A Boris Johnson è come un pugile nell’angolo: che adesso rischia di trascinare al tappeto tutta la Gran Bretagna. Ieri sera il Parlamento gli ha assestato un colpo rintronante: i deputati hanno votato, con una maggioranza di 327 a 299, per approvare la legge che chiede il rinvio della Brexit, al momento prevista per il 31 ottobre. Se entro il 19 del mese prossimo, recita il testo, non sarà raggiunto un accordo con la Ue, il premier dovrà chiedere a Bruxelles di spostare tutto fino alla fine di gennaio del 2020, aprendo la strada anche a ulteriori rinvii. In questo modo i deputati intendono sgombrare il campo dal rischio di un no deal, una Brexit catastrofica senza accordi, che si verificherebbe automaticamente il 31 ottobre in mancanza di una intesa con l’Europa. Ma è esattamente quello che Boris Johnson non voleva. «I deputati hanno votato per fra naufragare ogni serio negoziato», ha reagito il premier in aula subito dopo il voto. A sue dire, la legge «insiste che la Gran Bretagna si sottometta alle richieste di Bruxelles» e «costringe il primo ministro ad arrendersi in un negoziato internazionale». La strategia di Boris era quella di mettere sul tavolo la possibilità concreta di un no deal per costringere l’Europa ad accettare le sue richieste: ma è una strategia da kamikaze, perché Bruxelles non sembra per nulla intenzionata a cedere e dunque la Gran Bretagna continua a correre dritta verso il precipizio. Ma anche di fronte al voto del Parlamento, Boris non si dà per vinto. Consapevole che non ha più nulla da ottenere da questa Camera, nella quale anche una fetta decisiva del partito conservatore gli si è rivoltata contro, il premier ha chiesto di andare alle elezioni anticipate il 15 ottobre. «Decidiamo – ha lanciatoaJeremy Corbyn, il leader laburista – chi di noi due sarà al cruciale vertice europeo del 17». Per arrivare al voto, occorre il sì dei due terzi del Parlamento. Ma i laburisti non ci cascano: «L’offerta di un’elezione adesso è come l’offerta di una mela a Biancaneve da parte della regina cattiva», ha replicato Corbyn. «Quello che lui sta offrendo – ha aggiunto – non è una mela e neppure un’elezione, ma il veleno del no deal». In altre parole, Corbyn chiede che prima la legge sul rinvio della Brexit sia definitivamente approvata e solo dopo si potrà parlare di voto anticipato. E dunque ieri sera la richiesta del premier di andare alle urne ha ottenuto il consenso di soli 298 deputati a fronte di una massiccia stensione . Da oggi la legge sul rinvio è all’esame della camera dei Lord, che si annuncia difficoltoso. Siamo dunque di fronte a un’impasse: rispetto alla quale Johnson potrebbe tentare l’ennesimo colpo di mano: presentare in Parlamento una legge di una sola riga che chiede le elezioni, un provvedimento per il quale basta la maggioranza semplice. Una nuova forzatura, resa possibile dal fatto che la Gran Bretagna non ha una Costituzione scritta. Resta l’impressione che Boris si sia chiuso in un angolo con la sua stessa intransigenza. E che già ora non abbia più molto da offrire al suo Paese.

Lo stregone Cummings che guida Boris.

Lui era amico personale di Margaret Thatcher, la domenica va ancora a giocare a golf col suo sodale John Major: ma adesso Lord Jeffrey Archer, politico conservatore di lungo corso e scrittore di best seller tra i più venduti al mondo, guarda perplesso alle mosse di Boris Johnson. Cosa vorrà fare Boris adesso? «Lui ha bisogno di andare e tutti i costi alle elezioni anticipate». E se gliele negano? «Continuerà a marciare avanti, ma sarebbe un disastro per tutti: non ha una maggioranza, non c’è più nessuno in grado di governare, di far approvare le leggi…». Le elezioni sembrano dunque necessarie. «Sì, prima o poi si faranno. Ma è meglio prima che poi. Abbiamo bisogno di un governo». Johnson è stato accusato di essere un golpista, di aver violentato la Costituzione decidendo di sospendere il Parlamento. «Le accuse di essere un dittatore sono sicuramente esagerate: da un punto di vista costituzionale, la decisione di sospendere il Parlamento non è folle». Lei dunque la condivide. «Non sono contento per il fatto che è così lunga, di ben cinque settimane. La sospensione del Parlamentoèuna pratica comune fra una sessione e l’altra, ma non in questo modo». Boris si comporta comunque in maniera a dir poco spregiudicata. «Il problema è che è diretto dietro le quinte da quella specie di stregone che è Dominic Cummings, l’ex capo della campagna per la Brexit che è ora al vertice del suo staff. È lui che controlla tutto: e Boris fa quello che vuole lui. Cummings esige una Brexit a qualunque costo: e Boris si adegua». Ma perché hanno dato tanto potere a un personaggio così controverso? «È Boris stesso che lo ha portato dentro Downing Street, su consiglio di Michal Gove, il suo braccio destro nel governo, che è amico di Cummings». Come si può uscire da questa crisi? «Ci vorrebbe un accordo sulla Brexit che riflettesse ilrisultato del referendum, dove il 52 per cento ha votato a favore ma il 48 per cento no. In quest’ottica, l’intesa raggiunta da Theresa May con Bruxelles resta ancora la cosa migliore». C’è ancora la possibilità di resuscitarla? «Se Johnson fa dei ritocchi, sì. Ma non ne sono sicuro». Resta dunque lo scenario del no deal. «Sì, al momentoèla cosa più probabile, direi 60 a 40. Ma c’è ancora una chance di raggiungere un accordo con la Ue. Io ci spero». Nella City, la comunità finanziaria, c’è chi comincia a pensare che un governo laburista guidato da Jeremy Corbyn sia preferibile al no deal, una Brexit senza accordi. Leifra i due scenari quale sceglierebbe? «Piuttosto mi sparo».

