Buongiorno a tutti. Niente intesa tra i capigruppo sui tempi della crisi di governo: oggi decide l’Aula. Sul fronte Pd è tregua renziani-Zingaretti: sì a un nuovo esecutivo, purché duri l’intera legislatura. Il ruolo di Mattarella. I manifestanti bloccano l’aereoporto di Hong Kong. L’Argentina peronista trionfa alle primarie e i mercati vanno a picco. Il ponte Morandi non c’è più. Ieri abbattuta l’ultima parte. E domani le commemorazioni a un anno dal crollo. Tredici giornali. Centoventi pezzi integrali in rassegna. Ottanta gli abstract. E tutta la titolazione. Buona lettura a tutti.

Lavori in corso nel cantiere del giornale dei giornali. La rassegna è incompleta per un malfunzionamento dei link. Stiamo lavorando per voi. Le scuse dell’abate della Cattedrale.

Asse Pd grillini per il calendario. In Senato passa l’intesa Pd-M5S. Primo test: si vota il calendario. La nuova alleanza: “Conte in Aula il 20 agosto”. Il centrodestra (di nuovo unito) non ci sta e vuole domani la sfiducia. Il capogruppo dem: “La presidente Casellati ha voluto favorire Salvini”. Ma i numeri sorridono all’asse Pd-grillini (Stampa p.2). Lite in Senato sui tempi della crisi. Oggi il voto. Capigruppo divisi sul calendario. Casellati: decide l’assemblea (Corriere p.2). La nuova maggioranza può farcela ma c’è chi non torna dalle ferie (Repubblica p.2). Guerra sui tempi in Senato. Pd-5s pronti a tirare in lungo (Giornale p.2).

Il parere dei costituzionalisti. Ceccanti: «Per convocare servono 5 giorni Ma l’eccezione è ammessa» (Corriere p.2). Zaccarioa: “Non c’è stata forzatura da parte di Casellati. Ma tempi troppo stretti” (Stampa p.3).

Salvini parte in minoranza. Ma i dem temono il blitz per le assenze di Ferragosto. Il leghista accusa il «partito della poltrona» e vuole il dibattito domani. La rabbia del premier per la possibile sfida nel giorno del lutto per Genova (Corriere p.3). E il Corriere scova il precedente dell’unico voto in autunno nella storia del paese. Nel 1919. E vinsero i socialisti. Resiste il fronte del voto. Nessuno si fida di Renzi. Ipotesi di un patto tra Salvini e il segretario sul voto di oggi (Giornale p.3). Congiura contro Matteo. Pronta la graticola per Salvini. L’obiettivo dei nemici della Lega è chiaro: cuocere a fuoco lento il capo del Viminale in attesa dei pm (Libero p.2).

Ma il leghista rassicura i suoi: “L’esecutivo dem-grillini non nasce”. E minaccia: “Siamo pronti a ritirare i ministri dal governo”. Per i comizi prepara la foto del duo Di Maio-Renzi. “Lontani dal popolo” (Stampa p.3). Se il leghista esce dal governo e ritira tutta la sua squadra, Conte non potrà ignorarlo. Lo annuncerà oggi anche per togliere argomenti alM5S. Da Zoppas a Riello, un fronte di imprenditori lo sostiene (Corriere p.5).

Il ruolo di Mattarella. Il presidente ha come obiettivo la legge di bilancio ed evitare l’esercizio provvisorio. Presto la palla a Mattarella, che detterà tempi brevi. Prudenza del Colle sulle ipotesi di governo elettorale. Non ci sarà spirito interventista, ma una determinazione a fare presto (Stampa p.4). Governo, i paletti del Colle: servono numeri e programma. Tutti si appellano a Mattarella, ma il Presidente chiede che siano i partiti a indicare le soluzioni. Conte: se Salvini ritira i ministri non cambia nulla, la crisi deve avvenire in Parlamento (Messaggero p.3).

Tregua Zingaretti-Renzi. La scissione si allontana. Le elezioni sono più vicine. Il segretario invoca l’unità. Apre a un governo di legislatura ma è scettico. Le condizioni “inaccettabili” arrivate dai 5S: vogliono il nostro no alla Tav. Renzi: ok, ci provi Zingaretti a fare l’accordo, se fallisce ne sarà responsabile. Zingaretti: ok a fare un governo istituzionale, se non si fa, colpa dello spread sarà di Salvini (Stampa p.4). Ma è una delle versioni offerte. L’altra invece sostiene come Zingaretti stia trattando. Voci di un contatto (smentito dal Nazareno) tra il segretario e Renzi. E il governatore del Lazio non stoppa l’idea di un esecutivo durevole. I paletti del senatore di Scandicci: se salta il piano la responsabilità sarà di Nicola. Il capo dei democratici chiede che il partito sia «unito di fronte ai rischi per la democrazia» (Corriere p.8). Zingaretti non vuole più votare. Si arrende a Grillo e a Renzi. Il segretario innesta la retromarcia: adesso auspica un «esecutivo di legislatura». Ha paura di perdere il controllo dei gruppi parlamentari, fedeli all’ex leader (Libero p.3). Zingaretti prova a riunire il Pd “Decidiamo tutti insieme”. E invece la scissione preparata da Renzi agita i dem. Il segretario: “Lasciamo cadere Conte e affidiamoci a Mattarella”. Pronta la convocazione della direzione nazionale dopo l’intervento del premier alle Camere. Il capogruppo al Senato Marcucci: “Ho visto Gentiloni, niente spaccatura. La linea è concordata con la segreteria” (Repubblica p.4).

Il piano di Renzi: faccio un passo indietro. Ma prepara il nuovo partito: noi tra il 10 e il 14%. La sponda della rete dei sindaci per svuotare il Pd. Al lavoro sul simbolo (Messaggero p.7). Ingroia: Renzi non usi Azione civile, il nome è mio (Corriere p.9).

Il Corriere intervista Goffredo Bettini… «Confrontiamoci con i 5Stelle. Serve un governo di legislatura. Il pd Bettini: deve essere politico, farlo istituzionale sarebbe un tragico errore» (Corriuere p.9). Dopo esserci fatti carico di una manovra economica pesantissima, che avrebbe come obiettivo quello di porre rimedio ai guai provocati dal governo gialloverde, torneremmo comunque al voto nel giro di poco. Con la certezza di vedere decuplicato il rischio della deriva plebiscitaria di Salvini» per questo parla esplicitamente di «un governo politico di legislatura» sostenuto da una maggioranza composta da Partito democratico e Movimento Cinque Stelle. «È un tentativo difficilissimo ma vale la pena di provarci. Salvini non lo contrasti né con gli insulti né con le polemiche sulla moto d’acqua o sulle sue mutande, né tantomeno con un governicchio che gli darebbe l’arma, fasulla ma efficace, di sostenere che stiamo facendo un golpe per evitare il voto democratico. Soltanto un accordo di legislatura, basato su una profonda riflessione politica, può consentire al Pd e al M5S di rispondere alla rivoluzione conservatrice lanciata dal leader della Lega». More

…La Stampa Carlo Calenda. Che è di parere contrario: “Subito al voto con un programma basato su sanità, istruzione, investimenti. Salvini si può battere, non è mica Putin. Anzi è uno che non ha mai lavorato in vita sua. Per sconfiggere i populisti occorre accogliere gli italiani. Parliamo tanto di migranti e dimentichiamo l’accoglienza degli italiani. Se si candida Gentiloni non importa la mia leadership. Ma basta boutade dei 2 Matteo” (Stampa p.5). “Bisognerebbe partire dal Pd e guardare avanti con un programma in tre punti che ci avvicini agli standard europei di competitività e vita: migliorando la Sanità che in alcune regioni del Sud rasenta situazioni da sottosviluppo; intervenendo sull’istruzione, visto che siamo uno dei paesi più ignoranti d’Europa; spingendo sugli investimenti, per industria 4.0 e ambiente, ad esempio. Chi vede nel suo «Fronte repubblicano»? Si dovrebbe riprodurre l’alleanza costruita in Europa fra popolari, liberaldemocratici e socialdemocratici, mettendo insieme la componente innovatrice della società civile, la classe dirigente, imprenditori e sindacati, il terzo settore, la gente che lavora, insomma. Bisognerebbe che tutti trovassero un poco di coraggio. Perché la scelta ineludibile dell’Italia è fra l’essere europei oppure cedere ad una terribile deriva venezuelana”.More

Commenti editoriali e Interviste.

Forzature d’agosto. Massimo Franco sul Corriere in prima.

La crisi in Parlamento. Le possibili controindicazioni. Stefano Passigli sul Corriere a pagina 26.

Due litiganti e il terzo non gode. Federico Geremicca sulla Stampa in prima.

Il Big Bang del sistema. Ezio Mauro su Repubblica a pagina 31.

Lega e Berlusconi, quale Europa. Stefano Folli su Repubblica a pagina 31.

Scelte leghiste da leggere fra Pil e bilancio. Roberto D’Alimonte sul Sole in prima.

Su Repubblica Orlando e Rosato. Orlando “Di Maio è finito ma ascolteremo il Quirinale”. Se emergeranno altre ipotesi al vaglio del Colle, le valuteremo con responsabilità Ma dovrebbero avere un contenuto politico che non vedo. Rosato “Cieco chi non vuole un governo contro Salvini”. A noi pesa molto di più parlare con Grillo e Toninelli di quanto a lui possa pesare farlo con Renzi. È Grillo ad aver prodotto i disastri

(Repubblica p.5)

Renzi congela la scissione. Anche Lotti contrario all’addio al Pd. L’ex premier vuole aspettare l’esito della crisi. L’idea resta il Partito della Nazione. Ma i vertici lo avvisano: se va via niente intesa elettorale. Per i sondaggisti il nuovo partito vale circa il 5%. Più difficile del previsto l’uscita dell’ex premier “L’elettorato dem non lo seguirebbe” (Repubblica p.6).

Boldrini: “Bisogna votare subito è la soluzione più limpida”. Per la sinistra non è il momento di dividersi, andiamo alle elezioni dopo avere fatto le primarie tra le forze progressiste (Repubblica p.8).

