Seduti su un divano di Montecitorio due deputati del Pd non sprizzano certo di gioia per il governo che verrà, ma lo considerano un passo obbligato, figlio di uno stato di necessità. «I big – osserva con una punta di sarcasmo Umberto Del Basso De Caro – sembra quasi che si vergognino ad entrarci. Con la scelta paradossale di non fare i vicepremier, il Conte bis sta assumendo le sembianze di un governo tecnico o para-tecnico». «Il problema – sentenzia (…) (…) Enrico Borghi – è che mentre figli della dc come Renzi, Franceschini, Delrio, Letta hanno capito subito che andava fatto. Come pure figli del Pci come D’Alema e Bersani. Un figlio dei Ds come Zingaretti ci ha messo venti giorni a capire che è un governo indispensabile, di “legittima difesa”». Questa espressione, all’apparenza stravagante, gira di bocca in bocca in Parlamento. La usano nel Pd, ma echeggia nei discorsi di forzisti come Renata Polverini o Gregorio Fontana, e rimbalza nei ragionamenti di grillini come Luca Carabetta. Se Matteo Salvini definisce il nascituro un esecutivo «contro la Lega», gli altri, che tre settimane fa se la sono vista brutta con le elezioni alle porte, lo vivono, appunto, come un «governo di legittima difesa»: una denominazione che contiene in sé la sottile malizia di utilizzare dal punto di vista politico il concetto di «legittima difesa», contro l’autore di una legge che portava lo stesso nome e che ha fatto attorcigliare per mesi lo stomaco a piddini e 5stelle . Un governo del genere, che risponde ad uno stato d’animo più che ad un programma, per sua natura ha un’anima tecnica, enfatizzata in questo caso anche dalla brevità dei tempi che i protagonisti hanno avuto a disposizione per metterlo in piedi. Una condizione che ha consigliato più di accantonare i problemi, che non di superarli. Tant’è che il premier incaricato ci tiene a precisare passando da una maggioranza gialloverde ad una giallorossa di «non essere uomo per tutte le stagioni» (rasentando il ridicolo), di «non essere grillino» (sfiorando il comico) e, dato da non trascurare, di preferire come sottosegretario a Palazzo Chigi un altro tecnico come Roberto Chieppa e non un politico come Dario Franceschini, anche se alla fine prevarrà quest’ultimo. Eppoi con un tecnico al Viminale come il prefetto Luciana Lamorgese; oppure con un ministro dell’Economia da scegliere tra l’ex-Bankitalia, Salvatore Rossi, o il vicepresidente della Bei, Dario Scannapieco; o, ancora, con un esponente politico decisivo negli equilibri del Pd come Andrea Orlando che si tira fuori, la conseguenza è implicita: l’immagine tecnica rischia di offuscare quella politica. Tanto più che nel valzer dei veti si rischia il paradosso, masochista, di scartare Giggino Di Maio come vicepremier e di ritrovarselo alla Farnesina. Tutto questo dimostra che in questo frangente conta più il fine che non lo strumento per raggiungerlo. E per il fine – cioè di impedire a Salvini di arrivare alle urne secondo i suoi piani e la sua tempistica, facendo degli altri tabula rasa – si è pronti a perdonare tutto: in Italia, nella base dei due partiti (il 79% della piattaforma Rousseau si è espressa per il Sì), come in Europa. In fondo se uno ti aggredisce a Ferragosto, non è che per difenderti hai il tempo di scegliere tra un’arma sofisticata, un cacciavite spuntato o un sasso. L’importante è respingere l’assalto. Poi si vede. Ecco perché nell’inedita maggioranza giallorossa non sono pochi quelli che storcono il naso sul tipo di governo che sta venendo fuori da queste esasperanti trattative, ma questo non scalfisce la convinzione che sia un passaggio necessario, addirittura obbligato. «Nasce un governo tecnico – confida in privato Matteo Renzi – e neppure dei migliori. Anzi. C’erano in ballo personaggi come Cantone e Gabrielli e invece… E avremo pure un ministro degli Esteri che sa l’inglese come l’italiano, cioè male. Detto ciò: la legislatura arriverà fino al 2023, questo governo non lo so». Spunti simili sono contenuti anche nei ragionamenti in cui si lancia il piddino più convinto dell’accordo con i grillini, Graziano Delrio. «C’è il rischio – ammette – che il “Conte bis” nella sua composizione appaia come un governo tecnico. Ma l’importante è farlo partire: se si va alle urne adesso Salvini diventerebbe un genio. Poi più avanti avremo il tempo di registrare il tutto, magari di cambiare. Anche perché la cosa più importante non è il governo ma aprire una nuova stagione politica…». E qui arriviamo al punto. Spiega Delrio: «L’importante, ad esempio, è introdurre una legge proporzionale, altrimenti la prossima volta Salvini stravince. Il bipolarismo in questo momento – in Italia come in Europa o nel mondo – favorisce le estreme, i sovranismi, i populismi, chi fa politica con i proclami arrabbiati senza risolvere i problemi. Dobbiamo tornare ad una politica più mite, a quell’alleanza che ha governato questo paese per decenni tra un centro e una sinistra». E già, questa è la vera posta in gioco. E non è poco. Se si mettessero in un computer disegni e strategie dei vari protagonisti di questa fase, si scoprirebbe che c’è un’accelerazione di processi che modificheranno in futuro lo scenario politico. È chiaro che l’attuale equilibrio farà venire meno i motivi della scissione tra il Pd e Liberi Uguali. Ed ancora, che il ritorno di D’Alema e Bersani produrrà una scissione sul versante centrista del Pd: nasceranno gruppi parlamentari renziani che si allargheranno ad altri soggetti moderati. Come pure la rottura traumatica con la Lega, collocherà stabilmente i grillini sul versante di sinistra. Ovviamente, per «disarticolare» e «riaggregare» quelli che sono gli attuali soggetti politici, ci sarà bisogno di una nuova legge elettorale proporzionale che è già in fieri. Di contro Salvini punterà a bloccare quest’operazione di cui è la vittima predestinata, perché punta alla sua emarginazione – e del sovranismo – dal gioco politico: il tentativo di attrarre nella sua orbita parlamentari grillini e azzurri punta non solo a far crollare l’attuale equilibrio di governo, ma soprattutto ad evitare quel ritorno al proporzionale che per lui sarebbe letale. Non si tratta di congetture, ma dei ragionamenti che stanno facendo gli attori della disputa, o meglio, della battaglia che si svolgerà nei prossimi mesi. In cui ci saranno rotture, nuove alleanze e ritorni di fiamma. Già, può succedere di tutto, perché è in ballo la sopravvivenza di molti. Quando la scorsa settimana Silvio Berlusconi ha scritto nero su bianco la dichiarazione alla stampa dopo l’incontro con il premier incaricato, qualcuno dei suoi collaboratori gli aveva consigliato prudenza per non far adirare Salvini, ricevendo una risposta inaspettata: «Quello che voglio è proprio che si arrabbi». Anche in politica come nella vita le stagioni cambiano. «E quella che si apre – è la chiosa di Gianni Letta – potrebbe ridare smalto a quell’area moderata tanto bistrattata».