E se «la crisi più pazza del mondo» non fosse stata un imprevisto. Se non avesse colto nessuno impreparato? Perché ripercorrendo il mese che ha cambiato il corso della politica e il colore del governo, si scorgono così tanti indizi che è difficile non elevarli a prove. Salvinirompe formalmente coi grillini l’8 agosto, quando già erano accadute molte cose. Il 16 luglio i giallo-verdi si erano divisi nel voto sulla presidenza della Commissione europea. L’elezione della popolare von der Leyen con il concorso di Pd e M5S non era considerata allora l’atto di nascita della nuova maggioranza, ma nemmeno una settimana dopo (il 22 luglio) il dem Franceschinirilasciava al Corriere un’intervista in cui sosteneva che «i Cinquestelle sono diversi dalla Lega», e si appellavaaConteeFico dicendo che «insieme possiamo difendere certi valori». Il fuoco di sbarramento di Di Maio e di Renzi lasciava supporre che fosse stato un colpo a salve. Ma due giorni più tardi al Senato, il premier — oltreaparlare di Salvini e del Russiagate — annunciava che «in questo consesso tornerò se ci fosse una cessazione anticipata del mio incarico». «Conte cerca voti per una nuova maggioranza, come si cercano funghetti in Trentino», commentava il leader della Lega. Che dunque non poteva non sapere cosa stesse accadendo, e soprattutto come avrebbe reagito Conte quando l’8 agosto gli avrebbe chiesto di dimettersi per andare alle elezioni: fingersi stupito prima di chiedere ai parlamentari di «alzare il c…» e tornareaRoma per votare la sua mozione di sfiducia, faceva parte del gioco. Così «la crisi più pazza del mondo» appare adesso una sorta di crisi pilotata, perché in effetti «è stata una sfida — come racconta oggi un autorevole esponente del Pd — tra due scommesse: da una parte Salvini, che scommetteva non avremmo fatto in tempo a costruire una nuova maggioranza; dall’altra noi, che a quella maggioranza avevamo iniziato a lavorare, scommettendo a nostra volta che Salvini avrebbe aperto la crisi entro l’estate». Trattandosi di due scommesse, il finale non era scontato. E il percorso infatti non è stato lineare. Nel Pd Zingaretti era tentato dal voto, la sua tesi era che Salvini avrebbe vinto le elezioni ma si sarebbe poi schiantato con la Finanziaria. Nel partito avevano dovuto convincerlo che «non si poteva correre il rischio di vedere l’Italia orbanizzata». E fuori dal partito Prodi e D’Alema, Veltroni e Amato, avevano preso a tempestarlo di telefonate. «E va bene», aveva replicato infine il segretario del Pd: «Ma a una condizione. Prima deve parlare Renzi, pubblicamente». E Renzi l’11 agosto, tre giorni dopo l’apertura della crisi, si spende sul Corriere: «Sarebbe folle votare subito». Ecco cosa mette in allarme Salvini, che dopo aver chiesto le urne e «pieni poteri» per governare, teme di poter perdere la scommessa e provaacorteggiare di nuovo Di Maio. Perché l’altro fronte, quello grillino, è diviso. Al Pd non basta il solo Fico, che vuole veder finire «l’incubo populista di destra» ma è minoranza davanti a Di Maio e Casaleggio, contrari a un’intesa conidem che «farebbe scattare la rivoluzione tra i nostri militanti». Èaquesto punto che entra in campo Grillo, il cui ruolo sarà determinante. Il 20 agosto Conte sale al Quirinale per le dimissioni, dopo il vertice grillino di due giorni prima nella residenza del fondatore del Movimento. Sa di essere il re-incaricato in pectore per M5S, forte del suo discorso al Senato contro Salvini che in poche ore fa dodici milioni di contatti:record di visualizzazioni. Alle consultazioni, è il 23 agosto, Salvini tenta la carta della disperazione e indica Di Maio come possibile premier di un nuovo governo gialloverde. Ma Grillo ha tracciato il solcoeConte il 24 agosto lo difende: «Mai più con la Lega». E appena Di Maio prova a scartare ci pensa Grillo a bacchettarlo: «Basta conipunti di programma che raddoppiano come i punti della Standa». Ecco come nasce il governo più sbilanciatoasinistra nel momento in cui l’Italia appare più sbilanciata a destra. Non è certo che il Conte bis arriverà al termine naturale della legislatura, ma la scommessa (un’altra) è che la legislatura arriverà al suo termine naturale.

