell’importanza di questo passaggio politico e ha colto un punto: “La crisi servirà a determinare se i movimenti populisti diffusi ovunque trarranno nuovo slancio oppure cominceranno a sgonfiarsi”. È un aspetto cruciale: quel che sta per accadere tra il Parlamento, il Quirinale e Palazzo Chigi non riguarda solo noi, ma presenta evidenti risvolti internazionali e coinvolge in un gioco di influenze ramificato l’America di Trump, l’Europa franco-tedesca, la Russia e in particolare la Cina. Ogni soggetto portatore di interessi, ciascuno con i suoi referenti. In questa attesa scandita più che altro dalle notizie da Lampedusa, le iniziative scarseggiano e i segnali vanno interpretati. Il segretario del Pd Zingaretti, uno dei protagonisti della partita, continua a chiedere ai suoi di tenersi pronti al voto anticipato. La sua freddezza verso l’ipotesi di una maggioranza con i 5S è trasparente; anzi, c’è la richiesta che un eventuale nuovo governo abbia “una larga base parlamentare”. Come dire che deve essere aperto anche a Forza Italia, scenario oggi del tutto improbabile. Come se Zingaretti non avesse alcun desiderio di consegnarsi ai Cinque Stelle, vedendo il rischio per il Pd. Nel suo tono privo di enfasi si avverte, nonostante tutto, l’eco delle frasi con cui il vecchio Emanuele Macaluso invita la sinistra a tenere la schiena dritta e a non avere paura delle elezioni.
Andrea Manzella su Repubblica a pagina 34.
Alessandro Sallusti sul Giornale in prima.
Vittorio Feltri su Libero in prima.
palla di vetro e neppure godiamo di informazioni riservate dai tribunali. Comunque vada, cioè che si arrivi in fretta al voto o che la guida del Paese finisca con un’ammucchiata dalla quale la Lega sarà esclusa, Salvini ha fatto bene a uscire dal pantano. Meglio un’opposizione con dignità, che un governo senza vergogna. Ps. Ieri abbiamo titolato «Arriva il governo dell’invasione». Non ci sbagliavamo, come dimostrano le decisioni di Giuseppe Conte, senza Salvini in Italia «porti aperti per tutti». È questo il nuovo contratto di governo? E Berlusconi che fa, passa da meno tasse per tutti a più immigrati per tutti?
Maurizio Belpietro sulla Verità in prima.
Cosa hanno in comune Pd e Cinquestelle? Europa, Tav, reddito, tasse: divergenze e affinità tra M5S e Pd. I punti concreti del programma su cui dovrebbero discutere i due partiti. Su molti temi posizioni distanti, ma qualche mediazione è possibile. Nodi intricati: né grillini né dem hanno un piano per evitare l’aumento dell’Iva. Difficile un’intesa sulle autonomie Stefano Feltri sul Fatto. More
Per ora è un esperimento mentale, ma se il governo tra Cinque Stelle e Pd dovesse concretizzarsi, che programma avrebbe? Luigi Di Maio e soci hanno introdotto nella primavera 2018 il metodo del contratto, più leggero dei tradizionali accordi di coalizione. Non serve un’intesa generale, basta un accordo su alcune misure concrete. Come si è visto, questo non disinnesca le tensioni tra i contraenti. Ma è l’unico metodo che i Cinque Stelle hanno elaborato per superare la loro antica promessa di non allearsi mai con nessuno. È quindi ragionevole pensare che lo applicheranno anche nelle trattative con il Pd. L’esito non è scontato, perché dopo un anno di governo il M5S non ha più un programma (i punti salienti, bene o male, li ha realizzati) e il Pd non ce l’ha ancora, a sei mesi dalle primarie vinte da Nicola Zingaretti. Vediamo per punti dove ci sono affinità e problemi.
IVA E CONTI. È il grande problema d’autunno: servono coperture per 23,7 miliardi oppure l’Iva aumenta dal primo gennaio 2020. I Cinque Stelle non hanno una ricetta, hanno sempre promesso che il rincaro non sarebbe scattato ma non hanno alcuna idea di come farlo, se non in deficit (come hanno fatto gli ultimi governi), ma questo farebbe scattare la procedura d’infra – zione Ue. Nemmeno il Pd ha la bacchetta magica. Matteo Renzi ha proposto di fondare l’accordo di coalizione su un aumento del deficit vicino al 3% per tre anni, con il via libera preventivo di Quirinale e ministero dell’Economia , ma non basterebbe a risolvere neppure il solo problema dell’Iva. Pier Carlo Padoan, oggi deputato Pd, da ministro aveva valutato l’ipotesi di reperire almeno una parte delle risorse rivedendo il sistema delle tre aliquote (due agevolate). Si tratterebbe comunque di un aumento di tasse sui consumi che i Cinque Stelle potrebbero avallare soltanto nell’ipotesi che non ci siano poi elezioni a breve.
INFRASTRUTTURE . Il Pd, specie negli ultimi anni, si è schierato in modo compatto per il Tav come simbolo delle infrastrutture da sbloccare per far ripartire la crescita, nonostante l’ormai acclarata inutilità dell’opera. I Cinque Stelle hanno mal tollerato la decisione del premier Giuseppe Conte di dare il via libera all’opera e proprio la mozione sul tema ha innescato la crisi. Se rimanesse Conte premier anche con una maggioranza M5S-Pd, il dossier non verrebbe sicuraLa proposta Delrio mente riaperto. Con un nuovo presidente del Consiglio, la parte M5S più sensibile al tema potrebbe fare un tentativo. Con scarse probabilità di successo. In ogni caso, sul resto dei progetti non ci sono vere divergente tra M5S e Pd: come ha denunciato l’econo – mista Marco Ponti, consigliere (molto deluso) del ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, c’è una sostanziale continuità tra governi Renzi-Gentiloni e quello Conte. Tutte le opere ferroviarie, dal Terzo Valico alla Napoli-Bari a quelle in Sicilia, ottengono il via libera e i fondi del governo per ragioni di consenso, nessuno vuole preoccuparsi del fatto che i costi superino i benefici.
LAVORO. Zingaretti ha dalla sua di aver fatto nel Lazio uno dei primi tentativi di regolare il settore dei rider. Sulla lotta alla precarietà il suo Pd non è molto distante dal M5S, che invece si percepisce agli antipodi dei tentativi di liberalizzazione renziana. Sul salario minimo le posizioni sono diverse ma non inconciliabili: i Cinque Stelle vogliono una remunerazione oraria (9 euro) il più vincolante possibile, il Pd è contrario agli automatismi e difende il ruolo della contrattazione decentrata, oltre al primato dei contratti collettivi nazionali. Un compromesso è possibile, soprattutto se si allarga la discussione al tema della rappresentanza, cioè a come limitare i contratti pirata, quelli firmati da organizzazioni sindacali poco o per nulla rappresentative. Il Pd ha criticato molto anche il reddito di cittadinanza, per la dimensione assistenziale e perché sovrappone misure anti-povertà con le politiche attive per il lavoro. Le prime sono partite (l’erogazione del sussidio), le seconde arrancano (il sistema dei navigator). Ma nell’alleanza col Pd i fondi già stanziati non sarebbero a rischio, mentre la Lega ha già detto di voler limitare la misura e i suoi costi.
MIGRANTI. Il M5S ha sempre avuto posizioni più simili a quelle del Pd che a quelle della Lega. Ma dopo un anno di esecutivo gialloverde, le cose si sono complicate. Il Pd potrebbe chiedere ai Cinque Stelle di abolire subito i due decreti sicurezza salviniani? E i Cinque Stelle direbbero di sì? Difficile. L’unica strategia sull’immigrazione per un governo M5S-Pd sarebbe quella di depotenziare il tema, di farlo scivolare più in basso nella lista delle priorità. Sempre che la macchina della comunicazione salviniana, le Ong e i ricorsi alla Corte costituzionale sui decreti sicurezza lo consentano.
AUTONOMIE. È destinato a rimanere uno dei dossier più incandescenti. I dem non possono insabbiare la questione senza scatenare la furia di Lombardia e Veneto e senza rischiare seriamente di perdere l’Emilia Romagna alle Regionali quando Stefano Bonaccini sfiderà Lucia Borgonzoni della Lega. I Cinque Stelle hanno finora rallentato l’iter degli accordi governo-Regioni, ma non c’è una linea chiara sul punto.
EUROPA. Sia M5S che Pd hanno votato la fiducia alla Commissione di Ursula Vonder Leyen, i voti dei Cinque Stelle sono stati decisivi. Il Pd esprime il presidente d el l ’Europarlamento David Sassoli. Le condizioni per costruire un rapporto positivo con Bruxelles sono quindi migliori rispetto a quelle della fase M5S-Lega, visto che Matteo Salvini ha schierato il suo partito all’oppo sizione della nuova Commissione.
Stefano Feltri sul Fatto a pagina 5.
Conte. Il bacio della morte. Conte teme la fiducia (di Salvini). Il M5S ha deciso: martedì cade il governo in Senato. Intesa col Pd per evitare che il mendicante leghista dica sì all’esecutivo e alle sue poltrone. Sul Fatto a pagina 2. More
Pontieri. Avance, incontri e WhatsApp i giorni roventi dei pontieri. Nei 5S c’è Fico che parla col Pd e Paragone che ha i contatti con la Lega. I dem sondano i grillini con Orlando e Franceschini. Nel Carroccio si muove Rixi. More
Matteo Pucciarelli su Repubblica a pagina 11.
Lega. L’obiettivo della Lega: ora un nuovo governo insieme ai pentastellati. Per Salvini «questo esecutivo è finito», ma c’è spazio per un altro accordo. Nel partito però c’è sconcerto, il leader sotto accusa. Le critiche di Giorgetti. Sul Messaggero a pagina 6. More
Il vicepremier: ragionerò su tutto purché non tornino Renzi e i suoi. Sul Corriere a pagina 3.
Bis gialloverde Salvini insiste ma la Lega si divide. Il leader pronto a votare contro Conte in Senato, ma pensa a un altro governo con Di Maio, nonostante il no di Giorgetti. “Il segretario sono io”. Su Repubblica a pagina 6.
Salvini in stato confusionale non esclude la fiducia a Conte. Matteo «in ritiro» due giorni a casa del «suocero» Verdini. Il premier in privato: «È malato di delirio di onnipotenza». Sul Giornale a pagina 5.
Salvini non mollare, ora fai sbagliare gli altri. L’errore è stato aritmetico: con il 17% di deputati e senatori non si controlla il Parlamento neanche se mezza Italia ti acclama. Ma il leader leghista è l’unico ad avere un progetto politico: meno tasse, opere pubbliche e niente clandestini. Deve andare avanti.
Pietro Senaldi su Libero a pagina 3.
I sondaggisti. La crisi di mezza estate presenta il conto al leghista “La sua scalata rallenta”. Su Repubblica a pagina 7.
Denis sussurra a Salvini. In cucina c’è sempre lui. Nel suo ristorante, il babbo di lady Francesca spiega a Matteo e a i suoi, i rischi del patto Pd-5S. Il leghista da 48 ore è in Toscana nella villa di Verdini. In questa fase i consigli dell’ex forzista sono tra i pochi che ascolta. Sul Fatto a pagina 6.
Cinquestelle. I 5 Stelle hanno deciso: si va alla crisi in Senato. Niente appigli alla Lega: il M5S presenterà una risoluzione che sosterrà la posizione di Conte su Ong e migranti: piacerà a sinistra e sarà invotabile per Salvini. Al Colle si dà per scontato che il premier arriverà per dimettersi: a quel punto intese politiche. Sul Fatto a pagina 2.More
“C’è solo Zingaretti”. Il diktat di Grillo. Ma Di Maio tentenna. I timori sul ruolo di Renzi. L’ipotesi di voto su Rousseau. Rivolta dei parlamentari se il leader guarda alla Lega. 216 i deputati del M5S: il gruppo parlamentare più numeroso. La Lega ne ha 125, il Pd 111. Sono 107 i senatori grillini. Il Carroccio ne ha 58 e il Partito democratico si ferma a 51. Sulla Stampa a pagina 5.
La spinta di Grillo verso il Pd: attenti alla trappola della Lega. Le telefonate del garante con Di Maio ma il capo politico è combattuto. L’idea di un voto su Rousseau per il sì. Sul Corriere a pagina 5.
I parlamentari grillini in trincea. “Non possiamo tornare con quelli”. Di Maio non si sbilancia, il suo intento è massimizzare il momento difficile degli ex alleati. L’attacco sul Blog delle Stelle: “E anche oggi i ministri del Carroccio si dimettono domani”. Su Repubblica a pagina 7.
“Luigi pagherà tutte le sue incoerenze. Fanno bene i dem a ripartire dai sindaci” Parla Federico Pizzarotti. Il primo cittadino di Parma, scaricato dal Movimento due anni fa: “Dall’Ilva alla Tav, passando per Tap e i condoni edilizi: gli elettori dei 5S hanno digerito di tutto”. Con la nuova destra che avanza in Italia e in Europa servono posizioni ferme, “immoderate” ma responsabili. Sulla Stampa a pagina 5.
Pd 1. I ponti con Casaleggio e Conte. Nei dem un piano per il governo. I trattativisti vanno avanti per l’intesa. Prodi dà il suo via libera (condizionato). Ma Calenda: così faccio un altro partito. Tommaso Labate sul Corriere. More
«L’accordo è che martedì, in Senato, Conte fa le sue comunicazioni e poi si reca direttamente al Quirinale per presentare le dimissioni. Avete presente le riunioni tattiche pre-partita? Ecco, la palla non deve più passare dai piedi di Salvini, le sue mosse vanno neutralizzate. Compresi l’eventuale ritiro della mozione di sfiducia e anche il disco verde al voto sul taglio dei parlamentari alla Camera, che non ci sarebbe più. Poi inizierebbero le danze, e ovviamente si ripartirebbe dal tentativo di Di Maio e Salvini di provare a fare un nuovo governo. A quel punto, noi dovremmo soltanto aspettare…». A denti strettissimi, e senza che nessuno lasci impronte, tra coloro che gestiscono la trattativa inizia a venire fuori il percorso concordato che può avere come punto di caduta — e in tempi non brevissimi — l’arrivo della nuova maggioranza con Pd e M5S. La scelta dei big Il posizionamento sulla scacchiera dei pezzi da novanta di entrambi gli schieramenti sarà completo questa mattina, quando la benedizione di Romano Prodi alla nuova fase — seppur subordinata a una serie di condizioni politiche — sarà messa nero su bianco. In questa partita, ciascuno ha un ruolo da svolgere, un copione da recitare, dei tempi da rispettare. Molte cose dette non corrisponderanno a quelle pensate ma nulla è lasciato al caso. Sul fronte Pd, il segretario Nicola Zingaretti rimarrà fermo sulla posizione del «siamo pronti a votare subito», incasserà dalla Direzione di mercoledì un mandato pieno a «andareavedere quello che succede» e nel frattempo si godrà lo spettacolo inedito di un centrosinistra ricompattato, anche generazionalmente. Tolta la contrarietà di Carlo Calenda («Accordo con il M5S? Fondo un nuovo partito»), l’unico big prudente rispetto alla nuova fase e convinto che si debba votare subito è rimasto Paolo Gentiloni. Gli altri sono tutti dalla stessa parte, interni al Pd e fuoriusciti, veterani e giovani leve, dalemiani e renziani. I distinguo sono ridotti all’osso. La «cabina di regia» del centrosinistra che tesse la tela coniM5S ha due interlocuzioni avanzate. Una è con Davide Casaleggio, sempre più convinto dell’idea di portare fino alla scritta «the end» il matrimonio politico con Matteo Salvini. L’altra è con Giuseppe Conte, che dentro il Pd considerano «l’uomo decisivo» per portare a compimento «il piano». Già, «il piano». Dall’esterno qualcuno potrebbe pensare a improbabili summit sulla scelta del futuro premier, a interminabili telefonate riservate sull’individuazione dei ministri. Invece nulla di tutto ciò. «È tutto prematuro», ripetono le persone vicine al dossier. Perché l’operazione vada in porto, è necessario «bruciare» l’insistenza a cercare un nuovo governo con Salvini, che più d’uno attribuisce a Luigi di Maio, E anche le retromarce di Salvini stesso. E si torna al punto di partenza, alla sceneggiatura di martedì mattina. Il segnale concordato sono le dimissioni di Conte, l’ipotesi che faccia le comunicazioni in Senato e poi si presenti immediatamente al Quirinale per rimettere il mandato. Le cautele Se tutto va come da copione, per i giorni successivi, dentro il Pd hanno già messo in conto una fase in cui Di Maio e Salvini proveranno assieme a rimettere in piedi i cocci della maggioranza gialloverde. «Proveranno a far ingoiare a Salvini qualsiasi cosa, a dare il sangue per mettere la firma sulla manovra che eviterà l’aumento dell’Iva. Il tutto in cambio della speranza di un nuovo governo con lui ancora dentro. Sarà uno spettacolo da vedere», sussurrano gli uomini-trattativa. Ecco, se l’ultimo tentativo di ritorno della maggioranza gialloverde sarà lasciato alle spalle, scatterà l’ora X del Pd-M5S. Allora, solo allora. E non un minuto prima.
Tommaso Labate sul Corriere a pagina 6.
Pd 2. Renzi scopre le sue carte: «Ecco di chi mi fido davvero». L’ex premier: «Un governo istituzionale per rientrare nella Ue. Rimpiango il senso dello Stato di Berlusconi». Tra Berlusconi e Salvini c’è un abisso. E il Cav ha una casa politica centrale. Il rischio di un’alleanza con il M5s è che la sinistra si grillinizzi. Intervista a Matteo renzi di Laura Cesaretti sul Giornale. More
Matteo Renzi, non è che la sua proposta di governo istituzionale produrrà il paradosso di far tornare Salvini a Canossa? «Questa è la crisi più pazza del mondo. E come andrà a finire non lo sa nessuno. Certo è che Salvini fino a una settimana fa era l’uomo invincibile osannato da media e social: adesso rincorre Di Maio per elemosinare la pace. Deve scegliere se perdere la poltrona o la faccia, e la prima opzione potrebbe essere troppo dura per lui. Le ultime settimane certificano comunque il suo fallimento come leader: ha sbagliato tutto, e chi sbaglia si dimette, se è persona d’onore. Invece Salvini ha intimato a noi senatori di “alzare il culo” e andare in Senato a votare: noi lo abbiamo alzato e lo abbiamo sconfitto. Tutti si aspettavano che, dopo un’estate in spiaggia tra mojito e cubiste, fosse a quel punto lui ad alzare le terga dalla poltrona del Viminale: invece vi si è inchiodato. Per dimettersi ci vuole dignità. E lui, purtroppo, non ne ha». Come si spiega questa allergia salviniana a mollare il Viminale? «Da un lato Salvini ha paura: delle inchieste sui 49 milioni, sui rubli, di altre indagini. Dall’altro, Salvini è passato dal 17 al 34% grazie all’uso sapiente della macchina pubblica: le strutture ministeriali sono piene di giovani della Lega, a cominciare dal team della propaganda guidato da Morisi. Se Salvini si dimette, perdono all’istante il posto di lavoro. E la macchina della Lega ha finito i soldi per pagarli». Lei intanto continua a perorare la causa di un governo coi grillini? «No: la causa del rispetto delle istituzioni e del bene degli italiani, se mai: votare a ottobre fa aumentare l’Iva al 25% e innesca la recessione. È una follia far pagare agli artigiani del nord o alle famiglie italiane le ambizioni o le paure russe di Salvini. Serve un governo istituzionale, che metta in sicurezza l’Italia e con un ministro degli Interni degno di questo nome». Ripeto: con quegli stessi grillini che continuano a insultarla? «Non me ne parli, neppure Berlusconi ha subito dai Cinque Stelle il trattamento riservato a me, ma ci sono momenti in cui le questioni personali devono stare in secondo piano. Se vuoi essere un uomo delle Istituzioni prima viene la voglia di dare una mano al Paese, poi quella di reagire agli insulti. A livello personale, mi mordo la lingua. Ma serve un governo per evitare il voto a ottobre e l’Iva, poi sta ai segretari dei partiti definirne la formula politica. Una cosa è chiara: per la Ue sarebbe un sollievo poter tornare a dialogare con l’Italia, che ora si è tagliata fuori. E senza l’Italia, con l’imminente Brexit, l’Europa diventa pericolosamente una questione a due tra Francia e Germania». Un governo aperto anche a Forza Italia? «Se devo basarmi sulle pessime parole della capogruppo Bernini in aula, Forza Italia è vittima della sindrome di Stoccolma verso Salvini. E tuttavia, anche se Fi si è tirata fuori dal governo istituzionale, convinta di poter avere qualche poltrona da un Capitano che non può garantirle neanche ai suoi, devo riconoscere che in quanto a rispetto delle istituzioni tra Berlusconi e Salvini c’è un abisso. Abbiamo sempre criticato Berlusconi su questi temi. Ma non avevamo ancora visto un Salvini che chiede pieni poteri, pretende la convocazione del Parlamento, attacca Paesi alleati, sottrae competenze a ministri o addirittura al Colle. In Ue è un appestato come Le Pen, mentre Berlusconi ha una casa politica centrale. Di fronte alla sguaiata schizofrenia di Salvini, il Cavaliere è un rassicurante uomo delle istituzioni. Ora si capisce che il “Capitano” era solo una costruzione mediatica di chi (dalla Rai a Mediaset a La7) gli ha consentito per anni di fare comizi senza contraddittorio». Ha rivalutato anche lei Conte, che ora bacchetta Salvini sui migranti? «No. Troppo facile cambiare idea quando va di moda. Era Conte o esiste un suo sosia che prima firmava i decreti Salvini e adesso firma le letterine? Detto ciò, sulla Open Arms ha fatto bene: tardi ma bene. La questione migratoria si affronta lavorando in e con l’Africa, non certo facendo gli show con tre barconi di disperati». Mettiamo che il governo si faccia. Spera di tornare a Palazzo Chigi e dintorni? «Non esiste. Se mai girerò per l’Italia e per l’Europa, incontrerò aziende e famiglie per spiegare, da ex premier, che la priorità è salvare il paese dalla recessione e che se Salvini non tocca palla l’Italia può riuscire a tornare in campo a Bruxelles. E vorrei riallacciare con il volontariato, colpito da una campagna di diffamazione senza precedenti. Anche quello cattolico, scandalizzato dalla strumentalizzazione della fede, dei rosari, della Madonna». Non teme che, alleandosi, un Pd dall’identità così fragile subisca la nefasta egemonia culturale grillista? «È il grande rischio di questa operazione: sarà la sinistra a costituzionalizzare M5s o M5s a grillizzare la sinistra? Dal giorno dopo, la questione nel Pd sarà questa. Io resto fiducioso, ma molto dipenderà dall’accordo di governo». E i renziani che parte faranno? «Faremo ciò che serve al Paese. Voteremo la fiducia, non chiederemo neppure uno strapuntino per noi e faremo proposte concrete per mettere in sicurezza l’Italia. Poi faremo il punto alla Leopolda dal 18 ottobre».
Matteo Renzi intervistato da Laura Cesaretti sul Giornale a pagina 7.
Pd 3. Zingaretti frena per non consegnarsi a Renzi. Mentre il Bullo rilascia interviste all’estero per accreditarsi come padre della patria il segretario Pd nicchia sul governo giallorosso: «Non ho contatti con il M5s». Pesano la minaccia di scissione di Calenda e i voti del Giglio magico: «Ci stacca la spina quando vuole». Luca Telese sulla Verità p.7. More
Zingaretti ora teme le giravolte di Renzi. Il Pd: fai tu il premier. L’ex segretario continua a controllare i gruppi parlamentari. Terrebbe in ostaggio il futuro governo e potrebbe farlo cadere.