L’inizio di una nuova fase, con incogniteesperanze. Il voto su Rousseau che conferma la nascita di un governo giallorosso segna due punti a livello politico: una vittoria della linea di Giuseppe Conte e la conferma di un nuovo equilibrio, di un nuovo asse guidato da Luigi Di Maio e, dietro le quinte, da Roberto Fico (che ha commentato: «Oggi il Movimento ha deciso di non arrendersi»). Non a caso è proprio il capo politico dei Cinque Stelle che con i suoi commenta la vittoria, con parole chiare, che segnano la discontinuità con il passato gialloverde (e anche con alcuni malumori interni al gruppo). «Voglio un governo che lavori e lo faccia con serenità, non seguendo interessi personali ma per il benessere del Paese. Voglio un governo senza conflitti», dice Di Maio. La chiave del futuro del Movimento e del governo è in un numero: 79%. Tanti sono i sì che «sposano» l’alleanza con i dem e che cambiano i piani e le prospettive dei Cinque Stelle. «Una percentuale inattesa alla vigilia», commentano i vertici pentastellati, una percentuale che ricompatta di fatto il Movimento. Non a caso, nelle ore successive alla consultazione ilritornello che si sente dai parlamentari è «Inizia una nuova fase». E stavolta non sono parole di rito. Anche Alessandro Di Battista si dice «fiero» dei votanti e commenta al Corriere: «Questo voto dimostra che c’è democrazia nel Movimento: nessuno fa prendere decisioni così importanti ai propri iscritti. Il fatto che sia stato un plebiscito dà grande responsabilità al governo perché evidentementeègradito alla stragrande maggioranza degli iscritti al Movimento». E la responsabilità e l’attesa è sulle spalle del premier. Conte ha atteso l’esito del voto al lavoro, in una giornata dove i Cinque Stelle si sono chiusi a riccio, nonostante una certa serenità sull’esito del voto. Il presidente è al lavoro sulla lista dei ministri e il voto quasi bulgaro segna anche un punto di apprezzamento nei suoi confronti. Nella testa di Conte c’è la volontà di creare un governo senza tensioni e la decisione di affidare a un tecnico di fiducia il ruolo di sottosegretario alla presidenza del Consiglio lo rende di fatto padrone di casa a Palazzo Chigi. (Un punto questo contestato dal Movimento che vorrebbe in quel ruolo Riccardo Fraccaro o, in alternativa, Vincenzo Spadafora). Con questo «ruolo», quello di dominus a Chigi, Conte si confronterà con Di Maio, che «molto probabilmente» sarà ministro degli Esteri. E proprio il nodo della squadra è l’oggetto di un vertice notturno che — secondo indiscrezioni — ha visto protagoniste diverse delegazioni dei partiti e che potrebbe coinvolgereileader dei due partiti di maggioranza e il presidente incaricato. Il premier starebbe lavorando per inserire ministri tecnici di sua fiducia nel puzzle. La squadra rimane uno dei punti di tensione all’interno del gruppo parlamentare. «Ci sono sensibilità diverse rispetto alla Lega, servono nomi diversi», commenta un falco. Ma gli ortodossi dovrebbero essere accontentati. In prima linea per la nomina a ministro ci sono due esponenti, Federico D’Incà e Nicola Morra. La grande incognita per l’esecutivo giallorosso è proprio il rapporto che si instaurerà con deputati e senatori. «Riscopriremo la via parlamentare», dicono sibillini alcuni pentastellati. E poi precisano: «Con i dem cercheremo la massima collaborazione». Punti di vista che evidenziano sia uno storcere il naso di fronteaeventuali tecnici sia il fatto che la ritrovata unità tra ortodossi e pragmatici sarà subito messa alla prova dell’Aula.
Il Conte bis adesso può prendere il largo. Il plebiscito della piattaforma Rousseau conferma che l’anima del Movimento è “governista”, l’intesa col Pd piace al 79,3 per cento degli iscritti. La creatura informatica ideata dalla Casaleggio registra il record di votanti (79.634 su 117.194 aventi diritto: i sì sono stati 63.146, i no 16.488) e accende il disco verde definitivo che supera le ultime resistenze interne. «È stato un grande momento di democrazia diretta per il Paese», esulta Luigi Di Maio davanti alle telecamere subito dopo il responso, aggiungendo che sarà «un ciclo di cinque anni per realizzare tutti i punti del programma». È il segnale che Nicola Zingaretti e tutti i dem hanno atteso col fiato sospeso fino a sera. «Ora andiamo a cambiare l’Italia, un passo avanti per un governo di svolta», dice il segretario pd. Restano da definire le ultime tessere del puzzle, ma è fatta. Tanto è vero che alle 10 il presidente incaricato dovrebbe salire al Colle per sciogliere la riserva e annunciare al capo dello Stato la squadra dei ministri e illustrare il quadro programmatico, che nel frattempo è stato messo a punto. Intorno alle 17 il nuovo governo potrebbe giurare nelle mani di Sergio Mattarella. La fiducia seguirebbe nel fine settimana o al più tardi lunedì e martedì. Si volta pagina dunque, col plauso di investitori e mercati: alle 18 lo spread ha chiuso a 158, ai minimi da maggio 2018, come il tasso sul decennale del Tesoro, sceso allo 0,87%. Nelle stesse ore si sbloccavano le trattative sulle caselle più delicate dell’esecutivo. Il vicesegretario Pd Andrea Orlando rinuncia all’ingresso nel governo, non andrà dunque alla Farnesina dove invece approda proprio Luigi Di Maio. Sarà il capo delegazione del Movimento al governo, come lo sarà il dem Dario Franceschini, per il quale si schiudono le porte della Difesa. Nessuno occuperà la poltrona, rivelatasi infausta nei 14 mesi precedenti, di vicepremier. Dentro il Movimento il risultato non è privo di conseguenze. Pesa il silenzio di Alessandro Di Battista. Il filo leghista Gianluigi Paragone resta «fortemente critico» e deciderà «dopo aver parlato con Di Maio». Può festeggiare Beppe Grillo. «Oggi il M5S ha deciso di non arrendersi», commenta soddisfatto il presidente della Camera Roberto Fico. Davide Casaleggio esulta per la tenuta e la centralità della sua piattaforma: «È stato il record mondiale di partecipazione online a una votazione politica, la vittoria della democrazia diretta». Ma è il capo del Movimento ad accantonare ogni dubbio, probabilmente anche per il ruolo ottenuto): «Ci confermiamo forza di governo basata sulla partecipazione attiva – spiega a Montecitorio pochi minuti dopo che il blog delle Stelle ha ufficializzato i dati – Ora porteremo avanti le nostre proposte partendo dal taglio dei parlamentari». Salvini è ormai il passato, «ha deciso di mettersi da parte», lo liquida. «Se mi fido di Renzi? Chi tradirà se ne assumerà la responsabilità». Con Beppe Grillo «ci vogliamo bene, lavoriamo insieme», ma ammette la «divergenza sui 20 punti del programma». A Palazzo Chigi hanno portato via gli ultimi scatoloni del vicepremier Salvini, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti ha fatto un brindisi di saluto con i dipendenti. Al leader leghista, il grande sconfitto, resta solo il rammarico: «Sono stato un ingenuo, ho sottovalutato la fame di potere e poltrone – ripete in diretta Fb – Ma mi avrete più incazzato e determinato di prima, girerò le città e ci riprenderemo questo Paese. Parola d’onore: noi vinciamo». Intanto, ad ore, libererà anche il Viminale.