Ercolino sempre-in-piedi, al secolo Luigi Di Maio, ce l’ha fatta. Buttato giù dal voto in Abruzzo, in Sardegna, in Basilicata, in Piemonte e alle Europee, a Ferragosto pareva esser finito kappaò una volta per tutte

Macché: come il pupazzo del vecchio Carosello, perfettino e incravattato come lui, si è tirato su di nuovo. Anzi, si è preso gli Esteri. Auguri. Certo è che va alla Farnesina dopo aver inanellato una serie di scivoloni, baruffe, gaffes, forzature lunga lunga… Per carità, uno strafalcione come quello che gli scappò sul Sud America può anche capitare. Ricordate? Ce l’aveva con Renzi e tante gliene disse, su Facebook, da fare un capitombolo indimenticabile accusando l’odiato Matteo di aver «occupato con arroganza la cosa pubblica come ai tempi di Pinochet in Venezuela». Ma come, saltò su il web: confonde il dittatore cileno con qualche altro caudillo caraibico? A Shanghai, nel 2018, fece di peggio. E in due convegni chiamò il capo supremo cinese Xi Jinping così: «Ping». Memorabile. Meno indulgenti furono gli israeliani quando nella veste ufficiale di vicepresidente della Camera visitò col fido Alessandro Di Battista il villaggio di Bil’in, accusò il governo di Tel Aviv di impedire alla sua delegazione di entrare nella striscia di Gaza e giurò: «Quello che diciamo facciamo: se il M5S arriverà al governo, riconosceremo lo Stato di Palestina». Una iniziativa, per dirla in «diplomatese», un po’ frettolosa… Dotato di un inglese non proprio all’altezza del nuovo ruolo ma anche di una parlantina assai sciolta e affabulatoria (a Pomigliano d’Arco qualcuno lo chiama Giggi «‘o Parlettiero»), non dovrebbe avere troppi problemi: Gianni De Michelis, piazzato da Bettino Craxi alla Farnesina, si impratichì della lingua in un paio di mesi. I problemi, piuttosto, potrebbe averli per il carattere fumantino, più volte mostrato in questi anni, del tutto indifferente alle reazioni degli altri Paesi. Come è successo nell’insistenza con cui per anni ha battuto e ribattuto sull’uscita dell’Italia dall’euro spingendosi, ancora due anni fa, nel dicembre 2017, quattro mesi prima delle elezioni che avrebbe vinto, a dire in un’intervista televisiva: «Se si dovesse arrivare al referendum, che considero una extrema ratio, è chiaro che io voterei per l’uscita, perché significherebbe che l’Europa non ci ha ascoltato». Per non dire dei rapporti con la «macchina europea», attaccata frontalmente ancora nel maggio 2018 facendo fronte comune con Matteo Salvini: «Contro di noi abbiamo eurocrati non eletti da nessuno. Certo establishment ha paura, teme il cambiamento. I vincoli europei vanno rivisti perché è in Europa che si gioca la partita importante per finanziare tutte le misure economiche che ridiano diritti sociali agli italiani». Certo, dopo il voto determinante dato dal Movimento all’elezione della neopresidente della commissione europea Ursula von der Leyen (grazie ai consigli di Giuseppe Conte?) è probabile che l’Europa sia più che disponibile ad aprire una nuova fase col giovane capo politico grillino. E a dimenticare certe sortite. Come quella del 2015 fa a favore dell’Ukip di Nicholas Farage. Certo, si cautelava dicendo che «dovrà comunque essere la rete a decidere» con chi stare o non stare ma lui era schieratissimo al fianco del più accanito fanatico della Brexit: «Sarà il futuro primo ministro inglese e con lui in Europa faremmo un gruppo federativo». A parte lo strascico di «incomprensioni», chiamiamole così, con gli americani sul rifiuto di riconoscere come presidente del Venezuela Juan Guaidó e più ancora sull’apertura alla Cina col memorandum solitario e a parte le vecchie ruggini con Angela Merkel (contrariata, pare, dalla scelta italiana sulla Farnesina) il nuovo ministro degli Esteri sarà chiamato ricucire, su tutti, irapporti con la Francia di Emmanuel Macron. Non sarà facile. Non solo Di Maio si era alleato con il miglior amico, Matteo Salvini, della peggior nemica del presidente francese e cioè Marine Le Pen. Ma si era vantato a dicembre: «Sono orgoglioso: le rivendicazioni dei francesi in piazza contro Macron noi le abbiamo messe nella legge di Bilancio». Non bastasse, a gennaio aveva lanciato quell’appello spiritato alla rivolta nelle piazze francesi: «Gilet gialli, non mollate! Dall’Italia stiamo seguendo la vostra battaglia dal giorno in cui siete comparsi per la prima volta colorando di giallo le strade…». Poi aveva sparato a zero sulla gestione dell’ordine pubblico del ministro degli Interni parigino Christophe Castaner. Quindi aveva dato ai gilet gialli, a dispetto dei cassonettirovesciati e delle vetrine sfasciate, la patente di essere dei sinceri democratici: «Sappiamo bene che il vostro movimento è pacifico». Non bastasse ancora, aveva voluto incontrare per incoraggiarli un paio dei leader del movimento transalpino twittando: «Il vento del cambiamento ha valicato le Alpi!». Una sparata davvero eccessiva. Con mea culpa finale davanti alle telecamere di «Che tempo che fa» di Fabio Fazio: «No, non li incontrerei più. Ho preso le distanze. Quando ho visto che una parte dei gilet gialli voleva creare una lista sono andatoaincontrarli. Ma abbiamo scoperto che c’erano delle idee un po’ violenteeeversive». Scusate il ritardo… Cosa farà, ora, come capo della diplomazia italiana? Boh… Una cosa è certa: nel nuovo delicatissimo ruolo, il primo consiglio somiglia a un vecchio adagio veneto caro agli alpini: prima de parlare, tasi.

Il secondo governo Conte ha meno consenso popolare e più coesione politica del primo. Quello nacque quasi a furor di popolo, ma sulla base di un ribaltone delle alleanze (Salvini lasciò il centrodestra). Questo nasce in Parlamento, ma le forze che lo compongono non sono oggi maggioranza nel Paese. Però il Conte 2 mette insieme due elettorati più vicini e compatibili tra di loro, come ha dimostrato anche il sondaggio su Rousseau. E soprattutto archivia il contratto, fonte di tutti i guai del Conte 1, perché voleva sommare due liste della spesa con un solo pagatore. Il premier Conte smette dunque di fare il notaio, o al massimo l’avvocato del popolo, e può finalmente fare il premier, senza vice. Gran parte della scommessa dipenderà dalla sua performance. La conseguenza è un gabinetto senza «leader». Salvini non c’è più; Di Maio è ridimensionato e stagionato; Zingaretti non partecipa; Renzi continua il riscaldamento a bordo campo. Il più «politico» è Franceschini.