Cinquestelle. Il garante del M5S boccia il dialogo con Renzi: “E’ un avvoltoio persuasore”. E si impone su Di Maio, che abbozza: “Non voglio sedermi al tavolo con lui” Grillo detta la linea: “Trattare con Zingaretti”. Il post di Grillo ha ribaltato gli equilibri del Movimento (Stampa p.7). Grillo e Di Maio frenano su Renzi. L’attacco alla Lega: è già ad Arcore. Il capo M5S: «L’ex segretario del Pd? Mai al tavolo con lui». E il fondatore: volano avvoltoi… (Corriere p.6). Di Maio chiude a Renzi. “Non farò la prima mossa”. Da Grillo segnali ai dem (Repubblica p.3). Al vertice con gli eletti le critiche al capo. Che non chiude ai dem. Spunta anche l’idea del governo di minoranza. Da Paragone a Morra, le accuse sulla linea. Buffagni: bisognava agire dopo le Europee (Corriere p.6). M5s, i big contro i peones: movimento spaccato sul voto. Chi è sicuro della rielezione spinge per le urne e spaventa chi rischia di perdere il seggio. Di Maio attacca Salvini (Giornale p.6). La truppa di «grillini positivi» che guarda al centrodestra. L’area «democristiana» vicina a Di Maio e Bonafede potrebbe staccarsi dal M5s e avvicinarsi al Carroccio (Giornale p.7).

Vertice Salvini-Berlusconi. Un vertice per l’accordo. Gli azzurri chiedono garanzie sugli eletti. Forza Italia non vuole veti sul Cavaliere e sulla Carfagna. Il vicepremier però intende intervenire sulle liste. È una questione di rapporti di forza: 34% il risultato ottenuto dalla Lega alle ultime elezioni europee, 9% la percentuale raggiunta da Forza Italia alle Europee 2019 (Stampa p.6). Salvini vede Berlusconi per il «patto». FI vuole collegi sicuri e lo stop a Toti. No alla lista del governatore nell’alleanza. I timori su 20-25 senatori azzurri attratti dalle sirene renziane (Corriere p.4). Gasparri: «Se torna la coalizione governiamo 5 anni. Al Carroccio chiediamo pari dignità. Noi elemento di garanzia con l’Ue» (Corriere p.4). Berlusconi nella lista “Salvini premier”. Ecco l’offerta leghista. Il vicepremier “liquida” Forza Italia e offre al vecchio alleato un numero di candidati alle elezioni basato sull’8% delle Europee e senza gli anti-Lega. La regia di Verdini. Peones azzurri in rivolta. Tra i due leader già oggi un incontro, forse alla presenza di un notaio, per approfondire l’intesa. I dubbi di Carfagna e Letta (Repubblica p.8). Quel patto dal notaio con FI. Salvini: «Ma sarà un nuovo centrodestra» (Messaggero p.5). Silvio prova a dettare le condizioni al Carroccio. Oggi il vertice tra il vicepremier e il Cavaliere. I voti di Forza Italia sono decisivi per accelerare sulla data delle urne. E l’ex premier lo fa pesare (Libero p.4).

Meloni: «Hanno sottovalutato i rischi di inciucio. Forza Italia? Vediamo che garanzie dà». La presidente di Fdi: Matteo, avendo aperto una crisi l’8 agosto, si ritrova ad aver bisogno del Cavaliere. In caso di governissimo siamo pronti a mobilitarci. Il fronte del no urne rischia di saldarsi già oggi al senato (Messaggero p.4).

Casanova: “Nel mio lido vip e operai, per questo il Papeete è la Lega”. Iconografia in stile Villa Certosa di Berlusconi? Beh certo, ci piacciono le donne, pure in politica. I 5S hanno forse meno attenzioni per loro (Repubblica p.9).

I sondaggisti: Lega alta ma previsioni difficili. Elettori turbati dalle tensioni. I giudizi degli italiani mai cambiati così rapidamente (Repubblica p.9)

Governicchi. Il senatore Paolo Romani: “Serve chiarezza. Non sarà riedizione del vecchio centrodestra. Sinistra e grillini tentano di dare vita a un governicchio. Se Salvini ritirerà i suoi ministri, Conte dovrebbe andare al Quirinale a dare le dimissioni” (Stampa p.6).

L’alternativa alla marcia su Roma è il monocolore grillozzo. Il vero ribaltone fu il Contratto. Una fiducia tecnica del Pd e di chiunque altro ci stia sarebbe un meccanismo di garanzia. Giuliano Ferrara sul Foglio in prima.

Goldman Sachs che «tifa» inciucio e le donne. Ma il partito del Nord fa muro. La banca Usa rilancia il rischio Paese: «Prima serve la manovra. Meglio stare alla larga da Piazza Affari» (Giornale p.10). Crisi politica, il vizio di escludere le donne. Nelle istituzioni italiane la ‘risorsa rosa’ non viene considerata. All’estero il tabù è caduto (Qn p.6).

Manovra e conti e risultati della crisi. Gli interventi obbligati sui conti. Per la «manovra minima» manca oltre metà della dote. Anche i risparmi dal Welfare e le maggiori entrate fiscali tra le incognite da definire (Sole p.6). Consumi, la crisi fa spendere meno? La crisi di governo fa paura. In una situazione già non florida, l’incertezza politica rischia di avere pesanti conseguenze sull’economia italiana. A rischio consumi e investimenti con timori di brusche frenate su entrambi (Corriere p.11).

Marco Bentivogli, segretario Fim Cisl: “Abbiamo ben 160 tavoli di crisi aperti. Un anno speso contro l’industria E ora arriva il colpo di grazia. La crisi dell’economia è mondiale, c’è la crisi dell’automotive. La Germania reagisce qui non si fa niente” (Stampa p.9).

Carlo Sangalli, leader Confcommercio: “Chiediamo la riforma del sistema fiscale. Fate presto. Aumentare l’Iva porta recessione e va evitato”. Servono scelte necessarie a mettere in sicurezza le prospettive della nostra economia (Stampa p.9).

La crisi affonda il decreto Scuola e in 79 mila rimangono precari. Il testo era stato approvato “salvo intese”, ora impossibili. Spariti il Percorso di abilitazione speciale che avrebbe regolarizzato 55 mila insegnanti e il concorso per altri 24 mila. Ma Bussetti celebra: “Abbiamo stabilizzato” (Repubblica p.11). Congelati i concorsi sprint e le impronte digitali anti furbetti del cartellino (Messaggero p.9)

Migranti. Odissea Ocean Viking. La nave dei 100 ragazzini a bordo senza famiglia. Sulla barca di Msf quasi tutti uomini. Solo 4 le donne. Adesso il numero delle persone in attesa di sbarco è salito a oltre 500 (Repubblica p.17). Germania, rimpatriati con la violenza 1.289 migranti (Repubblica p.17).

Magistratura. Per riformare la magistratura aboliamo le promozioni automatiche. Non bisogna cambiare la Costituzione per eliminare gli scatti e reintrodurre esami e graduatorie: basta una legge ordinaria. In attesa di provvedimenti radicali, inizieremo a scalfire i privilegi delle toghe. Verità p.9

Diabolik, funerali blindati. E la famiglia si oppone. Dal West Ham ai polacchi paura per gli ultrà stranieri. Controlli su strade e stazioni (Messaggero p.13). Il Tar boccia la cerimonia pubblica per il “Diabolik” della Lazio: “Motivi di sicurezza”. La moglie: “A tutti quelli che gli volevano bene dico di non presentarsi per l’ultimo saluto. Nessuno vada al funerale” (Stampa p.17).

L’Argentina peronista trionfa alle primarie e i mercati vanno a picco. È la prova generale delle presidenziali di ottobre. Macri sconfitto dal candidato di Cristina Kirchner (Corriere p. 19). Nuovo incubo default. Crolla il peso. Scattano le vendite in Borsa, che perde il 37%. La Banca centrale alza i tassi al 74%, un record (Repubblica p.27). Buenos Aires dice no al liberismo e si rifugia nel mito dell’eterno Perón. La ricetta dell’austerity ha spinto la povertà. Quest’anno il Pil calerà del 3 per cento. Il commento di Federico Rampini su Repubblica (p.27).

Guerra dei cambi, la Cina svaluta ancora e Goldman taglia le stime di crescita Usa. Wall street in pesante calo. Il Nyt: c’è da sperare che questo agosto non sia come il 2007. Sulla guerra commerciale tra Washington e Pechino irrompe anche la crisi di Hong Kong (Messaggero p.15).

Torna l’incertezza globale: Milano giù, ma cala lo spread. Le minori preoccupazioni sull’Italia controbilanciate dalle tensioni estere. Le banche già calcolano uno spread a 300 punti. Il nodo BTp. I titoli bancari pagano in Borsa l’esposizione sul debito italiano ma la situazione è diversificata: alcuni istituti più esposti (Sole p.5).

Ilva e Alitalia. Il governo in bilico tiene in sospeso due partite cruciali. Il grande incarto di Ilva e Alitalia. Ora rischiano grosso. Nel pasticcio dei decreti tutto potrebbe tornare in alto mare. Il 6 settembre Mittal chiude, la compagnia a corto di fondi (Stampa p.20).

Casa, amara casa. Viene dal mattone la metà dei debiti non pagati. Il 48% dei crediti inesigibili concessi alle famiglie sono legati a immobili. Uno studio Banca Ifis evidenzia che anche le società del real estate hanno “sofferenze” più alte della media. Bankitalia: a giugno frenano i prestiti (Repubblica p.26).

Petrolio. India e sauditi, la nuova intesa del petrolio. Il primo produttore di petrolio al mondo (saudita) si compra un 20% della prima raffineria al mondo (indiana). Una mossa da 20 miliardi, e da manuale sulla filiera degli idrocarburi, dove chi estrae tende a vincolare chi commercializza con contratti a lungo termine. Ma la mossa di Saudi Aramco, la major dei principi di Riad, farà rumore: anche per le possibili ricadute geopolitiche (Repubblica p.26).