Intervista a Salvini «Vigliacchi, non durate» Matteo: «Grillini servi, venduti. Ho sottovalutato la loro fame di poltrone. Invece io ho valori e dignità, l’Italia è ancora con me, tornerò».
PIETRO SENALDI «Vigliacchi, M5S e Pd si detestano ma si sono messi d’accordo per non far votare gli italiani. Fino a due settimane fa si insultavano furiosamente l’uno con l’altro. Il governo dell’odio è quello che sta per nascere. Sono orgoglioso di essere rimasto fuori da questo mercato delle vacche indegno». (…) (…) Matteo Salvini ha un tono calmo mentre pronuncia parole di fuoco. È pentito di avere aperto la crisi? «L’unica colpa che ho è di essere stato ingenuo, ritenevo di vivere in un Paese democratico. I miei genitori mi hanno educato con sani principi. Ho sottovalutato la voglia di poltrone dei grillini e la loro mancanza di dignità. Del Pd lo sapevo, ma non mi aspettavo che i Cinquestelle fossero diventati peggio della casta che hanno sempre giurato di voler combattere. I grillini ormai sono il partito delle poltrone». Ma se come prima mossa Di Maio ha detto che il nuovo governo taglierà i parlamentari… «Tutti sanno che questo esecutivo nasce per far tornare i Dem al potere e per nonmandarea casa cento parlamentari grillini, cosa che sarebbe avvenuta se avessero consentito agli italiani di votare». Di Maio l’ha delusa? «L’ho visto in tv, non mi sembrava avesse l’aspetto del vincitore. Di lui non diròmaimale, come di tutti i grillini con i quali ho lavorato bene. Certo, lo vedo in difficoltà». Che ne sarà dei grillini dopo l’abbraccio con il Pd? «Sono morti: diventeranno una costola di Leu e della Boldrini, neppure del Pd. Che brutta fine». Non teme di perdere consensi per la sua mossa? «Ricevo soloincoraggiamentiadandare avanti. C’è perfino gente che mi scrive dicendo di non esseremai stata leghista ma che ora è con me e mi esorta a non mollare. La Lega è di gran lunga il primo partito in Italia, un elettore su tre è con me. Se fossi in crisi di consensi, ci farebbero votare. La realtà è opposta. L’ultimo sondaggio dice che il 90% degli elettori leghisti è a favore della rottura: lamossa ha compattato il nostro popolo». La accusavano di voler instaurare un regime… «E per difendere la democrazia impediscono il suo esercizio, ma non possono farlo per sempre. Prima o poi torneremo a votare. Conte ha governato con me e ora dice che sono un pericoloso fascista; ma allora lo era anche lui. I soli fascisti pericolosi per la democrazia sono quanti hanno paura del voto: cosa dovrei dire ora io di lui e della sua operazione?». Non perdona al premier le accuse che le ha rivolto in Parlamento? «Si è trasformato da avvocato degli italiani in avvocato della Merkel e di Macron. Che vergogna, ma non infierisco: si fa una brutta vita a piegare la schiena». Cosa farà da domani? «Giàil prossimomese si votain Umbria, sempre che non decidano di sospendere la democrazia anche nelle Regioni, visto che dopo lo scandalo che ha travolto il Pd, la roccaforte rossa rischia di cadere. Il 15 settembre c’è Pontida, dopo di che girerò l’Umbria, perchéi cittadini di quella Regione non si meritano di essere governati ancora dai democratici». Dica la verità: perché ha rotto? «Ho capito che non mi avrebbero fatto abbassare le tasse come avevo promesso agli italiani e che i grillini si erano accordati con l’Europa per una manovra anti-italiana». Doveva staccare prima… «Visto quel che è successo, non sarebbe cambiato nulla». È stato tirato per la giacca? «Non ho preso un’insolazioneaMilanoMarittima. Tutta la Legami chiedeva di rompere, e con lei gli imprenditori, le persone che incontravo, la società. I grillini sono ancora controla Tav e la Gronda di Genova, non era possibile andare avanti». Colpi di sole. Perché tutti ce l’hanno con lei per la sua estate in spiaggia a torso nudo? «Scusi, lei in spiaggia va in smoking? Lamia estate haindignatoi radical-chic. Il fatto che uno cantasse in spiaggia ha ferito la loro spocchia. È surreale, sono terrorizzati dal popolo, tant’è che scappano dal voto. Un politico che va in riviera sotto l’ombrellonefa paura perchéla sinistra non sopporta le idee chiare e la semplicità». È amareggiato? «Non sono triste né depresso né deluso. È un momento positivo, stiamo gettandole basi peril ritorno della Legaal governo, stavolta con un esecutivo che possa fare qualcosa. Quello gialloverde, aveva esaurito la propria funzione, era bloccato da mesi. Tranne che su immigrazione e sicurezza, dove io bombardavo tutti i giorni». Ora che ne sarà di quei fronti? «Non avevo ancora lasciato il Viminale e già dieci navi incrociavano al largo di Lampedusa. I grillini dicono che terranno la mia linea dura, ma non ci riusciranno, non è nel loro dna e il Pd cercherà di tornare alle frontiere aperte. Io però mi batterò perché non venga smontato il mio lavoro». Quanto la spaventa il governo del Pd con Cinquestelle… «A M5S e Pd dico: spartitevi le poltrone, mettete da parte gli ultimi soldi, perché torneremo presto. Presto vinceremo, vinceremo e vinceremo». È sorpreso dall’esito della votazione su Rousseau, un plebiscito a favore dell’alleanza M5S-Pd? «Pernulla, era prevedibile:il ribaltone è stato ben organizzato. Mi ha rattristato un po’ ascoltare i toni enfatici con i quali M5S ha celebrato il sì di 60mila persone su una piattaforma privata. Io volevo far votare il governo da sessanta milioni di italiani». Quanto dura questo esecutivo? «Nonfaccioil gufo.Milimito a notare che M5S e Pd non sono d’accordo su nulla se non nell’odio verso di me, l’amore verso la Merkel e l’attaccamento al potere e alle poltrone. Non ci sono i presupposti politici perché questo governo vada lontano, è l’esecutivo che nasce con il minor sostegno popolare della storia. Perfino Monti ne aveva di più. Sonominoranza nel Paese e non hanno neppure l’appoggio di tutti i loro elettori». È stato un errore chiedere pieni poteri, l’hanno attaccata tutti per quella frase e l’hanno sfruttata per far partire il governo M5S-Pd? «È stata strumentalizzata, intendevo pieni