La compagine è dunque meno forte, ma presumibilmente meno litigiosa. È un governo un po’ all’antica, stile Prima Repubblica: il frutto di un accordo piuttosto che una palestra per la competizione elettorale. L’intenzione – pare chiaro – è di durare. Entrambi i partiti hanno messo da parte i combattenti della guerra precedente: i Cinquestelle epurando cinque ministri del Conte 1, una «purga»; il Pd non confermando nessun ministro dei governi Gentiloni e Renzi, tranne appunto Franceschini. La discontinuità è evidente, forse anche l’inesperienza. Il Viminale è stato demilitarizzato, passandolo a un prefetto. Il Pd non rimette piede a Palazzo Chigi, dove Fraccaro prende il posto di Giorgetti. Ma in Europa giocherà un tridente democrat di provata fede (Gualtieri viene da Bruxelles, Amendola la frequenta da anni, e Gentiloni ne potrebbe esserne la punta centrale se, come da accordi, andrà a fare il Commissario). La Lagarde, futura Bce, già parla di politiche più espansive. Roma scommette su lei e su Ursula per superare le forche caudine della legge di bilancio (a proposito, un grazie a Giovanni Tria, che ha tenuto la rotta in gran tempesta, risparmiandoci due volte, insieme a Conte, la procedura di infrazione). Se agisse nel vuoto pneumatico, insomma, l’esperimento avrebbe chance di riuscita. Nella testa di chi l’ha pensato c’è la scadenza del 2022, quando si eleggerà il successore di Mattarella: sperano di arrivarci, se non con questo governo, almeno con questo parlamento, in cui sono maggioranza. Ma sono tempi lunghissimi per la politica, quasi biblici. Perché poi c’è la realtà. Né i Cinquestelle né il Pd sono monoliti, tutt’altro, piuttosto federazioni di correnti e di ambizioni personali: la loro tenuta è sempre a rischio. Un respiro strategico e programmatico capace di conquistare l’elettorato con un’idea forza non si vede ancora; aspettiamo di sentire Conte in aula, ma non si avverte lo spirito da nuovo inizio di quindici mesi fa. La distanza politicaeculturale dal Nord è quasi dichiarata, con quattro ministri napoletani, due pugliesi e due lucani. E, soprattutto, tra meno di due mesi si vota già. Per l’Umbria, dove Cinquestelle e Pd perdono se non si mettono insieme, e se perdono pur mettendosi insieme sono guai (poi tocca all’Emilia, dove il Pd non reggerebbe una sconfitta). Ci sarà dunque da decidere in tempi brevi se quella che si è appena formata è solo una coalizione governativa o è un’alleanza politica: le due leadership avranno la forza e la lucidità per farlo? Per giunta, lì fuori c’è Salvini. Al momento il video è in pausa, ma resta lo show più popolare nel Paese, e la Bestia della sua comunicazione è viva e vegeta, pronta ad azzannare il governo al primo sbandamento. La destra sarà anche più debole dopo la sconfitta della Lega in Italia, ma a Londra sta provando a chiudere o sciogliere il Parlamento più antico del mondo, e a Washington può fare il bis. Anche il miglior governo del mondo avrebbe di fronte a sé una sfida terribile per il consenso. Il governo Conte 2 deve dunque perciò diventare migliore, e al più presto. Solo la prova dei fatti può dargli la forza di cui ha bisogno.

Dicevamo ieri che nel bordello si fanno marchette, ma qualcuno ha preso la cosa troppo alla lettera. L’amico Paolo Mieli in un editoriale fin troppo autorevole è uscito dalla clandestinità e ha deciso che questa svolta in atto (forse, se vince il “no” su Rousseau ritiro l’articolo, c’è accordo con Cerasa) è un capolavoro di Nicola Zingaretti. Avete letto bene: un capolavoro di Zingaretti. Ora io non ho nulla contro il segretario del Pd e me ne fotto della logica correntizia febbrilmente in azione in quel partito, ma disconoscere così platealmente la parte giocata da Matteo Renzi nella faccenda ha qualcosa di surreale se non di grottesco (ma che gli ha fatto Renzi a questi amici terzisti? gli ha attaccato il filo elettrico ai capezzoli? gli ha spento le cicche sulla pelle? li ha sottoposti a waterboarding?). Renzi, da sempre candidato all’odio, e per questo a me simpatico, di capolavori ne ha fatti due, in verità, e Zingaretti deve farne di strada per eguagliarlo, il che non toglie che il segretario attuale abbia svolto bene il compito di fare una marchetta nel bordello. Il primo fu di impedire che i perdenti alle elezioni del 4 marzo si accodassero quatti quatti, e umiliati, al carro del vincitore con il 32 per cento, il gruppone grillozzo esaltato dalla vittoria. Bastò un’intervista da Fazio, e la cosa turpe non si