Hong Kong come finirà? Si chiede Repubblica (p.13). Aeroporto occupato, la protesta ora dilaga la Cina accusa gli Usa e la crisi arriva a Trump. Pechino: manifestanti terroristi. In cinquemila occupano lo scalo: cancellati tutti i voli in partenza e in arrivo. Pechino ammassa blindati e truppe a Shenzhen. La linea Cathay crolla in Borsa. I giovani nei sit-in: “Ci scusiamo per i disagi, ma lottiamo per sopravvivere”. Clyde Prestowitz, economista ed ex consigliere del presidente Usa, Ronald Reagan: “Questa non è una questione di mercati. È un conflitto tra democrazia e dittatura. L’Italia ha sbagliato a fare accordi con la Cina, così si finanzia la repressione” (Stampa p.13). La protesta a Hong Kong lascia tutti i voli a terra. Benda sull’occhio per denunciare le violenze della polizia (Corriere p.12).

Afghanistan: Trattative Usa coi talebani, ritiro italiano da pianificare. Franco Venturini sul Corriere (p.12)

Caso Epstein. Blitz dell’Fbi ai Caraibi nella villa dei festini. Indagine sul carcere di Manhattan dove era rinchiuso il milionario: “Molte irregolarità”. Le accuse di Virginia, Annie e Courtney. Scatta la caccia ai complici di Epstein. La Procura valuta il sequestro di 600 milioni di beni per risarcire le vittime. Gli inquirenti cercano la donna, oggi 57enne, che reclutava le minorenni. Ha fatto perdere le sue tracce subito dopo il suicidio del finanziere. Sparita Ghislaine, l’ex fidanzata che “addestrava” le ragazze (Stampa p.12). Epstein, la ricerca dei complici. «Abusi nella casa di Parigi». Governo francese: ora indagini. Il legale delle vittime al Corriere: ragazze intimidite (Corriere p.13).

Colombia. Il senatore Perez, sequestrato per 7 anni, accetta l’appoggio del partito delle Farc: “Dovrei odiarli, ma bisogna andare avanti”. I guerriglieri candidano l’ostaggio: “Alleato dei miei carcerieri in nome della pace”. Durante il rapimento è stato torturato e tentò la fuga con Ingrid Betancourt (Stampa p.15).

Buongiorno a tutti. Dalla crisi di governo alla crisi del Pd è stato un attimo. Il Partito Democratico si spacca sulla proposta di Renzi fra chi vuole le elezioni subito e chi tentare di fare un governo con i Cinquestelle. Intanto Salvini in una intervista al Giornale apre a un incontro con gli alleati per un accordo prima delle elezioni. Buona lettura a tutti.

“Salvini scioglie la riserva” titola il Giornale l’intervista di Alessandro Sallusti al leader della Lega: «Ecco con chi andrò al voto. Chiedo a Berlusconi e alla Meloni di andare insieme oltre il vecchio centrodestra. Guiderò l’Italia del sì contro l’Italia del no. Siamo aperti anche a quei grillini positivi che abbiamo conosciuto. Inciucio? Facciano una roba simile e vediamo chi viene messo all’angolo nelle tante elezioni regionali che stanno per arrivare dall’Umbria alla Calabria, dalla Toscana all’Emilia-Romagna. Andrebbero tutti a schiantarsi sull’altare di Renzi. L’inciucio salva il c… a Renzi. Se si vota dubito verrà eletto… ». More

Pd spaccato. Renzi: governo di tutti, anche coi 5S. L’ex premier, nemico dei grillini, apre a sorpresa. Il segretario: dubito molto sia la soluzione. Pd spaccato. Zingaretti cerca l’unità (Stampa p.4). Lo stop di Zingaretti a Renzi: dico no a un esecutivo M5S-Pd. «Daremmo a Salvini un immenso spazio» (Corriere p.2). La proposta di Renzi divide i dem. Franceschini per la pace con i grillini. Calenda: “Idea folle”. E Gentiloni: “Ma quando il gioco si fa duro i duri smettono di litigare”. Renzi: “Chi dirà no a un governo istituzionale che salvi l’Italia si assumerà la responsabilità di consegnare alla destra estremista il futuro dei nostri figli” (Repubblica p.2). Golpe renziano nel Pd Zingaretti resiste, ma “teme” Mattarella (Fatto p.2). Il piano di Renzi: Cantone premier e deficit al 2,9% (Fatto p.3). Il governissimo frantuma il Pd. Ma l’accordo con i Cinquestelle è pronto. Zingaretti contro Renzi, però è vicino ad arrendersi. Nei gruppi dem la maggioranza non vuole le elezioni (Giornale p.3). Con l’ex premier il 70% dei parlamentari. Ma non tutti sono pronti a seguirlo (Repubblica p.2).

Pro e contro. De Micheli: «L’idea di Matteo? Sull’opinione pubblica impatto devastante» (Corriere p.2). L’affondo di Franco Mirabelli, senatore dem, vicino al nuovo leader: “Zingaretti ha ragione a dire che oggi non dobbiamo temere le elezioni. Ex premier sgradevole e offensivo. Sarà il partito a decidere cosa fare. Ancora non è stata votata la sfiducia a Conte, ancora la parola non è passata al capo dello Stato” (Stampa p.4). Il capo dei Comitati Civici Ettore Rosato, renziano: “Niente voto ora, ma mai alle urne alleati con M5S. Ora non possiamo dare il Paese a chi vuole pieni poteri. Una strategia di emergenza e non elettorale per governare insieme dopo le votazioni” (Stampa p.4).

Scissione se si vota subito. L’ex primo ministro dialoga con M5S e FI sul governissimo. In gara alle primarie di coalizione. Matteo farà schierare i gruppi parlamentari. Franceschini sostiene il governissimo e Orlando vacilla. Se nascesse un governo, per i dem il premier non potrebbe mai essere Fico (Stampa p.5). L’ex leader pensa alla scissione mentre Zingaretti aspetta Mattarella. Bettini media: se c’è un esecutivo di lungo respiro… (Corriere p.3). Renzi pronto alla scissione prepara “Azione civile” e la rottura nei gruppi dem. Nel Pd zingarettiano invece si affaccia l’idea di un “governo di legislatura” con i grillini che duri almeno fino al 2022. Il leader non chiude (Repubblica p.3). Zingaretti boccia Renzi. Lui accelera la scissione e prepara “Azione civile”. Il segretario prova a uscire dall’angolo: no al governo a tempo, sì di legislatura. L’ex premier convinto che a seguirlo sarà almeno la metà dei parlamentari (Messaggero p.4). Maria Elena Boschi: «Superiamo le liti con i 5Stelle, il Paese ci sta più a cuore del Pd». L’ex ministro renziano: «Nessun inciucio da Matteo invito trasparente a tutte le forze. I no alla direzione dem erano prima della crisi. E sarebbe un governo istituzionale, non politico» (Messaggero p.5). «È vero, non volevamo aprire ai Cinque Stelle. Ma la Lega va fermata». Guerini: «Come dice Nicola, confrontiamoci» (Corriere p.3).

Mattarella. Il Quirinale non lavorerà per costruire maggioranze. Un’eventuale coalizione dovrebbe avere identità di governo. Marzio Breda sul Corriere (p.8). Le vacanze operose del Quirinale: le elezioni non sono l’unica opzione. Il Colle si tiene lontano dai giochi. Ma se spuntasse un’intesa… (Giornale p.2). More

Mattarella 2. Tre uomini e una donna per l’esecutivo tecnico auspicato da Mattarella. Cartabia, Flick, Cottarelli e Draghi, gli indipendenti per la Repubblica. Impazza il toto-nomine. Conte potrebbe tornare in gioco come leader M5S (Stampa p.2). More

 

Mattarella 3. Le ipotesi istituzionali in mano a Mattarella. Fabio Martini sulla Stampa (p.9). More

In aula al Senato. Mozione di sfiducia a Conte. Il centrodestra tenta il blitz. Spinta di Salvini per andare in Aula il 13. Decisive le scelte di Casellati (Corriere p.5). La Lega si affida alla Casellati. Il presidente del Senato potrebbe convocare l’aula sul calendario, aprendo alla sfiducia. I numeri per un esecutivo a tempo tra renziani grillini, +Europa, Leu e autonomie ci sarebbero. Il vertice di Palazzo Madama contrario a discutere per prima la mozione contro Salvini (Messaggero p.3).

Il costituzionalista. L’intervista di Liana Milella al costituzionalista Luciani. “Tre strade di fronte a Conte. E il Parlamento ha ripreso un ruolo. Il capo del governo può rincollare i cocci, cercare nuovo sostegno oppure dimettersi. Il taglio dei parlamentari? Così non mi convince” (Repubblica p.10). More

Grasso: ecco il mio «lodo». «Le opposizioni fuori dall’Aula. E come premier vedrei bene Tria». (Corriere p.5). “Niente sfiducia ma un nuovo governo per la legge elettorale. Ho avuto contatti coi capigruppo Cinque Stelle e Forza Italia. Le istituzioni devono venire prima dei capricci di Salvini”

(Repubblica p.8). More

Consigli non richiesti. Dall’ex toga agli ex dc di lungo corso i pontieri pronti a tutto per non votare. Da Rotondi a Mastella fioccano i consigli per far lievitare una nuova maggioranza (Messaggero p.5). Dai forzisti ai radicali il partito trasversale dei “responsabili”. Anzaldi: si è mai visto un ministro a torso nudo che ci dà ordini? Fornaro: non voglio che l’Italia diventi come la Turchia di Erdogan (Repubblica p.9).

Pericolo spread. Padoan: “Il pericolo è lo spread a 350 punti come qualche mese fa”. Non possiamo dire “ai conti pubblici ci pensino loro”, troppi rischi per l’economia del Paese. E sui mercati è già allarme (Repubblica p.9). More

Strategie in Parlamento. Forza Italia fa pesare i suoi voti in Aula. Sul tavolo il patto (e i collegi) in vista delle urne. Le voci di telefonate di Boschi e Renzi agli azzurri (Corriere p.7). Renziani, 5 Stelle e l’incognita azzurra. I numeri dei partiti contro le urne subito. La strategia dell’ex segretario che controlla ancora la gran parte dei gruppi pd (Corriere p.7). Partiti-banderuola sul taglio dei deputati il ddl passa solo coi voti del governissimo. Domani Fico proverà a mettere all’ordine del giorno l’ultimo via libera prima di settembre. Strada in salita. I gruppi hanno votato in modo differente di volta in volta. Lega, Fi, Fdi adesso contrari. Decisiva la posizione dei dem (Messaggero p.3).