Resta lo scetticismo su un’operazione ancora considerata «complicatissima». Calenda: Se il Pd dovesse fare un governo con i grillini sarebbe finito. Io fonderei un nuovo partito. Delrio: Ciò che serve tra M5S e Pd è un accordo alla tedesca, come Cdu e Spd: una cosa scritta. Il deputato del Pd renziano Andrea Romano sul premier: “Ha fatto il minimo sindacale. Sarebbe bizzarro un Conte bis. Per un governo con noi il M5S deve cambiare persone e linea politica”. Sulla Stampa a pagina 6.
Il Pd va in ordine sparso: Di Maio e Conte dividono Zingaretti irritato per le fughe in avanti dei suoi. I segnali di Renzi al vicepremier: “Nessun veto”. Le chiacchiere coi grillini per corrente. Il segretario Grillo l’ha indicato come controparte unica: lui aspetta che la crisi arrivi al Colle, ma vuole ricambio totale. Sul Fatto a pagina 3.
Nel Pd è scontro tra Renzi e Calenda. I 5S: “Non andiamo alle feste dem”. Seppur invitati Fico e i ministri pentastellati non ci saranno. L’ex premier rilancia il governo istituzionale. Su Repubblica a pagina 8.
Il fuoriuscente Calenda ci riprova: “Se ci alleiamo con i 5S me ne vado”. Deja vu. Più volte l’eurodeputato si è già detto pronto a uscire: ci ripenserà anche stavolta? Minacce: Ilva, primarie, alleanze: tutto è buono per la scissione.Sul Fatto a pagina 2.
La Verità intervista il sociologo Luca Ricolfi. «La capriola di Renzi batte ogni record di spregiudieatezza. Lo scandalo in questa situazione non è Mattarella ma il trasformismo del Pd. E Salvini mi sembra confuso». Sulla Verità a pagina 11.
Il Lodo Bologna e l’appello del sindaco al segretario Merola. “Basta aspettare. Con il Movimento va fatto un patto di legislatura”. Va bene seguire Mattarella ma a Zingaretti dico che non può essere il Capo dello Stato a decidere cosa farà il Pd. Su Repubblica a pagina 8.
Pd 4. Intervista a Pierferdinando Casini. «Nuova maggioranza? Chi votò von der Leyen. Giusto Conte all’Ue. Italia isolata per colpa di Salvini. La crisi nasce proprio da diverse visioni sull’Europa. La presidente della Commissione è stata scelta da M5S, Pd e FI». Sul Corriere a pagina 6. More
A Il primo terreno di verifica di una possibile, nuova maggioranza «deve essere l’Europa». Per uscire dal «pericoloso isolamento» nel quale l’Italia è finita anche grazie ad un ministro dell’Interno «disattento a quello che accadeva sull’immigrazione perché impegnato a fare campagna elettorale su quei temi», incauto perché «non si possono dire cose gravissime come “mi trovo meglio a Mosca che in altre capitali europee”», dalla parte sbagliata quando si è trattato di votare per la presidente della Commissione europea von der Leyen, cercando «un fronte sovranista che l’ha tradito, visto che anche i polacchi eOrban si sono schierati con lei». Per questo secondo Pier Ferdinando Casini oggi una nuova maggioranza potrebbe nascere dalla convergenza tra le forze che hanno sostenuto la Von der Leyen: Pd, M5S e perfino Forza Italia. L’Europa è il faro? «È essenziale, sia per le politiche sull’immigrazione che per quelle economiche. Oggi siamo ininfluenti, la Spagna ci ha sostituito nel rapporto con Germania e Francia. E la crisi politica nasce proprio per diverse visioni sull’Europa, non certo sulla Tav». Molti temono un governo di corto respiro. «Certo, un governicchio di tre mesi aiuterebbe solo Salvini e non il Paese. L’orizzonte deve essere di lunga durata. Io che pure ho perplessità sulla linea di Zingaretti per una certa accondiscendenza alla deriva pro-voto di Salvini, gli do ragione quando dice “o un governo serio, o il voto”». FI sembra su ben altre posizioni. «Ed è inspiegabile come a livello europeo scelgono di essere punto di riferimento del Ppe e poi — a parte alcuni come Brunetta e Carfagna — fanno discorsi più populisti di quelli di Salvini. E invece avrebbero la possibilità di sedersi a un tavolo di convergenza nazionale ed europea». Chi però sembra avere la palla è il M5S. «Io tutte queste possibilità non le vedo. Tornare con la Lega sarebbe una catastrofe assoluta. Sono in una fase delicata, non c’è dubbio, ma la via del governo politico è sempre la più forte. Chiaro che è una operazione difficilissima quella di un governo col centrosinistra, e per percorrerla non sono accettabili veti. Anche io, che non sono un fan di Di Maio, non direi mai che deve restare fuori da un governo. Anzi, dentro ci vorrei pure Zingaretti». Possibile? «Ricordo che quando nel giorno del suo rapimento stava nascendo il governo di unità nazionale, il Pci non voleva ne facessero parte Donat Cattin e Bisaglia. Ma Moro disse: “i moderati devono stare dentro per evitare operazioni squilibrate”. Oggi è lo stesso». E il premier Conte? «Ha cercato di limitare i danni per mesi. Le scelte spettano al capo dello Stato, ma se andasse a fare il commissario europeo la troverei una cosa intelligente e giusta».
Pierferdinando Casini intervistato da Paola de Caro sul Corriere a pagina 6.
Leu. De Petris. “No ai giochi tattici L’orizzonte è la legislatura». Sulla Stampa a pagina 6.
Centrodestra. L’altolà degli azzurri a un bis Carroccio-M5s: «No a marce indietro». La capogruppo Gelmini invita Salvini alla coerenza: «Prima si torna al voto, meglio è». Sul Giornale a pagina 6. More
“Salvini desaparecido e inaffidabile” I sospetti degli alleati di centrodestra Telefonate dai berlusconiani a Giorgetti che ammette: non lo sento da giorni. Meloni delusa
Berlusconi era calato a Roma con un giorno di anticipo per il vertice, poi annullato
Stampa p.7
La crisi ha azzerato tutto. Al centro della politica non va il Papeete Beach, ma un Parlamento come il 4 marzo 2018
RENATO BRUNETTA L’ex ministro di Forza Italia attacca la Lega ed è per soluzioni parlamentari “Strategia da masochista irresponsabile Sì a un governo sostenuto da tutti i partiti”
Stampa p.7
Fango social. Matteo Salvini in Rete come Renzi. Premiata la metamorfosi di Conte. Il vicepremier sale, ma aumentano anche i detrattori. Il premier è “più gradito” se è da solo. Cresce l’opposizione al leghista, come accaduto anche all’ex segretario dem”. Tra gennaio e febbraio il presidente del Consiglio ha superato il ministro (Fatto p.4). More
Virginia della Sala sul Fatto a pagina 4
Il premier supera il milione di follower (Corriere p.5).
Il fango social contro le Ong. Tornata attiva da agosto una rete di account e influencer che rilancia l’accusa di accordi tra navi umanitarie e scafisti (Repubblica p.4).
Andrea Palladino su Repubblica a pagina 4
Onore alla Littizzetto che spaventa la Bestia. Salvini dà il via agli insulti (Repubblica p.4).
Michela Murgia su Repubblica a pagina 4
Scontro su twitter tra Salvini e Saviano «I 134 migranti a bordo della Open Arms, dopo essere stati ostaggio dei banditi libici, ora lo sono del bandito politico Matteo Salvini, il Ministro Della Mala Vita. Ma il destino di Salvini è il carcere, e questo lo sta capendo anche lui; basterà che si spengano le luci». Così lo scrittore Roberto Saviano su twitter. La replica del vicepremier: «Il signor Saviano mi vuole vedere in galera. Che faccio amici, gli do retta e mi dimetto o tengo duro?» (Repubbloca p.4).
Gli stranieri in fabbrica coperti d’insulti sui social.
San Miniato (Pisa) Soltanto migranti al corso per le concerie, a uno gli operai regalano anche una bici: l’odio dilaga sul web. “Assumono loro invece degli italiani”. Ma la formazione era per tutti e i locali non sono andati.
Giacomo Salvini sul Fatto a pagina 16
Bell’Italia. «Italia senza localizzazione delle chiamate d’emergenza». More
Corriere p.16. Sabbia, conchiglie e teschi di delfino L’assalto dei predoni delle spiagge Boom di sequestri negli aeroporti della Sardegna. E c’è chi si pente del furto dopo 40 anni. Due turisti sorpresi con 40 kg di sabbia. Stampa p.15. Pregiudicati tra i portatori Parroco annulla la processione. Stampa p.18.
Terremoto senza ricostruzione. Dopo 3 anni, 50 mila privi di case Scocca l’anniversario del sisma in Italia centrale: cantieri bloccati e crollo della popolazione In alloggi di emergenza gli sfollati costretti a vivere tra pavimenti ammuffiti e boiler rotti. Sulla Stampa.
Amatrice, tre anni dal sisma E la ricostruzione non arriva `Il 24 agosto 2016 la forte scossa che devastò la zona al confine tra Lazio, Abruzzo e Marche `In pochi hanno fatto domanda per i rifacimenti Veglia e fiaccolata in ricordo delle numerose vittime. Sul Messaggero a pagina 14.
Bibbiano, le due indagate ridevano del maresciallo «Anche lui ha dei figli…» `Le psicologhe intercettate ipotizzavano minacce a un carabiniere «Se vedono le rette pagate per gli affidi, poi si fanno due domande»
Messaggero p.12
La frase sul militare che indaga sugli affidi: «Anche lui ha figli…». Bibbiano, le terapeute intercettate.
Corriere p.17
Rimini diventa un test sui tormenti dei cattolici nell’era delsovranismo Ong e Terzo settore sotto attaccoma tanti votanoLega
Meeting
Rimini diventa un test sui tormenti dei cattolici nell’era del sovranismo Ong e Terzo settore sotto attacco ma tanti votano Lega
Dario di Vico sul Corriere a pagina 9.
1 editoriali
IL FUTURO VA COSTRUITO PUNTANDO SUI GIOVANI
Alessandro Rosina sul Sole in prima e a pagina 8
ECONOMIA
1 iva
Iva, la cambiale in scadenza
Dal 2011si discute delle clausole di salvaguardia, ma quest’anno gli aumenti possono scattare davvero
Corriere p.33
Alessandro Puato sul Corriere a pagina 33
L’aumento dell’Iva una minaccia ignorata da tutti
Ferruccio de Bortoli sul Corriere in prima
ALZARE L’IVA NON È IL MALE PEGGIORE STEFANO LEPRI
Stefano Lepri sulla Stampa a pagina 23
1 scenari
Scenari geopolitici. I focolai di crisi. La situazione più pericolosa, perché potenzialmente sistemica, è legata allo scontro commerciale Washington-Pechino e ha già avuto effetti pesanti su alcune economie europee, a partire dalla Germania.
Dazi, Brexit, Iran e Hong Kong I quattro rischi che minano la stabilità globale
Attilio Geroni sul Sole a pagina 6
La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti che rischia di degenerare in guerra valutaria
Riccardo Sorrentino sul Sole a pagina 6
Con una hard Brexit 1,2 milioni di posti di lavoro in meno
Roberta Miraglia sul Sole a pagina 7
Cina e Russia, senza risposta le richieste di più democrazia
Ugo Tramballi sul Sole a pagina 7
Usa-Iran, dal cambio di regime al pericolo di conflitto regionale
Marco Valsania sul Sole a pagina 7
“La bolla delle azioni porterà presto a una nuova recessione”
Emiliano Brancaccio ”La politica monetaria ha esaurito il suo potenziale di espansione”, avverte il professore di Politica economica
Il mercato finanziario Usa è stato inondato di liquidità destinata al settore privato Meccanismo vecchio che è stato esasperato
Salvatore cannavò sul Fatto a pagina 15
2 mutui e tassi
Mutui, tassi ai minimi ma crollano le domande Trend negativo.Meno nuovi contratti nel 2019, calo record a giugno (11,9%) Pesa la prudenza delle famiglie
I micro-tassi non bastano più Per i mutui si aggrava la gelata Il paradosso. Aumenta il calo della domanda nonostante interessi a livelli mai così convenienti sia per il variabile sia per il fisso. Tre i fattori: meno surroghe, incertezza politica, salari più bassi
Sole p.3
Mercati, corsa a ridurre i tassi Il vertice dei banchieri centrali TrentaPaesihannogiàtagliato.Strategieanti-recessionealsummitdiJacksonHole
Corriere p.30
Decreti attuativi
Riforme, da Letta a Conte 349 decreti attuativi in attesa Rating 24. Gli 11 provvedimenti varati dall’attuale esecutivo richiedono 290 norme applicative Di queste, solo 70 (pari al 24,1%) sono arrivate al traguardo. Ne mancano 220 e 81 sono già scadute
Sole p.4
3 Parmalat del mare
La Parmalat del mare a 7 anni dal crac In tredicimila a caccia dei risarcimenti L’ira dei risparmiatori dopo la condanna in Cassazione degli armatori Deiulemar: ridateci i soldi
800 I milioni spariti È l’investimento totale dei 13mila obbligazionisti
3,5% La quota di risarcimenti ricevuti dai truffati
A inizio luglio, dopo 7 anni di una vicenda giudiziaria intricata, la Cassazione ha confermato le condanne ai cinque armatori – ribattezzati «Deiulemariuoli» dalle persone truffate – ma ha chiesto la rimodulazione delle pene alla corte d’Appello di Roma. I risparmiatori, però, stanno ancora aspettando i risarcimenti. Finora hanno recuperato una cifra irrisoria, equivalente al 3,5%, in attesa che i beni sequestrati della Deiulemar vengano messi all’asta dai curatori fallimentari. La speranza è quella di ritrovare all’estero il «tesoro» della Deiulemar. Entro fine luglio dovrebbero arrivare altri 12 milioni da dividere tra oltre 13 mila persone. All’appello mancano ancora 770 milioni di euro. —
Stampa p.13
4 quota 100
Quota 100 non crea lavoro rimpiazzati solo tre su dieci
POCHE AZIENDE PRONTE AD ALLARGARE GLI ORGANICI CRESCE IL TIMORE DI PERDERE COMPETENZE IMPORTANTI
SPESI FINO AD ORA CIRCA 4 MILIARDI I CONCORSI FERMI NELLA PA NON AGEVOLANO IL TURN OVER
Mesasggero p.9
Pa,aumentano iprecari Viaiprimi11mila conQuota100 T re milioni e trecentomila. Di cui 340 mila (l’11,2%) precari, soprattutto nella sanità e nella scuola, un aumento dell’8,8% sul 2016. Sono i lavoratori della Pubblica amministrazione secondo i calcoli della Ragioneria dello Stato aggiornati al 2017. La spesa annua sostenuta per loro è pari a 160 miliardi, ma è scesa di 12 miliardi rispetto al picco del 2009. Nella scuola e negli enti locali le retribuzioni più basse, tra i 28 mila ei 30 mila euro, quando la media pro capite è pari a 34.491 euro. Sale a oltre 91 mila per le autorità indipendenti, a 137.294 per il personale non contrattualizzato, come i magistrati. Intanto, sono 11 mila i primi lavoratori della Pa andati in pensione in agosto con Quota 100, ma il grande «esodo» è previsto in settembre soprattutto con l’uscita di migliaia di insegnanti.
Corriere p.30
Fuga dal pubblico impiego già 11 mila via con Quota 100 Sindacati: rischio paralisi
Ad agosto si è aperta la prima finestra per i prepensionamenti Assunzioni bloccate Ed è precario un lavoratore su dieci
Repubblica p.31
5 Open for business
Acciaierie ai turchi, la Gran Bretagna è «open for business». La seconda acciaieria del Regno Unito, la British Steel, in forte crisi e attualmente in amministrazione controllata (Brexit il colpo di grazia), verrà salvata dal fallimento dal fondo pensione delle forze armate. Quelle turche, però.
Corriere p.28
Il motto, ammirevole nel suo pragmatismo, è «open for business»: l’essere disposti a fare affari senza particolari tabù è una caratteristica storica degli inglesi, dalle guerre dell’oppio ottocentesche contro la Cina allo smantellamento dello Stato industriale ai tempi di Lady Thatcher. Succede a tutti i livelli — le ville nobiliari di campagna, spesso in stato di conservazione non brillantissimo, vengono regolarmente affittate per eventi aziendali e matrimoni, tendenza che coinvolge serenamente anche la famiglia reale. Ma certo può fare impressione la notizia di ieri: la seconda acciaieria del Regno Unito, la British Steel, in forte crisi (Brexit il colpo di grazia) e attualmente in amministrazione controllata, verrà salvata dal fallimento dal fondo pensione delle forze armate. Quelle turche, però. Dopo che il governo Tory ha rifiutato il coinvolgimento nel salvataggio dell’azienda che dà lavoro a 5.000 persone, come potenziale acquirente più credibile è emerso il nome di Ataer, braccio finanziario del fondo pensione militare turco Oyak. I turchi sono ora «preferred bidder», acquirente preferito, e l’acquisizione verrà finalizzata entro l’anno. Alle acciaierie di Scunthorpe e Teesside (dove lavorano 3.000 e 800 operai, rispettivamente) i sindacati paiono meno angosciati dopo tre mesi di limbo, anche se non ci sono garanzie sul futuro assetto operativo dell’azienda una volta che subentrerà il nuovo management. E il governo conservatore, generalmente attentissimo a criticare l’influenza straniera quando si tratta dei partner Ue? Dopo aver rifiutato il bailout, ora gioisce attraverso Andrea Leadsom, sottosegretaria per l’Energia: «Un passo importante verso un futuro moderno e sostenibile». Nessun commento sulla nazionalità dell’acquirente. Ataer controlla una quota vicina al 50% di Erdemir, azienda leader della siderurgia turca (11.530 dipendenti), e già adesso Ataer è al terzo posto tra i più grandi produttori d’acciaio d’Europa.
Matteo Persivale sul Corriere a pagina 28.
6 sogin
Scorienucleari,lapartitaSogin Finoraècostataquattromiliardi Perilrinnovo dei verticisei tentativi a vuoto, appuntamento all’assemblea del 4 settembre
Corriere p.31
7 deliveroo germania
ma il gigante delle consegne a domicilio si espande in italia Choc in Germania, Deliveroo se ne va E più di mille rider restano senza lavoro
Stmap p.21
8 artigiani
«In 6 mesi perse 6.500 aziende artigiane»
Il rallentamento economico colpisce duramente anche le imprese artigiane. Secondo la Cgia di Mestre sono 6.500 le aziende che nel primo semestre hanno chiuso i battenti. Tra i fattori alla base di questa contrazione ci sono lo spettro dell’aumento dell’Iva, il calo dei consumi, il carico fiscale, le difficoltà di accesso al credito. Il saldo tra nuove aperture e chiusureèstato negativo in tutte le regioni italiane salvo che nel Trentino-Alto Adige. I risultati più negativi si sono registrati in Emilia-Romagna (-761), in Sicilia (-700) e in Veneto (-629). Secondo la Cgia la moria delle aziende artigiane si protrae ormai da 10 anni. Tra il 2009 e il 2018, infatti, il numero complessivo delle imprese costrette a chiudere è stato di quasi 165.600 unità. È il Mezzogiorno la macro area in cui la contrazione del numero delle imprese è stata maggiore. «Oltre agli effetti economici e occupazionali, la riduzione del numero delle attività artigiane e in generale dei negozi di vicinato ha provocato ricadute sociali altrettanto significative», sottolinea il coordinatore della Cgia Paolo Zabeo. «Con meno botteghe, si assiste a una desertificazione dei centri storici e delle periferie urbane delle città e dei piccoli paesi»
Corriere p.33
La strage delle imprese In 6 mesi addio a 6.500 La Cgia: «In 10 anni perse 165mila attività Più colpite l’Emilia, la Sicilia e il Veneto»
Giornale p.8
9 boletta a 28 giorni
Bolletta a 28 giorni “Rimborso automatico o subito nuove multe” L’Autorità Tlc minaccia sanzioni fino a 5 milioni per Fastweb, Tim, Vodafone e WindTre. “Ridate i soldi anche al cliente che non li chiede”
Aldo Fiontanarosa su Repubblica a pagina 30
10 agcom
Contestazione dell’Agcom E sugli aiuti ai produttori tv il governo è “sovranista”
Richiamo formale per il decreto su cinema e settore audiovisivo: “Sostiene l’Italia, penalizza l’Ue”
Repubblica p.30
10 affitti
LA RICERCA BANKITALIA Abitazioni, i prezzi degli affitti crescono più degli acquisti
A SORPRESA uno studio della Banca d’Italia rileva come il mercato delle locazioni sia più vivace di quello delle compravendite. È così che i prezzi sono aumentati nel 2018 del 3,3% e del 2,2% a parità di caratteristiche dell’immobile. Posto che l’abitazione tipo è un appartamento di 80 metri quadrati, nelle vicinanze del centro e già arredato, con un solo bagno, niente giardino e garage, riscaldamento automatico, per lo più situato a un piano basso. Fin qui la media nazionale, diverso il discorso se si guarda ai singoli capoluoghi. Di forte rialzo si parla per Bologna, Firenze e Milano, mentre negli ultimi tre anni a Roma e Genova si registrano addirittura dei ribassi. Almeno questo è quello che viene offerto online, stando alle inserzioni che compaiono sulla banca dati del portale web i m m o b i l i a re . i t . . Un mercato che “ha una dimensione rilevante”, sottolinea la ricerca condotta dall’economista Michele Loberto, del dipartimento dipartimento economia e statistica di Palazzo Koch. Infatti, il 20% opta per la pigione, quota che sale al 38% per le famiglie giovani e al 46% per i meno abbienti, ricorda la Banca d’Italia.
Fatto p.11
ESTERI
1 Regeni
Silenzi e omissioni così il caso Regeni è stato dimenticato La lettera al premier Conte e gli appelli dei genitori non sono serviti Il governo italiano tace: e gli scambi commerciali con l’Egitto aumentano
Giuliano Foschini su Repubblica a pagina 17
La beffa dell’Onu: “Conferenza contro la tortura al Cairo”
Rabbia delle Ong per la scelta di un Paese nel mirino per l’uso di violenza e omicidi mirati
Repubblica p.17
1 Hong Kong
La battaglia dei cortei a Hong Kong I professori sfidano gli attivisti filo cinesi Parate senza lacrimogeni e scontri per la prima volta dal 9 giugno. Oggi nuova manifestazione
Decine di migliaia hanno giurato fedeltà alla Cina sventolando bandiere rosse
Una famiglia si riunisce a tavola di ritorno dai cortei in centro Il nonno è scappato dagli orrori di Mao, la nipote è in prima linea Le tre generazioni al sit-in “Conosciamo il comunismo”
Stampa p.8
SE HONG KONG GUARDA A OCCIDENTE
Maurizio Molinari sulla Stampa in prima
“Io sto con la polizia di Hong Kong” La star Disney delude la protesta Liu Yifei, americana di origini cinesi, interpreta l’eroina della libertà Mulan nel kolossal in uscita Si è schierata con le forze dell’ordine e sfida i fan: “Ora colpitemi pure”. Già partito il boicottaggio
Il remake del cartone animato, in uscita a marzo, è costato 350 milioni di dollari. Il mercato cinese è ormai il secondo al mondo
Repubblica p.14
2 petroliera
Sequestro Usa per la petroliera ferma a Gibilterra
L’accusa: violate norme su riciclaggio e terrorismo Colpo a Teheran
Stampa p.11
Gibilterra «rilascia» la petroliera iraniana. Ma gli Usa chiedono un nuovo sequestro.