fece, anche grazie alla deterrenza dei parlamentari di vecchia scuola renziana (che Dio ce li conservi). Tra un popcorn e l’altro, e una bella campagna antisalviniana (grazie a tutti, e braccialetti per tutti della stessa eleganza di quelli dell’onorevole senatore ex Truce) si vide come stavano le cose. Ora, con gli elevatissimi grillozzi allo sbando, e un energumeno a torso nudo che minacciava il voto chiedendo ai parlamentari di alzare il culo per garantire la sua marcia trionfale verso i pieni poteri, è stato Renzi, con scelta dei tempi e degli argomenti perfetta, a impedire che si formasse il varco al plebiscito viminalizio extraeuro, e a legittimare secondo ragionevolezza quello che ieri era stato da lui giustamente delegittimato, l’accordo con i 5ss. Things change. E’ vero quel che aggiunge Mieli al suo bislacco “dimenticare Matteo”. Calenda è applaudito quando rileva legittimamente ma moralisticamente l’assurdo di un incontro con Carlo Sibilia e Danilo Toninelli, e vorrei vedere: che in un bordello si facciano marchette, e solo marchette, è una verità politica per palati fini, non per degustatori di tortellini in genuina estasi davanti alla pietanza fumigante della purezza ideologica. E che una marchetta ben fatta possa evitare l’infarto democratico e magari chissà, da cosa nasce cosa e la Fortuna o il tempo il tutto governa, anche questo non è roba per sciami plaudenti di sbandieratori di princìpi e coerenze. Ma per venire a altro argomento mielista, che occhieggia alla destra plebiscitaria (questa volta): di regola, la sinistra non va al governo tramite elezioni. Un esperto di storia contemporanea, quando allude all’incapacità della sinistra di vincere le elezioni (relativa, ci sono eccezioni da lui riconosciute), non dovrebbe dimenticare che in venti anni di fascismo non si è votato e in cinquanta dei settanta anni di Repubblica era in vigore la Guerra fredda, periodo nel quale i comunisti togliattiani, che avevano fatto la svolta badogliana fregandosene dei degustatori di tortellini (allora armatissimi, peraltro), preferirono, diciamo così, la guerra per l’egemonia alla battaglia per il governo (impossibile per note vicende svoltesi nella penisola di Yalta). Ora io non dico che Renzi è come Togliatti, sono mica scemo. Nel male e nel bene, non lo è. Ma ha esercitato la leadership, una funzione di guida politica, detto in italiano, ciò che compete a chi ha così alte ambizioni. Credo che Mieli abbia voluto dribblare, con l’esqui – ve, la finta, tra votisti e svoltisti, l’ultima incarnazione Coppi e Bartali della discuzzione all’italiana. E ha fatto bene, bisogna pure che qualcuno sia prudente e inamidato. Ma adulare il genio tattico di Zingaretti e dimenticare o censurare anche la memoria, dannata, del modesto ma utile talento politico di Renzi, questo, dopo il dribbling riuscito, è una specie di autogol.

Caro direttore, ho letto con molta attenzione l’articolo di Paolo Mieli sulla nuova maggioranza a sinistra, un articolo come al solito informato e approfondito. Mi è tuttavia doveroso precisare che, diversamente da quanto scritto, sono sempre stato favorevole al sistema elettorale maggioritario e lo sono tuttora. Anche la scorsa settimana, in un intervento alla festa nazionale dell’Unità, da cui mancavo da ben undici anni, ho ribadito la mia netta preferenza per il maggioritario sottolineando che una legge elettorale non è fatta per fotografare il Paese, ma per dargli una maggioranza di governo possibilmente stabile. Aggiungo inoltre che sono profondamente convinto che, se avesse avuto una legge elettorale «alla francese», l’Italia sarebbe oggi un grande Paese. Mi rendo purtroppo conto che le mie speranze per arrivare finalmente a un serio sistema maggioritario (sia col doppio turno francese, sia con il sistema britannico della maggioranza nel collegio) sono ben lontani dal ricevere un appoggio generale in Italia. La stabilità è tuttavia condizione necessaria per un governo che voglia produrre le innovazioni necessarie. Per questo motivo, anche nella proposta Orsola, ho insistito che si dovesse molto lavorare sui programmi comuni prima di formare il governo. Le urgenze del momento (sia di carattere nazionale che internazionale) hanno reso più debole questo processo. Mi auguro perciò che, una volta varato il governo, si apra subito un lavoro di approfondimento (accurato e non teatrale) che permetta di prendere le decisioni necessarie a far sì che l’Italia possa riprendere il suo ruolo in Europa e nel Mondo.