poteri nel rispetto dellaCostituzione. Volevo un governo operativo, non bloccato dai veti, come ormai era quello M5S-Lega». Perché ha provato a tornare indietro e rifare un’intesa con M5S? «Non sono tornato indietro. Ho solo provato a vedere se una parte di M5S preferiva i Sì ai No ed era disposta a cambiare certi ministri che non funzionavano e bloccavano il Paese. Mi riferisco alle Infrastrutture, all’Economia, all’Ambiente e alla Giustizia, che mi allarma particolarmente». Perché proprio la giustizia? «Mi preoccupa il mix di giustizialismo grillino e sudditanza dem alla magistratura.Ho paura che diventeremo come l’URSS». Lei ha aperto le porte ai grillini delusi: qualcuno ha già bussato? «Sì, ma non è una priorità ora». Quando si è rotto il rapporto con i grillini? «Con la campagna elettorale per le Europee i grillini sono passati agli insulti personali verso me e i miei. Non si riusciva a distinguerli da Saviano». Con la Lega all’opposizione il centrodestra si compatterà? «Lavoro per allargare la coalizione. Alle Regionali ci presenteremo uniti. Mamilasci dire: visti gli ultimiaccadimenti nonha più senso parlare di centrodestra. Ormai c’è un partito degli italiani e uno degli stranieri. M5S, votando in Europa con Merkel e Macron, si è iscritto al secondo. Il cosiddetto centrodestra che io guido si identifica con il primo». Quando parla di allargare intende anche a Forza Italia? «Certo, a patto che Forza Italia smetta di essere ambigua e attaccarmi. Una parte degli azzurri vuole seguireRenzi. Berlusconifaccia chiarezza nel suo partito: chi guarda a Renzi e Macron non può stare con me». E la Meloni? «Leimi sembrafaccia parte del partito degli italiani». Lo ammetta, con il rosario ha esagerato… «È una battaglia identitaria». Sì, ma lei lo ha scoperto dopo 25 anni di politica… «Il rosario è di tutti, non appartiene solo allaChiesa. La gentemi chiede di portarlo per testimoniare l’orgoglio di appartenere alla civiltà cristiana».
«Voglio fare una proposta per un’agenda che chiami in causa un governo di statisti, più che di politici. Facciamo un grande patto tra imprese, sindacati e governo in cui, oltre a difendere il salario contrattuale, introduciamo una finestra aggiuntiva sull’assunzione dei giovani. Non possiamo continuare a farli entrare in azienda con il minimo contrattuale, dobbiamo pagarli di più, valorizzando le loro competenze. Altrimenti, le eccellenze continueranno ad andare all’estero». Carlo Bonomi, il nome più speso nel totonomine per la futura presidenza di Confindustria – anche se lui giura che dedica ogni minuto del suo tempo al suo mandato di presidente di Assolombarda – parla per la prima volta, dopo la folle estate della politica italiana, e subito spiazza tutti con un’idea che apre una strada fin qui inesplorata: per la prima volta è un rappresentante del mondo delle imprese che mette al primo punto dell’agenda il futuro dei giovani. Pagare i giovani più del classico salario d’entrata, presidente, è certamente una buona intenzione. Ma è sicuro che i suoi colleghi imprenditori la condivideranno? «So che è un’idea che farà discutere, ma io credo che si debba rompere la consuetudine di incentrare il dibattito solo sulle convenienze elettorali, sull’alternativa voto o non voto, sui colori delle maggioranze di governo. La nostra è una generazione che ha ereditato un Paese con grandi problemi, ma far parte di un ceto dirigente responsabile significa provare a spegnere il cerino, invece che passarlo alla generazione che verrà. E allora io voglio aggiungere all’agenda pubblica questo stimolo per investire sul futuro del Paese». Ma come si può fare, tecnicamente, per introdurre questa novità? «Naturalmente ne dobbiamo parlare per trovare le giuste applicazioni, per questo propongo un patto che coinvolga tutti i soggetti interessati. Noi imprenditori, per primi, siamo pronti a fare delle rinunce e se lo Stato, che utilizza ogni anno miliardi in azioni improduttive, ne destinasse una parte alla costruzione di un futuro migliore per i nostri giovani il Paese intero ne avrebbe un gran beneficio. Ma in questa operazione che battezzerei “Detassiamo il nostro futuro” ci sono anche altre cose che si possono fare subito». Per esempio? «Per esempio una grande operazione di sostenibilità sociale e di giustizia tra generazioni. Piuttosto che quota 100, che non è la strada giusta, io proporrei di detassare il “tutoring”, cioè il trasferimento di competenze, in azienda, tra i lavoratori più esperti e i neoassunti. O ancora, la sostenibilità ambientale, che anche è un grande tema economico: basta pensare che l’Ecobonus e il Sisma-bonus, in due anni, hanno mosso investimenti per 28 miliardi di euro. Anche qui, un grande piano di detassazione degli impianti a tecnologia avanzata, da finanziare con i soldi che ogni anno spendiamo per portare i rifiuti all’estero, metterebbe in moto miliardi di investimenti». Lei chiede stimoli e detassazioni, e dove esiste una politica industriale efficace sono strumenti importanti. Ma i motori degli investimenti, oltre allo Stato, sono gli imprenditori. E dalle vostre parti non tira un’aria effervescente. «Guardiamo il quadro dell’economia: la fiducia di imprese e consumatori è in flessione evidente, gli ordinativi crollano, ormai veniamo da un anno e mezzo di sostanziale stagnazione. Ecco, questa evoluzione noi l’avevamo avvistata per tempo, e lo avevamo detto in tutti i modi». Ma? «Ma il governo non ha ascoltato i nostri suggerimenti, anzi alcuni suoi rappresentanti si sono illusi che ci potesse essere un aumento dell’occupazione anche senza crescita economica. E invece abbiamo visto che a fronte di un aumento degli occupati, tutto da interpretare, c’è stato un netto calo delle ore effettuate per lavoratore. E il Paese oggi soffre di una ulteriore perdita di produttività». Se esistesse ancora il governo Conte 1, le risponderebbe che reddito di cittadinanza e quota 100 non hanno avuto il tempo di dispiegare i loro effetti. «I numeri sono numeri, e ci sono anche analisi