Corriere a pagina 10
Un contrasto che lega due «porte» strategiche. Gibilterra e Hormuz. Il Dipartimento della Giustizia Usa ha emesso una richiesta di blocco per la Grace 1, petroliera con un carico di greggio iraniano destinato alla Siria. La nave, fermata il 4 luglio dai marines britannici a Gibilterra per la violazione dell’embargo contro il regime di Assad, ha ottenuto il via libera dalle autorità locali. Decisione che potrebbe portare al rilascio di un’unità inglese sequestrata per rappresaglia da Teheran. Una soluzione raggiunta grazie a un impegno: il greggio non sarà consegnato ai clienti siriani. Ma Washington non ha gradito. Non vuole allentare la pressione sull’avversario e ha ribadito le accuse di contrabbando. Si vedrà. Ufficialmente la petroliera può riprendere il viaggio, ma deve aspettare un nuovo equipaggio. Uno o due giorni: tempi tecnici che permetteranno di manovrare. Guido Olimpio
3 afganistam
Il figlio del «Leone» torna a casa E cerca alleati contro i talebani «Èilpredestinato»aguidaregli afghani, come ilpadreMassud.Studi all’estero,ora è pronto
Andrea Nicastro sul Corriere a pagina 10
4 Epstein
Nude nelle vasche nei sotterranei Ecco le ragazzine vittime di Epstein Sul web le foto delle stanze della villa del milionario Il giallo dell’incontro con Fidel Castro a Cuba nel 2003
In carcere il finanziere pagava i detenuti per ingraziarseli ed evitare vessazioni
Stampa p.11
Legali e soldi, cosìEpstein provò a lasciare la sua cella
Corriere p.16
5 Kashmir
Mossa sovranista sul Kashmir. Il mondo soffre della stessa malattia. Il premier Modi si batte da tempo perché il Subcontinente appartenga solo agli induisti.
Sergio Romano sul Corriere a pagina 11.
6 Somalia
La Somalia in mano agli shabaab i terroristi che diventano mafiosi. Gli alleati di al Qaeda che sognano di instaurare la Sharia. Emersi nel 2006 dopo la sconfitta dell’Unione delle Corti Islamiche da parte del Governo Federale di Transizione, gli al-Shabaab, «i Giovani», sono il gruppo islamista più potente e attivo in Somalia. Dal 2012 sono formalmente riconosciuti come cellula locale di al-Qaeda.
I guerriglieri sono cambiati: controllano il territorio, sperando in un’intesa con l’Occidente. Nonostante bombe e racket Mogadiscio vuole rinascere: “Serve qualcuno che creda in noi”. 1.392 Sono le vittime totali degli attentati di al-Shabaab dal 2015 in Somalia e Kenya. Nella capitale torna la vita: davanti al mare i giovani riempono i bar e i bimbi giocano. “Qui ha investito solo la Turchia, ma per sconfiggere il terrore serve sviluppo”. 9000 Sono i membri di al-Shabaab secondo una stima fatta dalla Bbc
Domenico Quirico sulla Stampa p.9
7 Trump
La svolta di Trump: sì ai licenziamenti dei dipendenti che cambiano sesso
Messaggero p.11
Trump: i giudici legalizzino il licenziamento dei transgender
Stampa p.18
8 russia
Incidente nucleare I medici: i feriti erano radioattivi
Stampa p.19
9 Indonesia
Ilmuronell’Oceano nonsalvaGiacarta: lacapitalesprofonderà Sovraffollata, è già in parte sotto il livello del mare Il presidente propone di «spostarla» nel Borneo
Paolo Salom sul Corriere a pagina 11
Giacarta affonda e il presidente sposta la capitale
Raimondo Bultrini su Repubblica a pagina 14
10 Sudan
Intesa storica tra militari e opposizione
Corriere p.11
La scommessa del nuovo Sudan
L’accordo fra civili e militari siglato ieri a Khartoum segna la fine della rivoluzione e l’avvio di una nuova fase di governo comune Un fatto senza precedenti in tutta la regione
La voglia di vendetta per le vittime della rivolta non è spenta: ma vince la speranza
Un economista ex Fmi per far ripartire il Paese.
Abdalla Hamdok è il premier designato: a lui la sfida delle riforme economiche e sociali
Hamdok è stato nominato dalle Forze del cambiamento e della libertà: la nomina è al vaglio del Consiglio sovrano che gestisce la transizione: subito dopo entrerà in carica
Antionelal Napoli su Repubblica a pagina 12
Repubblica p.12
Groelandia
Intervista a Robert Peroni, l’esploratore che vive tra gli inuit: “Giù le mani dalla Groenlandia”
Trump vuole comprarla dalla Danimarca? Sarebbe un disastro. Qui nessuno lo prende sul serio, ma una minaccia c’è e riguarda il Pianeta
Questi ghiacciai sono fondamentali Con nuovi scavi e sfruttamento del mare la catastrofe è dietro l’angolo I primi a pagare sono quelli che vivono qui
Cristina Nadotti su Repubblica a pagina 15
10 Sudan
10 Argentina
Argentina, spettro default con il doppio «downgrade» A ncora giorni bui per l’Argentina. Dopo la crisi del mercato azionario, crollato del 30% in meno di due settimane e una svalutazione del peso di circa un terzo da inizio anno, arrivano a rendere più fosche le prospettive del Paese i «downgrade» di due delle principali agenzie di rating Fitch e Standard&Poor’s. Fitch ha declassato il rischio sovrano di Buenos Aires da B a tripla C, un gradino prima del «default» (D). S&P ha invece ridotto il suo rating da B a B-. «La forte turbolenza del mercato finanziario, con un netto deprezzamento del peso e un aumento dei tassi di interesse ha notevolmente indebolito il profilo finanziario già vulnerabile del Paese », ha sottolineato S&P. L’Argentina è in recessione e nei primi sei mesi del 2019 l’inflazione ha raggiungo il 22%.
Corriere p.30
Caparrós“Gli argentini non hanno più paura di tornare al peronismo”
L’analisi spietata dello scrittore e giornalista, autore di “Fame”, sul totale fallimento del presidente Macri e sullo scenario pieno di incognite che si apre per il Paese sudamericano
Il presidente ha sbagliato sui temi economici: inflazione record, perdita di posti di lavoro, povertà al livello più alto
Non condivido le idee di Fernández perché fa discorsi di sinistra ma politiche diverse. Ma non credo ci sia il rischio di un governo autoritario
Gabriella Colarusso su Repubblica a pagina 16.
C
10 Artexit
Opere in fuga dal Regno Unito: le gallerie pronte all’«Artexit». Il divorzio dall’Ue alzerà i dazi: collezionisti espatriano, musei anticipano mostre.
Matteo Persivale sul Corriere a pagina 13
GIUSTIZIA
1
2
3
4 genio cancro
Parla Marco Ruella, l’unico medico italiano tra gli oltre 200 ricercatori sulla più innovativa terapia dei tumori del sangue “Per lavorare con il genio anti-cancro ho lasciato Torino destinazione Usa”
Stampa p.14
5 vulcani
«Io, signora dei vulcani Da sei anni in Islanda su un’isola che ne ha 500» Sara Barsotti guida il team che studia i rischi delle eruzioni
Corriere p.19
6 editoria
«L’editoria eramachista Mondadorimidiceva: tidiverti a fare libretti?»
Corriere p.23
E nel 1992 Milano voleva farla sindaca
Corriere p.23
Gimondi
Papà, ti scrivo come facevo quando partivi per il Giro.
Corriere p.41
Vivere alla Gimondi
È stato il simbolo di quelli che non si arrendono mai Anche quando il “nemico” si dimostra più forte
Maurizio Crosetti su Repubblica a pagina 34
Mario Salvarani “A colazione Felice mi disse: il Tour lo vinco”
Cosimo Cito su Repubblica a pagina 45
7 big data
L’algoritmo in cattedra Exploit delle lauree per capire i big data In campo umanistico va forte la linguistica. Bene l’enogastronomia e i corsi di riabilitazione, sempre più utili in un Paese che invecchia
Repubblica pagina 19
8 Germania ezio mauro
L’ultima grande fuga dalla Ddr Fin dal 1961 centinaia di berlinesi tentavano di saltare il Muro a costo della vita. Ma nel 1989 iniziano a consegnarsi all’ambasciata della Germania Ovest. Per Honecker e la Cortina è l’inizio della fine
Ezio Mauro su Repubblica a pagina 36
La parola magica è plusvalenza
Campioni a rate e scambi Il calciomercato è truccato
Lorenzo Vendemmiati sul Fatto a pagina 17
Natalia Aspesi archibugi
Archibugi e le sue famiglie “Bugie e segreti” La regista fuori concorso alla Mostra di Venezia “È il nucleo da cui si fugge e a cui si torna”
Natalia Aspesi su Repubblica a pagina 40
9 guardalinenen
Nicolosi “Ho messo all’angolo anche il capitano dei Reds”
Matteo Pinci su Repubblica a pagona 43
10
Retromarcia su Roma. Salvini in difficoltà tenta di non far morire il governo gialloverde e non far nascere quello giallorosso. La Bce riarma il bazooka. La Open Arms è sempre al largo di Lampedusa, ma è intervenuta la magistratura con l’accusa si sequestro di persona. È morto Felice Gimondi, ultimo mito del ciclismo epico. Funerali per Nadia Toffa – ieri – e per Diabolix – prossimi giorni – al Divino Amore. Ma solo per cento persone. La mamma incinta che stava andando all’ospedale a partorire e fatta scendere dall’autobus perché senza biglietto ce l’ha fatta lo stesso. Mentre andare in giro a torso nudo ad Agropoli costa 250 euro. Trump vuole comprare la Groelandia. Ma la Danimarca non vende.













Retromarcia su Roma. Salvini in panne: ritrattare o rischiare l’opposizione? Martedì la decisione: in Senato Conte chiederà la fiducia Lega in subbuglio. Tra Matteo e Giorgetti nessun contatto. Inversione dei ruoli tra i quasi ex alleati: adesso sono i 5 Stelle a dettare la linea. In pochi giorni gli equilibri si sono capovolti. E Matteo gioca in difesa.
I titoli More
Salvini apre e congela la sfiducia. Il M5S frena ma tratta su due tavoli. Le difficoltà sulla via del voto e i rischi di un’intesa Pd-M5S spingono il leader leghista a tentare una distensione (Sole p.5).
Retromarcia su Roma. Salvini in panne: ritrattare o rischiare l’opposizione? Martedì la decisione: in Senato Conte chiederà la fiducia Lega in subbuglio. Tra Matteo e Giorgetti nessun contatto. Inversione dei ruoli tra i quasi ex alleati: adesso sono i 5 Stelle a dettare la linea. In pochi giorni gli equilibri si sono capovolti. E Matteo gioca in difesa (Giornale p.3).
Prove di pace con i 5Stelle. Le ipotesi di un Conte bis o di un governo guidato da Di Maio. Il leader della Lega teme l’accordo tra grillini e Pd e congela la sfiducia al premier: “Pronti a votare il taglio dei parlamentari”. Ma Giorgetti è contrario a rinnovare l’intesa (Repubblica p.2).
Salvini s’è pentito e propone premier Di Maio. Che dice no. D’incanto il Carroccio non è più tanto sicuro di volere la crisi: “Sfiducia a Conte? Non è detto”. M5S gioca d’attesa: “Vediamo che succede in Parlamento… (Fatto p.2).
Lega spiazzata dal leader. «No alla retromarcia». Ma la sfiducia è congelata (Messaggero p.4).
Il capitano nel pantano. Salvini va a Canossa, Di Maio lo snobba. L’ira dei colonnelli lumbàrd: “Matteo, ora un governo Giorgetti o Casellati” (Foglio in prima).
Salvini, che errore fidarsi degli arci-nemici Pd e grillini. Vicepremier gabbato: Renzi gli aveva garantito che si sarebbe votato, Zingaretti ha mandato avanti Prodi, Grillo ha aperto alla sinistra e Conte ha fatto melina (Libero p.2).
Gli errori di Matteo. I dieci passi falsi di Matteo: tempi, peso delle Camere e regali agli avversari. Mario Ajello sul Messaggero. More
Lei non può immaginare quanto io non sia irremovibile nelle mie idee». Se Matteo Salvini parlasse con le battute di Ennio Flaiano, potrebbe dire questo di se stesso. La girandola delle parole – dal voglio «pieni poteri» a «il mio telefono è sempre acceso» – è il corrispettivo dei passi falsi del Cosiddetto Capitano, che sono 10. E hanno portato per ora a questo: il capo leghista è senza governo e senza elezioni. Magari è tutto recuperabile, ma i 10 sbagli sono un macigno non facile da smaltire e che complica, non solo per Salvini, l’andamento della crisi.
IL RUOLO DELLE CAMERE Il vicepremier ha sottovalutato la funzione del Parlamento in un Repubblica parlamentare. Dove in ultima istanza tocca all’aula – e in quella del Senato il fino ad allora invincibile Matteo è stato sconfitto sul calendario – esprimersi. A riprova che non è vero che il governo opprime e sopprime il ruolo del Parlamento.
LA FORZA DEL BOSTIK Non ha valutato fino in fondo Salvini quanto sia estrema e disperata la voglia di deputati e senatori di non andare a casa. Eppure, proprio lui ha usato l’immagine del bostik, l’altro giorno nel discorso a PalazzoMadama, e avrebbe dovuto sapere che la super-colla non si squaglia di fronte a chi con il 17 per cento dei voti (il 37 il Carroccio lo ha solo nei sondaggi) vorrebbe che l’83 per cento del Parlamento si auto-eliminasse.
LO SBAGLIO DEL CUNCTATOR Non ha sfruttato la disponibilità del presidente Mattarella a dare le elezioni nel momento in cui le avrebbe probabilmente ottenute. Ossia nei tempi utili a mettere a riparo la manovra economica. Non ha calcolato Salvini, nel suo temporeggiare, che ci sarebbe stato l’imbuto d’autunno. E la sovrapposizione tra legge di bilancio e urne è diventata l’arma politica di tutti gli altri per incartare Matteo che ha fatto il cunctator.
EURO-MIOPIA E’ mancato un esame attento, quello che forse avrebbe dovuto consigliare prudenza, sul cambiamento della fisionomia di Conte. Il quale ha saputo inserirsi nel gioco europeo, entrando nella partita sull’elezione della presidente von der Leyen, e così si è rafforzato.
IL CALCOLO MANCATO SUI DEM Ha creduto che il Pd fosse solo Zingaretti. E non ha calcolato che Renzi potesse infilarsi nella partita e proporsi come uno sparigliatore pericoloso. Insomma, oltre a Berlusconi che ora pretende da lui 50 posti sicuri in lista e 4 ministri se mai si farà il governo di centrodestra, Salvini ha resuscitato l’altro Matteo. Il capo leghista aveva o immaginava di avere un accordo con il segretario del Pd per votare, Renzi ha scombinato i piani e Salvini è rimasto di sasso. Prendendosi anche le critiche di Giorgia Meloni.
L’ANTIPASTO SNOBBATO Poteva prevedere, prima di scatenare l’affondo, che sarebbe scattato il patto tra Pd e Cinque stelle, in quanto era stato anticipato e diventato operativo tra a Strasburgo e Bruxelles con il voto congiunto per la van der Leyen. L’«inciucio» dei grillini con il progressismo e il popolarismo europeisti e con quelli che il Carroccio considera i «poteri forti della tecnocrazia» continentale è una delle ragioni che ha spinto Salvini allo spericolato strappo con Conte. Precludendosi tra l’altro la possibilità di far diventare un leghista commissario Ue.
I REGALI NON SI FANNO Matteo ha resuscitato i Cinque stelle (e gli ha addirittura aperto due forni: oltre a quello di via Bellerio, quello del Nazareno) e la bomba elettorale è scoppiata nelle mani di chi l’ha lanciata più che sulla testa di chi ne era il bersaglio. Ora M5S potrebbe fare quel governone o governissimo che Salvini chiama «lo sciagurato patto della mangiatoia e dell’invasione» (di clandestini). E se questo esecutivo in fieri diventasse una cosa seria e durevole, per la Lega potrebbe non bastare la retorica del Palazzo contro il popolo.
LA TRAPPOLA DEI SONDAGGI Guai a credere che possa bastare la spinta dei sondaggi e quella del Papeete per vincere una partita politica. E che le dirette social e il loro successo, declinante secondo i dati più recenti, possano ero sostituire la fatica dell’impegno quotidiano degli incontri e delle telefonate – anche se «il mio telefono è sempre acceso» – con gli altri leader e con tutti quegli esponenti del mondo istituzionale che, nella gestione e soluzione di una crisi di governo, conta molto di più della gente che applaude e che grida «non mollare» e «vai avanti».
IL SOLIPSISMO Non ha rotto subito dopo le Europee – o anche prima come gli dicevano Giorgetti e gli faceva capire il mondo produttivo del Nord e la Lega modello Zaia – quando Salvini era davvero sulla cresta dell’onda e non c’erano l’affanno della legge finanziaria incombente e neppure la vicenda dei rubli.
LA STORIA SERVE Matteo studiava storia all’università ma poi ha abbandonato e se l’è dimenticata. Quando Badoglio abbandonò Mussolini (quello vero), Togliatti appoggiò il suo governo. Quindi doveva immaginare Salvini che il Pd non avrebbe fatto troppo le pulci a Conte, a Di Maio, alla Trenta e a Toninelli. Anzi, no questo punto numero 10 non vale. Perché quella era politica vera in una fase tragica della storia, mentre qui sembra di stare alla sagra estiva del dilettantismo e al grottesco al potere. Anzi alla consolle.
Mario Ajello sul Messaggero a pagina 5.
Tempi sbagliati e dietrofront. Così il Capitano si è incartato. Il leader ha fatto una serie di errori: dal no al voto dopo le Europee, alla certezza che il premier si sarebbe dimesso. Paolo Bracalini sul Giornale. More
In politica passare da leader infallibili a incapaci che non ne azzeccano una è un attimo, chiedere informazioni a Matteo Renzi. Dopo anni sulla cresta dell’onda con i consensi passati dal 4% al 34%, anche per Matteo Salvini sembra arrivato il momento critico. I suoi consiglieri iniziano a prendere le distanze dalle ultime mosse del segretario, segno che il mito del capo invincibile si è sciolto al sole agostano. Le probabilità che esca con le osse rotte dalla crisi da lui stesso scatenata sono aumentate. È ormai chiaro che Salvini, dopo aver infilato una successo dietro l’altro, dall’8 agosto scorso – giorno in cui ha aperto la crisi di governo – le ha invece sbagliate tutte o quasi. Primo errore, ha sottovalutato l’attaccamento al potere di Giuseppe Conte, dando per scontato che il professore – catapultato da una cattedra universitaria a Palazzo Chigi quasi per caso – avrebbe accettato senza colpo ferire la sua richiesta di dimettersi da Palazzo Chigi, agevolando così la corsa verso le elezioni. Sbagliato. Dopo un anno e mezzo a capo del governo, invitato ai summit mondiali alla pari di Trump e Putin, Conte non è più l’oscuro notaio del patto tra Salvini e Di Maio, ma si crede veramente il presidente del Consiglio italiano. In più è un avvocato, quindi di cavilli e regolamenti ci campa, ed è proprio nella gabbia di paletti costituzionali e parlamentari che ha intrappolato Salvini. Secondo errore, trattare i Cinque Stelle come un partito che vale la metà della Lega. Fatto vero forse fuori dal Parlamento, ma non nei numeri di Camera e Senato fermi al marzo 2018, quando il M5s era il primo partito italiano. Infatti il gruppo parlamentare M5s è il più numeroso, e nel pallottoliere di una crisi di governo sono soltanto quelli i numeri che contano. E questo ci porta al terzo errore. Aver sottovalutato la capacità del Pd di cambiare radicalmente posizione sui grillini pur di cogliere l’incredibile opportunità di passare nella maggioranza di governo e magari starci per tutta la legislatura. E, allo stesso modo, la capacità di Di Maio e soci di rimangiarsi anni di insulti e guerre a Renzi&Boschi pur di evitare lo scioglimento delle Camere, l’addio al lignaggio ministeriale e un’elezione per loro molto complicata. L’equazione tolgo la fiducia a Conte così si vota, si è rivelata sbagliata. L’altro errore tattico gliel’ha rinfacciato Giancarlo Giorgetti. Non è quello di aver rotto con i grillini, ma di averlo fatto troppo tardi nel momento sbagliato. Secondo il più ascoltato consigliere di Salvini, la spina andava staccata subito dopo le Europee, quando era chiaro che i rapporti di forza tra Lega e M5s si erano completamente ribaltati. In più non ci sarebbe stato l’alibi della scadenza imminente della finanziria e si sarebbe aperta la finestra del voto in modo più semplice. Il ministro invece ha aspettato, passando le successive settimane a litigare con i grillini ma smentendo a ripetizione l’intenzione di voler rompere il contratto con i Cinque Stelle. Fino a cambiare repentinamente linea ad agosto, dopo aver «scoperto» che il M5s è No-Tav. Un fatto che sapevano anche le pietre della val di Susa. Altro errore, non aver ritirato la delegazione di ministri leghisti. Operazione che gli avrebbe garantito due cose poter rivendicare davanti al popolo di aver rinunciato alle «poltrone»; ma soprattutto avrebbe tagliato le gambe al governo Conte costringendolo a presentarsi dimissionario al Quirinale. Ennesima superficialità riguarda anche Mattarella. Salvini pensava che il capo dello Stato si sarebbe limitato a prendere atto della sue decisione di chiudere con i grillini per andare al voto? La mossa di dire ok al taglio dei parlamentari ma poi subito al voto» (tra l’altro dopo aver detto che era solo un alibi per allungare i tempi), non ha fatto altro che irritare il Quirinale per la forzatura. L’ultimo e più tragico errore, però, sarebbe quello di fare una seconda svolta e tornare da Di Maio. A quel punto oltre a perdere la possibilità delle elezioni, la Lega rischierebbe di perdere la faccia.
Paolo Bracalini sul Giornale a pagina 4.