N icola Zingaretti ha compiuto un’impresa destinata a restare negli annali. Ha raccattato un partito ai minimi storici e — anche a costo di trovarsi due o tre volte in contraddizione con sé stesso — lo sta portando al governo. Guidandolo, per vie correttissime sotto il profilo costituzionale, in una alleanza all’interno della quale è destinato ad avere «pari dignità» con la formazione uscita vincitrice dalle elezioni politiche di un anno e mezzo fa. Zingaretti è stato a tal punto abile da concedere ai maggiorenti del proprio partito il diritto di intestarsi (parzialmente o totalmente, a seconda del loro grado di vanità) il merito di questo miracolo. Che oltretutto può essere presentato all’intero popolo della sinistra come risultato di una tempestiva e accorta mobilitazione antifascista con la quale si è sventato il pericolo che Matteo Salvini prendesse i «pieni poteri». Un capolavoro. Eppure il suo popolo dà qui e là segni di insoddisfazione. Colpisce, ad esempio, l’accoglienza davvero calorosa tributata a Carlo Calenda al festival dell’«Unità» di Ravenna. Calenda — assieme a Matteo Richetti — è stato uno dei pochissimi esponenti Pd ad esprimere dubbi circa l’opportunità delle nozze agostane con i Cinque Stelle. In altri tempi per lui alle feste dell’ “Unità” — ammesso che non gli venisse disdetto l’invito –— si sarebbero avuti borbottii e fischi, invece… Stessa calda accoglienza, in Toscana, per i dirigenti del Pd livornese, Lorenzo Bacci (ex sindaco di Collesalvetti) e Federico Bellandi, dichiaratisi anche loro perplessi nei confronti del Conte bis e, a dispetto di ciò, salutati con affetto da una parte consistente della loro base. Probabilmente tale irrequietezza a sinistra è da ricondursi a qualche improvvisazione nella conversione filogrillina, conversione che non ha avuto il tempo di essere elaborata e tantomeno digerita. C’è poi la circostanza che i dirigenti del Pd, a quel che si è visto, hanno occupato il poco tempo a disposizione esclusivamente per contrattare i ministeri (non si è depositato nella memoria nessun braccio di ferro su questioni programmatiche, per discutere le quali è stata impegnata l’intendenza, dopodiché sono state trovate veloci quanto generiche intese). E anche per ciò che riguarda la spartizione dei posti c’è voluto un monito di Beppe Grillo per ricondurre tutti — compresi i pentastellati — alla ragione. Circolano infine i primi sondaggi che attribuiscono, per questa operazione d’agosto, un premio assai consistente al M5S e uno più contenuto al Pd. Ce n’è abbastanza per giustificare un qualche nervosismo. Ma c’è poi la sensazione che la prospettiva di una sinistra italiana in grado di andare un giorno al governo sull’onda di un indiscutibile (e legittimante) successo elettorale svanisca sempre più all’orizzonte. A differenza di quel che è accaduto e accade in tutto il mondo — quantomeno nei Paesi in cui si tengono vere elezioni — da noi, in settantacinque anni, non è mai successo che la sinistra sia andata al potere in seguito a una vittoria elettorale. Con l’unica eccezione del 21 aprile 1996 quando vinse l’Ulivo con Romano Prodi. Eccezione Prodi a parte, la sinistra è sempre andata al governo grazie a manovre parlamentari giustificate dalla necessità di far fronte a emergenze. La prima di queste emergenze fu autentica: si trattava di affrontare l’occupazione tedesca, sicché, dopo la svolta di Salerno di Palmiro Togliatti, i partiti della sinistra entrarono il 24 aprile del 1944 nel secondo gabinetto guidato da Pietro Badoglio (per rimanere anche in quelli di Ivanoe Bonomi, Ferruccio Parri e Alcide De Gasperi). In seguito poi all’esplosione della guerra fredda, comunisti e socialisti furono estromessi (nel ’47) dall’esecutivo e per decenni sognarono di rientrare in virtù della ricostituzione di un’alleanza antifascista. Ancora nel 1973 Enrico Berlinguer — quando, dopo il golpe cileno di Pinochet, teorizzò il compromesso storico—diede prova di non aver fiducia in una sinistra che come in Inghilterra, Germania, Francia andasse al potere battendo nelle urne il fronte avverso ma di confidare esclusivamente nel fatto che democristiani e socialisti accogliesseroicomunisti per far fronte a un’«emergenza democratica». A poco a poco i gruppi dirigenti della sinistra cambiarono. Ai vertici vennero selezionati esponenti senza eguali nel talento per le manovre parlamentari ma poco adatti a guidare i loro partiti a un successo elettorale. La guerra fredda a un certo punto finì (1989). E in Italia si decise di introdurre un sistema elettorale maggioritario per dare a sinistra e destra l’opportunità di alternarsi al potere attraverso il voto. La prima volta vinse Silvio Berlusconi, la seconda come si è detto Prodi. Questa vittoria prodiana però fu resa meno nitida da due fattori: primo, il celeberrimo ribaltone che provocò, oltre alla caduta del primo governo Berlusconi, la separazione tra Lega e Forza Italia le quali poi andarono divise alle elezioni del ’96; secondo, un nuovo ribaltone che a metà legislatura provocò la caduta di Prodi e la sua sostituzione con un governo — sempre di sinistra — che poté vivere grazie all’apporto di transfughi provenienti dalla destra. In ogni caso Prodi nel ’96 aveva vinto. Dopo quella data, però, la destra fu capace di prevalere nuovamente alle elezioni, la sinistra no. Mai più. Quantomeno sul piano nazionale, dal momento che, invece, in Comuni e Regioni continuò (e continua) a battersi con le regole del maggioritario e, spesso, riesce anche a vincere. Di conseguenza le sinistre, sul piano nazionale, abbandonarono progressivamente ogni fiducia nei sistemi maggioritari e preferirono orientarsi verso quelli proporzionali nei quali non prevale nessuno e, scrutinato il voto, si vive di combinazioni parlamentari, le più stravaganti. Tornarono in primo piano i formidabili manovratori del dietro le quinte, accompagnati da un’allegra elaborazione «teorica» che esaltava le virtù dell’incoerenza, della capriola acrobatica e del mancato rispetto della parola data. Oltreché l’ostentata indifferenza a riforme, programmi, impegni su temi specifici. Ciò che ha reso sempre più diversi gli amministratori locali che, invece, con quegli impegni dovevano e devono misurarsi. Anche Prodi, non immemore dell’esperienza di vent’anni fa (e di qualche ulteriore delusione), è diventato un fan del proporzionale e durante la crisi d’agosto ha dato il suo incoraggiamento alla formazione di un esecutivo guidato da Giuseppe Conte. Anzi ha fatto di più: ha proposto, assieme a Emma Bonino, la «soluzione Ursula» cioè un governo composto dalle forze italiane che in Europa hanno votato per Ursula von der Leyen, il che comporterebbe l’immissione nella maggioranza di Silvio Berlusconi e Forza Italia. Lì per lì il suo può essere apparso come un consiglio fantasioso. In fondo, come si avrà modo di costatare già nel corso di questa settimana, per dar vita al Conte bis sono sufficienti i voti della sinistra sommati a quelli dei Cinque Stelle. Ma, fidandoci dell’intelligenza di Prodi e della sua lungimiranza, siamo sicuri che della sua «soluzione Ursula» sentiremo parlare ancora. In un futuro non troppo lontano.