terze che escludono, per quota 100, un meccanismo di sostituzione dei pensionati con un numero analogo di neoassunti. Ma mi limito a dire che, per l’anno in corso e per il prossimo sono stati stanziati 25 miliardi per reddito di cittadinanza e quota 100. Noi avevamo suggerito di spendere diversamente quei soldi». In una intervista a “ Repubblica” di qualche mese fa lei fu il primo a proporre esplicitamente un taglio massiccio del cuneo fiscale tutto a vantaggio dei lavoratori. «Sì, e mi par di capire che finalmente l’idea abbia una buona probabilità di entrare nell’agenda di governo. Mi fa piacere, anche perché almeno su questo saremo d’accordo che gli imprenditori non chiedono niente per sé. Ma vorrei aggiungere altre tre cose che chiunque governerà farà bene a tener presente». Qualche ora per ritoccare il programma giallorosso forse resta ancora, prego. «Primo, dare messaggi inequivocabili sulla finanza pubblica: abbiamo visto come le parole dette e anche quelle non dette dalle forze di governo producano scostamenti significativi dei tassi di interesse, e quindi sovraccosti o risparmi ingenti per il bilancio dello Stato. L’Europa non ha fatto tutto bene, quindi va benissimo partecipare alla revisione delle regole, ma restando convintamente dentro il perimetro dell’Unione>. Poi? «La centralità delle imprese, se crescono cresce anche il Pil italiano. Bisogna ricostruire una cornice che restituisca loro la fiducia necessaria per fare progetti e investire denaro. E, possibilmente, favorire gli investimenti con azioni di politica industriale di medio-lungo periodo. Infine, sbloccare le opere pubbliche: non basta un decreto con una etichetta sopra, qui è tutto fermo». Per fare tutte queste cose, lei dice, serve un governo di statisti e non di politici. Vista la storia recente del nostro Paese, non le sembra un’ambizione eccessiva? «No, siamo responsabili del nostro futuro e l’Italia del domani dipende dalle decisioni che prendiamo oggi».
Non sono le indicazioni sommarie dei primi programmi giallorossi a poter segnare un drastico cambio di rotta rispetto al governo gialloverde che sta chiudendo i battenti. Ci penseranno i prossimi consigli dei ministri a chiarire quanto cambierà il percorso: dicendo addio alle ipotesi di Flat Tax che hanno dominato il dibattito negli ultimi mesi, rimettendo mano a quota 100 e definendo il restyling dei decreti sicurezza come chiesto dal Quirinale. Molto dipenderà anche dalla presenza di un capitolo dedicato alle imprese, su cui si sono concentrate le ultime riunioni di ieri insieme ad agricoltura e welfare, con il progetto di assegno unico per la famiglia. Tra le ipotesi il ritorno dell’Ace, lo sconto fiscale per gli investimenti, all’interno di un rilancio del piano industria 4.0. Anche da lì potrà passare il ripensamento rispetto all’impostazione dei programmi gialloverdi. «Per uscire dalla crisi serve un’alleanza forte con le imprese» ragiona Graziano Delrio, che da capogruppo Pd alla Camera è stato in prima fila nel lavoro di costruzione del programma. Per il resto, nei testi ufficiali dei nuovi piani di governo, invece, la «discontinuità» è decisamente più sfumata. Per due ragioni. Il bilancino di precisione utilizzato per costruire un’alleanza inedita fra Pd e M5S, nemici giurati fino a ieri e collocati su fronti opposti con il Conte-1 non ha permesso di andare molto oltre i confini del generico. E la situazione dei conti italiani non consente voli di fantasia: ecco che i giallorossi puntano su «una politica economica espansiva senza compromettere l’equilibrio di finanza pubblica», come i gialloverdi evocavano un «appropriato e limitato ricorso al deficit». Ma una volta costruito il governo programmi di questo tipo fanno in fretta a uscire dal cono di luce. E le scelte operative si imporranno. Il Conte-2 si dovrebbe tenere lontano dal 3% di deficit a cui puntava la Lega per far partire la tassa piatta. Per la nuova agenda di politica economica dovrebbe bastare molto meno, anche grazie alla correzione dei conti operata a luglio. La linea, insomma, sarà vicina a quella del Conte-1 tracciata dall’asse fra Palazzo Chigi e Mef, e lontana da quella chiesta dal Carroccio. All’atto pratico, il cambiamento dovrebbe esercitarsi prima di tutto sul terreno delicato della previdenza. Sull’orizzonte dei programmi tramonta l’addio alla legge Fornero, che aveva fatto alzare le barricate a Bruxelles, sostituito da una probabile revisione di quota 100 per far quadrare le cifre della legge di bilancio. Un’inversione a «U» che darebbe argomenti anche al cambio di atteggiamento in Europa. Per il resto, la ricerca di differenze fra il Green New Deal evocato dall’alleanza M5S-Pd e la Green Economy prevista dal contratto M5S-Lega rischia per ora di trasformarsi in un esercizio teorico. Dal cuneo fiscale allo stop all’Iva, dalla semplificazione amministrativa alla cittadinanza digitale, dovranno essere decreti e leggi a provare davvero un cambio di rotta. Nei programmi, questi temi sono presenze fisse, sempre uguali. Lo stesso dovrà accadere, presto, sui migranti. Quando nelle prossime settimane il Conte-2 dovrà scrivere nuovi articoli e commi per sostituire le parti dei decreti sicurezza più indigeste al Quirinale. Se si rimane ad agende politiche e contratti, invece, le differenze sfumano: i giallorossi, come i gialloverdi, chiedono una «forte risposta europea», per non lasciare l’Italia da sola sulla prima linea, e la lotta al traffico illegale di persone. Una differenza, stando ai testi circolati finora, c’è: i giallorossi citano l’integrazione, assente dal contratto M5S-Lega, e non i rimpatri, su cui invece il programma del Conte-1 aveva messo una certa enfasi. È anche vero però che nei 14 mesi di governo di rimpatri ne sono stati fatti pochi. Una variante cruciale arriva per il taglio dei parlamentari: che andrà accompagnato da una nuova legge elettorale come chiesto dal Pd. E le leggi elettorali, lo insegna l’esperienza recente, sono decisive nel disegnare le dinamiche delle alleanze.