Ma il Pd ha fatto i conti? Per contenere il deficit senza aumentare l’Iva vanno recuperati 30 miliardi, per questo Salvini ha mollato. Il Pd ha fatto i conti? L’eredità del governo gialloverde ha ipotecato qualsiasi manovra. Luciano Capone sul Foglio. More
Roma. Anche se in questi giorni sta mostrando pentimenti e ripensamenti, Matteo Salvini ha deciso di staccare la spina al governo gialloverde non il giorno della votazione sulla Tav, ma quello precedente. Il 6 agosto ha incontrato, per la seconda volta, al Viminale le parti sociali per discutere l’imposta – zione della prossima legge di Bilancio e le oltre 40 delegazioni hanno fatto al leader della Lega tre tipi di richieste: interventi a favore delle rispettive categorie, non toccare le tax expenditures che riguardano i propri associati ed evitare di sfasciare i conti pubblici. Si tratta di un triangolo inconciliabile, perché composto da spinte contraddittorie che ne impediscono la chiusura. Da quell’incontro, dopo aver lanciato dichiarazioni incendiarie contro il ministro dell’Economia Giovanni Tria, Salvini si è reso conto che si stava per imbarcare in una manovra in cui, inevitabilmente, avrebbe scontentato qualcuno: non è possibile mantenere le promesse elettorali (flat tax), senza aumentare l’Iva (clausole di salvaguardia), senza tagliare la spesa (o le tax expenditures) o senza aumentare a dismisure il deficit (procedura d’infrazione). Così ha fatto un passo indietro e ha rilanciato: o elezioni subito (così la Lega passa all’incasso nel momento di maggior consenso nei sondaggi) oppure la manovra la fa un altro governo (che dovrà assumersi il costo politico di scelte impopolari). I numeri lasciati in eredità dal governo gialloverde sono impietosi. Prima di qualsiasi intervento aggiuntivo, per rispettare i saldi di bilancio che hanno evitato la procedura d’infrazione, bisogna trovare 23 miliardi per disattivare l’au – mento dell’Iva e 4 miliardi di spese indifferibili (missioni militari, contratti del pubblico impiego e altre spese), per un totale di 27 miliardi. A questo va aggiunto il mancato gettito dovuto alla minore crescita. Il Def prevede una crescita nominale del 2,8 per cento – più del doppio rispetto al 2019 (1,2 per cento) – dovuta per lo 0,8 per cento da crescita reale e per il 2 per cento dal deflatore del pil (inflazione). Entrambe le componenti sono sovrastimate. Storicamente nelle previsioni il deflatore viene gonfiato per far tornare i numeri e poi si sgonfia a consuntivo. Ma anche la crescita allo 0,8 per cento è un miraggio, visto che ad esempio secondo l’Upb sarà la metà e considerato il deterioramento del quadro europeo e internazionale. Un punto in meno di pil nominale, una previsione ottimistica, vuol dire 7 miliardi di minori entrate. Per mantenere il deficit all’1,8 servono circa 35 miliardi. E’ vero che in caso di peggioramento del ciclo economico la Commissione concede flessibilità, perché guarda al cosiddetto deficit strutturale, ma ciò implica che se anche l’Europa si accontentasse di una politica fiscale neutra bisogna recuperare quasi 30 miliardi attraverso maggiori entrate o minori spese. Un governo Pd-M5s che nascesse con l’obiettivo – già annunciato – di evitare l’aumento dell’Iva si troverebbe, molto probabilmente, di fronte a scelte molto difficili: attivare solo parzialmente le cosiddette clausole di salvaguardia e quindi non riuscire a rispettare la promessa; tagliare seriamente la spesa pubblica a partire dal Rdc e quota 100 (un suicidio per il M5s, che smentirebbe le sue politiche); aumentare altre imposte – ad esempio sulla casa – per evitare l’aumento dell’Iva (un suicidio per il Pd, che metterebbe nuove vere tasse al posto di quelle virtuali messe da Salvini). E’ vero che un nuovo esecutivo Pd-M5s potrebbe ottenere maggiori aperture dall’Europa, ma quest’anno mancheranno all’appello anche 18 miliardi di privatizzazioni messi a bilancio dal governo Conte. E il debito pubblico si metterà da subito su una pericolosa traiettoria crescente, aggravato dal pil stagnante. L’Europa potrà forse chiudere un occhio, come spesso ha fatto, ma non entrambi. Chi si appresta a stringere un patto su queste basi per fermare Salvini farebbe meglio a tenerli aperti per fare bene i conti.
Luciano Capone sul Foglio a pagina 3.
Nessuna illusione sui conti. Non esiste alcun «tesoretto». Sulla legge di Bilancio c’è già un’ipoteca di 27 miliardi. Insufficienti i risparmi da Quota 100 e sussidio di Stato. Antonio Signorini sul Giornale. More
Chiunque vada al governo non avrà vita facile. Matteo Renzi nella intervista ferragostana a Repubblica, tra le altre cose, si è detto certo che l’Italia in giallo-rosso, o comunque un esecutivo alternativo senza la Lega di Matteo Salvini, in Europa riuscirà a strappare più flessibilità sui conti grazie all’appoggio di Francia e Spagna e guadagnerà «spazi di manovra». Peccato che questi spazi non esistano e che il colore del governo su questi temi, dalle parti di Bruxelles pesi solo marginalmente. Sulla prossima legge di Bilancio pesa già un’ipoteca da 27 miliardi. Sono i 23,1 che serviranno a disinnescare le clausole di salvaguardia che prevedono l’aumento dell’Iva più altre spese inevitabili. Nei giorni scorsi è circolata, per l’ennesima volta, la speranza che dai conti dell’anno in corso spunti un tesoretto per il 2020. In particolare, le entrate extra provenienti dalla fatturazione elettronica e i risparmi da Quota 100 e reddito di cittadinanza. Una dote che potrebbe arrivare a sei miliardi di euro. Se un eventuale nuovo governo volesse poi procedere sulla strada tracciata dal ministro dell’Economia Giovanni Tria (ed è difficile pensare che faccia altrimenti), sono già allo studio dei tagli alle agevolazioni fiscali, che potrebbero portare 8 miliardi. La somma copre solo in parte la manovra di partenza per il 2020. Se poi la speranza è che l’Europa conceda all’Italia di fare più deficit, il rischio è che i piani degli aspiranti premier e ministri falliscano in breve tempo. Ieri il governatore della Banca centrale finlandese Olli Rehn, membro del board della Bce, ha detto che sono pronte misure di stimolo all’economia già dal mese prossimo. Quindi taglio dei tassi e forse un eventuale nuova edizione del Quantitative easing, l’acquisto da parte della Banca centrale europea di titoli di stato degli stati dell’Euro. Ma nel menu della nuova politica espansiva di Francoforte in realtà non c’è un ritorno a politiche economiche che non tengano conto del rigore. Al contrario, l’obiettivo degli stati membri, secondo Rehn, deve rimanere quello del pareggio di bilancio. Cattive notizie, quindi, per il partito del deficit che è vasto e trasversale, visto che va dall’attuale maggioranza gialloverde a Matteo Renzi, principale fautore di una nuova coalizione formata da democratici e cinque stelle. Il nuovo governo dovrà trovare spazi di bilancio tagliando le spese. E l’andamento dell’economia complicherà le cose. «La crescita del Pil italiano dovrebbe infatti essere pari a zero nel 2019, o addirittura negativa, con effetti negativi su deficit e debito. Di conseguenza, la prossima Legge di Bilancio sarà ancora più difficile da scrivere», ha spiegato ieri Renato Brunetta di Forza Italia. L’unica flessibilità che l’Italia potrebbe ottenere alla luce della situazione politica complicata (sempre che la crisi non rientri) è sul calendario. La prossima tappa è vicina: il 27 settembre il governo dovrà presentare la nota di aggiornamento al Def, quindi le nuove stime di crescita (riviste al ribasso) e il peso in termini di finanze pubbliche delle scelte che saranno incluse nella legge di Bilancio. Poi il 15 ottobre il Documento programmatico di bilancio, infine l’articolato della legge di Bilancio entro il 20 ottobre. Scadenze non perentorie, a differenza dell’impegno a ridurre il deficit e il debito pubblico. Impegni che non hanno colore.
Antonio Signorini sul Giornale a pagina 8.
L’economia in stagnazione deve diventare la vera urgenza. Il commento di Dino Pesole sul Sole. More
In questa surreale crisi di mezza estate, i protagonisti della scena politica paiono aver perso di vista l’elenco urgente e indifferibile delle vere urgenze del paese. Una buona dose di realismo dovrebbe indurre a non replicare gli errori del passato recente e remoto (“mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”, verrebbe da dire citando Tito Livio). Ed eccole le vere urgenze del paese: l’economia in stagnazione, che già prima che Matteo Salvini decidesse di dare la spallata al Governo viaggiava verso lo zero o poco più, la recessione mondiale alle porte nel perverso mix tra la drastica frenata dell’economia tedesca e gli effetti della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina con venti di recessione che lambiscono oltre alla Germania le due superpotenze mondiali e la Gran Bretagna. Tutti fattori che potrebbero erodere ulteriormente i margini di crescita per l’anno in corso e gli anni a venire. E vi è da mettere nel conto la reazione dei mercati. Già perché l’ulteriore (e comunque momentaneo) scudo che la Bce sta mettendo in campo a protezione della nostra economia potrà supplire solo in parte all’assenza di scelte urgenti di politica economica. Il tutto – come ha sottolineato il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia sulle colonne di questo giornale due giorni fa – mentre gli ordini arretrano nelle grandi regioni del Nord e a Sud si assiste a un continuo aumento dei divari e a un ulteriore deterioramento della situazione economica. Al momento servirebbe il pallottoliere per immaginare come si uscirà dall’impasse. Più che ipotizzare scenari in un crescendo da “prima Repubblica” (non era il “governo del cambiamento”?), dal ritorno al voto a fine ottobre alla riedizione non si sa ancora in quale forma dell’attuale maggioranza, dal governo “ponte” alla nascita di una nuova alleanza Pd-M5S, chi ha a cuore le sorti del paese dovrebbe interrogarsi su come rilanciare l’attività produttiva ora, alla ripresa autunnale, ponendo in cima alle priorità il lavoro e il taglio al cuneo fiscale. Sì certo, occorre evitare l’aumento di tre punti dell’Iva, pronto a scattare dal prossimo anno con il suo ingombrante peso di ben 23,1 miliardi. Si può anche immaginare di farvi fronte anche contrattando con Bruxelles qualche margine aggiuntivo di flessibilità, ma per questo occorre un Governo nella pienezza delle sue funzioni, credibile e in grado di offrire a Bruxelles, ai partner internazionali, ai mercati e alle agenzie di rating precise garanzie. A partire dall’impegno a ridurre il debito pubblico anche attraverso un piano graduale e realistico di dismissioni. Nessuno pensa a una riedizione delle politiche di austerità, a manovre restrittive di finanza pubblica che avrebbero come effetto quello di deprimere ulteriormente il ciclo economico. Il vero problema è come agire sul denominatore, sul Pil, riconquistando quel bene prezioso che si chiama fiducia. E questo è compito primario della politica, di una politica che guardi all’interesse generale, al futuro del paese e non alla volontà(anch’essa momentanea e sfuggente) di lucrare consensi nell’immediato. Quella in atto è una crisi che molti osservatori faticano a decifrare, mentre restano irrisolte e chiedono risposte immediate le innumerevoli crisi aziendali aperte. La verità è che occorre una svolta nella politica economica, e bisogna agire in fretta per porre al centro dell’azione di governo il tema della competitività. Rassegnarsi, per effetto dell’impasse in cui siamo piombati, ad un inarrestabile declino (che già stiamo pagando con la fuga all’estero dei nostri migliori giovani) equivarrebbe a negare che si possa creare un futuro degno di questo nome. Non ce lo possiamo permettere.
Dino Pesole sul Sole a pagina 4.
Gli editoriali. Gli effetti speciali d’estate. Paolo Mieli sul Corriere. Il dono insperato che accende i due forni dei Cinquestelle. Luca Ricolfi sul Messaggero. Quando i muscoli di Salvini si sgonfiano. Gad Lerner su Repubblica. Le ipotesi al buio. Bruno Vespa su Qn. In ogni caso la credibilità è già perduta. Marcello Sorgi sulla Stampa. Un brutto film già visto: oltre alla vergogna porterà guai. Maurizio Belpietro sulla Verità. Soluzioni deboli e alleanze difficili. Stefano Folli su Repubblica. Caro Matteo, meglio ritirare la sfiducia. Vittorio Feltri su Libero.
Paolo Mieli. Con il sistema proporzionale i partiti si presentano alle elezioni l’un contro l’altro ma sanno benissimo che dopo il voto saranno costretti a cercare in Parlamento alleanze di governo con i nemici del giorno prima. More
Niente paura. Gli effetti speciali che hanno allietato l’estate politica di questo 2019 sono nient’altro che imprevisti dovuti al passaggio da un sistema elettorale maggioritario (qui da noi temperato) ad un (pur corretto) proporzionale. Con il sistema proporzionale, com’è noto, i partiti si presentano alle elezioni l’un contro l’altro assumendo il volto dell’arme; ma sanno benissimo che dopo il voto saranno costretti a cercare in Parlamento alleanze di governo con i nemici del giorno prima. Se tale alleanza la troveranno, in virtù della disponibilità di qualcuno di questi ex nemici, nulla vieta che qualcuno di loro, poco tempo dopo, decida di fare un giro di valzer con un altro ex nemico. Dopodiché il soggetto iniziale potrebbe persino tornare a ballare con il partner precedente. Per «chiamare» la fine delle danze si deve poter disporre della maggioranza in almeno una delle due camere, cosicché nessun’altro possa dar vita a un nuovo esecutivo. Matteo Salvini ha avuto con sé in qualche momento questa maggioranza? Mai. Il suo è stato un calcolo sorprendentemente sbagliato che ha indotto in errore i suoi e quasi tutti gli osservatori esterni. I quali osservatori ritenevano che Salvini facesse affidamento su qualche complice esterno al centrodestra. Ma questo complice non si è visto. E così l’estate salviniana iniziata con canti e balli sulle spiagge si avvia a una conclusione assai più mesta.
Con il protagonista che sembra adesso chiedere l’autorizzazione a tornare sui propri passi. E può accadere persino che la ottenga. Il che però non renderebbe meno triste il finale di questa storia. Ci vorrà tempo prima che si capisca per quale motivo Salvini si sia lanciato nell’avventura dell’8 agosto. Avventura che non è stata quella relativa all’apertura della crisi ma, prim’ancora, l’aver fatto credere che avesse la possibilità di ottenere le elezioni anticipate. Da chi? Il leader leghista si sarà pur accorto del fatto che, nonostanteisondaggi lo incoraggiassero, in metà del Paese montava contro di lui un’avversione sempre più radicale. Poteva costatare come ormai fossero usciti allo scopertoisuoi incontrovertibili legami con la Russia di Putin. Sapeva che all’interno dell’attuale Parlamento avrebbe potuto contare esclusivamente sulla lealtà di Fratelli d’Italia e che la disponibilità nei suoi confronti di Forza Italia era assai dubbia. Anzi c’è il sospetto che i seguaci di Berlusconi si siano schierati in suo sostegno soltanto quando sono stati sicuri che la partita era persa in partenza. Adesso è addirittura possibile che una parte dei parlamentari di Forza Italia (quasi tutti, forse) si disponga a sostegno di un eventuale esecutivo grillodem. E comunque, anche nel caso Berlusconi fosse stato davvero convintoasostenere la corsa di Salvini verso le elezioni anticipate, i numeri per assecondare in Parlamento questa iniziativa non c’erano. Sono riconducibili agli effetti del proporzionale anche le molteplici giravolte del M5S. In campagna elettorale avevano detto che non era importante annunciare con chi, in caso di successo, avrebbero eventualmente governato. Un anno fa scelsero Salvini. A fine maggio 2019, la catastrofe alle elezioni europee. Poi la crisi. Adesso si sono aggrappati al salvagente che è stato loro lanciato da Matteo Renzi. A questo punto non è più impensabile che restino al governo — con Zingaretti o con ilredivivo Salvini — perl’intera legislatura. E persino che si riprendano elettoralmente, aiutati oltreché da coloro che sono rimasti sempre fedeli, dalle correnti maggiormente impegnate della magistratura. Ma anche da un fino a ieri imprevedibile entusiasmo da parte di molti ex antipatizzanti, dal rispetto dell’establishment del Paese e forse anche di quello europeo. Si può dire che, grazie all’innesto di Giuseppe Conte, siano entrati a far parte, con annesso coro di laudatores, della più collaudata tradizione partitica italiana. Il vero successo è quello del Pd che potrebbe tornare al governo —oquantomeno, ciò che più gli preme, nell’area governativa — in virtù di uno spettacolare dispiegamento tattico. Da tempo il Pd si è disabituato alla conquista del potere per via elettorale. In compenso i suoi dirigenti sono diventati maestri in quel gioco parlamentare che consente di rientrare sempre nella cabina di comando sfruttando le debolezze o le incapacità altrui. Dopo la sconfitta del 4 marzo 2018, il partito si è diviso nella «stupida polemica» (la definizione è di Adriano Sofri) tra coloro che — con la missione di sbarrare il passo alla Lega — volevano subito appoggiare un esecutivo dei Cinque Stelle e gli altri, la maggioranza, che sostenevano la non praticabilità di tale opzione, quantomeno nell’attuale legislatura. Appena però è scoccata l’ora della crisi di governo, Carlo Calenda si è trovato solo a sostenere quella che fino a qualche minuto prima era stata la posizione unanime del vertice del partito. Ora può darsi che Calenda sia un ingenuo e che non si renda conto d’ essere diventato un’inconsapevole pedina nelle mani di Salvini, ma davvero colpisce la compattezza nella giravolta di tutti gli altri, l’assenza nell’intera sinistra di una pur piccola area del dubbio. E colpisce soprattutto che il segretario Nicola Zingaretti, non abbia avvertito l’esigenza di spiegare in modo non semplicistico perché, nel volgere di poche ore, avrebbe cambiato idea. Difficile immaginare non sapesse prima dell’8 agosto che, nel caso di una crisi di governo e di elezioni anticipate, avrebbe dovuto affrontare l’onda leghista. E allora perché non dire mesi fa che, pur di evitare le elezioni, sarebbe stato disponibile ad abbracciare il M5S? Se avesse tenuto il punto sul sì alle elezioni, Zingaretti avrebbe potuto proporre al Movimento 5 Stelle un fronte elettorale antileghista o quantomeno un accordo di desistenza. Ma il segretario del Pd sembra aver (certo inconsapevolmente) introiettato quel modo di pensare per il quale da almeno due decenni la sinistra italiana ha perso fiducia nella propria capacità di affrontare le elezioni e preferisce di gran lunga il gioco parlamentare. Tant’è che anche nel caso di ribaltoni o simili quando li ha orditi la destra si ponevano l’obiettivo di giungere al voto in tempi ravvicinati (2008); nel caso in cui li ha fatti la sinistra, si proponevano esplicitamente il prolungamento della legislatura. Con governi dalle più svariate denominazioni. Dicevamo all’inizio che questo genere di problemi è generato in massima parte dal proporzionale proprio perché tale sistema induce ad alleanze innaturali tra partiti che si sono presentati agli elettori nei panni di irriducibili avversari. Fu così anche nella Prima Repubblica, ma i recinti della Guerra fredda — che tenevano fuori dall’area della legittimità comunisti (inizialmente anche socialisti) ed ex fascisti — consentirono competizioni un po’ meno dilanianti. La dose di caos in più è tipica dei momenti in cui si passa dal maggioritario al proporzionale. Ad esempio il 16 novembre del 1919 quando, appunto, si ebbe questo cambiamento di metodo elettorale e, a sorpresa, vinsero due partiti «antisistema», socialisti e popolari, che ottennero addirittura la maggioranza dei seggi parlamentari (256 su 508). I popolari, che di seggi ne avevano conquistati 100, si lasciarono progressivamente integrare, ma le ripercussioni di quel marasma furono tali che — anche per le complicazioni del primo dopoguerra — non fu mai conquistata una reale stabilità. E, dopo pochi anni, ci pensò un terzo partito «antisistema», quello fascista, a eliminare il proporzionale. Per poi abolire anche le libere elezioni.
Paolo Mieli sul Corriere in prima.
Gad Lerner. In milanese viene detto “ganassa” chi esibisce virtù e muscoli di cui è sprovvisto, esponendosi a indecorosi dietrofront. Possibile che a Matteo Salvini sia bastato sbagliare i tempi della crisi balneare per rivelarsi un ganassa? More
In milanese viene detto “ganassa” chi esibisce virtù e muscoli di cui è sprovvisto, esponendosi a indecorosi dietrofront. Possibile che a Matteo Salvini sia bastato sbagliare i tempi della crisi balneare — ormai glielo rimproverano anche i leghisti, a cominciare dall’astuto Giorgetti — per rivelarsi un ganassa? Quasi che il profilo forzuto con cui era riuscito a imporsi sulla ribalta mondiale, contenesse in sé il germe di un’insospettabile fragilità? L’estremismo politico spesso si nutre del carattere impulsivo dei suoi leader. Velocità, decisionismo, spregiudicatezza tattica, sono le loro armi a doppio taglio: in caso di fallimento, si ritorcono contro. Così, il repentino passaggio dal proclama di Pescara («Chiedo agli italiani pieni poteri, senza palle al piede») al balbettio di Castel Volturno («Mai detto di voler staccare la spina al governo»), ha rivelato in Salvini una vertigine d’insicurezza che nessuna macchina propagandistica sarebbe in grado di mascherare.
L’abbiamo intuito perfino nel modificarsi della gestualità e della postura dell’uomo autoconvocatosi in una notte di mezza estate alla conquista del potere: il passaggio dalla tracotanza rivestita d’ironia, a improvvisi singulti di commozione. Già martedì scorso, a Palazzo Madama, un Salvini più teso del solito aveva fatto ricorso all’espediente della dissimulazione. Provocava sull’abbronzatura dei senatori, mirava all’innocua scaramuccia delle interruzioni, ma si guardava bene dal pronunciare la parola “dimissioni”. Neanche un cenno sull’annunciatissima mozione di sfiducia al governo Conte. Un equilibrismo mirante a uscire dall’angolo in cui si era cacciato da solo. Celebrato dal fido tecnocrate degli algoritmi salviniani, Luca Morisi, in un tweet che suonava a involontario sfottò e che vale la pena di riportare per intero, con la sua messe di punti esclamativi e interrogativi: «Avete ascoltato l’intervento del Capitano al Senato??? Magistrale, unico, eclatante: un fuoriclasse assoluto! Questo è un leader!!!». Sia ben chiaro, non stiamo parlando di un fenomeno da baraccone, e anzi le folle che acclamano Salvini sono un dato di realtà certificato dai risultati elettorali. Se in Italia un partito a vocazione sovranista e illiberale ha potuto decuplicare i suoi consensi in un paio d’anni, con un’improvvisa accelerazione del corso della storia, è anche perché Salvini ha saputo cogliere l’attimo, intestandosi il malessere popolare e l’incarognirsi del dibattito pubblico. Probabilmente neanche lui credeva di poter riscuotere un così trionfale consenso, ma bisogna riconoscere che c’era del metodo nel suo attivismo. La mossa avventata che oggi lo mette in difficoltà ha origine proprio nella sua perseveranza di ventriloquo dei malumori popolari. Una perseveranza che l’ha sempre premiato quando faceva ricorso alla sfrontatezza e all’aggressività verbale. Col duplice profitto di galvanizzare i sostenitori e di intimidire gli avversari. Senza peraltro che mai nessuno gli chiedesse seriamente di renderne conto. Tutto procedeva per il meglio. Gli era bastato arrivare terzo alle elezioni del 2018, per ergersi a portavoce minaccioso di una forza scaturita dal basso. Fino a ottenere non solo la nomina a vicepremier, ma soprattutto l’accesso alla postazione per lui più vantaggiosa: il Viminale, (mal)inteso come comando delle forze di polizia, sinonimo di ordine e disciplina. Non è un caso se giovedì scorso a Castel Volturno – fingendo di dimenticare di essersi candidato a premier – Salvini ha confidato: «Spero di restare ministro dell’Interno a lungo». Sogna forse di riunificare la guida del governo e quella dell’ordine pubblico? Di certo ha evidenziato che perdere il Viminale sarebbe per lui oggi quasi insopportabile. Proprio questo sta rivelandosi il suo tallone d’Achille: teme che gli costerebbe caro rinunciare al Viminale come palcoscenico delle sue esibizioni di forza. Dall’alto di quella delicatissima istituzione, di cui ha voluto impossessarsi simbolicamente con la carnevalata delle divise, non solo ha scatenato la campagna dei porti chiusi ai migranti, applaudito dai tifosi della “cattiveria necessaria”. Ha voluto anche dimostrare che la funzione di ministro dell’Interno non mitigava affatto la pulsione estremistica per cui continuava ad essere premiato. Per non deludere il suo pubblico ha perfino rinforzato il sistematico ricorso al turpiloquio genitale contro ogni genere di avversario. Così abbiamo assistito al fiorire dei suoi «mi sono rotto le palle», apprezzati come fossero certificati di genuinità popolare. Fino al più recente oltraggio rivolto ai parlamentari in ferie: «Deputati e senatori alzino il culo!». Per quarantott’ore almeno, Salvini ci ha fatto vivere la sensazione che la crisi di sistema potesse degenerare drammaticamente. Chi arriva ad apostrofare con questi toni i rappresentanti dei cittadini, per poi invocare – attraverso un plebiscito elettorale – i pieni poteri, dovrebbe sapere che sta assumendosi un rischio fatale. La storia insegna che quel disprezzo per i parlamentari proclamato da leader estremisti ha costituito la premessa di più di un’avventura autoritaria. Chi brandisce quella minaccia mette nel conto l’eventualità di un tracollo istituzionale, dichiara di essere pronto a cimentarsi in una prova di forza, se non addirittura in una contrapposizione violenta nelle piazze. Ma a questo punto, per fortuna, il ganassa Salvini si è rivelato tale. Poco importa se nel caso di Salvini si sia trattato di fifa piuttosto che di senso di responsabilità. Fatto sta che il vicepremier, con il viso contratto in un inedito rossore davanti alle telecamere, ha cambiato atteggiamento. Tanto che i suoi ex partner pentastellati, dopo un disorientamento iniziale, lo hanno percepito, si sono emancipati da quattordici mesi di subalternità, e hanno cominciato a infilzarlo. Il mansueto Giuseppe Conte l’ha accusato di slealtà e ansia di potere, giungendo a definire ossessiva la sua riduzione del tema immigrazione alla formula “porti chiusi”. Un affronto cui Salvini ha reagito con la formula tipica del ganassa che finge di essere pronto a menar le mani: «Me lo dica in faccia!». Tanto non ci crede più nessuno. Se n’è accorto anche Luigi Di Maio, violentando la sintassi da par suo: «Quindi è inutile che ora sbraita». Il Salvini pentito che tiene il telefono sempre acceso e continua a chiamare “amico” l’altro vicepremier, «anche se lui non vuole», sarà l’esito ultimo di una sbandata ferragostana? Di certo l’ammiratore nostrano di Putin ha rivelato quanto spuntate fossero le sue armi quando si è messo a elencare per nome e cognome, di fronte al Senato, i sostenitori della spallata decisiva cui fingeva di accingersi: ha potuto citare solo poche figure minori dell’associazionismo imprenditoriale. Il suo esercito leghista è parso sfaldarsi perfino nella realtà virtuale dei social. Matteo Salvini e Luca Morisi sono troppo giovani per ricordare il protagonista della pubblicità dell’Acqua Recoaro nei Carosello di mezzo secolo fa. Anche lui era un Capitano, il mitico Capitan Trinchetto. Si vantava di imprese mirabolanti, le sparava grosse, finché un coro liniziava a canzonarlo col ritornello: “Cala, cala Trinchetto!”. L’estate di Salvini inaugurata al Papeete con “Fratelli d’Italia” in versione dance, potrebbe chiudersi così, più modestamente, con un sano “Cala Trinchetto”.