Commenti e interviste. La via giusta: è il momento di stare ai fatti. Luciano Fontana sul Corriere.

Gli interessi particolari. Aldo Cazzullo sul Corriere.

Le scommesse dei sette big. Antonio Polito sul Corriere.

Soluzioni urgenti per il Paese, non tornaconti senza strategia. Mario Ajello sul Messaggero.

La strana alleanza e l’uomo solo al comando. Carlo Verdelli su Repubblica.

Il vincitore annunciato. Ilvo Diamanti su Repubblica.

Elezioni e No. La posta in gioco. Stefano Folli su Repubblica.

I pieni poteri generano seri pericoli. Vladimiro Zagrebelsky sulla Stampa.

Il ribaltone che strega la politica. Marcello Sorgi sulla Stampa.

“Il 95% d’Italia è gialloverde. La crisi è un vero enigma”. Intervista a Barbara Palombelli sul Fatto.

Perché la crisi del governo certifica il fallimento di due chiari modelli di populismo. Claudio Cerasa sul Foglio.

Alleanza armata (anti)democratica contro Matteo. Vittorio Feltri su Libero.

È tornato Matteo Renzi. E vuole l’ammucchiata. Maurizio Belpietro sulla Verità.

«Sarà Dihba a risparmiarci l’inciucione con i renziani». Intervista a Pietrangelo Buttafuoco sulla Verità.

Ribaltoni. Tutte le congiure di palazzo che hanno mandato in frantumi le alleanze dei partiti. Bossi, D’Alema e Mastella i registi degli ultimi clamorosi terremoti parlamentari. Parabola dei ribaltoni. Vita e morte dei governi tra inciuci e tradimenti. More

Renzi e il partito. Primarie, liti e addii quella storia difficile tra Renzi e il partito (Repubblica p.4) More

Cinquestelle. La mossa 5S: prima del voto su Conte il sì al taglio dei parlamentari. La strategia di Di Maio per disinnescare la crisi provocata dall’ex alleato leghista: “Fiducia in Mattarella”. I dubbi nel Movimento, dove la linea del “no alle urne” non è unanime (Repubblica p.8). Riforma dei parlamentari o sfiducia al Senato. La strategia di Di Maio per coinvolgere i dem. Pontiere con il Pd Roberto Fico, ma anche Spadafora e Lombardi. Oggi assemblea dei parlamentari (Stampa p.6). Di Maio mobilita i suoi: «Pronti a stare a Roma anche ad oltranza». Grillo deciso a fare altre mosse durante la crisi. Governo di scopo, ipotesi di una mozione dei «falchi» (Corriere p.9). L’elogio 5 Stelle a Renzi: è stato responsabile. Il senatore Di Nicola: l’azzardo leghista ha fatto emergere l’attenzione agli interessi del Paese (Corriere p.9). Intervista a Enzo Scotti, l’ex Dc più amato dai grillini: “L’unica via sono le elezioni. No alle scorciatoie con il Pd” (Qn p.3).

Centrodestra 1. «La Lega non può correre sola. Il patto con Fdi lo faccia ora. Le alleanze vanno stabilite prima del voto. All’economia italiana servirebbe una ricetta trumpiana. E con me al governo, contro le Ong si passerà al blocco navale». Intervista di Giorgia Meloni sulla Verità a pagina 7.

Centrodestra 1. Salvini tenta gli alleati: “Voglio il fronte del Sì con Berlusconi e Meloni”. Forse già domani un vertice fra i tre per discutere di politiche e regionali. “Serve una coalizione ma di tipo nuovo con liste civiche e tanti sindaci e governatori. Nel programma meno tasse, autonomia regionale, Tav e riforma della giustizia. Zingaretti è coerente, vuole sfidarmi a viso aperto. Invece Renzi è un ipocrita” (Stampa p.3). Salvini, la tentazione è il ritiro dei ministri. “Patto con Berlusconi”. Il vicepremier teme l’intesa 5S-Pd e accelera sulla sfiducia. Propone una alleanza elettorale a Forza Italia. “Alle urne il 13 ottobre, come in Polonia”. Ma Conte porterà la crisi in Parlamento (Repubblica p.6). «Vedrò Berlusconi e Meloni». Salvini rilancia l’alleanza. Il tour del ministro dell’Interno (con il rosario). In Sicilia nuove contestazioni (Corriere p.6). Antonio tajani: «Senza Forza Italia non si va alle urne. Patto politico col Carroccio prima del voto». Il vicepresidente forzista: vogliamo pari dignità, con l’indicazione chiara della ripartizione dei collegi (Messaggero p.2).

Moscopoli. Il direttore di BuzzFeed: altre novità su Savoini (Corriere p.6). Il governatore lombardo Fontana boccia M5s: «Matteo ha fatto bene. Sull’Autonomia la Lega presa in giro dai grillini». E sul voto: «Troppa incertezza può fare danni» (Giornale p.6). E il Veneto filo Zaia si rivolta contro il capo “Fa solo propaganda” (Repubblica p.6). Lanci di bottigliette insulti e disordini. Al Sud l’ira anti Lega. L’auto del vicepremier inseguita a Catania. L’incontro a Siracusa ritardato dai contestatori. Dieci ragazzi trattenuti dalla polizia: è polemica (Repubblica p.7).

Borghi. Claudio Borghi: “Resteremo sotto il 3%. Con l’aumento Iva il deficit va solo al 2,8%. La nostra manovra è già tutta pronta. Patto istituzionale? Serve alle porcherie. Votare subito si può. Monti è entrato in carica a novembre e non ha avuto problemi. Gli 80 euro? ll saldo sarà a favore dei contribuenti. Nessuno pagherà più tasse (Stampa p.2).

Migranti. Sulle navi Ong è emergenza. A bordo in 400, giù solo i malati. La Ocean Viking, nave di grossa stazza, resta in zona Sar libica e non ha neanche chiesto l’assegnazione di un porto. Ha ovviamente rifiutato l’indicazione della Libia di portare i migranti a Tripoli. La Open Arms invece ha chiesto invano il porto a Italia e Malta. Le autorità di La Valletta erano disponibili a trasbordare solo gli ultimi 39 migranti soccorsi dalla nave proprio su richiesta maltese. Ma motivi di sicurezza a bordo hanno sconsigliato il trasbordo solo degli ultimi arrivati. E Malta non ha accettato di prendere anche gli altri (Repubblica p.25). Banderas e i porti chiusi ai migranti: «Un orrore» (Corriere p.22).

Secessione. La secessione c’è già stata: tra i giovani e gli adulti. La divisione più pericolosa non è quella tra Nord e Sud, ma quella già compiuta tra le generazioni. E tra chi è rimasto in Italia e chi adesso lavora all’estero. Roberto Sommella sul Corriere (p.32). More

L’appello di Boccia. Appello del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ai leader: “Realismo e responsabilità nella prossima campagna elettorale. Subito la riduzione del cuneo fiscale. Non usate il deficit per le spese correnti” (Stampa p.9). More

Confocommercio. Allarme di Confcommercio: «Sale l’Iva? Italia in ginocchio». Sangalli: «Con l’aumento delle aliquote, sarà recessione». L’imposta varrà il 30% delle entrate fiscali (Giornale p.8).

Egitto e Regeni. L’appello della famiglia Regeni sull’Egitto: “Aiutateci, situazione mai così negativa”. Due anni fa il rientro dell’ambasciatore e le promesse di verità. “Collaborazione ferma, l’Italia ora dia un segnale forte”. Dalla procura del Cairo nessuna novità su Giulio. Ma gli accordi commerciali si moltiplicano (Repubblica p.17).

Versace. Una maglietta scatena la Cina contro Versace (Stampa p.14). Le t-shirt con Hong Kong. Bufera a Pechino su Versace. Indicato come Stato indipendente su una maglietta insieme con Macao. L’azienda: «Un errore, non volevamo offendere la sovranità dei cinesi» (Messaggero p.13).

Giallo Epstein. La sorveglianza sparita nella notte del suicidio, il compagno di cella trasferito: una fine con troppi misteri. Il finanziere trovato impiccato in un carcere di Manhattan: perché non era sotto osservazione se il 23 luglio aveva già tentato di togliersi la vita? (Repubblica p.13). Errori, dubbi e teorie del complotto. E Trump rilancia un tweet su sospetti contro i Clinton. La super assistente la pilota, l’ex amica. Il caso resta aperto. Le vittime adesso porteranno avanti cause civili per ottenere un risarcimento (Corriere p.12). Trump sospetta: “Il finanziere aveva informazioni imbarazzanti su Bill ed è morto”. Aperte tre inchieste. Il democratico bolla le affermazioni come “ridicole e false”. Nelle carte dei magistrati le prove delle frequenti visite alla villa del finanziere. Dietro i traffici di minorenni sempre l’inglese Ghislaine Maxwell. L’ex presidente ospite sull’isola dei festini. Nelle 2024 pagine del rapporto descritti anni di abusi e feste (Stampa p.12).

Yemen, la battaglia di Aden. Offensiva dell’Arabia Saudita. I separatisti si ritirano. Va in pezzi l’intesa tra Riad e gli ex alleati degli Emirati Arabi Uniti. La crisi armata frantuma l’equilibrio fra gli Stati sunniti nel Golfo Persico (Stampa p.10). Yemen, è il Vietnam saudita. La guerra nella guerra spacca la coalizione (Repubblica p.15).

Israele. Scontri e feriti alla Spianata delle Moschee (Repubblica p.15). Sassi contro gli ebrei, interviene la polizia: 15 arabi feriti. Duri scontri. Amman: “Israele colpevole”. Una giornata di scintille durante le feste religiose di ebrei e musulmani (Stampa p.10).