Massimo D’Alema, cinque giorni dopo il voto del 4 marzo 2018, lei aveva affidato a un’intervista al Corriere l’auspicio di un «confronto» tra Pd e M5S. Il governo che sta per nascereèil punto di arrivo della strada che lei aveva tracciato? «Il M5S, che aveva vinto le elezioni ma non era autosufficiente in Parlamento, aveva individuato nell’alleanza col Pd lo sbocco naturale di quell’impasse. Quella prospettiva si era arenata di fronte alla scelta sbagliata del Pd di chiamarsi fuoriedi consentire, quindi, che si formasse una maggioranza parlamentare tra M5S e Lega. Quell’alleanza gialloverde era stata un ripiego; il ribaltone politico di cui molti parlano oggi, in realtà, era avvenuto allora. A causa della scelta del Pd, quindi, si è perso un anno e sièconsentito che la destra diventasse molto più forte. Oggi le cose saranno forse più difficili e mi rendo conto che c’è voluto coraggio da parte del nuovo leader del Pd. Ma si è imboccata una strada che era naturale fin dall’inizio. Il primo segnale importante è stato dato votando insieme la presidente della Commissione europea ». Naturale? Molti, anche nel centrosinistra, pensano che sia l’esatto contrario. «Ho letto sull’ultimo numero di Quaderni di Rassegna Sindacale che oltre il 50% degli operai e degli impiegati iscritti al sindacato votano per il M5S. Parliamo di un pezzo significativo del nostro mondo che, non trovandole nella sinistra, ha cercato nel M5S le risposte alle esigenze di giustizia sociale, di lotta alle diseguaglianze e ai privilegi. Mi spiega che cosa c’è di innaturale nel tentare di riannodare quel filo che, per colpa del centrosinistra, si era spezzato?». Renzi aveva disfatto la tela col M5S nel 2018. Lo stesso Renzi ha tagliato il nastro del nuovo cantiere. È così? «Ho notato un certo cambiamento nelle sue posizioni. Ma mi permetta di non entrare nel dibattito interno al Pd e nelle sfumature tra le posizioni di questo o di quel dirigente. Sono interessato al progetto politico. Quello che si apre oggi è un processo politico difficile, che ha bisogno di una grande discontinuità non solo rispetto al primo governo Conte. Ma anche rispetto ai governi precedenti». Che erano guidati da esponenti del Pd, Renzi compreso. «Vedo che ha colto. Il filo con quel pezzo del nostro popolo si era spezzato molto prima che arrivasse la maggioranza gialloverde. Nell’alleanza e nel governo col M5S, oggi, la sinistra deve ritrovare le coordinate che aveva perso. Dobbiamo riuscire a risintonizzare il realismo politico con l’utopia, rimetterci in contatto con quel popolo che avevamo smarrito. E questo vuol dire saper tenere insieme, appunto, l’Europa e la giustizia sociale, un’equa redistribuzione delle risorse e lo sviluppo, la questione ambientale e una globalizzazione più sostenibile. La sinistra non ha saputo prendersi in carico, forse addirittura vedere, il disagio sociale. Questa può essere l’occasione per ritrovare la strada». Non le sembra eccessivo che le sorti di questo processo politico siano state appese all’esito di una consultazione sul Web? «Non sono tra quelli che si scandalizzano per il ricorso alla piattaforma Rousseau. Gli accordi politici vengono ratificati dagli organi di partito, il Pd ha la Direzione, il M5S la sua modalità». Sono due cose molto diverse. In una ci sono le persone in carne e ossa, si vedono, si contano. «Anche io ho una preferenza perla politica fatta di persone in carne e ossa, per le assemblee. Ma per la Costituzione italiana la Direzione Pd e la piattaforma Rousseau sono la stessa cosa. Infatti non prevede né l’una né l’altra. E poi, mi scusi, anche il Pd affida un grande potere al segretario che elegge chiamando a raccolta chiunque, a prescindere dal fatto che voti per quel partito o per la destra. Mi sembra un meccanismo altrettanto discutibile». Nell’orizzonte di Pd e M5S ci deve essere un’alleanza anche elettorale? Mi spiego, questo processo politico potrebbe innescare un ritorno al bipolarismo, con un nuovo centrosinistra di qua e la destra di là? «Io lo spero. Vede, su una cosa i Cinquestelle avevano sbagliato, anche se ovviamente fanno fatica ad ammetterlo. Non è vero, come dicevano, che non esistono né sarebbero più esistite destra e sinistra. Sulla loro pelle, nel corso dell’ultimo anno, hanno sperimentato che la destra esiste, eccome se esiste. Anzi, come ha dimostrato Salvini, la cui sconfitta considero un fatto molto positivo, la destra si è fatta ancora più estremista. Basta guardareacome il problema di qualche migliaio di migranti, che un qualsiasi altro governo avrebbe risolto nel giro di qualche minuto, sia stato trasformato in un’occasione per alimentare odio sociale. Una vera e propria strategia della tensione, per alimentare la sensazione di un’invasione totalmente infondata, a cominciare dai numeri. Ecco, questa è la destra, si vede in modo netto, chiaro. A questa destra deve rispondere un centrosinistra. Per questo andrei cauto nell’approvare di corsa una legge proporzionale; un maggioritario, che favorisca il ritorno al bipolarismo, servirebbe anche a chi, dall’altra parte, sogna il ritorno a un centrodestra moderato, europeo, lontano dal nazionalismo esasperato, dalla negazione della questione ambientale, da quella carica di violenza che accompagna ovunque la destra di oggi». Conte può essere il «nuovo Prodi»? «Prodi aveva nel dna quella connotazione della sinistra Dc che da sempre perseguiva l’avvicinamento tra il mondo cattolicoela sinistra. A Conte questo vissuto manca, però ha dimostrato di avere notevoli capacità. L’abbiamo visto guidare il governo gialloverde con visibile difficoltà e imbarazzo. Oggi è diverso. Ho l’impressione che, nel perimetro dell’accordo Pd-M5S, anche culturalmente, Conte si trovi già più a suo agio perché è più vicino alle sue convinzioni, ai suoi valori. Tocca a lui dimostrare di sapere fare sintesi; innanzi tutto, promuovendo un governo che tenga insieme qualità e innovazione».