Gad Lerner su Repubblica in prima.
Luca Ricolfi. Ancora una settimana fa pareva certo che, avendo Salvini annunciato l’intenzione di sfiduciare Conte, il governo sarebbe caduto nel giro di pochi giorni, e noi saremmo andati al voto nel giro di pochi mesi. Sembravano non esserci alternative. Ora sappiamo che le cose stanno diversamente. Una maggioranza alternativa c’è, è il tridente Pd-Cinque Stelle-Leu. More
Ancora una settimana fa pareva certo che, avendo Salvini annunciato l’intenzione di sfiduciare Conte, il governo sarebbe caduto nel giro di pochi giorni, e noi saremmo andati al voto nel giro di pochi mesi. Questa certezza, condivisa dalla stragrande maggioranza degli osservatori (me compreso), si basava su una credenza che si è improvvisamente rivelata errata: e cioè che, non essendovi in Parlamento alternative all’attuale governo, Salvini avesse il coltello dalla parte del manico. Era lui, e soltanto lui, che poteva decidere se far proseguire la legislatura o interromperla. E in entrambi i casi ne avrebbe avuto un vantaggio: andando al voto avrebbe raddoppiato i consensi, restando al governo avrebbe potuto dettare le condizioni all’alleato Cinque Stelle, timoroso di andare al voto e dimezzare i consensi. Ora sappiamo che le cose stanno diversamente. Una maggioranza alternativa c’è, è il tridente Pd-Cinque Stelle-Leu. Non possiamo sapere se riuscirà ad accordarsi su un programma e a formare un governo, ma sappiamo che l’eventualità è all’ordine del giorno. E’ persino possibile che il nuovo governo duri fino al 2023, e che sia quindi questo Parlamento ad eleggere il prossimo presidente della Repubblica. Dunque Salvini è all’angolo. La situazione, che sembrava rosea per lui, si è fatta repentinamente nera.
Perché se facesse cadere il governo, i Cinque Stelle potrebbero rispondere alleandosi con il Pd. Mentre se rinunciasse a sfiduciare Conte, a parte la figuraccia, si verrebbe a trovare nella classica situazione dell’anatra zoppa: nelle nuove condizioni sarebbero i Cinque Stelle ad avere il coltello dalla parte del manico. Situazione curiosa. E’ come se fosse resuscitato Bettino Craxi, ma con il triplo dei voti. Che cos’è, infatti, la condotta di Di Maio, se non la riedizione dell’eterna politica dei due forni? Allora Craxi poteva, a seconda del contesto, scegliere fra Dc e Pci, ora DiMaio non sembra farsi alcun problema a passare dall’alleanza (pardon: “contratto”) con la Lega a un possibile contratto con il Pd,magari grazie ai buoni uffici dell’estrema sinistra, che su diversi punti (politica economica e regole europee in particolare) è più vicina ai Cinque Stelle che al Pd. Come è stato possibile tutto questo? E per di più in meno di una settimana? Da qualche giorno, molti stanno notando che Salvini ha clamorosamente sbagliato i tempi: se voleva andare al voto, doveva farlo subito dopo le Europee, e comunque non in agosto, con la spada di Damocle di una sovrapposizione – a novembre – fra Legge di Bilancio e procedure di insediamento del nuovo governo. Alla luce di quel che sta capitando, e soprattutto del modo istantaneo in cui si è delineato l’asse Pd-Cinque Stelle, mi sto convincendo invece che lo spettacolo cui assistiamo in questi giorni lo avremmo avuto comunque, anche se Salvini avesse sfiduciato Conte uno o due mesi fa. E sto pensando che chi, come me, guarda la politica dall’esterno, attribuendole ancora qualche sia pur debole, circoscritto e remoto movente ideale, ha clamorosamente sottovalutato un fattore cruciale: l’attaccamento al seggio dei parlamentari, una forza formidabile che li rende disponibili ad astrusi “ripensamenti” politici non appena se ne presenti la convenienza. Non saprei spiegare altrimenti quello che oggi sconcerta tanti elettori. E cioè che i parlamentari renziani, che ingenuamente ci eravamo abituati a percepire come la garanzia che in questa legislatura non avremmo visto un’alleanza Pd-Cinque Stelle, ora si mostrino pronti a rinnegare le scelte fatte fin qui (a partire dall’opposizione alla demagogica riforma che riduce il numero di parlamentari) pur di evitare il voto e la perdita del seggio, che sanno a rischio con il neo-segretario Zingaretti. E che, specularmente e con il medesimo scopo di non perdere i seggi conquistati, il Movimento Cinque Stelle, che aveva fatto quadrato a difesa di Salvini sul caso Diciotti, ora – di fronte al caso della nave Open Arms – capovolga le sue posizioni sulla politica migratoria, pur di attaccare il ministro dell’Interno, passato nella categoria dei nemici. Alla fine, quel che resta di tutta questa vicenda è l’amarezza per il modo spudorato e ipocrita con cui questi cambi di linea politica ci vengono raccontati, sempre invocando la responsabilità, il senso delle Istituzioni, il bene del Paese, la volontà del popolo, i pericoli per la democrazia. La realtà, purtroppo, è molto più semplice del racconto che i politici tentano di cucirle addosso: Salvini al voto ci vuole andare perché pensa di raddoppiare i seggi, Di Maio e Renzi, perfetti eredi del trasformismo ottocentesco, al voto non ci vogliono andare perché di seggi ne perderebbero troppi.
Luca Ricolfi sul Messaggero in prima.
Marcello Sorgi. La cosa più allarmante di questa crisi non è che potrebbe rinascere un governo giunto ormai da tempo a un punto morto. Piuttosto che i leader che lo compongono, e anche quelli del Pd che si preparavano a farne uno opposto insieme ai 5 stelle, nel giro di pochissimo tempo si sono giocati, oltre alla rispettiva fiducia di ciascuno nell’altro, tutta la credibilità che avevano di fronte agli elettori. Si sono detti capaci di rimangiarsi tutto ciò che avevano detto e ripetuto. Lo hanno fatto e rifatto, e sono pronti a farlo ancora. In un Paese in cui una metà dei cittadini non va più a votare perché non si fida più dei politici, e l’altra metà si reca alle urne con fatica crescente, tutto ciò è gravissimo. Ma anche di questo, ai nostri, non frega proprio nulla. More
Sarebbe la vittoria del Generale Agosto – in questo caso del Ferragosto – che già tante crisi aveva risolto in passato, in nome delle vacanze e delle famiglie degli onorevoli da salvare. Se davvero Salvini facesse marcia indietro, come sembra, e ieri i rumors in questo senso si sono fatti più forti, nel giro di una decina di giorni avremmo assistito a una sorta di trasformismo perfetto. Nel senso che tutti i leader coinvolti in questa soap opera della fine, e poi della resurrezione, del governo giallo-verde, avrebbero smentito se stessi. Dopo Grillo, Di Maio e Renzi che, dimenticando gli insulti scambiatisi per anni, lanciavano un’alleanza Pd-5 stelle, dopo Zingaretti che rinunciava alle elezioni in nome di un governo di legislatura, ecco anche il Capitano pronto a tornare sui suoi passi. In nome di cosa, dopo che il premier Conte lo ha accusato di “sleale collaborazione” multipla, sul delicato tema dei migranti, non si sa. Ma appunto, se tutti possono dire tutto e il contrario di tutto, senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze, ci sta anche che Salvini ritiri la mozione di sfiducia, facendo spallucce. Niente, abbiamo scherzato. E vaglielo a dire ai leghisti del Nord che avevano invocato la rottura per la presa in giro sulle autonomista, agli imprenditori che subito si erano schierati, agli aspiranti deputati e senatori già in fila per essere messi in lista, in una tornata in cui i sondaggi attribuivano al Carroccio la possibilità di fare il pieno di voti e di eletti. Vero è che da qualche giorno il corpaccione della Lega aveva cominciato a mugugnare anche contro un capo assoluto come Salvini, di fronte all’ipotesi di ritrovarsi, non ai nastri di partenza di una nuova corsa elettorale, ma semplicemente all’opposizione. E di un governo, debole quanto si vuole, ma deciso a restare in carica il più a lungo possibile, pur di far sgonfiare la bolla salvinista (e sovranista). Se però il leader ha cambiato idea, sapendo di perderci la faccia come e più del suo insieme ex e rinnovato alleato Di Maio, ci dev’essere qualcosa di più sostanzioso. La sensazione, ad esempio, che la nascitura alleanza giallo-rossa avrebbe superato tutte le sue contraddizioni in nome di una spartizione di potere e poltrone perfino più sostanziosa e veloce da quella praticata dai due vicepremier in questi quattordici mesi. A cominciare, ovviamente dalla Rai, dov’era già pronto il ribaltone nelle reti e nei tg, e dalle prossime elezioni regionali, dall’Umbria all’Emilia, dove il Pd e i 5 stelle avrebbero trovato il modo di presentarsi alleati per dar filo da torcere alla Lega arrembante e al centrodestra vincente in tutte le elezioni locali di quest’ultimo anno e mezzo. La fine della cuccagna, per parlare alla Salvini. Naturalmente, se davvero andrà a finire così, ci sarebbe da porsi qualche domanda. Che ne sarà, per dire, di quel mezzo migliaio di immigrati che Salvini continua a voler lasciare in mezzo al mare e la ministra della Difesa Trenta ha voluto far scortare verso un porto italiano dalle navi della Marina militare? E della Tav, che è stata all’origine della crisi? E di Toninelli, il ministro sfiduciato dal Senato? Di Maio e i 5 stelle, in materia, si metteranno il cuore in pace? E il ministro dell’Ambiente Costa ritirerà le accuse all’alleato leghista per il giro in moto d’acqua della polizia di Salvini junior? E il taglio dei parlamentari, già in calendario il prossimo 22 alla Camera per l’approvazione definitiva, andrà in porto anche se finirebbe con il bloccare per un annetto le elezioni anticipate invocate dal ministro dell’Interno? Sono tutte questioni aperte, al netto delle accuse e degli epiteti volati da una parte all’altra della trincea giallo-verde. Si può star certi, tuttavia, che né queste né altre domande troveranno risposta, nell’eventuale chiarimento che dovrebbe cancellare la crisi e riportare armonia tra gli alleati. Per come sono andate le cose fin qui, d’altra parte, le risposte non servirebbero a niente. Nessuno ci crederebbe. La cosa più allarmante di questa crisi, infatti, non è che potrebbe rinascere un governo giunto ormai da tempo a un punto morto. Piuttosto che i leader che lo compongono, e anche quelli del Pd che si preparavano a farne uno opposto insieme ai 5 stelle, nel giro di pochissimo tempo si sono giocati, oltre alla rispettiva fiducia di ciascuno nell’altro, tutta la credibilità che avevano di fronte agli elettori. Si sono detti capaci di rimangiarsi tutto ciò che avevano detto e ripetuto. Lo hanno fatto e rifatto, e sono pronti a farlo ancora. In un Paese in cui una metà dei cittadini non va più a votare perché non si fida più dei politici, e l’altra metà si reca alle urne con fatica crescente, tutto ciò è gravissimo. Ma anche di questo, ai nostri, non frega proprio nulla.
Marcello Sorgi sulla Stampa a pagina 23.
Stefano Folli. Nessuno ha in mano le carte decisive. Non chi (Delrio) propone un “patto alla tedesca” ai 5S: occorrerebbero un paio di mesi di negoziato, se fosse una cosa seria. Non chi si accontenterebbe di un governo senza respiro, pur di rinviare le elezioni. Mattarella, sembra di capire, non intende accettare soluzioni furbesche, assemblate senza coerenza. Ecco perché è rischioso dare per fatta un’alleanza Pd-5S che è tutta da costruire. E quindi un governo elettorale per gestire il voto in ottobre è ancora uno scenario verosimile. More
Allo stato delle cose, l’unica notizia è una non-notizia: a tre giorni dall’intervento al Senato del presidente del Consiglio, martedì 20, nessuno si è dimesso. Nonostante una crisi d’agosto dichiarata con clamore sui mezzi d’informazione, tutti sono ancora ai loro posti. In primo luogo, l’autore dello sconquasso, Matteo Salvini: per ragioni tattiche si è tenuto il ministero dell’Interno e ha lasciato nei loro uffici l’intera delegazione leghista al governo. Ieri un esponente del vecchio Carroccio, Roberto Maroni, ricordava che nel 1994, quando Bossi decise di sgambettare il primo Berlusconi, ritirò subito i ministri della Lega conservando il solo Viminale in funzione di “garanzia” (il ministro era lo stesso Maroni). Una mossa ovvia nel codice politico di un tempo. Oggi si arriva al dibattito a Palazzo Madama con il vice-premier Salvini che nega, nonostante l’evidenza, di aver mai voluto “staccare la spina all’esecutivo” e bada a non perdere il ministero perché lì è il cuore del suo residuo potere. Residuo, appunto: negli ultimi giorni il personaggio è stato ridimensionato proprio nel rapporto con l’opinione pubblica, la sua arma migliore. Naturalmente non si è dimesso nemmeno il premier, nonostante che del suo governo siano rimaste le macerie. Conte vuole dare un profilo parlamentare alla crisi e si presume che andrà al Quirinale la sera di martedì, senza attendere che il Senato si esprima con un voto. Dopodiché il rebus sarà affare di Mattarella. Colpisce che non ci siano vere trattative in corso. Solo ipotesi che corrono sul web e manovre d’assaggio, forse diversivi per coprire il vuoto. È il caso dell’indiscrezione, resa nota da questo giornale, circa un’offerta di Salvini a Di Maio perché assuma lui la presidenza del Consiglio al posto di Conte indicato nella Commissione von der Leyen. Sembra più che altro una mossa per tenere sotto pressione i Cinque Stelle (che hanno smentito) e verificare quanto è seria la tentazione di un loro accordo con il Pd. Di sicuro Salvini dà l’idea di uno finito nelle sabbie mobili per eccesso di sicurezza. L’uomo che voleva stravincere oggi è preoccupato di perdere quello che ha. Accetterebbe anche di far rivivere, un po’ aggiustato, il patto Lega-5S. Uno sbocco persino banale, in realtà complicato. Per capirlo è utile tener d’occhio come evolve il caso Open Arms a Lampedusa: è lì che si sta consumando la frattura tra l’ideologia salviniana e il movimento grillino, il cui senso delle istituzioni rimane peraltro opportunistico. Lo dimostra il vessillo del taglio dei parlamentari: una riforma male elaborata e buttata sul tavolo con sprezzo della democrazia rappresentativa, ma che costituisce l’unico ponte tra il M5S e il Pd, almeno nella versione renziana. Quel che è certo, nessuno ha in mano le carte decisive. Non chi (Delrio) propone un “patto alla tedesca” ai 5S: occorrerebbero un paio di mesi di negoziato, se fosse una cosa seria. Non chi si accontenterebbe di un governo senza respiro, pur di rinviare le elezioni. Mattarella, sembra di capire, non intende accettare soluzioni furbesche, assemblate senza coerenza. Ecco perché è rischioso dare per fatta un’alleanza Pd-5S che è tutta da costruire. E quindi un governo elettorale per gestire il voto in ottobre è ancora uno scenario verosimile.
Stefano Folli su Repubblica a pagina 35.
Vittorio Feltri. In Emilia e in Romagna si dice saggiamente che l’ora del coglione piglia tutti. Gli uomini sbagliano e quelli che ammettono i propri errori ne dimezzano la gravità. Mi pare quindi che a Salvini convenga riconoscere di aver calpestato una buccia di banana allorché ha deciso di aprire la crisi di governo al buio. More
In Emilia e in Romagna si dice saggiamente che l’ora del coglione piglia tutti. Gli uomini sbagliano e quelli che ammettono i propri errori ne dimezzano la gravità. Mi pare quindi che a Salvini convenga riconoscere di aver calpestato una buccia di banana allorché ha deciso di aprire la crisi di governo al buio, mandando al diavolo il premier Conte, chiedendone la sfiducia, e i grillini con i quali bene o male ha collaborato per oltre un anno. La topica consiste nel fatto ineluttabile che i pentastellati hanno immediatamente intavolato trattative con il Pd (Renzi e Zingaretti) allo scopo di costituire un esecutivo alternativo a quello attuale. Vero che i progressisti per mesi avevano dichiarato pubblicamente: «Piuttosto che allearci con i grillini ci spariamo».Maerano chiacchiere a cui ilMatteo lombardo aveva ingenuamente creduto. Egli in sostanza ha abboccato e ha lanciato il cuore oltrel’ostacolo supponendo che, essendo impossibile un patto tra M5S e progressisti dei miei stivali, l’unica soluzione fossero le elezioni anticipate che Alberto da Giussano avrebbeaffrontato con le mani in tasca, forte dei sondaggi che lo davano vicino al 40 per cento. Col cavolo. Leindagini demoscopicheannunciano una realtà ma non la riflettono. Ciò che conta sono i numeri in Parlamento: Di Maio ha il 33 per cento dei deputati e dei senatori,mentre Salvini ha solamente il 17. Quest’ultimo pertanto ha perso in partenza. Nel senso che Gigino più gli ex nemici del Pd hanno la maggioranza efregano alla grande la Lega. Non è un problema politico bensì aritmetico. E chi pensa che i partiti siano fedeli agli ideali (di cui sono privi) più che alle poltrone da cui si gestisceil potere sono è un povero pirlacchione. Ecco, Salvini si è comportato, stranamente, da pirlacchione facendosi infinocchiare come un principiante. Dispiace dirlo, visto che lo stimo, però stavolta si èfatto turlupinare dai vecchi lupi della partitocrazia. Ora egli haa disposizione soltanto una carta: rimangiarsi la sfiducia a Conte e continuare a governare coni ciula gialli. Poi si vedrà. L’importante non è andare a votare ad ottobre, a questo punto, bensì non affidareil Paese allagrinfie degliex comunisti del piffero e agli scugnizzi che cadono dalle Stelle filanti.
Vittorio Feltri su Libero in prima.
Maurizio Belpietro. Partiti senza voti provano a governare l’Italia in barba agli italiani. Dove possa portare il governo della vergogna è abbastanza evidente. Ora c’è da fare ciò che l’Europa vuole, cioè assecondare tutte le decisioni di Bruxelles, senza alcuna obiezione. Se passa il governo della vergogna, avremo anche il governo dell’invasione. Per la gioia di Renzi, della Boschi e di D’Alema. Un vero tuffo nel passato. More
Ci mancava solo Massimo D’Alema a far da levatrice al governo della vergogna. Ma l’ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri che andava a braccetto con gli hezbollah, alla fine è arrivato a benedire la nascita di un nuovo esecutivo 5 stelle-Pd. Lo ha fatto ricordando che 24 anni fa un colpo di mano, sotto gli occhi compiaciuti di Oscar Luigi Scalfaro, portò alla nascita del governo di Lamberto Dini, mettendo in un angolo Silvio Berlusconi, che aveva vinto le elezioni del 1994, e aprendo la strada alla successiva vittoria di Romano Prodi. D’Alema fu l’artefice dell’operazione, perché da segretario dei Ds tenne i rapporti con Umberto Bossi, presentando la Lega addirittura come «una costola della sinistra». E sempre lui, da capo dell’ex partito comunista (la svolta di Achille Ochetto è del 1989), propose un ex democristiano ed ex boiardo di Stato come leader della coalizione di sinistra, vincendo poi le elezioni. Perché D’Alema abbia evocato quei primi mesi di 24 anni fa è piuttosto evidente. Anche all’epoca si trattava di far cadere un governo che gli italiani avevano volato contro ogni previsione. La discesa in campo del Cavaliere aveva spiazzato tutti, in particolare la «gioiosa macchina da guerra» del Pds, che dopo la caduta di socialisti e democristiani era convinta di avere la strada spianata. Diversamente da quel che ci aspettava, gli italiani votarono per Berlusconi, per Gianfranco Fini e per Umberto Bossi, facendo vincere una coalizione che sembrava impossibile mettere insieme. Era il periodo in cui Fini era considerato un rifiuto del parlamento, tanto che in Belgio un ministro socialista si rifiutò di stringere la mano a un ex missino come Pinuccio Tatarella, e non un interlocutore migliore di Berlusconi. Dunque, per far cadere il Cavaliere, Scalfaro e i compagni lavorarono su Bossi, assicurandogli che in caso di crisi non ci sarebbero state elezioni. E così fu. Berlusconi cadde, anche perché nel frattempo gli era arrivato il suo primo avviso di garanzia, e l’Italia non tornò alle urne, ma si beccò Lamberto Dini come presidente del Consiglio. Fu un governo ponte, per consentire alla sinistra di riorganizzarsi e di presentare un volto che non spaventasse gli italiani, ma consentisse agli ex comunisti di governare. Fu scelto Prodi e si sa come finì, cioè con la sciagurata negoziazione dell’ingresso nell’euro. Per D’Alema tutto ciò è un merito, per noi l’inizio di una catena di errori e di scelte calate dall’alto, senza il parere degli elettori. Perché non soltanto si decise di far fuori Berlusconi senza passare dalle urne, ma qualche anno dopo a fare la stessa fine fu lo stesso Prodi. Ormai non serviva più, il lavoro sporco lo aveva fatto e le elezioni le aveva vinte. Con il contributo di Fausto Bertinotti fu costretto alle dimissioni e a Palazzo Chigi, per la prima volta nella storia repubblicana, si insediò un ex comunista, ossia lo stesso D’Alema. Un’operazione che per certi versi ricorda molto quella compiuta anni dopo da Matteo Renzi. Anche quest’ultimo, quand’era segretario, giubilò l’ex democristiano Enrico Letta e, proprio come D’Alema, divenne presidente del Consiglio senza che gli italiani lo avessero votato. Sarà per questo che, pur odiandosi, sia Spezzaferro (il soprannome del lìder Maximo risale ai tempi universitari) sia il Rottamatore, oggi sono sulla stessa sponda e sostengono il governo della vergogna? In effetti, in questo D’Alema ha ragione. Fare oggi un governo 5 stelle-Pd serve a non far votare gli italiani, proprio come nel 1995, proprio come un quarto di secolo fa, serve a prendere tempo e a sgonfiare il partito che gode di maggiori consensi, magari, come accadde ai tempi di Berlusconi, con l’aiutino della magistratura. Insomma, l’operazione è la stessa, con la sola differenza che oggi, al posto del Cavaliere, c’è Matteo Salvini. Ma in entrambi i casi, dei partiti senza voti provano a governare l’Italia in barba agli italiani. Dove possa portare il governo della vergogna è abbastanza evidente. Ora c’è da fare ciò che l’Europa vuole, cioè assecondare tutte le decisioni di Bruxelles, senza alcuna obiezione. E i nostri complot- tardi sono pronti. Lo si vede già in questi giorni. Salvini è ancora al Viminale, ma già la linea sui migranti è cambiata e Giuseppe Conte, per salvare la poltrona, dopo aver condiviso la decisione di chiudere i porti, intestandosela perfino davanti alla magistratura, oggi apre all’accoglienza dei clandestini. Quello che ci attende dunque è chiaro. Se passa il governo della vergogna, avremo anche il governo dell’invasione. Per la gioia di Renzi, della Boschi e di D’Alema. Un vero tuffo nel passato.