Libia. Raid di Haftar su Tripoli. Violata la tregua. Con l’Italia distratta, l’Europa silente, la terza guerra civile di Libia procede in velocità verso il caos: sabato, a Bengasi, la “capitale” della Cirenaica controllata dal generale Khalifa Haftar, un’autobomba piazzata davanti a un centro commerciale ha ucciso cinque persone, tre erano funzionari delle Nazioni Unite (Repubblica p.15).

Russia. Lyubov, madrina dei cortei che entra ed esce di prigione. «Contro Putin fino al voto». Avvocata e blogger, è una delle leader dell’opposizione a Mosca. La donna lavora da 8 anni per Alexei Navalny e dal 2017 ha uno show politico sul suo canale (Corriere p.13). Il 21enne Zhukov, icona della dissidenza, è stato arrestato con l’accusa di “disordini di massa”. La sua candidatura alle elezioni non è stata ammessa. Appello degli studenti per la liberazione. Yegor, il blogger pacifista che rischia 8 anni di carcere (Stampa p.11).

Zar Putin. Vent’anni di potere della “spia democratica” che ha ingannato l’Occidente. Eltsin lo scelse come premier rassicurando gli Usa: “È aperto verso di voi”. Negli anni però si è dimostrato un leader autoritario, che ora teme la crisi. Popolarità al 60%. In calo rispetto al 2015 quando aveva raggiunto l’86%. Ma in molti scommettono che Vladimir troverà un modo per restare al potere dopo il 2024 (Stampa p.11).

Afghanistan, la guerra inutile. E i rischi del ritiro americano. Gli Usa hanno capito che una vittoria militare, fra le montagne intorno a Kabul, può essere insignificante. Il commento di Sergio Romano sul Corriere (p.13).

Brexit. Il mago della Brexit incassa fondi Ue per la sua fattoria. Scandalo a Londra per Cummings, consigliere fidato di Johnson sul divorzio dall’Europa. 250 mila euro di fondi Ue percepiti dal britannico Dominic Cummings, convinto antieuropeista, in programmi di agricoltura pianificata per la fattoria di famiglia (Corriere p. 15).

Primo single padre adottivo. «Sono il primo padre single con due bambini adottati». Ora anche l’Italia li riconosce. Giona Tuccini, 44 anni: affermato l’interesse superiore dei piccoli. In Sudafrica è consentita l’adozione da parte di un single. In tutti i casi sono previsti un apprendistato obbligatorio in un orfanotrofio e un periodo di affido. In Italia l’adozione è consentita ai single solo in casi speciali: bimbi in particolare situazione di disagio o che hanno un rapporto affettivo di lunga data con chi li adotta. Giona Tuccini, 44 anni, pisano d’origine e docente di Italianistica all’Università di Città del Capo, ha adottato due bambini in Sudafrica. Per la prima volta il Tribunale dei Minori di Roma ha trascritto la doppia adozione decisa dai giudici sudafricani in nome del «superiore interesse dei due minori» (Corriere p.23).

Diabolik, sfida sui funerali ultrà pronti a violare i divieti. I tifosi laziali: «Salutare Fabrizio è un nostro diritto, quindi ci saremo». Il questore ha detto no alle esequie pubbliche. E oggi si pronuncia il Tar. L’appello della moglie a Bergoglio: «Così è stato offeso il nostro dolore» (Messaggero p.11).

 

Buongiorno a tutti. A crisi di governo aperta, scende in campo Beppe Grillo che si schiera contro le elezioni e preme su Di Maio: «Patto contro i barbari». Salvini si dice disposto a lasciare il Viminale «a condizione che si vada subito al voto». Ma si rafforza il fronte per un governo di garanzia. Intervistona di Maria Teresa Meli a Renzi sul Corriere. “Folle votare subito, serve un governo istituzionale, quindi il taglio dei parlamentari e poi il referendum. La priorità è evitare l’aumento dell’Iva. Il Pd? C’è chi vuole le urne per eliminare i renziani. Dei dem non parlo, nelle ultime settimane sono stato attaccato più volte. Se la prendono con il Matteo sbagliato”. Oltre alla crisi in prima anche la fine del miliardario Epstein trovato impiccato in carcere. Buona lettura.

Scende in capo Grillo. Grillo ai Cinquestelle: “Niente voto. Fermiamo i barbari”. Il fondatore torna in campo e non dice no a un esecutivo di salvezza nazionale. Di Maio chiede la riforma sul numero di deputati e senatori. Casaleggio invita a non avere paura né di elezioni né di un nuovo governo (Repubblica p.2). Affondo di Grillo contro le elezioni. E dà il via libera al terzo mandato. Il leader e la linea a Di Maio, sì a nuove alleanze. Fico a Salvini: solo i presidenti convocano le Camere (Corriere p.2). Svolta di Grillo: sì al fronte anti-Salvini. E apre alla deroga sul terzo mandato. Contatti Fico-Franceschini. I parlamentari in chat si rivoltano contro Di Maio a favore del patto con il Pd. Obiettivo dichiarato del fondatore: salvare l’Italia dai “nuovi barbari” (Stampa p.2). Il ritorno in campo del fondatore: «Proteggo i miei oppure è finita». Perché il padre nobile si è ripreso per un giorno un ruolo politico (Corriere p.2). Pierpaolo Sileri senatore Cinquestelle: “Non si può lasciare il Paese in balìa delle elezioni con la legge di bilancio da fare. Di politico irresponsabile, in Italia, ce n’è già uno ed è sufficiente. Sarà necessario darci delle regole che aiutino la convivenza in Parlamento” (Stampa p.3). Grillo dà carta bianca a Di Maio: “Altro che voto…” Il garante del M5S: “Salviamo il Paese dai barbari, i cambiamenti che servono facciamoli adesso (Fatto p.3).

Renzi 1. Maria Teresa Meli intervista Matteo Renzi: “Folle votare subito. Governo istituzionale, taglio dei parlamentari e poi il referendum”. L’ex premier: “la priorità è evitare l’aumento dell’Iva. Il Pd? C’è chi vuole le urne per cambiare i renziani. Nell’ultima settimana sono stato attaccato da membri della segreteria dem, se la prendono con il Matteo sbagliato. La mano va data al Paese più che alla Ditta” (Corriere p.5). More

Renzi 2. L’apertura di Renzi. “Sì al governo istituzionale. Fermiamo la deriva Papeete e evitiamo l’aumento Iva, possibile la riduzione dei parlamentari”. Ma Zingaretti conferma la richiesta di urne subito: “Abbiamo appena votato contro il dialogo con il M5S” (Repubblica p.3). Mezzo Pd convinto dal governo coi grillini. Renzi pronto a fare la sua proposta. Ma nelle Feste dell’Unità il popolo dem appare contrario all’ipotesi di accordo (Stampa p.2). “Bivio storico Conta il bene del Paese. Se vince Salvini l’Italia sarà fuori dall’Ue”. Parla Stefano Ceccanti deputato vicino all’ex premier. “Governo anche con 5S solo per la Finanziaria. Il nuovo Parlamento eleggerà il presidente della Repubblica nel 2022 e rischiamo un antieuropeista. Zingaretti ha un’idea diversa? Sì, al momento è a favore di elezioni presto, ma ci confronteremo” (Stampa p.3). Massimo Cacciari: “Solo ora Renzi apre all’intesa con i 5 Stelle? Un po’tardi. Ora il rischio è un’Italia fascista. Di Maio però deve farsi da parte, in quel partito l’unica alternativa è Conte” (Fatto p.2). Lombardi, Cinquestelle: “Esecutivo del presidente? Anche con il Pd”. Dopo Salvini possiamo dialogare anche con Belzebù. Il capo politico ha fallito, ora una leadership corale (Repubblica p.4).

Pd. Da «Ebetino di Firenze» a «mai con i grillini» si erano tanto odiati (Messaggero p.4). La guerra giallo-verde si sposta sui social tra meme, fotomontaggi e tormentoni (Messaggero p.6).

Scenari. Taglio dei deputati primo banco di prova. Fico accelera, ma i dem: non lo voteremo (Messaggero p.2). Patto per la legge elettorale ma il Colle resta alla finestra (Messaggero p.3).

Al voto al voto. Prove di inciucio. Renzi resuscita e apre a un governo tutti dentro meno la Lega. Grillo si sveglia e a sorpresa ci sta: «No al voto, via i barbari». Salvini ora deve dire se vuole il centrodestra. I primi dubbi di Matteo: teme governi di transizione. Salvini colpito dalla valanga di critiche ricevute sulle dirette Facebook. Domani potrebbe vedere Di Maio (Giornale p.2). Non è vero che il Pd vuole votare. Occhio ai pasticcioni. A sinistra abbondano quelli che dicono una cosa ma pensano di farne un’altra: sostenere un governo grillino e prolungare l’agonia del Parlamento. Conte si incatena alla poltrona (Libero p.3). L’inaudita alleanza in nome dell’euro e dei conti. Renzi-Grillo: inciucio in due mosse. Scordatevi anni di insulti, il Bullo lavora a un Conte bis con i 5 stelle. Primo passo: anticipare la mozione di sfiducia a Salvini per togliergli il Viminale. Secondo: Di Maio raccoglie firme per votare il taglio dei parlamentari e blindare tutto. Poi, palla al Colle. Il comico rompe il silenzio e cala le braghe: «Dobbiamo sopravvivere, altro che elezioni. Contro la Lega sono pronti a tutto (Verità p.3). Salvini sente puzza di palude: voto subito. Il leader del Carroccio concede: «Non importa se al Viminale ci sarà qualcun altro» (Qn p.2).

Non si voti. Lodo Grasso al Senato: Lega sola sulla sfiducia. La mossa di Leu. La domanda che si fa l’ex magistrato: ”Perché fare i carnefici di Conte?”. Domani si decide la data per il dibattito sul governo: 13 o 20 agosto? L’ex presidente del Senato propone alle opposizioni di disertare l’aula (Fatto p.2). Da Renzi a Grillo spunta il partito per evitare le urne (Messaggero p.2). Pd, M5S e Forza Italia: le mosse antiurne. Spunta il lodo Grasso. L’ipotesi: non votare la mozione di sfiducia a Conte (Corriere p.3). Mozioni, tempi, agguati. Il partito del rinvio detta l’iter della crisi. I tifosi dell’inciucio spingono per l’ipotesi di sfiduciare prima Salvini. Il piano Grasso (Giornale p.8).