È lungo 114 pagine l’elenco di prodotti cinesi sui quali da ieri sono scattati i nuovi dazi del 15% negli Stati Uniti. Dai televisori alle scarpe e articoli sportivi, il ventaglio copre 112 miliardi di importazioni annue. I dazi sono ormai l’arma principale che Donald Trump usa nella sua nuova diplomazia: un arsenale dirompente con cui vuole ridisegnare i rapporti di forze mondiali, le regole del gioco nell’economia globale. È già possibile individuare vincitori e perdenti, in questo capitolo di storia delle relazioni internazionali? A sorpresa un vincitore del primo “round” è il mercato finanziario americano: Wall Street e il dollaro sono ai massimi. Quando il gioco si fa duro, quando l’incertezza aumenta, i capitali del mondo intero (cinesi inclusi) tendono ancora a rifugiarsi negli Stati Uniti. L’elenco dei perdenti vede in testa le economie che più dipendono dalle esportazioni: Germania, Cina; seguirà inevitabilmente l’Italia. Il clima americano non è euforico, in realtà. La maggior parte degli esperti prevede che queste ultime raffiche di dazi colpiranno i consumatori, nella stagione in cui si concentrano le maggiori spese, fra la riapertura delle scuole e Natale. Se l’escalation delle rappresaglie Washington-Pechino non viene interrotta da qualche tregua, a fine anno il 97% dei prodotti “made in China” (oltre 500 miliardi di dollari annui di importazioni) saranno soggetti a una tassazione doganale che pareggia quei superdazi da sempre applicati in Cina. Finora gli allarmi sui prezzi per il consumatore americano si sono rivelati infondati, l’inflazione Usa resta sotto il 2% nonostante siano in vigore da oltre un anno altri dazi sui beni cinesi. Ma la U.S. Chamber of Commerce implora Trump di fermare la guerra commerciale: secondo questa organizzazione confindustriale, quando non è il consumatore a pagare i dazi sotto forma di rincari è perché sono le aziende a sacrificare i propri margini di profitto per non subire un calo di vendite; ma questo prima o poi si riflette in un taglio agli investimenti e all’occupazione. Segnali di difficoltà all’interno degli Stati Uniti ce ne sono già; a cominciare da quei settori che subiscono le rappresaglie cinesi, come gli agricoltori del Midwest (serbatoio di voti repubblicani). Però il verdetto dei mercati finanziari è positivo. A giugno è scattato un boom d’investimenti dal resto del mondo verso gli Stati Uniti: 64 miliardi di dollari è stato il flusso di capitali esteri. Gli indici azionari Usa segnano un rialzo del 17% dall’inizio dell’anno e surclassano il resto del mondo. Anche il dollaro è ai massimi storici, rasenta la parità con l’euro, ha superato i 7 renminbi cinesi. Le spiegazioni sono tante, i titoli pubblici americani oltre a essere i più liquidi e sicuri del pianeta danno un rendimento positivo, mentre gli interessi a lungo termine tedeschi sono negativi. Dietro c’è la performance delle economie reali. La Germania è in recessione e si ostina a non varare misure di sostegno alla crescita. Paese mercantilista che si fa trainare dagli altri e accumula avanzi commerciali, la Germania paga un prezzo alto in una fase di protezionismo. L’Italia ne subisce il declino visto che le parti più sane della nostra economia sono strettamente integrate a quella tedesca. La Cina continua a crescere ma il suo più 6% del Pil è la velocità più bassa da trent’anni. Xi Jinping risponde colpo su colpo ai dazi di Trump, in quella che ormai è anche una sfida tra due sovranismi e tra due decisionisti dall’ego ipertrofico; ma la sua capacità di infliggere danno è molto inferiore a quella americana, viste le asimmetrìe tra una superpotenza esportatrice ed una importatrice netta. Il 30% delle imprese americane inoltre sta “rallentando, rinviando o cancellando” i propri investimenti in Cina, secondo un’indagine dell’US-China Business Council. Volenti o nolenti tutti si preparano ad una guerra di lungo periodo. Per motivi di sicurezza nazionale e timori di spionaggio Washington ha bloccato il completamento di una gigantesca infrastruttura telecom Usa-Cina: la nuova “autostrada a fibre ottiche” sotto il Pacifico, il Light Cable Network per il quale già sono stati posati 13.000 km di cavi da Los Angeles a Hong Kong. È un altro segnale della deriva geoeconomica dei continenti, la nuova guerra fredda in cui siamo di fatto entrati.
La rappresaglia non è stata una sorpresa, la propaganda di Hezbollah aveva perfino indicato il giorno: domenica. Alle cinque del pomeriggio i missili hanno bersagliato la base militare israeliana al confine con il Libano. I razzi anticarro hanno centrato un veicolo, i militari a bordo sono riusciti a saltare poco prima, i soldati erano in stato di allerta da una settimana. Non ci sarebbero vittime neppure nelle altre esplosioni che avrebbero colpito alcuni edifici. Tsahal ha risposto bombardando con l’artiglieria la zona da dove è partito l’attacco, il fumo che si alza dai campi incendiati come in un giorno di guerra. Era dal 2015 che la frontiera tra i due Paesi non si trasformava in prima linea, anche allora dopo il raid orchestrato da Hezbollah — due militari morti — per vendicare l’uccisione di un loro comandante. Hassan Nasrallah, leader dell’organizzazione sciita filo-iraniana, dimostra così ai suoi sostenitori di saper mantenere le minacce e — per ora — sembra aver evitato il conflitto allargato (che non vuole). Il premier Benjamin Netanyahu è impegnato nella campagna elettorale — gli israeliani votano il 17 settembre — e anche lui non ha interesse a dare il via allo scontro totale. Quella che non si ferma è la guerra tra le guerre, come la chiamano i generali israeliani: lo Stato ebraico vuole impedire all’Iran e alle forze pilotate da Teheran (come Hezbollah) di irrobustirsi troppo. Così, la settimana scorsa, due droni sono stati telecomandati sopra Beirut e avrebbero distrutto l’apparecchiatura per produrre un componente essenziale dei missili balistici di precisione. Un pezzo unico da otto tonnellate, trasferito — secondo l’intelligence israeliana — dai pasdaran a Hezbollah. È stata questa perdita strategica a determinare la reazione ordinata da Nasrallah. Assieme alla necessità di ripagare l’umiliazione di un’operazione israeliana dentro quella che considera la sua roccaforte nei quartieri a sud della capitale libanese.