Maurizio Belpietro sulla Verità in prima.
Bruno Vespa. Il lettore si aspetta che gli si faccia un po’ di luce nella selva oscurissima della politica italiana. Ma anche Virgilio stavolta si muove su un terreno mai esplorato della storia repubblicana. Nel ’39, quando Stalin si spartì con Hitler la Polonia, Churchill disse che le intenzioni dell’Urss erano un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma. Anche noi. More
Il lettore si aspetta che gli si faccia un po’ di luce nella selva oscurissima della politica italiana. Ma anche Virgilio stavolta si muove su un terreno mai esplorato della storia repubblicana. E poco gli è di conforto il fatto che pure i Virgilio che vivono nel Palazzo – e che dovrebbero saperne molto di più – sono semiciechi come lui. Limitiamoci perciò ad analizzare le diverse ipotesi, sapendo che questo articolo è scritto con l’inchiostro simpatico e può perciò scomparire in qualunque momento.
1. L’ipotesi più fresca, pur se acrobatica, è che Lega e 5 Stelle tornino insieme con Di Maio premier, Salvini vice e ministro dell’Interno, un ruolo ben più rilevante dei leghisti nel governo e Giuseppe Conte commissario a Bruxelles. Cosa, pare, a lui assai gradita anche per tornare in giro tra cinque anni in posizione più autorevole: si guardi a Mario Monti, che fu designato commissario da Berlusconi insieme con Emma Bonino. La Lega a questo punto voterebbe la riduzione del numero dei parlamentari: la legge non sarebbe operativa prima dell’estate prossima. Ma i leghisti (al contrario di quanto filtra dal Quirinale) sono convinti che se l’alleanza si rompesse prima si potrebbe andare comunque al voto con i 945 parlamentari attuali (la Lega conferma riservatamente la trattativa, pur con prudenza. I 5 Stelle smentiscono).
2. Questa ipotesi salta. Il 20 agosto Conte si presenta in Senato e pronuncia una durissima requisitoria contro Salvini. Finito l’intervento, sale al Quirinale e si dimette. Se i 5 Stelle hanno raggiunto l’accordo col Pd, Conte potrebbe essere incaricato di formare un nuovo governo. Se l’accordo non ci fosse, il Capo dello Stato avvierebbe le consultazioni e scioglierebbe le Camere consentendo il voto il 27 ottobre o il 3 novembre.
3. Che farebbe il Pd se Di Maio e Salvini non tornassero insieme? Quando ha aperto la crisi, Salvini aveva buoni motivi per contare sulla volontà di Zingaretti di andare al voto. Mai si sarebbe aspettato un accordo Renzi-Grillo. Renzi è un purosangue, galoppa in modo imprevedibile. L’anno scorso ha impedito la nascita del governo Pd- 5 Stelle. Poi ha marcato stretto Zingaretti perché non fosse tentato di riprovarci. Adesso vuole fare lui l’accordo. Perché? Perché Salvini gli ha tagliato la strada che prevedeva lo show down alla Leopolda in ottobre, la probabile scissione e la nascita del nuovo partito centrista pronto per elezioni a primavera. Ora Renzi si trova spiazzato e vuole guadagnare tempo. Sa che alle elezioni la rappresentanza parlamentare dei suoi verrebbe fortemente ridotta. Ma che interesse avrebbe Zingaretti ad assecondarlo, sapendo che Renzi – se e quando gli convenisse – non esiterebbe un istante a mettere in crisi il governo? Sarebbe possibile il ‘contratto di ferro alla tedesca’ invocato ieri da Delrio tra due partiti che la pensano su quasi tutto all’opposto?
4. I 5 Stelle non vogliono andare al voto. Imbarazzati dal vincolo del doppio mandato (che pure verrebbe aggirato), sanno che la rappresentanza parlamentare sarebbe falcidiata. Meglio perciò andare avanti chiunque sia il partner. Nel ’39, quando Stalin si spartì con Hitler la Polonia, Churchill disse che le intenzioni dell’Urss erano un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma. Anche noi, piano piano, ci siamo arrivati…
Bruno Vespa sul Quotidiano Nazionale in prima.
Lega. L’ora dei tormenti nella Lega. Dopo le ultime mosse del leader. «Perché inseguire Di Maio? Comanda Casaleggio». Promesse, sospetti, depistaggi. Il retroscena di Francesco Verderami sul Corriere (p.6). More
Per evitare l’inciucio tra M5s e Pd era prevedibile il tentativo salviniano di «contro inciucio», ed era scontato che la Lega concentrasse le sue attenzioni su Di Maio, considerato l’anello debole della catena grillina. Perché, come sostiene un autorevole esponente del Carroccio, «in un’alleanza giallo-rossa per Luigi non ci sarebbe tanto spazio al governo».
Ma è solo una manovra di disturbo, un tentativo di sabotare il gioco avverso, un modo per destabilizzare un’ipotesi di accordo ancora da costruire, un espediente per alimentare i sospetti nel capo del Movimento: «Non penserete di varare un governo di legislatura con Zingaretti, vero? I gruppi del Pd li comanda Renzi e lui ha bisogno solo di qualche mese per organizzarsi il suo partito, poi farà saltare il banco. A quel punto si andrà alle elezioni e voi sarete fregati».
Per certi versi è anche il retropensiero del segretario pongono domande al momento prive di risposte. Per esempio, «cosa vuol dire che il 20 agosto vedremo il da farsi, se avevamo presentato una mozione di sfiducia al premier»? «Perché Salvini oggi fa sapere a Di Maio che il suo cellulare è sempre acceso, se fino a ieri voleva votare subito contro Conte al Senato»? E «cosa spiegheremo adesso a quegli imprenditori ai quali avevamo chiesto di esporsi a favore delle elezioni anticipate: che ci va bene anche un rimpasto»?
Il rischio di minare «la credibilità del nostro progetto» è l’accusa più pesante rivolta al segretario, insieme al vociare sempre più insistito contro il suo «cerchio magico», accompagnato dall’interrogativo su chi sia «il vero consigliori di Matteo». I salviniani ovviamente non ci stanno a vedere il Capitano sul banco degli imputati, «perché è ora di finirla con la storia che avrebbe sbagliato i tempi della crisi. La verità è che nessuno aveva previsto la mossa di Renzi, nessuno immaginava che avrebbe teso la mano ai grillini. La sua giravolta ci ha spiazzato».
Ma è un fatto che Salvini non ha colto l’attimo dopo le Europee, e che dopo – raccontano nel Carroccio – si è ritrovato impigliato in alcune scadenze di governo. La più importante è stata il «decreto salva-conti», concordato con l’Europa per evitare la procedura di infrazione. Approvato dal Consiglio dei ministri il primo luglio, è stato convertito in legge il 30 luglio: «In tal senso, Salvini aveva dato precise garanzie a Mattarella, con il quale si era visto riservatamente dopo la visita di Giorgetti al Quirinale». Così viene spiegato il timing della svolta di inizio agosto.
Si vedrà quale sarà il dividendo di questa operazione per il leader del Carroccio, è certo che nella Lega regna un forte scetticismo, «anche perché inseguire Di Maio non ha senso, visto che ora a comandare è Casaleggio. A meno di non riuscire a spaccare il Movimento…». Ecco, il «contro inciucio» di Matteo è la risposta all’inciucio dell’altro Matteo nella «crisi più pazza del mondo», come l’ha definita (divertito) l’ex segretario del Partito democratico. Fino al 20 si andrà avanti così, tra promesse e depistaggi. Come quello di uno dei massimi esponenti del Pd, che l’altro giorno si lamentava per «l’assenza di Berlusconi. Ci fosse stato anche lui a sostenere la nostra operazione…». Ah sì? Allora per chi sta lavorando Gianni Letta?
Il retroscena di Francesco Verderami sul Corriere a pagina 6.
Roberto Calderoli: «Non c’è più margine per tornare indietro. Matteo ha fatto bene, all’80% si va al voto». Intervista sul Corriere (p.6). More
Senatore Roberto Calderoli, non crede che Salvini sia un po’ nervoso negli ultimi giorni, come se si rendesse conto di aver sbagliato mossa?
«Anzitutto, non fa parte del suo carattere. Ma ho constatato tante volte che quello che qualcuno gli contestava come un errore nel breve termine in realtà era una scelta giusta. Salvini ha un fiuto e una capacità di vedere lontano incredibili».
Sicuro che non abbia commesso errori?
«Ha creduto fino in fondo al punto di vista costituzionale».
Dica la verità: era solo una mossa tattica per prendere in contropiede Di Maio.
«No. Salvini ha detto che vuole andare al voto. Di Maio si è detto disponibile a patto di votare prima il taglio dei parlamentari. Bene, di fronte ad un via libera, i 5 Stelle che fanno? Il presidente Fico fissa il voto su quel punto dopo le comunicazioni di Conte…».
Il premier parlerà in Senato il 20 agosto. Cosa si aspetta?
«Ormai mi aspetto di tutto. Ma credo che Conte parlerà in Aula e poi andrà al Quirinale a rassegnare le dimissioni. Quello che succederà dopo è nelle mani del presidente Mattarella».
Quante possibilità ci sono che si vada a votare?
«Dico 70-80 per cento».
Perché è così ottimista?
«Sono in Parlamento da 27 anni e ho visto di tutto. Ma faccio davvero fatica a immaginare Renzi e Di Maio fianco a fianco».
Ci stanno provando.
«Stanno solo cercando un paracadute per tenere il più contratto di governo ma quando ha capito che non c’erano più margini per ottenere risultati ha detto stop. Ha intrapreso la strada più lineare e corretta. Chi si oppone cerca solo di salvare la poltrona. Ma ogni giorno che passa si fa un danno al Paese».
Facciamo un passo indietro. Salvini dice che si possono tagliare i parlamentari e poi andare subito al voto, il Quirinale ha fatto sapere che non è possibile.
«Invece è fattibilissimo. Può essere inopportuno ma non ci sono ostacoli, nemmeno dal possibile la loro poltrona».
È vero che è stato lei a consigliare a Salvini di non dimettersi?
«Salvini decide da solo. Semmai toccava ai 5 Stelle (al premier) prendere atto della fine del rapporto con la Lega e chiudere l’esperienza. Nel momento in cui abbiamo presentato una mozione di sfiducia, che altro c’era da attendere?».
Non poteva farlo Salvini?
«Solo come segnale politico, ma non avrebbe inciso sull’iter della crisi».
Il suo leader non ha sbagliato i tempi della crisi?
«Ha sopportato anche gli insulti più sanguinosi fino a che ha potuto. Poi il rapporto è degenerato».
Lei avrebbe chiuso prima?
«Mah, il primo anno il contratto ha funzionato. Certo, dopo le Europee ha cominciato a ballare tutto».
Salvini dice che ha il telefono sempre acceso. Dietrofront in vista?
«No, non vedo margini».
Roberto Calderoli intervistato da Cesari Zapperi sul Corriere a pagina 6.
Durigon. Il sottosegretario leghista Durigon intervistato da Repubblica: “Con il M5S abbiamo lavorato bene. Non può tornare Renzi”. Sulla sfiducia a Conte decide Salvini. Di sicuro mi pare impervia una alleanza tra il Movimento e i dem. More
«Facciamo decantare un po’ la situazione. Anche perché avevamo lavorato bene per undici mesi…», ragiona Claudio Durigon. Il sottosegretario leghista al Lavoro, un non lontano passato da vicesegretario generale del sindacato di destra Ugl, misura bene le parole. Ma la voglia travolgente di chiudere i ponti coi 5 Stelle per andare subito al voto, espressa per giorni e in tutte le salse da Matteo Salvini, sembra improvvisamente passata. Cosa sta succedendo? Ci state ripensando? «Le decisioni spettano al segretario. La situazione è precipitata da dopo le elezioni Europee però, altrimenti per quasi un anno le cose avevano funzionato. Questo lo ha riconosciuto anche Salvini, che erano state fatte delle cose e bene». E poi la Lega ha preso il 34 per cento e questo ha rotto gli equilibri. «No, il punto è che Salvini ha chiesto più volte nei mesi scorsi, facendo costantemente appelli agli alleati, di smetterla con gli attacchi personali. Poi aggiungendo che bisognava cambiare passo, dire dei sì. E i 5 Stelle non hanno mai ascoltato davvero, gli attacchi sono continuati. Mi stupisce quindi che qualcuno si sia stupito di quanto detto e fatto da Salvini, erano cose che ripeteva da tempo». Ma adesso, a questo punto, cosa vorreste? «Vediamo cosa succede, penso che sicuramente il voto sarebbe la massima espressione della volontà popolare. Oppure si trovano altre strade, nella vita politica succede di tutto». Quindi magari tornate con Luigi Di Maio? «Ripeto, non sono decisioni che spettano a me. Di sicuro mi pare impervia la strada di una alleanza tra Pd e M5S». Ma voi parlamentari e membri del governo non siete destabilizzati da queste continue giravolte dei vertici? «No assolutamente, ho delle idee nette. Come dicevo prima con i colleghi del Movimento abbiamo lavorato bene per diverso tempo, Salvini ha chiesto maggiore convergenza ma alla fine i rapporti si sono lacerati. Trovo pretestuoso però l’atteggiamento di chi cade dal pero, ecco». O questa alleanza va avanti in qualche modo o si torna al voto, insomma. «Questo non lo so, non decido io, faccio una analisi asettica della situazione. Pensare che possano tornare Matteo Renzi o Laura Boldrini mi sembra assurdo, gli stessi che hanno governato fino allo scorso anno e ci hanno lasciato numerosi problemi da risolvere. Un altro governo diverso da questo sarebbe il contrario di tutto, ecco». Con i suoi colleghi del Movimento ha contatti, vi parlate? «Sono stato in vacanza qualche giorno, quindi no, non li ho sentiti». Il 20 quindi cosa fate? Sfiduciate Giuseppe Conte in aula o no? «Per noi decide Salvini».
Claudio Durigon intervistato da Matteo Pucciarelli su Repubblica a pagina 2.
Tentazione Viminale. L’ira del capo Cinquestelle contro il «traditore». La tentazione Viminale. I suoi lo vedono all’Interno: farebbe meglio del leghista. Di Maio aspetta martedì: vedremo chi avrà il coraggio di sfiduciare Conte (Corriere p.3). Lega o Pd, Di Maio al bivio. Il leader 5S non si fida delle offerte di Salvini, sospetta siano solo un diversivo per far saltare il dialogo coi Dem ma è combattuto (Repubblica p.3).
Giorgetti prova a trattare. L’ipotesi Conte come commissario a Bruxelles. I fedelissimi del segretario: “È tutto aperto”. Ma i 5S per ora chiudono. “Di Maio sarà premier”. L’ultima offerta leghista per ricucire coi grillini. Anche diversi forzisti irritati con la Lega: “In caso di voto andiamo da soli” (Stampa p.5). L’altolà di Casaleggio e Grillo: mai più alleati con il Carroccio. I timori di big e parlamentari: «Di loro non possiamo più fidarci». Cresce il fronte del dialogo con i Dem (Messaggero p.2).
Tempo scaduto. Il presidente della Commisisone Affari Costituzionali Giuseppe Brescia, deputato grillino, chiude all’ipotesi di un nuovo accordo giallo-verde. “Ormai è impossibile fare la pace con la Lega. Hanno preso un colpo di sole sbagliando tutto. Con il Pd potremmo trovarci ad esempio sul salario minimo. La Tav? Per noi battaglia persa” (Stampa p.6).
Zingaretti: “Prima voglio vedere la crisi aperta”. Ma i contatti ci sono: Letta e Gentiloni i nomi che girano nel Movimento Da Minniti a Patuanelli: l’ipotesi M5S-dem. Il Pd: no a governi pasticciati di corto respiro. Corre voce che domani arriverà anche la benedizione di Prodi all’accordo (Stampa p.4). Il segretario del Pd adesso teme la figuraccia: “Il governo c’è…” I suoi (ieri Delrio) aprono trattative in pubblico coi 5 Stelle. Il segretario: “Un errore, l’esecutivo gialloverde è ancora lì” (Fatto p.3). E attacca Renzi. Il segretario non ha gradito la fuga in avanti del capogruppo sull’accordo alla tedesca con i 5S. Sull’ex premier: “Mi dava del traditore” (Repubblica p.7). Pd, pressing sul segretario. Ma lui: governo con M5S soltanto se di alto profilo. Cresce il fronte del dialogo, Delrio: contratto scritto, come in Germania. Zingaretti: via tutti gli attuali ministri, condizioni da verificare con il Quirinale (Messaggero p.7).
Il Fatto intervista Minniti. “Salvini ha paura del Metropol. Ora aspettiamo Conte in aula”. Dura accusa alle politiche migratorie del leader leghista e un invito al suo Pd: bisogna far maturare tutta la crisi e poi vediamo. Il gesto di forza compiuto è stato di paura, di una persona in una autentica crisi di nervi. La lettera di Conte è drammatica nei contenuti. Il ministro dell’Interno non ha mai avuto una strategia sui flussi (Fatto p.6).
Il Foglio intervista Carlo Calenda. “Con i grillini il Pd è finito. Elezioni subito o farò un altro partito” “Renzi tradisce i principi liberaldemocratici per tatticismo, gli altri per ideologia. Con Zingaretti non si parlano e i Pd sono due” (Foglio in prima).
Modello tedesco. Tempi troppo stretti e “diversità” il modello tedesco in Italia non va. In Germania ci hanno messo cinque mesi per varare il programma fra Cdu e Spd che, pur avversari, hanno una storia comune
(Messaggero p.7). Christian Petry, responsabile Europa Spd. L’allarme dei socialisti tedeschi: “Un pericolo il voto anticipato La Ue dia una mano all’Italia. Sarebbe spaventoso vedere Salvini al 40%. La politica che predica implica rischi enormi sia in termini economici che sul fronte migratorio (Repubblica p.7). Pd, il dialogo non è peccato. Il commento di Piero Ignazi su Repubblica (p.34).
Conte. «Non torno con Matteo, è sleale». Il premier verso le dimissioni con due alternative: il bis o la Ue. Le ipotesi: potrebbe lasciare martedì oppure due giorni dopo per permettere il via libera al taglio dei parlamentari (Messaggero p.3). Atteso lo show down di Conte al Senato. Elezioni più lontane. Palazzo Chigi fa sapere che «indietro non si torna», ma le incognite sono molte (Sole p.5). Conte non cerca mediazioni, la rottura ormai è insanabile (ma non pensa di candidarsi). L’idea che la «pace» rinvierebbe di pochi mesi la richiesta di urne di Salvini. Il retroscena di Massimo Franco sul Corriere (p.5). More
È singolare, per Giuseppe Conte, ritrovarsi di colpo da assediato a assediante involontario. E soprattutto di dovere questa inedita situazione a chi per mesi si è accreditato e presentato come premier-ombra o in pectore: Matteo Salvini. Comunque vada a finire questa surreale crisi ferragostana, aperta dal vicepremier e ministro dell’Interno con la richiesta perentoria di elezioni e pieni poteri, per il presidente del Consiglio si tratta di una specie di rivincita, seppure amara. Non è ancora chiaro che cosa dirà il 20 agosto in Senato: se davvero potrà gridare «tutta la verità» dei rapporti con la Lega. Ma la stella salviniana sta riemergendo appannata e ammaccata dalle minacce, i proclami in spiaggia e le mezze marce indietro. Forse l’effetto non si vedrà presto nei sondaggi. Di certo si percepisce in alcuni settori dell’opinione pubblica; tra gli alleati, forse ex, del Movimento Cinque Stelle; e, cosa per lui più rischiosa, nelle file del suo Carroccio.
Al punto che qualcuno potrebbe essere tentato di prenderlo in contropiede e cercare le elezioni. Azzardo simmetrico a quello salviniano, perché la sua macchina del consenso rimane formidabile. La sensazione è che a Palazzo Chigi le «comunicazioni» saranno scritte nelle prossime ore, perché non è ancora chiaro se si aprirà una crisi o si assisterà a imprevedibili pasticci dell’ultim’ora.
La possibilità che Conte rimanga alla guida del governo appare esile. La rottura con Salvini è totale, e lo testimonia la lettera aperta che gli ha scritto, infilzandolo sul «suo» tema preferito: l’immigrazione. D’altronde, il presidente del Consiglio non ha mai considerato «i porti chiusi» una politica. L’ha dovuta subire perché, prima e in particolare dopo le Europee di maggio sapeva di essere debole rispetto al leader leghista. Ora che la Lega ha annunciato, anche se non formalizzato, la rottura, si sente più libero di esprimere le sue riserve. Fosse per lui, con Salvini non si dovrebbero più stringere patti, e nemmeno stipulare atipici «contratti» come quello sottoscritto con il vicepremier grillino Luigi Di Maio nel giugno del 2018.
Quanto è successo a ridosso di Ferragosto, col titolare del Viminale tetragono sul voto a ottobre nonostante Conte gli illustrasse, calendario alla mano, le incognite di quell’azzardo, ha posato sul capo del Carroccio una patina di inaffidabilità. Dopo avere prosciugato l’elettorato grillino, e lanciato anatemi contro il «governo dei no», ha rotto la maggioranza a freddo, sbagliando però i tempi e gettando di fatto il Paese nel caos. Il vero ostacolo a una ripresa della collaborazione conflittuale col M5S nasce dal timore che tra qualche mese, intercettando i sondaggi favorevoli, si riaffaccino le brame salviniane: senza più manovre finanziarie e rapporti con l’Europa a fare da argine contro il voto.
È la rottura con Bruxelles che Conte ha sempre considerato come il rischio da scongiurare. Nelle due occasioni, una nel dicembre del 2018, l’altra alcune settimane fa, in cui è riuscito a evitare il commissariamento finanziario dell’Italia da parte della Commissione Ue, il premier ha potuto misurare i danni che le uscite leghiste, più di quelle grilline, possono causare. Nei vertici sono rimbalzate le parole di Salvini sulla Russia nella quale ha detto di sentirsi più a casa che in Europa; e i suoi omaggi ripetuti al trumpismo. Prese di posizione che sabotavano la faticosa trattativa di Conte in raccordo col Quirinale presso le cancellerie continentali; e che sono state registrate come presagi di destabilizzazione in vista della manovra finanziaria; e, nell’immediato, come colpi alla credibilità dell’Italia. Nei giorni scorsi, osservando un Salvini incoronato da decine di selfie, sudato e sorridente in costume sulle spiagge italiane, baciato dai sondaggi e proteso verso le urne, a Palazzo Chigi hanno visto confermato il sospetto di un delirio di onnipotenza: espressione che pare Conte abbia usato più volte negli incontri privati.