Viale Mazzini, settimo piano, quello degli uffici nobili: si sta come ad agosto i dirigenti Rai dopo la crisi. Il governo giallorosso è a un passo dal divenire realtà, la breve stagione del suprematismo salviniano è già un ricordo struggente: è il momento di ricollocarsi per sopravvivere. I colletti bianchi della televisione pubblica cercano tra le pieghe dei propri alberi genealogici, si (ri)scoprono radici, sensibilità, forse pure legami genetici con la sinistra. IN RAI IL SIMBOLOdella breve rivoluzione del Capitano si chiama Marcello Foa. Il presidente sovranista, anti euro, putiniano, chiamato al timone della Rai al termine di una discussa e faticosissima elezione, si sente mancare la terra sotto ai piedi. Il suo nome è il più esposto, il più divisivo, il più sacrificabile. Foa studia una via d’uscita. In queste ore si è letteralmente barricato dentro il suo ufficio, gli unici che l’hanno incontrato sono i legali di Viale Mazzini. Sul capo del presidente pende ancora una controversia: secondo il Pd la sua elezione è illegittima, da oltre un anno il renziano Michele Anzaldi chiede il riconteggio delle schede; almeno due –sosten – gono i dem – andrebbero annullate, erano state segnate per renderle riconoscibili (forse pure tra i gialloverdi qualcuno era sensibile ai vecchi “trucchi” della Prima Repubblica). Foa – si racconta nei piani alti dell’azienda –sarebbe disposto ad accettare un’uscita onorevole e incruenta: potrebbe accettare l’addio alla presidenza pur di evitare la decadenza del consiglio e conservare il suo posto in Cda. Al suo posto –è la soluzione naturale – andrebbe Rita Borioni, consigliera di minoranza, in passato stretta collaboratrice del dem Matteo Orfini. Ma l’umore di Foa è mobile come quello di un animale braccato, diviso tra le ultime orgogliose fughe in avanti e la consapevolezza di un destino segnato. Domenica pomeriggio, quando sembrava che la trattativa tra Pd e M5S potesse davvero fallire, il presidente della Rai aveva convocato una riunione per dire ai suoi che si poteva ancora andare avanti, che non sarebbe cambiato nulla. Poi la realtà ha preso il sopravvento, ed è di nuovo calato lo sconforto. Ora per i massimi dirigenti della tv di Stato è il momento in cui si ascolta solo l’istinto di sopravvivenza. Ad esempio – sostiene una testimonianza maliziosa – in questi giorni la direttrice di Rai1 Teresa De Santis non fa altro che parlare dei bei vecchi tempi e delle sue antiche vocazioni politiche. All’alba della passata legislatura (come abbiamo scritto) De Santis aveva partecipato alle prime avanguardie grilline della Rai (il gruppo “Giornalisti in Moviment o”). Prima ancora era stata un ’orgogliosa compagna del manifesto. Si può ben dire che sono solide radici giallorosse. Eppure solo poche settimane fa – era il primo giugno – De Santis si faceva notare al ricevimento del Quirinale per il buon umore e la disinvoltura un po’irrituale con cui chiacchierava al tavolo di Matteo Salvini insieme all’amica Monica Setta. LE DUE SONO legate anche da un progetto comune: De Santis ha deciso di riportare Monica a Unomat tina, affidandole una rubrica di economia domestica. Il programma, nell’idea della Rai sovranista, avrebbe dovuto prendere una piega sempre più politica. Lo faranno lo stesso, con il nuovo governo che si appresta a giurare? Nel frattempo anche la Setta starebbe cercando conforto e rassicurazioni. La solita fonte malevola sostiene che pure lei abbia ritrovato nelle sue corde la cultura democratica e progressista, la stessa che l’aveva portata a sposare l’ascesa del renzismo. Tutto torna, e in Viale Mazzini non si butta via niente.