Sarà perché l’insegnamento è più pragmatico, si lavora sui manichini già dal secondo anno. E si studia anche la robotica, l’ingegneria genetica e il modo di rapportarsi coi pazienti, i parenti e l’équipe medica. O sarà perché il miraggio dell’estero per la generazione Erasmus è una bella prospettiva, viste le difficoltà in Italia per i medici, pur in presenza di una vera e propria emergenza dovuta alla loro carenza. Ma quest’anno impazza l’anatomia studiata in lingua inglese. È boom delle iscrizioni al test per entrare ai corsi di laurea in Medicine and Surgery: gli iscritti sono 10.450, ben 2.790 in più dello scorso anno, per 761 posti. Ci sarà più tempo per prepararsi, la prova è il 12 settembre. L’ansia invece è alle porte per chi tenta il test per Medicina che si tiene domani nelle università italiane: cento minuti per risolvere 62 quesiti di cultura generale, logica (qui le domande sono state dimezzate), biologia, chimica, fisica e matematica. L’assalto degli aspiranti medici cresce di anno in anno. E stavolta ha giocato il fattore psicologico di posti in più concessi dal Miur in accordo coi rettori: 1789, per un totale di 11.568. Non che cambi di molto le opportunità di farcela: gli iscritti sono 68.694, mentre erano 67.005 nel 2008. Le porte sono spalancate nel solo ateneo di Ferrara dove le domande sono 1.312 per 600 posti (erano 183 lo scorso anno). La crisi di governo ha bloccato la sperimentazione proposta dal rettore Giorgio Zauli di togliere il numero chiuso prevedendo un anno di esami prima della selezione. «In questo momento non abbiamo interlocutori per andare avanti, ma non mollo la presa». Intanto i posti sono triplicati. «L’aumento va nella direzione di eliminare il numero chiuso, quello che noi chiediamo» commenta Enrico Gulluni coordinatore dell’Unione degli universitari. «I corsi in inglese? È una tendenza che ci preoccupa perché conferma che gli studenti vedono già il loro futuro lontano dall’Italia». Tra i camici bianchi europei che lasciano il loro Paese, il 52% è rappresentato da nostri connazionali. Il 20% dei laureati in Medicina a Bari ha chiesto il trasferimento all’estero: troppi, commenta Filippo Anelli, presidente della federazione degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo). «Bisognerebbe intervenire per eliminare le disuguaglianze di risorse tra università del Sud e del Nord». Anelli non è sorpreso dall’aumento delle domande, «la professione medica da sempre attira i giovani e le domande per i corsi in inglese cresceranno ancora perché la selezione è più limitata». Per Franco Trevisani, coordinatore della laurea in Medicine and Surgery di Bologna, sono i contenuti e non la prospettiva di una fuga all’estero a motivare il boom di domande. «Sono più innovativi e meno teorici, noi ci siamo ispirati alle università che sperimentano di più come la Charité di Berlino e la Brown University americana», spiega il professore di clinica medica. Rosario Rizzuto, rettore dell’università di Padova, concorda: «I ragazzi cercano un contesto internazionale. L’unico problema è che dovremmo attirare anche iscritti dall’estero, cosa difficile se le date del test non saranno anticipate in primavera». I riflettori rimangono accesi sui grandi numeri degli aspiranti al camice bianco. Il nodo rimane l’imbuto tra la laurea e le scuole di specialità sebbene quest’anno i contratti di formazione medica specialistica siano cresciuti da 6.934 a 8.905 (+29%). A questi vanno aggiunti circa 900 contratti finanziati da fondi regionali e privati. Ma rimangono ancora 10mila medici laureati fuori dalle specialità. L’obiettivo, spiega Anelli, «è fare in modo che ad ogni laureato in Medicina corrisponda un percorso post laurea con un impegno finanziario per smaltire l’imbuto accumulato». Intanto i 68mila sperano almeno di cominciare. Uno su 6 ce la farà.
Il cellulare mascherato da collana. Venduti a Palermo mille auricolari per chiedere aiuto all’esterno. Con le selezioni per Medicina partono domani i test delle facoltà a numero chiuso. Il kit per barare costa 240 euro. “Poi tornano con lo champagne” racconta il negoziante.
Mancano 24 ore al test di Medicina e a Palermo le cose hanno preso una piega da “spy movie”. Nelle ultime settimane va a ruba un micro auricolare senza fili: uno strumento che, tramite una scheda Sim nascosta in una collana e un ricevitore all’interno dell’orecchio, permette di parlare al telefono durante la prova, anzi di bisbigliare, senza essere scoperti. La voce si è diffusa col passaparola. Ed è cresciuta fino ad arrivare a un migliaio di esemplari venduti in una manciata di giorni. Il kit costa 240 euro. Tutto è partito dalla segnalazione di una studentessa che aveva orecchiato l’occasione durante uno dei corsi di preparazione al test. E, in effetti, quando si arriva nel negozio fingendosi studentessa, le indicazioni sono semplici e immediate: «L’auricolare lo metti ben in fondo il padiglione mentre questa che sembra una semplice collana di caucciù si mette al collo» dice uno dei dipendenti. «Basta inserire una sim telefonica e funziona come un cellulare». Solo che nessuno intorno sente la conversazione: «Poi tornano a ringraziarci, portano lo champagne». Uscita la notizia del boom di questi apparecchi per barare, l’Università di Palermo ha chiamato la polizia. «Abbiamo fatto un esposto alla squadra mobile per accertare e prevenire eventuali reati» dice il rettore Fabrizio Micari, che per il giorno dei test ha previsto un potenziamento della vigilanza interna. Ma non si possono schermare le aule con i cosiddetti jammer, i disturbatori di frequenze, per interferire sulla rete? «Schermature o disturbatori elettronici devono essere autorizzati», dice Micari. La squadra mobile diretta da Rodolfo Ruperti ha già avviato le indagini. E mentre l’Università aspetta “istruzioni” dalla polizia su come intervenire domani, nei gruppi Facebook degli studenti prende piede la rabbia di chi i test li ha superati studiando e di chi, pur studiando, non è stato ammesso.