Pd 4. Zingaretti dice no a «inciuci». La linea: non perdere tempo. Il segretario punta a elezioni rapide, il partito è diviso. Domani riunione dei senatori. La vice De Micheli: per fare una Finanziaria di questo tipo ci vuole un mandato popolare. Il sindaco di Firenze Nardella: un voto ravvicinato può essere un problema serio (Corriere p.6). E intanto il pd. Un governo istituzionale, da Forza Italia alla sinistra passando per 5S. Lo propone Renzi, ma il segretario Pd Zingaretti vuole il voto subito. Grillo già apre al dialogo. Salvini grida all’«inciucio» e si prepara a una campagna elettorale, anche lunghissima, lui contro tutti (Manifesto).

Salvini. “Un governo tra Renzi e 5S è roba da disperati Mattarella li fermi. Non ho paura delle inchieste sulla Lega. So come tirare fuori il Paese dai rischi sull’economia, ma bisogna andare a votare subito” (Repubblica p.6). Salvini pronto a lasciare il Viminale. “Mi fido ciecamente di Mattarella”. Il vicepremier in tour: “Sento Grillo e inorridisco”. In serata dura contestazione in Calabria (Stampa p.4). Salvini: cercano l’accrocchio, io del Colle mi fido ciecamente. Contestato in Calabria, ci sono anche bandiere M5S. Danneggiato l’impianto audio (Corriere p.8).

Giorgetti. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio: “Non rinnego il governo, ha fatto cose ottime. Sarà rottura traumatica”. Dice Giancarlo Giorgetti: “Non è vero che volevo le elezioni, ho cercato di tenere in piedi la baracca. Politicamente parlando un possibile governo di Pd e Cinque Stelle è pura fantascienza. Perché non ero con Salvini al Papeete? A me piace la montagna. Da qui vedo le cose dall’alto” (Stampa p.4).More

 

Inchieste. Da Savoini a Siri quelle inchieste che spaventano la Lega. Indagini aperte anche su esponenti di Pd, Fdi, Fi e 5 Stelle: nel caso del partito di Salvini sono più vicine alla conclusione (Repubblica p.13). More

Si euro. L’europarlamentare della Lega Francesca Donato: “Il limite del deficit di bilancio non può essere invalicabile. Uscire dall’euro? Non da soli, ma le regole devono cambiare. Anni fa l’Eurexit era un’ipotesi sul tavolo in vari Paesi. Adesso non più: è la democrazia” (Stampa p.7).

La Bestia e Rousseau. Bestia leghista contro Rousseau, la sfida della propaganda social. L’improvvisa impennata in chiave anti Lega delle pagine non ufficiali vicine al Movimento. Per la prima volta dopo mesi Salvini perde follower, quasi 5mila. Quelli guadagnati da Di Maio. Gli esperti: “È come se qualcuno avesse azionato profili falsi per moltiplicare il messaggio, ma la struttura di Salvini per ora non sbanda” (Repubblica p.7). More

La catena di montaggio da 1.500 selfie al giorno. Proteste durante il Beach tour. A Policoro il lancio di acqua sul ministro e a Soverato i contestatori mettono ko l’impianto audio (Repubblica p.7). More

Forza Italia Toti e FdI. I due tavoli di FI: con la Lega e contro (Messaggero p.3). More

Il diktat di Forza Italia: «Alleanza con la Lega? Ma prima delle urne». Il partito pronto a far valere il proprio ruolo nella stesura dell’agenda dei lavori in Senato (Giornale p.6). Toti: adesso un’alleanza con Matteo. Il vecchio asse con FI? Non lo vedo più. «Bisogna presentarsi con un centrodestra nuovo e inclusivo» (Corriere p.8). More Alt di Meloni agli inciuci: «Asse vincente con la Lega». La leader di Fd’I scarica Berlusconi: vedute diverse (Qn p.3).

Conte Italia. Conte prepara il j’accuse a Salvini. L’operazione verità del premier alle Camere. Il Commissario europeo potrebbe non essere del Carroccio (Corriere p.10). More

Il discorso che farà Conte: “È Salvini l’uomo dei No”. Il presidente ribadirà tutti i “sì” del governo cui il capo leghista si è opposto per mesi (Fatto p.4). More

Conte Mondo. Merkel, Macron, il G7. Ecco la tela di Conte per rassicurare l’Europa. In previsione colloqui telefonici con i leader di Francia e Germania prima del summit del 24. Per il commissario riprende quota l’ipotesi di un tecnico, con i nomi dei ministri Moavero e Tria. Le cancellerie europee guardano con preoccupazione a quanto sta succedendo. Il premier intende allargare la rete di contatti anche ai Paesi del gruppo Visegrad (Stampa p.5). More

Sondaggi. Sondaggisti divisi. Il dato più alto è di Noto, Risso (Swg) è il più pessimista: “Il premier vale l’11% ” , “No, appena il 4”. Per Valbruzzi (Istituto Cattaneo) se il presidente guidasse il M5S porterebbe dal 3 al 5% in più (Fatto p.4). More

I Conti. Manovra 2020, perché fa paura. Serviranno almeno 30 miliardi e se ci saranno le elezioni in autunno i numeri del bilancio balleranno (con i mercati) (Corriere p.11). Sul futuro governo il macigno dell’Iva. Le clausole costano 687 euro a famiglia. Così il calcolo di Confesercenti, mentre il Codacons alza il totale a 1200 euro includendo i costi indiretti. 26,5% il livello a cui salirebbe l’aliquota massima dell’Iva se scattassero le clausole. I consumi calerebbero di 8 miliardi aggiungendosi ai 32 già perduti in 10 anni (Stampa p.6). Le quattro ipotesi per risolvere il rebus degli aumenti dell’Iva. Le ricette sul tavolo: dal disinnesco parziale alla sterilizzazione immediata e completa. Tra le soluzioni c’è anche uno slittamento di qualche mese dello scatto delle aliquote (Messaggero p.9). Quanto ci costa la crisi. Debito su di 4 miliardi ogni 100 punti di spread. In due anni rincaro Iva di 1200 euro per famiglia. Colpiti anche il risparmio gestito e i fondi pensione a causa del calo dei prezzi dei Btp . I bilanci delle banche particolarmente esposti per via dei 400 miliardi di titoli pubblici posseduti (Repubblica p.10). More

L’Iva. E il piano di Tria per fermare l’Iva adesso è a rischio. All’Economia pronta da due settimane la lista di spese che si possono ridurre e di detrazioni fiscali da tagliare. Ma non si sa quale maggioranza sceglierà (Repubblica p.11). More

Manovra da 27 miliardi canale aperto con l’Ue e la Lega abbassa i toni. Per mettere in sicurezza il bilancio servirà un intervento da 1,5 punti di Pil. Al Mef dossier in stand-by, si guarda a Bruxelles per avere spazi sul deficit. Dopo l’avvertimento di Fitch, il leader del Carroccio prova a rassicurare: nessuna intenzione di uscire dall’euro (Messaggero p.8).

Incompiute. Dai decreti “senza intesa” incognita per l’Ilva Scuola, torna l’incertezza per 53 mila precari. Una coda di norme approvate solo formalmente dal governo ma mai mandate in gazzetta ufficiale: non hanno validità. Solo se si riuscirà a trovare un accordo le camere potranno esaminarli e convertirli anche in regime di prorogatio (Messaggero p.8). Niente più aiuti ai lavoratori delle aree in crisi e stop a 18 miliardi di privatizzazioni. Ilva, rider, giustizia e assunzioni nella scuola. Tutti i decreti e le riforme rimasti a metà (Stampa p.6).

I Vescovi. Il presidente dei vescovi europei: “La crisi preoccupa. Basta simboli religiosi in politica” Parla il Cardinal Bagnasco: “Ogni forma di chiusura, personale o collettiva nega il vero bene. Il Santo Padre afferma che il popolo è sovrano, quel suffisso “-ismi” non fa mai bene. Una buona politica migratoria segue tre criteri: ricevere, accompagnare ed integrare. I cattolici trovano in queste parole un chiaro orientamento. Dopo la tragedia del Morandi, sono convinto che Genova sarà guardata e sostenuta da tutti come un bene per l’Italia. Siamo sotto gli occhi del mondo (Repubblica p.8).More

Richard Gere e i migranti. I 330 bloccati sulle due navi Ong. E Gere attacca: “Politici stupidi”. Open Arms e Ocean Viking salvano altri 124 migranti e attendono un porto sicuro ma tutti i paesi dell’Ue tacciono. L’attore: “Ho interrotto la vacanza per dare una mano”. Salvini: “Li porti a Hollywood in aereo e li ospiti a casa sua” (Repubblica p.22). Dai barchini alle navi madre. Così si riorganizza il traffico di uomini. Dei 4mila sbarcati quest’anno, quasi 3.500 sono arrivati direttamente in Italia (Repubblica p.22). Italia e Malta mantengono il divieto di sbarco (Stampa p.13). «Porta i migranti a Hollywood». E Gere replica: «Più umanità» (Corriere p.14).

Razzismo. La mamma di Pietro: “Temo per i miei figli costretti a vivere in un Paese incattivito” (Repubblica p.27).

Editoriali e commenti.