La vendetta di Matteo Renzi contro la Ditta rischia di fare la prima vittima nel governo giallorosso. Il rottamatore fissa paletti stretti per garantire l’appoggio delle sue truppe al Conte bis. La prima condizione è il no alla nomina di Paolo Gentiloni come commissario italiano Ue. Nei piani del segretario del Pd Nicola Zingaretti la poltrona in Europa per Gentiloni (contrario all’accordo con i Cinque stelle) sarebbe la ricompensa dopo l’allineamento alla posizione a favore del patto giallorosso. Ma subito è arrivato l’alt dell’ex leader dei democratici. Prima con due interviste, Renzi ha fatto capire di aver in mano le sorti dell’esecutivo. E soprattutto che non aver alcuna intenzione di mettere sul piatto gratis il voto dei propri fedelissimi per l’esperienza giallorossa. Poi nelle ultime ore, il rottamatore è stato più chiaro con Zingaretti: la nomina di Gentiloni renderebbe tortuoso il percorso al nuovo governo. Strada, dunque, in salita verso l’Europa per l’ex premier del Pd. Che a questo punto sarebbe tentato dall’idea di restar fuori. Però al momento Zingaretti appare intenzionato a confermare l’opzione Gentiloni per la casella di commissario Ue. Si va, dunque, verso il primo strappo interno al Pd. Uno strappo destinato ad arrivare a breve, perché la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si aspetterebbe la nomina del commissario da parte del governo italiano entro venerdì: lo avrebbe detto lei stessa durante un incontro a porte chiuse con la delegazione della Cdu-Csu tedesca all’Europarlamento, aggiungendo di voler presentare la sua squadra all’inizio della prossima settimana. Insomma, una soluzione deve essere trovata a breve. Chi resterà fuori, certamente, dall’esecutivo Pd-Cinque stelle è Andrea Orlando. Due ore prima della votazione su Rousseau, che ha dato il via libera al Conte bis, l’ex ministro ha annunciato che non farà parte della squadra dei ministri: «Il segretario del mio partito mi ha proposto di fare parte del nuovo governo con una delega di grande rilievo, fatte salve le prerogative del presidente incaricato e del Capo dello Stato. Ringraziandolo per la proposta ho declinato». Resterà numero due del Pd. Vice unico, visto ingresso quasi certo nel governo dell’altro vice Paola De Micheli: per lei si profila la guida del ministero alle Infrastrutture. Mentre per Dario Franceschini è in arrivo la riconferma al ministero dei Beni culturali. I renziani non si accontentano però del veto su Gentiloni. Ma chiedono un’ampia rappresentanza nell’esecutivo: almeno tre caselle. Roberto Gualtieri dovrebbe andare all’Economia al posto di Giovanni Tria. Lorenzo Guerini, altro renziano, è in pole per il ministero della Difesa. Più nomi in ballo per la terza poltrona: Anna Ascani alla Pubblica Istruzione, Ettore Rosato agli Affari regionali, Emanuele Fiano all’Agricoltura. Per la guida del ministero dell’Interno, scartate le soluzioni Franco Gabrielli e Alessandro Pansa. La poltrona del Viminale va a Luciana Lamorgese. In casa grillina, la partita non è ancora chiusa. Oggi il premier incaricato Giuseppe Conte salirà al Colle per sciogliere la riserva. Luigi di Maio dovrebbe andare (con la benedizione del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella) agli Esteri. Sarà promosso nella squadra di governo Stefano Putuanelli. Conferma per Sergio Costa all’Ambiente. In bilico Alfonso Bonafede alla Giustizia. Mentre non dovrebbe avere alcun problema Riccardo Fraccaro alle Riforme.

Ha aspettato anche lui — «ma con freddezza» — l’esito del referendum sulla piattaforma Rousseau, che ha voluto considerare privo d’interferenze con le sue prerogative. Oggi aspetta il premier incaricato, Sergio Mattarella. Per capire se la bozza di programma che gli presenterà, sciogliendo la riserva, sia all’altezza delle sfide sulle quali l’Italia dovrà misurarsi. Cioè, per indicare quelle più urgenti, la sterilizzazione dell’Iva, la manovra finanziaria, la scelta di un candidato per la nomina di un nostro commissario europeo. Certo, questo che sta per esser tenuto a battesimo, non è un esecutivo «del presidente», ma «dei partiti». Il capo dello Stato non ha dunque raccomandazioni specifiche da rivolgere a Giuseppe Conte, se non quella, che gli ha ripetuto più volte, di «fare il premier e non il notaio di due forze politiche». Con l’incitazione a lavorare nei limiti dello sforamento di bilancio e di un accordo che escluda l’uscita dall’Europa. Cosa che non sarebbe neppure necessario dire visto che Conte sembra già orientato bene di suo. Così come dev’esser consapevole che quello recitato da Di Maio ieri davanti alle tv è un libro dei sogni, dove non è risuonata una parola sui temi del debito pubblico e della politica estera. L’altro dossier su cui Mattarella interrogherà il premier è il rebus della squadra di ministri, sulla quale non avrebbe alcun diktat. Tra quelli su cui più si concentrerà, c’è il dicastero dell’Economia, e i nomi (tutti di tecnici) circolati finora erano giudicati adeguati. Anche per gli Interni pare che Conte, con il placet del presidente, voglia optare per un non politico perché, dopo la stagione di Salvini, serve un ministro da cui tutti si sentano garantiti. Resta in sospeso il giudizio sulle altre caselle, e qui s’innesta un problema divenuto rovente nel 2018. Fu quando Mattarella negò a Paolo Savona, evocatore della metafora del Cigno Nero che avrebbe dovuto spingere l’Italia a un Piano B per lasciare l’euro, il ministero dell’Economia. Un no da cui nacquero polemiche infinite e perfino una richiesta di impeachment dei 5 Stelle. Il tema rinvia all’articolo 92 della Costituzione, laddove recita che «il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri». Ora, posto che parlare di «potere duale» è magari troppo tranchant, la questione è semplice. Il potere valutativo e deliberativo, stando alla lettera della Carta, lo ha il Quirinale. E ciò vale anche se i costituzionalisti, da Costantino Mortati in giù, hanno sottolineato che la norma non va letta isolatamente, ma sullo sfondo della forma di governo di una Repubblica parlamentare e s’incrocia con gli sforzi per elaborare l’accordo di coalizione. Di qui il potere del presidente sarebbe condizionato dalla proposta del premier sulla base di quell’accordo, cosa di cui non può non tenere conto. In ogni caso, le osservazioni del Colle vengono di solito accolte. Alcuni precedenti rinfrescano la memoria: Scalfaro non volle Cesare Previti alla Giustizia nel primo governo di Silvio Berlusconi, e Giorgio Napolitano fece lo stesso con Nicola Gratteri per l’esecutivo di Matteo Renzi. Esempi di moral suasion che dovrebbero essere seguiti per correttezza costituzionale. È così, del resto, che questa prassi è stata acquisita come una consuetudine. Non essendo pensabile che quella del presidente sia solo una controfirma di ratifica.