La battuta d’arresto ricevuta al Senato, e l’apparizione di una nuova maggioranza, tuttora precaria e embrionale, tra M5S e Partito democratico, hanno però riportato la Lega alla realtà: quella dei rapporti di forza parlamentari e delle procedure costituzionali. E, giorno dopo giorno, il traguardo elettorale si è allontanato come un miraggio sulla spiaggia di Milano Marittima, sottolineando la gestione maldestra dell’ultima fase da parte di Salvini. Adesso lo ammettono anche alcuni dei suoi, seppure a voce non troppo alta, perché non si sa come andrà finire. E Conte, l’assediato che si ritrova nel ruolo di assediante involontario, si prepara a uscire da Palazzo Chigi con l’aria serafica con la quale ci è entrato: come uno apparentemente di passaggio. Per questo è improbabile che, quando ci saranno, si candiderà alle elezioni. Piuttosto, si vede nel bel mezzo del traffico romano con la calma surreale di un Ernesto Calindri che nella vecchia pubblicità del Cynar sedeva a un tavolino sorseggiando l’amaro «contro il logorio della vita moderna».
Massimo Franco sul Corriere a pagina 5.
Gli editoriali 2. Accattonaggio molesto. Marco travaglio sul fatto. Il più grande partito morente. Che torni con Salvini o vada col Pd, per il M5s la pacchia è finita. Champagne. Claudio Cerasa sul Foglio. Fare acqua: “Se avanzo, indietreggiatemi”. Trux e i liberali per il Trux gavettonati. E ora prendete bene la mira. Giuliano Ferrara sul Foglio.
Mattarella rientra dalla Sardegna. E pretende chiarezza sugli sbocchi della crisi. Se alle consultazioni i partiti chiederanno tempo per un’intesa non lo negherà (Corriere p.2). Consultazioni-lampo se Conte si dimette. Il Capo dello Stato vuole evitare forzature parlamentari. Le Camere potrebbero essere sciolte dopo il 23 agosto. Attesa per le mosse dei partiti. Il Quirinale vuole salvaguardare l’economia (Stampa p.6). Mattarella non vuole pasticci ma patti di lunga durata. Il Quirinale non tifa per il ribaltone e alza l’asticella per evitare intese di breve respiro. Se si andrà al voto Salvini non gestirà le elezioni restando all’Interno: più probabile un governo elettorale guidato da Casellati. Il presidente in ferie alla Maddalena sarebbe dovuto tornare a Roma lunedì ma ha anticipato il rientro (Repubblica p.6). Reincarico o Cantone: le carte del Colle Il capo dello Stato valuta tutte le ipotesi e attende le mosse dei partiti (Giornale p.3).
Landini. Repubblica intervista il segretario della Cgil Maurizio Landini: “Basta interessi personali. Serve un governo”. Conte nella lettera a Salvini parla di slealtà e strappi istituzionali. Sta a Mattarella verificare le condizioni per un nuovo esecutivo. Le parole del leader leghista evocano dittature: bisogna difendere la democrazia, la magistratura e la libertà di stampa. Sindacato e sinistra in ritardo nel dialogo con il mondo del lavoro, ma ci sono le condizioni per recuperare. Corpi intermedi essenziali (Repubblica p.8).
Bersani. E Pier Luigi Bersani scrive a Repubblica (p.8): Sia la sinistra che i grillini devono essere pronti a cambiare.
Centrodestra. Banda dei 4 e Partito Mediaset: i due forni di Berlusconi. Forza Italia, il partito è diviso tra chi vuole l’accordo con Salvini e chi rimpiange il Nazareno. Mulè, Ronzulli, Casellati e Bernini (con Ghedini) spingono per la Lega, ma Gianni Letta vigila (Fatto p.4). La rabbia dei berlusconiani: il vicepremier non sta ai patti. Fi: «c’era un accordo elettorale, sì al nostro simbolo e conferma per gli uscenti» (Messaggero p.4). Fi ora teme i giallorossi. Berlusconi preoccupato dal governo Pd-M5s. Il governatore ligure presenta il suo simbolo (Giornale p.7). Berlusconi deluso dal Carroccio. Riapre all’ipotesi governissimo. Azzurri furiosi per le mosse di Salvini, il Cav è convinto che sinistra e pentastellati troveranno facilmente un accordo. Così medita di appoggiare il nuovo esecutivo (Libero p.6).
Il tradimento. Il «tradimento» in politica non porta bene. Da Fini e Alfano a Renzi, tutte le vittime. Di Battista accusa il leader della Lega di avere rotto il patto. E lascia Matteo col cerino in mano. Quando Bossi mollò Berlusconi per mandare Lamberto Dini a Palazzo Chigi. Adesso anche i grillini scoprono la tentazione di «aprire» a Zingaretti. Vittorio Macioce sul Giornale in prima.
Giuramenti di fedeltà eterni per tradirsi meglio e (forse) ritrovarsi dopo mesi d’insulti e minacce. Salvini-Di Maio come un film con Liz Taylor e Richard Burton. Ma anche gli altri non scherzano. Odio e amore, così il tira e molla è diventato forma di governo. La storia italiana segnata da inimicizie epiche, mai viste relazioni così volatili (Stampa p.7).
Open Arms, si muovono i pm: «Sequestro e violenza privata». La Guardia Costiera: sbarco, non c’è impedimento. Scontro sulla salute dei migranti (Corriere p.10). La Guardia costiera si dissocia dal Viminale. “Fate attraccare la nave dei migranti a Lampedusa”. La procura indaga per sequestro di persona. Il comandante: “Si temono episodi di autolesionismo”. Salvini: “Falso, ci prendono in giro” (Repubblica p.10). L’Ue: “Open Arms, situazione insostenibile”. La Procura indaga per sequestro di persona L’inchiesta punta su Salvini, ma il Viminale sfida il Tar: “Emergenza medica? Una balla”. Sei paesi pronti ad accogliere (Stampa p.8). A bordo della Ocean Viking: “Dovrebbero scendere il prima possibile. Non li riporteremo mai in Libia, non è sicuro. Noi seguiamo le leggi internazionali del mare. L’Italia ancora non risponde, ma restiamo in attesa” (Stampa p.8). Rinnegati tutti i porti chiusi. Conte si rifà la verginità per il governo dell’invasione. Il premier che ieri elogiava l’85% di sbarchi in meno adesso attacca “l’ossessione” di Salvini. Il cambio di rotta clamoroso, benedetto dal Colle, serve a convincere i dem (Verità p.2).
Il medico che nega l’emergenza “Gli sbarcati stanno bene al massimo c’è chi ha un’otite”
«Macché gravissimi, i 13 migranti sbarcati dalla Open Arms stanno tutti bene, anche meglio di me», continua a ripetere al telefono il dottore Francesco Cascio, il sei volte deputato di Forza Italia (fra Parlamento e Regione) che oggi fa il responsabile del Poliambulatorio di Lampedusa. È lui il successore di Pietro Bartolo, il medico eroe dell’isola che ha curato migliaia di migranti, diventato eurodeputato del Pd (Repubblica p.10).
Scusi, Cascio, in che senso stanno tutti bene? Il Corpo sanitario dell’Ordine di Malta ha stilato un referto che descrive condizioni gravissime a bordo. «Anche il poliambulatorio che dirigo ha stilato dei referti. Abbiamo riscontrato solo un caso di otite in una ragazza». Sui social qualcuno le dà già del negazionista, Salvini ha invece ritwittato le sue parole. «Non vado da giorni sul web, per adesso sono fuori da tutto». Dunque non li ha visitati lei i 13 migranti sbarcati. «No, perché sono in vacanza con la famiglia. Ho preso un giorno di ferie, lunedì sarò nuovamente al mio posto. Però, mi fido ciecamente dei medici che lavorano con me». Possibile che ci siano dei referti così contrastanti? A bordo era stata segnalata anche una donna affetta da emorragia vaginale. «Mi hanno detto che sul web qualcuno ha scritto: Cascio fa l’occhiolino alla Lega. Ma io parlo con i fatti. Quella donna aveva l’emoglobina a 11,6. Sta davvero meglio di me». Beh, è vero che la politica logora, ma sempre meglio di una traversata su un barcone. Davvero nessuna tentazione di salire a bordo della nave leghista? «Con la politica ho chiuso, fra tante amarezze. Sono decaduto da un seggio all’assemblea regionale siciliana dopo una condanna per corruzione, ma poi la Cassazione mi ha assolto. E nei mesi scorsi sono finito addirittura ai domiciliari per un’altra storia, ma il tribunale del Riesame ha annullato l’ordinanza». I magistrati di Trapani l’accusano di fatto arrivare la notizia di un’indagine al gran maestro di una loggia segreta. «Io non c’entro niente con questa storia. Adesso, faccio solo il dottore a tempo pieno all’Asp di Palermo. E da un anno e tre mesi, ogni 15 giorni, vado a Lampedusa e ci resto per una settimana. Sa quanti pazienti abbiamo d’estate? Sessanta al giorno, e nessuno mai si è lamentato». I suoi collaboratori sono gli stessi che lavoravano con Bartolo? «Qui, sull’isola, i medici ruotano continuamente. E poi Pietro Bartolo è mio amico, ha fatto un gran lavoro, ma se c’è qualcuno che ha beneficiato della questione immigrazione per fare politica è proprio lui». Ma come si fa a ignorare quel referto che parla di venti casi di scabbia a bordo? «C’è davvero la scabbia su quella nave? E allora perché non li fanno sbarcare?». Ecco, perché? «Non mi occupo più di politica. Giuro».
Il superstite in ospedale a Malta (Corriere p.10). Mohammed il sopravvissuto. “Partiti in quindici ho resistito solo io” Il dramma del naufrago recuperato su un gommone. Undici giorni alla deriva: via via che gli altri morivano gettavamo i corpi in mare. L’ultimo, Ismail, mi ha detto: buttiamo via il cellulare e facciamola finita insieme. Ma io volevo vivere (Repubblica p.11).
Ong contestata. Sul molo contestazioni a Riccardo Gatti, capomissione della Ong spagnola. Lampedusa indifferente ai “prigionieri” della nave: “Perché li mandate qui?” Richard Gere: “Questi sono angeli sopravvissuti alla Libia” (Stampa p.9).
De Falco (ex m5s) “Ora i magistrati intervengano con forza pubblica” (Stampa p.9).
Merkel e Sophia. Dopo lo stop a Sophia, Berlino disponibile a una nuova missione militare Ue. La Germania auspica una riedizione dell’operazione europea “Sophia” oltre a “navi statali” che salvino migranti. A dichiararlo la stessa cancelliera Angela Merkel durante un incontro che si è svolto a Berlino (Fatto p.4). Merkel rilancia «Navi di Stato peri salvataggi in mare» Corriere p.10
Editoriali. Quegli uomini bianchi che litigano sul destino dei disperati. I migranti usati per guadagnar punti nella partita della crisi. Il commento di Domenico Quirico sulla Stampa (p.23). Ostaggi della campagna elettorale. I migranti di Open Arms non sbarcano: la gara dell’ipocrisia tra Lega e M5s (Foglio pagina 3). Scenderanno tutti. Mi creda, Salvini, tutta quella sofferenza in più non le serve, non le è utile. E lei ha già perso. Una lettera di Sandro Veronesi al Foglio
Siena. Il Palio di Siena alla Selva per un soffio cade il fantino, il cavallo scosso vince (Messaggero p.15).
Emozioni, brividi e suspense al Palio di Siena dove vince la Selva con il cavallo Remorex “scosso”, ovvero senza il fantino Giovanni Atzeni detto Tittia, caduto a metà corsa per aver urtato in curva un colonnino in pietra. Dopo una lunga rimonta e aver messo alle spalle due rivali, il cavallo della Selva supera all’arrivo anche il Bruco di un frammento di muso. Così accertano i giudici della corsa, bruciando di delusione i contradaioli del Bruco che già stavano reclamando la consegna del “drappellone” dipinto da Milo Manara. Verdetto rovesciato, dunque, e Palio assegnato alla Selva, con clamoroso colpo di scena. È il secondo Palio vinto dal cavallo Remorex, che si afferma come “specialista” dei trionfi da scosso. Così aveva primeggiato per la contrada della Tartuca anche al Palio straordinario dell’ottobre 2018
Repubblica p.27
Bell’Italia. Passeggia a torso nudo 250 euro di multa.
Difficilmente dimenticherà il Ferragosto trascorso ad Agropoli (Salerno). Un turista di mezza età, residente a Napoli, infatti, è il primo a essere incappato nell’ordinanza pro-decoro varata nei giorni scorsi dal sindaco, Adamo Coppola.
Messaggero p.15
“Mia figlia è nata e sta bene ma non multate più in bus una donna con le doglie”
Sentivo forti dolori e ho avuto paura. Non pensavo al biglietto, volevo solo arrivare in ospedale prima possibile
Penso che quel controllore non abbia agito con coscienza Anche a un pubblico ufficiale è richiesta un po’ di sensibilità
Repubblica p.17
Da tutta Italia per salutare Nadia. «Grazie, davi voce ai più deboli» Toffa,folla aifunerali.I pullman dalla Puglia.I colleghi: «Non sopportava l’ingiustizia»
Il prete di Caivano DonPatriciello celebra lamessa «Con leisiamo tutti in debito»
Corriere p.19
Medici. Sos pronto soccorso. Dal Veneto alla Puglia largo ai neolaureati. Anche la Toscana assume non specializzati Alt dei sindacati: così aumenta il precariato (Repubblica p.15). Giochi pericolosi sui medici. Il commento di Daniela Minerva su Repubblica (p.34).
Bce. La Bce risfodera il bazooka: “Interveniamo contro la crisi”. Il governatore della banca finlandese Olli Rehn: “A settembre il Quantitative easing 2 e un nuovo taglio al costo del denaro” (Repubblica p.28). “Occorre non deludere le borse”. Verso 50 miliardi di euro al mese. La riapertura del Qe può essere accompagnata da un taglio sui depositi. Allo studio anche l’acquisto dei crediti bancari e delle quote di fondi. A settembre è importante che la Bce intervenga con un pacchetto significativo. Standard & Poor’s: per l’economia Usa aumentano i rischi di recessione (Stampa p.16). Prove generali d’intervento Bce, i mercati ora ci credono. Milano recupera l’1,51% dopo l’apertura di Olli Rehn a mosse «significative e d’impatto» dell’Eurotower a settembre. Euro di nuovo sotto 1,11 (Sole p.3). L’economista tedesco Guntram Wolff: “Serve una politica fiscale più incisiva” “Nell’Ue tassi d’interesse ancora più negativi. Un bene per la ripresa”. Lagarde con il suo background gestirà bene il processo decisionale sulla politica monetaria. Le azioni della Bce sono molto meno utili di quanto non fossero in passato con i tassi alti (Stampa p.16).
Germania. Germania, se sarà recessione governo pronto a nuovo debito. Le rivelazioni di Spiegel: gli economisti stimano il bisogno di investimenti in oltre 500 miliardi. Merkel e Scholz sarebbero disposti a rinunciare al pareggio di bilancio (Sole p.12). Il paradosso della Germania in crisi che finanzia il suo boia Trump. La locomotiva d’Europa ha bisogno di una revisione ma non riesce a trovare strategia migliore di comprare titoli americani (Foglio p.3). Grosso guaio alla Deutsche Bank. Il fondo americano Cerberus, quarto azionista dell’istituto tedesco, contro il piano per liberarsi dei crediti tossici. L’istituto tedesco detiene in pancia quasi 50mila miliardi di euro in derivati finanziari (Manifesto p.7).
Cina. Cina in frenata più del previsto e non solo per colpa dei dazi Usa. Consumi deboli. Il crollo delle vendite di auto spia di problemi che vanno oltre la guerra commerciale. Un nuovo rapporto di Rhodium Group (Usa): «Dati ufficiali irrealistici» (Sole p.13).
Ex Ilva. Un colpo d’acceleratore per salvare l’ex Ilva. Il decreto Imprese inviato al Colle: possibile la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale già il 19 (Corriere p.28). Assunzioni, ambiente, indotto: le promesse mancate all’ex Ilva. Dopo l’iniziale apertura, il gruppo ha impugnato la revisione delle autorizzazioni. Un anno con i nuovi padroni di ArcelorMittal (Fatto p.15). Ilva, l’immunità andrà avanti a Camere aperte. Sarà un caso, ma nelle stesse ore in cui spunta l’ipotesi di un ricompattamento Lega-M5S, si sblocca (almeno a parole) il caso Ilva. Il Decreto imprese che prevede la reintroduzione di una parziale immunità penale per i manager ArcelorMittal, sarebbe in viaggio da palazzo Chigi al Quirinale per poi approdare in Gazzetta Ufficiale. Il provvedimento, era stato approvato “salvo intese”. Il rinvio della pubblicazione, dicono fonti governative, era solo per non sottrarre un mese di tempo all’esame del Parlamento prossimo alla chiusura estiva. L’improvvisa riapertura delle Camere consentirebbe ora invece la pubblicazione e, dunque, di scongiurare l’addio all’acciaieria minacciato da ArcelorMittal per il 6 settembre, scadenza dell’immunità originaria. I sindacati restano guardinghi e i genitori tarantini con l’incubo dell’inquinamento accusano Di Maio di tradimento. Ma come insegna la crisi politica più pazza del mondo, può ancora succedere di tutto.
Marco Patucchi su Repubblica a pagina 28.
Dazi. I dazi dei quattro cantoni. Usa, Cina, Europa e Russia tutti contro tutti. Una guerra che ora comincia a spaventare pure chi l’ha scatenata. Trump, che ha scatenato la guerra, si sta incartando e comincia a rendersene conto. La nuova ondata di dazi è rinviata a dicembre. Stefanp Cingolani sul Foglio a pagina III.
Banche. Banche, 45 miliardi di utili grazie anche ai tagli al personale. In quattro anni, dal 2017 al 2020, le banche italiane realizzeranno oltre 45 miliardi di utili, grazie anche a un taglio delle spese del personale e a un cost-income (il rapporto tra costi operativi e margine di intermediazione) fra i migliori di Europa. I numeri, elaborati dalla Fabi su dati Bce, Bankitalia e sulla base dei bilanci dei gruppi bancari, sono anticipati dall’Agi. Numeri che dimostrano come il settore creditizio si sia rimesso in piedi, tornando alla redditività e asciugando il numero di dipendenti. Tanto che oggi le banche italiane hanno raggiunto efficienza operativa fra le migliori in Europa, con un costo del lavoro che pesa soltanto per il 30% dei ricavi. Nel dettaglio, nel 2017 e nel 2018, sono già stati realizzati 10 miliardi di utili l’anno, con il miglior risultato dal 2009. Nel 2019 secondo stime Abi si arriverà a 10, 9 miliardi e a 14, 3 miliardi nel 2020. Anche i costi operativi, che comprendono spese generali e spese per il personale, sono diminuiti passando dai 60, 6 miliardi del 2016 a 55, 8 del 2017 (Stampa p.17).
Report choc. General Electric, report choc: «Come Enron». Markopolos, la talpa che scoprì la truffa di Madoff, accusa la società: «Esposta per 38 miliardi di dollari». Il numero uno di Generfal Electric, Culp, contro il moralizzatore: solo speculazione. Il titolo prima crolla poi rimbalza (Messaggero p.17). Il report: le perdite sarebbero superiori a 38miliardi. La società: manipolazione. Harry Markopolos, 62 anni, è l’investigatore che, dopo diversi anni di segnalazioni alla Sec, dimostrò di aver visto giusto sul caso Madoff, il maggior «schema Ponzi» privato della storia finanziaria (Corriere p.29).
Pa. Dagli appalti alla Pa mancano 278 decreti. Provvedimenti attuativi mai varati. C’è anche l’anticipo del Tfr agli statali. Il Reddito ancora senza controlli, buchi su sicurezza e immigrazione. (Messaggero p.9).
La lotta alla mafia non si ferma. Ma certo rallenta un po’. La crisi di governo inceppa la macchina burocratica al punto tale da bloccare un mucchio di provvedimenti che aspettavano solo l’input politico per andare in porto. Sono ben 278 i decreti attuativi da adottare per rendere esecutive le leggi e le riforme dell’esecutivo Conte. Ma ora, senza una guida, i funzionari fanno cadere le penne e i ministeri si fermano. Tanto che, appunto, chissà quando arriveranno i criteri che servono all’Agenzia nazionale per stabilire la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Anche la lotta all’immigrazione clandestina, tanto cara al ministro degli Interni, Matteo Salvini, rischia di incassare una pesante battuta d’arresto. Gli uffici del Viminale e degli Affari Esteri, tanto per fare un esempio, devono ancora stendere l’elenco dei Paesi di origine sicuri sulla base di criteri definiti dalla legge per la valutazione delle domande di protezione internazionale. Una carta senza la quale l’Italia non ha una bussola in materia di accoglienza.
Hong Kong. “Ora abbiamo paura”. Il weekend di lotta nell’Hong Kong divisa. La barriera invisibile tra la città ribelle e gli abitanti filo cinesi. I ricchi temono per gli affari: “Troppi danni dalla protesta”. L’83% degli intervistati si dice disposto a chiudere un occhio sulle reazioni violente della piazza. Il 71% dei cittadini non va orgoglioso della madrepatria, solo l’11% si definisce “cinese”. I “Lennon Wall” sono uno dei simboli della rivolta: pensierini e slogan scritti dai giovanissimi (e non solo) in inglese e cinese: “Vogliamo democrazia, dateci i nostri diritti”. Migliaia di post-it sui muri al grido della libertà. Il presidente si dice “preoccupato”. Trump tenta la mediazione: “Xi parli con i manifestanti. Se il presidente incontrasse direttamente e personalmente i manifestanti, ci sarebbe una conclusione lieta” (Stampa p.2). L’appello criptico del miliardario: «Hong Kong è un melone rotto». Li Ka-shing ha acquistato due pagine di giornale per dire a Pechino: basta violenza sui ribelli (Corriere p.12.
Brexit. Ultima spiaggia Brexit. L’opposizione britannica pensa al ribaltone per fermare il no deal, ma Corbyn rischia di rovinare tutto (Foglio prima). Corbyn si candida a premier. Per evitare la Brexit dura. L’idea del leader labour per rinviare l’addio all’Europa raccoglie più dubbi che consensi
(Repubblica p.22). Il paradosso di Corbyn nel fronte anti No Deal (Corriere pag.9).
LONDRA Dai drammi storici shakespeariani alla caduta di Margaret Thatcher, la politica inglese ha una tradizione lunghissima di congiure fratricide e spietati cambi di leadership: quello che mancava era il lessico — governicchi a termine, inciuci, ribaltoni — della politica italiana. È la fine della serietà britannica di una volta, asfaltata nel conto alla rovescia verso la Brexit (31 ottobre), con il salto del buio del No Deal, l’uscita dall’Unione senza accordi. È l’ora, italianissima, di accordi trasversali, ipotesi di governi a interim, incerte trattative a mezzo stampa. La frangia dei ribelli conservatori ieri si è alleata con i liberaldemocratici: fermare il primo ministro Boris Johnson e «kamikaze della Brexit» e affondare il No Deal con quello che in Italia definiremmo un governo di unità nazionale. Con quale premier a interim, votato da parlamentari disposti a turarsi montanellianamente il naso? L’odiato (dai Tories, e molto poco amato dalla minoranza interna al Labour) Jeremy Corbyn, ormai abituato a fare slalom tra le fazioni della Brexit con instancabile ambiguità? Il sindaco laburista di Londra Sadiq Khan, che nei fatti è rimasto il più strenuo oppositore della Brexit, in serata ha dato l’endorsement a Corbyn dopo che emergeva sempre più concreta l’ipotesi «istituzionale», in corsa i due veterani Harriet Harman (laburista) e Kenneth Clarke (conservatore). Tutto pur di rimpiazzare Boris Johnson incartato sul No Deal come Theresa May prima di lui. Jo Swinson, leader liberaldemocratica, è per un governo a termine di Harman o Clarke, e spera di diventare decisiva: subito i conservatori duri come Iain Duncan Smith gridano al «tradimento». Tutti in realtà temono il voto, che potrebbe magari rafforzare Johnson e spezzare la schiena a ciò che resta del Remain. Peccato che mesi fa, ai Comuni, fosse in discussione un emendamento che avrebbe reso impossibile il No Deal: bastava votare sì. E Corbyn aveva imposto l’astensione ai laburisti.