Gli editotialiTravaglio

L’amico del cazzaro

Vuoi vedere che il Cazzaro Verde, da tutti dipinto come un genio della politica, l’ha pestata grossa? Tre giorni dopo la genialata di buttar giù il governo in pieno agosto senza dimettersi da vicepremier e da ministro nè far dimettere i suoi, appare già un tantino incartato. Da buon orecchiante improvvisatore, ha scoperto dalle ultime ripetizioni estive di Conte che l’Italia è una Repubblica parlamentare, le cui regole e procedure non consentono le elezioni prima di fine ottobre (se va bene). Dunque il suo eventuale governo monocolore (“corro da solo”, anzi “vediamo”) con “pieni poteri” non potrebbe nascere prima di fine novembre-inizio dicembre. Non avrebbe il tempo di varare e far approvare la legge di Bilancio. E partirebbe con una figuraccia mai vista, da Guinness dei primati: l’esercizio provvisorio col contorno di spread, speculazioni, infrazioni Ue ecc. In più il barometro dei social, che a noi fa un baffo ma per lui è legge, segnala fulmini e tempeste: insulti, critiche, pentimenti e sberleffi per il suo tradimento incoerente e incomprensibile. Più tempo passa, più la sua fuga per la vittoria potrebbe incontrare intoppi. I trionfi, nella politica italiana, arrivano inattesi: quando sono troppo annunciati, si rivelano spesso cocenti delusioni. Ne sanno qualcosa Renzi e i 5Stelle, dati l’uno per sconfitto e gli altri come stravincitori alle Europee del 2014, salvo poi aprire le urne e trovarsi a parti invertite. Che il fattore-tempo sia cruciale per le prossime elezioni, lo capiscono tutti. Lo capisce Salvini, che già dà segni di nervosismo perchè non si vota domani. Lo capisce Di Maio, che chiede il taglio dei parlamentari prima delle urne. Lo capisce Grillo, che chiede altri “cambiamenti” prima del voto, per rubare il tempo a Salvini. Lo capisce Grasso, che propone a centrosinistra e M5S di uscire dall’aula quando la Lega voterà contro Conte, così mancheranno i numeri perché il governo sia sfiduciato e Mattarella potrà lasciarlo al suo posto per fare poche cose (taglio dei parlamentari, legge elettorale e legge di Bilancio) prima delle urne a primavera e spostare le lancette dell’orologio salviniano. Lo capisce persino Renzi che, pur animato da interessi di bottega, lancia segnali per il governo M5S-Pd che impallinò nel 2018. L’unico che non lo capisce è Zingaretti, che ieri ha letto Repubblica (“Votare subito. Ma c’è chi dice no”), poi ha dichiarato: “Votare il taglio dei parlamentari è un trucchetto per non andare al voto”. Esattamente quel che dice Salvini. Il quale, come del resto B. per vent’anni, non ha nulla da temere: se ha un problema, glielo risolve il Pd.

Prodi

La fragilità italiana, un manuale di difesa

Romano Prodi sul Messaggero

Q uando si è di fronte ad una svolta politica come quella avvenuta in Italia corre l’obbligo di riflettere anche sul contesto economico nel quale questa svolta viene messa in atto e sulle conseguenze che verranno a prodursi nel campo dell’economia. Partendo dal contesto mondiale è infatti certo che siamo in fase di rallentamento, anche se non si può certo parlare di crisi globale. Negli Stati Uniti si è passati dal 3,1% di crescita del Pil nel primo trimestre dell’anno in corso al 2,1% del secondo trimestre. Nulla di drammatico ma un segnale di malessere dovuto alle troppo prolungate incertezze della politica commerciale. Le stesse incertezze rallentano la crescita cinese che dovrebbe superare di poco il 6%. Pur essendo ancora rilevante è al minimo della sua storia recente. La Cina, inoltre, ha lanciato il rischioso messaggio di considerare la svalutazione del cambio come strumento di reazione di fronte al possibile aumento dei dazi americani. Assai più preoccupante è la congiuntura in Europa, dove la Germania vede crollare il suo export e calare vistosamente la sua produzione industriale, così come sta accadendo in Gran Bretagna dove l’economia è entrata in segno negativo, il che non è mai accaduto dal 2012.

Arrivando all’Italia la situazione è stabilmente la peggiore tra tutti i grandi paesi europei. Alla recessione, che dura ormai da un anno e che ci ha relegati ad essere gli ultimi della classe, la recente rottura politica ha aggiunto l’aumento del famigerato spread che aggrava il nostro bilancio pubblico di oltre un miliardo all’anno di interessi passivi e devasta le quotazioni delle nostre banche. Se lo spread non è per ora arrivato ai livelli del 2011 lo si deve all’ancora breve durata della crisi e alla politica degli stimoli monetari annunciati nello scorso giugno dalla Banca Centrale Europea. La Bce, da parte sua, non può fare più di tanto, dato che oltre il 60% dei titoli pubblici dell’Eurozona ha già un tasso di interesse negativo. I tassi di interesse italiani sono perciò un’eccezione di enorme portata, che diverrebbe insopportabile se ci distaccassimo ancora di più dalla politica europea. Il nostro governo, che nell’ultimo anno ci ha portato ai margini dell’Unione Europea, ci ha già provocato danni rilevanti non solo in termini di crescita e di occupazione ma ha ridotto ai minimi storici la nostra partecipazione alle decisioni europee che tanto influiscono sul futuro del nostro paese. Le pur ripetute e insopportabili liti fra i due partiti di governo si sono trasformate in una vera crisi solo quando i 5Stelle hanno abbandonato il loro precedente sovranismo e hanno votato in favore di Ursula von der Leyen alla Presidenza della Commissione Europea. Che questa così importante decisione avrebbe innescato una crisi era una facile previsione su cui ci siamo soffermati su queste stesse pagine, anche se i tempi di messa in atto sono stati più rapidi delle nostre stesse previsioni. La Lega ha di conseguenza deciso di aprire una campagna elettorale rimettendo in primo piano il suo vecchio tema di una politica economica antieuropea e rispolverando gli slogan contro l’Euro che erano stati messi da parte negli ultimi mesi di fronte al fallimento di tutte le politiche portate avanti in questa direzione da altri Paesi. I casi del Portogallo e della Grecia hanno infatti dimostrato che una politica di estraniazione dall’Ue porta solo svantaggi e che il perseguimento di questi obiettivi, conclusa l’euforia della campagna elettorale, provoca il disastro ed impone perciò radicali mutamenti, come è avvenuto in entrambi i Paesi. Non è detto che una piattaforma anti europea possa avere lo stesso seguito di opinione pubblica che ha avuto la campagna anti immigrati, anche perché le più accreditate analisi mostrano che il giudizio positivo nei confronti dell’euro sta aumentando e che sempre meno sono gli italiani che ne vorrebbero uscire. È indubitabile che una campagna elettorale fondata su questi temi renderebbe ancora più precaria la nostra situazione economica e più difficile un nostro aggancio ai pur lenti ritmi di cammino delle altre economie europee. Un’Italia che deve ritrovare il livello degli investimenti e la qualità dell’innovazione necessarie per non soccombere difronte a una situazione economica così complessa non può mettere in dubbio la collocazione europea nella quale è destinata ad operare. Proprio le comuni difficoltà ci permetterebbero di acquistare la capacità di influenza che pure avevamo in passato. Solo in tale modo potremmo fare fronte ai comuni problemi che stiamo affrontando. Le difficoltà della Germania e le conseguenze negative della Brexit stanno infatti mutando le convinzioni di fondo e i processi decisionali che hanno fatto commettere tanti errori alla politica europea degli ultimi anni. Quello che non è stato possibile per la mancanza di una leadership illuminata è reso ora percorribile in conseguenza della necessità di superare insieme le comuni difficoltà. Credo che si debba quindi fare ogni sforzo per evitare di aprire una campagna elettorale che, fatalmente, provocherebbe un nostro drammatico isolamento in termini di equilibri finanziari e di livelli di crescita e di occupazione. Tutti gli elementi che abbiamo a disposizione dimostrano che gli italiani, nella loro assoluta maggioranza, condividono il comune destino europeo. Credo perciò che il rafforzamento di questa consapevolezza sia lo strumento più idoneo per superare la presente crisi.

LA SABBIA GETTATA NEGLIOCCHI

De Bortoli sul Corriere

De bortoli

L’ ipotesi di elezioni anticipate non è scontata. Salvini insiste: la parola agli italiani. Forse il leader della Lega, nella bulimica voglia di potere, ha sottovalutato qualche effetto collaterale della sua clamorosa rottura balneare. Se si dovesse andare al voto autunnale — perla prima volta nella storia repubblicana e nel periodo nel quale si discute della legge di Bilancio — è probabile che assisteremmo a una campagna elettorale del tutto particolare. Non che in altre occasioni il confronto tra i partiti sui datireali del Paese abbia prevalso sullo spaccio delle emozioni, lo scambio delle accuse, l’effetto stupefacente delle promesse irrealizzabili. È sempre successo così, accadrebbe anche questa volta. Ma con una piccola differenza. Ci sarebbe un vincitore annunciato. Non una coalizione, almeno peril momento. Una persona sola. Mai accaduto. Già questo aspetto dovrebbe sollevare qualche inquietante interrogativoeportare a un’analisi più realisticaedi buon senso da parte degli altri attori della scena politica. Ma facciamo l’ipotesi che si vada al voto. Gli impegni che Salvini prenderebbe, nelle prossime settimane, «di fronte al popolo italiano» come piacealui (e non restando ministro dell’Interno!) costituirebbero una sorta di «contratto personale»