Matteo Persivale sul Corriere a pagina 9.
Groelandia. Trump vuole comprare la Groenlandia. Il governo: “Grazie, non siamo in vendita”. Il presidente Usa punta ad accaparrarsi le risorse dell’isola danese per superare la Cina nella corsa all’Artico. Il presidente vorrebbe approfittare dei “problemi finanziari” di Copenhagen (Stampa p.11). La Groenlandia non si scioglie davanti ai dollari di Trump. Il presidente Usa rilancia l’idea di comprare l’isola ricca di risorse per scompaginare i piani di Russia e Cina (Fatto p.16). Miniere d’oro, petrolio e basi aeree. Il forziere di ghiaccio che Trump vuole comprare. Enrico Franceschini su Repubblica a pagina 19.
Epstein. L’Fbi scova la stanza segreta di St. James. Caccia all’archivio dei filmini di Epstein. I video sarebbero centinaia e potrebbero raffigurare anche gli ospiti con le ragazze. Confermata la tesi del suicidio per l’ex finanziere amico dei potenti Stampa p.10). «Epstein aveva due vite mi pento di averlo difeso. E io non sono complice». L’autopsia conferma il suicidio. L’avvocato: brillante e bugiardo (Corriere p.11).
Israele e Trump. Su richiesta del leader Usa, Tel Aviv vieta l’ingresso a Tlaib e Omar, componenti dell’ala radicale del partito. Il presidente che ha spostato l’ambasciata americana a Gerusalemme e che ha riconosciuto la sovranità d’Israele sulle alture del Golan, è passato all’incasso con una richiesta sconcertante: ha suggerito al governo israeliano di negare il visto a due parlamentari Usa filo-palestinesi. In cambio del suo sostegno incondizionato a Benjamin Netanyahu. Federico Rampini su Repubblica (p.12). Israele, l’errore di Trump. Il commento di Thomas L. Friedman su Repubblica a pagina 35 Lo voglio dire con la massima semplicità e chiarezza: se siete ebrei americani e pensate di votare per Donald Trump perché ritenete che sia filoisraeliano, siete pazzi da legare.
Kashmir. Armi e minacce così muore la valle incantata. La scelta di Modi di cancellare l’autonomia della regione musulmana è il segnale di un’India sempre più estremista e intollerante (Repubblica p.13).
Tutor. Tornano i Tutor. Autostrade vince in Cassazione. I giudici danno ragione al concessionario nella disputa con Craft “Nessuna contraffazione, le due società usano sistemi diversi” (Stampa p.12). La Corte: sui sistemi di controllo non ci fu nessuna violazione del brevetto. A sospendere il servizio Tutor sulle autostrade italiane un anno fa era stata la sentenza di un tribunale. Ora un’altra sentenza, questa volta della Corte di Cassazione, lo ha ripristinato. Così nella guerra dei sistemi informatici, che consentono di punire gli automobilisti che superano i limiti di velocità, a spuntarla è stata Autostrade per l’Italia. Al termine di una lunghissima querelle giuridica, iniziata nel 2006. La Corte di Cassazione ha infatti ritenuto del tutto infondati i motivi per i quali la Corte d’Appello di Roma, il 10 aprile 2018, aveva ritenuto che il sistema di controllo della velocità media, cosiddetto Tutor, violasse le norme relative alla proprietà intellettuale della società Craft e dovesse essere rimosso. In sostanza, la suprema corte ha ritenuto che non si possano «brevettare» le formule matematiche e che il sistema utilizzato da Autostrade per l’Italia fosse diverso da quello della società Craft (Corriere p.17).
Diabolik, intesa con i parenti. I funerali al Divino Amore. La Questura di Roma toglie il veto: il capo ultrà della Lazio potrà avere esequie pubbliche. Il rito giovedì, ma non dovranno esserci più di 100 persone. Cremazione a Prima Porta (Messaggero p.13).
Travolto e ucciso mentre va in bici il pm che incastrò la coppia dell’acido. Attraverso le sue indagini è possibile raccontare la storia della criminalità organizzata in Italia, tra la Sicilia di Cosa Nostra e la Lombardia colonizzata dai clan della ‘ndrangheta. Perchè oltre a essere stato uno dei magistrati di punta della Dda a Milano, dove era in organico già a metà degli anni ‘90, Marcello Musso fu magistrato antimafia a Palermo – prima di tornare nel capoluogo lombardo – e scavò anche nei segreti siciliani, come gli omicidi irrisolti e i casi di “lupara bianca” nella guerra di mafia scatenata negli anni ‘80 dai Corleonesi di Totò Riina. Marcello Musso non amava le vacanze, per questo era rimasto al lavoro nella sua stanza al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano fino a pochi giorni fa. Poi era partito per Agliano, nell’Astigiano, dove vive l’anziana madre 96enne, il fratello, la sorella e i suoi nipoti. E ieri pomeriggio, a pochi metri da casa della madre, sulla strada che collega Costigliole d’Asti ad Agliano, è stato travolto da un’auto, mentre era in bicicletta. Pm tenace e appassionato del suo lavoro, verrà ricordato – oltre per il suo impegno antimafia – per l’indagine su Martina Levato e Alexander Boettcher, la “coppia dell’acido”, per i quali ottenne una dura condanna. In quei giorni stupì tutti presentandosi alla clinica Mangiagalli con un paio di scarpette da regalare al figlio della coppia, appena nato. “Con infinita tenerezza per un lungo cammino”, aveva scritto nel biglietto. «Marcello Musso ci lascia con lo stesso stile con cui ha vissuto, con discrezione e distanza da ogni retorica», lo ha ricordato ieri l’Associazione nazionale magistrati (Repubblica p.27).
Il re del Viminale. Salvini chi? E’ il prefetto Piantedosi l’uomo al vertice del ministero dell’Interno. Storia e ambizioni dell’uomo d’ordine più importante d’Italia (Foglio pagina IV).
Buongiorno. Salvini tenta il colpo di scena: tagliamo i parlamentari e poi andiamo al voto. Di Maio chiede allora di non sfiduciare Conte. Intanto in Senato Salvini va sotto contro una nuova maggioranza. Il premier non sarà in aula oggi come chiedeva Salvini, ma il 20. Trump rinvia i dazi e le borse brindano. Oggi è l’anniversario del ponte Morandi. Èmorta Nadia Toffa. Buona lettura a tutti.













Salvini sfida Di Maio. «Taglio dei parlamentari e urne». Ma la mossa leghista non passa. E lui: allora non sfiduci Conte (Corriere p.2). In Senato spunta una nuova maggioranza (grillini, Pd e Leu). Battuto il centrodestra: Conte in aula il 20 agosto, e non oggi (Repubblica p.2). Un’astuzia fuori tempo. Stefano Folli su Repubblica (p.30). Il trucco di Salvini: taglio agli eletti, ma dal 2024… (Fatto p.2). Primo autogol di Salvini: il partito dell’inciucio in Senato arriva a quota 162. Il vicepremier impone il voto nonostante i dubbi di Fi e Fdi. Maggioranza assoluta per M5s, Pd e Leu (Giornale p.3). La via d’uscita dalla crisi: l’imbroglio. L’accozzaglia di chi vuol prendere tempo ha una speranza: che qualche pm azzoppi i leghisti (Libero p.3).
Lo «stupore» del Colle: non si può congelare una legge costituzionale. Per il Quirinale Salvini «cambia le carte in tavola». Corriere p.5 Avviso di Mattarella: impensabile fare la riforma e andare al voto. sciogliere le Camere lederebbe il diritto a chiedere il referendum (Repubblica p.5). Il costituzionalista Azzariti su Repubblica (p.5): “Secondo la Costituzione bisogna fare un referendum”. Sul Giornale (p.4): «L’iter dettato dal leader leghista? Sì, è possibile andare subito alle elezioni. Ma la riforma costituzionale non entrerebbe subito in vigore».
Scenari. La mossa di Fico per tenere aperta la trattativa col Pd. La riforma in calendario alla Camera dopo la sfiducia: se Conte cade, salta. Di Maio: l’obiettivo è di legislatura (Repubblica p.3). Il premier il 20, la riforma due giorni dopo. Il rompicapo dei calendari incrociati. Per il M5S Salvini è all’angolo (Corriere p.5). Il no del Senato mette in forse le certezze del Carroccio. Confermato il calendario voluto dal Movimento e dal Pd. Un Salvini in difesa rinuncia a ritirare i suoi ministri dal governo. Massimo Franco sul Corriere (p.8). Prove (difficili) di ritorno al bipolarismo. Il commento di Roberto D’Alimonte sul Sole. (p.3).
Le urne si allontanano. L’ipotesi di un Conte bis. Il premier alla finestra: «Se resterei? Dare una risposta ora è prematuro, vediamo se mi sfiduciano. In aula vado lo stesso». Per lui i giochi si sono riaperti (Messaggero p.3). Il premier: conta il Paese, non il colore politico. Siamo qui per costruire non per distruggere. Conta chi hai di fronte se vuoi lavorare per la comunità. E frena chi attacca Salvini (Corriere p.9). Da Conte dimezzato a jolly. Così il premier spera nel bis. L’avvocato del popolo prepara l’intervento in Senato. Pronto per altri ruoli: ministro o commissario europeo (Giornale p.6).
Quattro nomi per il dopo Conte. La trattativa sottotraccia è partita. Da 48 ore gli sherpa di Partito democratico e Movimento 5 Stelle hanno cominciato i contatti informali. Nella rosa di nomi per Palazzo Chigi due tecnici e due politici. Sullo sfondo le elezioni per il Quirinale del 2022 (Stampa p.7). Esecutivo Cantone, anzi Fico: la trattativa Pd-pentastellati. Zingaretti negozia, il nodo del programma. Spunta anche il nome di Flick, gradito a M5S (Messaggero p.7). Ne||’esecutivo horror si salva Tria. Dentro Fico, Giachetti e Minniti. Peri veti incrociati, nessun big Pd e M5s. Il Colle chiederebbe garanzie per Moavero (Verità p.5). L’anno bellissimo del monocolore del Bisconte. Analisi logica. I grillozzi si prendano le loro responsabilità, con fiducia del Pd, e il Truce sarà spacciato. Date retta all’ex togliattiano. L’editoriale di Giuliano Ferrara sul Foglio.
Il Fatto intervista Di Maio: “Non mi fido di Salvini: la sua è la mossa della disperazione”. Sulle elezioni anticipate o su eventuali nuovi governi potrà decidere soltanto Mattarella. Io voglio tagliare le poltrone, lui punta a mantenere quei 345 posti anche nella prossima legislatura. Ero preoccupato, perché ogni giorno spingeva per rompere. Ma quel che conta sono i danni della sua decisione. Un nuovo governo si potrà insediare solo dal 1° dicembre. E nel frattempo non si potrà rinnovare il reddito di cittadinanza e non si potrà fare la manovra. Salvini è un irresponsabile (Fatto p.4).
Il Corriere intervista Salvini: «Il reddito di cittadinanza va verificato subito. Così non si assume più». Salvini: l’inciucio è pronto, voglio proprio vederli tutti insieme. Io ho preso tali e quali le parole di Di Maio: diceva che dopo il taglio delle Camere si votava. Quindi prima voti quello, poi si apre la crisi. Con Berlusconi ci siamo sentiti per telefono. Le vecchie etichette sono del tutto superate. Nessuno vuole inglobare nessuno. Io voglio fare una legge di bilancio importante e coraggiosa con una persona di cui si fida il mondo come Giancarlo Giorgetti. Ho avuto i brividi a immaginare una manovra Renzi, Boschi, Fico e Toninelli. E mi sono detto: facciamoli uscire allo scoperto (Corriere p.6). Il leader leghista convinto che dem e grillini non reggeranno. Salvini adesso si prepara a scatenare le piazze: un accrocco vergognoso (Stampa p.4).
I 5Stelle: dalla Lega solo un bluff. Le aperture al governo con i dem. L’esecutivo politico di Bettini piace agli ortodossi. Di Maio aspetta ma non lo esclude (Corriere p.9). M5S spiazzato. Il capogruppo furioso con la Lega: perché questa svolta sul taglio dei parlamentari? Di Maio resiste. Ma il patto col Pd non piace a tutti (Stampa p.5). Il sondaggista Noto: «Il partito di Renzi è sotto il 5 per cento». Italiani stanchi, vogliono le urne. «L’intesa Pd-M5s non dà fiducia» (Qn p.5).
Il no di FI a una lista comune. Salta l’incontro con Salvini: «Non rinunciamo all’identità». Ma a Palazzo Madama il centrodestra resta unito. Renato Schifani: «Questa alleanza è l’unica compatta Ma con le fusioni si perdono voti» (Corriere p.10). Il fallito blitz salvinano rallenta l’incontro col Cavaliere. Ma i due si sentono. S’inceppa la trattativa con Berlusconi (Stampa p.4). Per i sondaggisti centrodestra vicino al 50%. Risso (Swg): ma di solito quando più forze si aggregano, qualche punto si perde. Noto: «Da questa crisi Salvini potrebbe uscire rafforzato ma anche indebolito» (Sole p.2). Meloni: «Democrazia incompiuta», Fdi vuole il voto La Meloni e La Russa contro l’inciucio renziani-grillini: «Gli italiani vogliono altro» (Giornale p.5).
Renzi tesse la tela per l’alleanza M5S-Pd. Prove d’intesa in corso. Tra i punti sotto esame il taglio al cuneo fiscale e l’economia circolare (Sole p.2). Il Pd si ricompatta sul «lodo» Bettini. Zingaretti si prepara al voto ma è disponibile a esplorare la strada di un governo duraturo. Renzi: idee ragionevoli. Il capogruppo dem Delrio: «Noi pronti a un patto di largo respiro. Un suicidio per il M5S tornare dalla Lega» (Corriere p.11). Renzi-Zingaretti, la tregua è fragile. Il Pd non ha ancora una linea comune. L’ex premier accantona la scissione e rilancia l’accordo con il M5S, però resta sorpreso dalla mossa di Salvini. Il segretario tiene calda la pista del voto e convoca per il 21 la direzione del partito. Ma il rivale non ci sarà. Il pressing dei padri nobili per un nuovo governo. Boccia: “Oggi vincono Nicola e Salvini, perdono Matteo e Di Maio” (Repubblica p.7). Zingaretti scettico sul governo con M5S “Di Maio stia fuori” (Stampa p.6). Primo set all’ex premier. Il commento di Marcello Sorgi sulla Stampa (p.27). Renzi sposa Renzi sposa i grillini per risorgere. L’ex leader dem indossa il costume da statista e propone un matrimonio d’interesse ai pentastellati. Tutto pur di tornare a galla e imbrigliare Zingaretti. Il commento di Alessandro Giuli su Libero (p.4). Il Pd piange sui conti perché vuole tenersi il Colle il commento di Maurizio Belpietro sulla Verità (p.3).
Sinistra Italiana. “Esiste una nuova maggioranza in Aula Ma non bastano i numeri, servono contenuti. I dubbi del segretario di Sinistra italiana e deputato di Liberi e uguali Nicola Fratoianni. Temi come il reddito di cittadinanza e la precarietà del lavoro sono punti di convergenza (Stampa p.6).
Migranti. Cinquecento migranti ostaggio del mare. Nessun porto sicuro per le navi delle Ong. L’Onu: “Gli Stati intervengano”. I valdesi: “Noi pronti ad accoglierli”. Salvini: “Sbarco da evitare” (Stampa p.9). Il tribunale dei minori: “Illegale trattenerli lì” (Repubblica p.20).
Intercettazioni. Per rivedere le intercettazioni tempo sino a fine anno. Allo studio il rafforzamento delle misure di sicurezza sull’utilizzo dei trojan. Quale Governo vi metterà mano adesso non si sa. È certo però che di tempo non ce ne sarà poi molto. Perchè, il decreto sicurezza bis, appena convertito in legge dal Senato, in vigore da pochi giorni, proroga, ed è la seconda volta dopo la prima che aveva rinviato ad aprile, sino a fine anno il congelamento della riforma Orlando delle intercettazioni. Detto che la riforma Bonafede della giustizia rischia di restare una delle grandi incompiute della legislatura, ma ricordato anche che nella riforma non trovava spazio un intervento sul punto, resta sul tappeto il tema della conciliazione tra necessità di tutela della privacy e obbligo di non compromettere l’efficacia di uno strumento investigativo sempre più determinante (Sole p.23).
Ferragosto tra le sbarre. In tempi di “buttare la chiave” l’iniziativa del Partito Radicale vale di più. Il ministro Guardagalere Alfonso Bonafede, quello secondo cui l’unico modo per scontare una pena è il carcere, probabilmente toglierà il disturbo, comunque vada la faccenda del governo. Il dottor Davigo, quello secondo cui esistono solo colpevoli che non sono ancora stati acciuffati, si può sperare che avrà meno influenza sulle linee di condotta di Via Arenula. Ma il rischio che al ministero della Giustizia, prima o poi, finisca un amico fidato di Matteo Salvini, quello dei “lavori forzati” e delle chiavi da buttare via (a quest’ora avrà riempito una discarica), resta forte. Eppure, di carcere, di riforma delle carceri, della loro efficacia ai fini della sicurezza della collettività, o anche solo delle condizioni di vita e salute dei sessantamila reclusi negli istituti penitenziari su cinquantamila posti disponibili (dati del ministero al 31 luglio) non si parla più. O meno di prima. Nonostante i 28 detenuti (fonte Antigone) suicidatisi dalla fine dell’anno. Così è anche più che doveroso sottolineare l’importanza della consueta testimonianza civile e politica radicale di agosto sulle carceri. “Ferragosto in carcere” è il nome dell’iniziativa promossa dal Partito Radicale in tutta Italia, in collaborazione con l’Osservatorio sulle carceri dell’Unione Camere penali, che con una mobilitazione speciale di oltre trecento persone quest’anno entrerà in circa settanta istituti penitenziari in tutte le regioni. Lo scopo? “In – contrare i detenuti e il personale che svolge la propria attività lavorativa per conoscere meglio le condizioni di ogni struttura carceraria”, spiegano. O, per dirla con Rita Bernardini, perché è in questi palazzi che si può capire “il grado di civiltà di un paese”. Non sarà solo il giorno di ferragosto, le visite – molti i parlamentari, molti i garanti dei detenuti – dureranno quattro giorni, dal 15 al 19 agosto. Un modo per non dimenticare, nemmeno nei giorni in cui è bello dimenticarsi di tutto, che la giustizia è un bene centrale di una democrazia (Foglio p.3).
Trump rinvia i dazi sull’hi-tech di Pechino. Un gesto distensivo verso i consumatori e le aziende Usa come Apple che assemblano in Cina (Repubblica p.27). L’Italia fra i paesi che guadagnano nella guerra commerciale fra i due colossi. I mercati rialzano la testa. Slitta a dicembre una parte dei rincari Usa: salvi i regali di Natale. Il dollaro recupera sull’euro, forte rialzo delle quotazioni del petrolio (Stampa p.23). Rinviate tasse su beni per 98 miliardi (Sole p.6).
Argentina. L’Italia nella tempesta Argentina a rischio export e investimenti. Un miliardo di dollari “puntati” sul Paese da gruppi come Fca, Tenaris e Impregilo e molte vendite di macchinari tricolori (Repubblica p.26).
Operai cancellati. La crisi politica cancella gli operai. Oltre 240 mila rischiano il posto. Da Ilva a Whirlpool, da Bekaert a Embraco, il caos del governo lascia irrisolte centinaia di emergenze industriali. Appello unitario di Cgil, Cisl e Uil. Re David (Fiom): “Lavoratori dimenticati come i migranti in mare”. Il decreto per le imprese non arriva alla Gazzetta Ufficiale, a rischio gli ammortizzatori. La task force del Mise spiazzata dagli eventi (Repubblica p.11).
La crisi preoccupa i sindacati… «Preoccupati dalla crisi. Subito risposte su fisco, investimenti e lavoro». Per la segretaria generale della Cisl Annamaria Furlan «va assolutamente scongiurato l’aumento dell’Iva» (Sole p.4).
…e le aziende. Le aziende sono molto preoccupate: la situazione del mercato interno è quella che è. Non perdiamo altro tempo Andiamo subito a votare. Parla Roberto Snaidero, l’imprenditore friulano, ex presidente Federlegno: “Non vedo alternative Più si va avanti, più continua l’agonia. Filo-Salvini? Non mi interessa: dico quel che penso” (Stampa p.8).
Banche. Banche venete, il conto per lo Stato sale di 7 miliardi. Sga svaluta i crediti di Veneto e Vicenza di quasi il 50%. Eurostat nel 2018 aveva già imposto il ricalcolo del debito (Stampa p.22).
Criptovalute. Svolta in Nuova Zelanda “Anche le criptovalute per pagare gli stipendi”. Il governo Ardern permette alle aziende di versare le nuove monete ai dipendenti (Repubblica p.28).
Nuova Cernobyl? Paura per l’incidente atomico. Allarme Usa, Mosca minimizza. Esplosione in una base militare russa. Funzionari americani: solo Chernobyl peggio. Lo scoppio avrebbe coinvolto un missile nucleare, ma la Russia ha diffuso poche informazioni (Corriere p.12). Test nucleare. Il Cremlino ammette: “Una tragedia” (Stampa p.20)
Hong Kong, riaperto l’aeroporto dopo gli scontri. Dopo l’occupazione da parte dei manifestanti, e la cancellazione di tutti i voli dall’isola per il secondo giorno di fila, c’erano stati nuovi scontri tra i dimostranti e la polizia. Donald Trump ha twittato: «La Cina ha spostato le truppe verso il confine. Tutti stiano calmi» (Corriere p.12). James To, il veterano del Parlamento spiega le 5 richieste al governo: “Le forze dell’ordine utilizzano proiettili contro i cortei pacifici”. L’appello dei manifestanti: “Violenze e arresti illegali. L’Occidente ora ci ascolti” (Stampa p.16). Il bivio di Xi tra repressione e il rischio di nuove sanzioni. Dopo giorni di censura, il governo di Pechino alza i toni sui social: “I manifestanti sono criminali”. La strategia è spaventare i giovani, l’uso della forza potrebbe compattare il fronte internazionale (Stampa p.17).
Epstein. Nella prigione dorata di Epstein ai Caraibi: “Le ragazze provavano a fuggire a nuoto”. Un tempio con pareti insonorizzate e uffici tappezzati di foto osé nella villa-trappola dell’ex finanziere suicida. Il testimone: arrivavano donne molto giovani (Stampa p.18). La testimonianza di James B. Stewart del New York Times. Quando Epstein mi disse che conosceva i segreti dei suoi amici potenti. Considerava normale il sesso con le adolescenti. E organizzava cene con Steve Bannon e Woody Allen Cercava un biografo (Repubblica p.12). Brunel, “l’ami”di Epstein. “Gli procacciava 12enni”. “Mediapart” svela i legami tra il finanziere suicida e il manager delle modelle (Fatto p.19).
Domingo accusato di molestie. “Falso. Ma erano altri tempi”. Nove donne citano episodi di fine anni Ottanta. Il tenore respinge le imputazioni. Negli Usa mettono le mani avanti: l’Opera di Los Angeles indaga con un avvocato, la Philadelphia Orchestra cancella l’invito (Repubblica p.37).