N on potrebbe più dire, una volta a Palazzo Chigi — sempre che i sondaggi oggi generosi si trasformino in voti reali — di non essere in grado di attuare questa o quella parte del programma per colpa degli alleati. Un po’ come ha fatto abilmente in questi quattordici mesi, facendo sopportare tutti i costi dell’immobilismo del governo Conte ai suoi sciagurati compagni di strada, i Cinque Stelle. Come se quel «contratto del governo del cambiamento»nonavesse anche la sua firma. E nell’ipotesi che l’esecutivo a sua guida, come prima e più urgente incombenza, debba scrivere una legge di Bilancio per il 2020, non potrebbe giustificare incertezzeeripensamenti sostenendo di non conoscere (come hanno fatto tanti governi al debutto) lo stato reale delle finanze pubbliche. Salvini ha condiviso, pur essendo stato molto nelle piazzeenelle spiagge e poco alViminale,tutte le scelte dell’esecutivo Conte. Ne porta la piena responsabilità politica. Immaginiamo poi che la campagna elettorale sia tutta all’insegna della richiesta di un forte mandato popolare per scardinare la «gabbia ingiusta e austera» dell’Unione europea. Ma forse qualcuno gli ricorderà che la testa nei confronti degli «odiosi burocrati di Bruxelles» l’ha già abbassata due volte. In occasione della retromarcia sulla legge di Bilancio del 2019 e nel sottoscrivere gli impegni che hanno scongiurato una procedura d’infrazione per il debito. Lui potrebbe ribattere: sì ma non ero io il capo del governo e la Lega aveva un peso inferiore alla Camera e al Senato. Piccolo particolare: l’Italia si è impegnata, in quella occasione, a contenere il disavanzo strutturale anche nel 2020. E anche in questo caso c’era la sua firma politica. Era comunque in gioco la sua credibilità. E il futuro premier si accorgerebbe sulla suapelle che cosa vuol dire per un Paese indebitato come il nostro venir meno a obbligazioni sottoscritte. È già accaduto altre volte. Non potrebbe prendersela con i «numerini» della Commissione, anche perché il copyright dell’espressione è del suo ex alleato vicepremier Di Maio. Ed essendo un buon padre di famiglia, con la testa sulle spalle, siamo certi non si affiderebbe ai tanti «dottorini Stranamore» che vagheggiano uscite dall’euroemonete parallele. Dunque, nel porre fine a un «governo di separati in casa con divisioni e odii individuali», come ha scritto ieri nel suo editoriale il direttore Luciano Fontana, Salvini ha bruciato alle sue spalle tutti i comodi ponti dell’ambiguità dei ruoli. D’ora in poi non ci sono più alibi. Non ci sono più scuse. Non se la può prendere più con nessuno. Se non con se stesso. In ogni caso, si voti o no, rimangono le illusioni, tante, troppe, che rischiano di trascinare in un baratro, non solo economico, un intero Paese. L’illusione che facendo più deficit, anzi «sano deficit» come dicono i leghisti, si possa ridurre il rapporto fra il debito (di cui nessuno parla più, argomento rimosso) e il prodotto interno lordo, desolatamente fermo. Non è mai successo. O che si possa combattere l’evasione fiscale (vera gramigna italiana, battaglia accantonata) insistendo con sconti e condoni. Oppure parlando di flat tax quando è chiaroatutti che, allo stato dei nostri conti pubblici, è un’utopia ingannevole. E ancora, l’illusione che mandando in pensione le persone prima, i posti di lavoro vengano occupati tutti da giovani che peraltro continuano ad andarsene. Sarà poi curioso capire, in una eventuale campagna elettorale, specialmente al Sud, se Salvini annuncerà la cancellazione, una volta al governo, del reddito di cittadinanza. E come spiegherà, da quelle parti, l’autonomia differenziata chiesta a gran voce dai suoi governatori del Nord. La rappresentazione di comodo della realtà economica—considerando i mercati una sortadi bisca affollatadi speculatori senza scrupoli —èil carburante del sovranismo, il moltiplicatore del consenso. Ma è anche fumo, o meglio sabbia, negli occhi dei cittadini, ai quali il conto prima o poi arriva. E lo pagano i più deboli.

Franco

L’oradelleregole dopoilblitz

Massimo Franco sul Corriere

L’ istinto di onnipotenza di Salvini comincia a fare i conti con la Costituzione e il Parlamento. continua a pagina 6

Il suo blitz teso a portare l’Italia alle elezioni anticipate sta riuscendo, ma solo in parte. Sancire unilateralmente la fine della maggioranza con il Movimento5Stelle potrebbe condurre quasi perforza di inerzia alle urne. Eppure l’esitoèincerto. La Lega, nella sua corsa affannosa verso il voto, addita e pretende iltraguardo vicinissimo; il Parlamento, nel quale per ora ha solo il17% dei voti, invece, lo osserva col cannocchiale rovesciato: più lontano,forse non a portata di ottobre. D’altronde, lo strappo leghista costituisce una forzatura che ha fatto scivolare in secondo piano l’interesse nazionale, privilegiando solo i calcoli elettorali di un partito sicuro di avere il vento in poppa e di doverlo sfruttare subito. Il Carroccio sembra avere sottovalutato l’allarme che il suo diktat sta provocando, e non solo in Italia, perla forte componente estremistica e antieuropea che sprigiona. Esistono impegni finanziari e scadenze di governo da rispettare, e vincoli che non possono essere scansati solo per permettere la «presa del potere» salviniana dai contorni di una guerra-lampo sulla pelle dell’Italia. Restituire lo scettro della crisi al Parlamentoeal Quirinale è una via obbligata costituzionalmente.Non sitratta difrenare le ambizioni di vittoria leghiste ma di permettere all’opinione pubblica di comprendere le ragioni della rottura e renderla trasparente nei suoi passaggi.Non sarà facile. Ilterrore grillino di un voto anticipato che falcidierebbe i suoi consensi e le sue rappresentanze parlamentari porta un redivivo BeppeGrillo a invocare un fronte controi«barbari» di Salvini: versione aggiornata e pasticciata di unità nazionale. Proposta singolare. Il «nuovo» si aggrappa all’odiato sistema non per salvare il Paese e la tenuta dei conti pubblici, ma soprattutto per salvare se stesso, contando di mettere insieme paure trasversali. È una reazione simmetrica e opposta a quella della Lega. E offre il medesimo brutto spettacolo da parte della ormai ex maggioranza.Avventurismo elettorale leghista e strumentale trasformismo grillino vanno a braccetto, accompagnati dal solito corredo di insulti. Con quali esiti, si vedrà. Ma proprio per questo, ora più che mai Costituzione, ParlamentoeQuirinale sono le uniche garanzie di serietà contro azzardi e furbizie accomunati da una spregiudicatezza venata di irresponsabilità. Se e quando si arriverà alle elezioni è ancora da capire. E non è detto che sia la cosa migliore peril Paese. Si dovranno evitare pasticci e ammucchiate improbabili, ma anche scongiurare accelerazioniforiere solo di fratture più profonde e pericolose, peri rapporti interni, perla tenuta dell’Italia e perle relazioni coninostri alleati europei. Ilrispetto delle regole è il minimo che si debba pretendere da chi da tempo mostra una prepotente inclinazione a calpestarle peril proprio esclusivo tornaconto. Sarebbe bene se ne rendessero conto anche le opposizioni, per non ridursi alruolo di strumenti subalterni di una demagogia che ha già prodotto molti guasti.

Scalfari

Veltroni

Lerner

di Luigi Manconi e Valeria Fiorillo

gfeltrfi

sallusti

Per sopravvivere Renzi diventa un pentastellato

Giuli

Urinati

Il manifesto

Belpietro

Il Tesoro. Nel 2019 servono 125 miliardi. A tanto ammontano le aste dei titoli di Stato da qui alla fine dell’anno. Sui conti l’ipoteca dello spread. Il Tesoro quest’anno ha già raccolto 284 miliardi con BoT e BTp, Dopo la forte domanda degli ultimi mesi, in futuro potrà pesare la turbolenza sui mercati. Per ora nessun allarme sulle aste, ma c’è il pericolo di un aumento di costi con effetti negativi sulla manovra. Domani nuovo test sui mercati (Sole p.3).

Nomine. La crisi congela le nomine. Oltre 70 poltrone in gioco. A breve un dedalo di scadenze tra Authority, enti pubblici e partecipate del Mef e di Cdp. In autunno parte la corsa per rinnovare i vertici delle big: Enel, Eni, Leonardo, Poste, Enav e Terna (Sole p.4).

Alitalia. Alitalia, i soci accelerano su piano e ad. Agosto di lavoro per Ferrovie, Atlantia e Delta per limare il progetto industriale, ancora distanze su network e alleanze. Entro fine mese summit Battisti, Castellucci e Bastian sull’offerta. In corsa per il vertice Altavilla e Scaramella (Messaggero p.14). Senza soldi pubblici precipita la nuova Alitalia. Continuano i tavoli tecnici tra Fs, Delta e Atlantia, ma tra un mese servirà un governo (Repubblica p.10).

Una banca per i piccoli. “Una banca pubblica per i piccoli. Senza il credito soffochiamo”. Intervista al leader di confartigianato Merletti: “i prestiti sotto i 50 mila euro non convengono, troppi costi burocratici. Bene estendere la flat tax a 100 mila euro, ma serve anche la semplificazione delle aliquote Irpef. Il rialzo dell’aliquota Iva su alcuni beni non è un tabù. La strada è un mix di tagli e investimenti (Corriere p.31).

Cambia lo Ior. Il Papa cambia la banca del Vaticano. Più poteri ai vertici e controlli esterni. Nuovi statuti per lo Ior: potenziati il prelato e il direttore, che diventa “generale”, scompaiono i revisori interni. La mossa mette l’Istituto in linea con i parametri internazionali e punta ad avvicinarlo alla missione della Chiesa (Repubblica p.32). Revisore esterno e teleconferenza. Regole più severe per il personale: dovrà lavorare in esclusiva. Il board da 5 a 7 membri (Corriere p.32).

La tv che cambia. Il presidente della Rai Marcello Foa invita a puntare sui contenuti nazionali e locali, dall’informazione ai format. “Dialogo con le emittenti pubbliche europee per una piattaforma comune. In casa si potrebbe parlare con Mediaset & Co. Per sfidare i colossi della Tv digitale l’Italia ragioni su un patto di sistema. Produzione italiana e sintonia col pubblico sono una forza. E qui nessuno ha le nostre conoscenze. Il mandato triennale del Cda Rai non aiuta a impostare un discorso di medio e lungo periodo. Netflix è pronta alle coproduzioni ma la formula delineata non va. Non siamo ingenui. Sulla piattaforma collettiva i tedeschi vogliono risposte entro settembre: ci vorrà di più (Stampa p.9).

Giustizia. Il vuoto che rallenta la giustizia. Nelle aule mancano mille giudici. A Brescia ogni magistrato ha un’utenza media di 15.124 cittadini, i colleghi di Reggio Calabria 3.603.

In termini assoluti la carenza maggiore è a Napoli: sono 132 i posti vacanti. Ogni giudice si occupa in media di 473,6 procedimenti. La pianta organica del ministero di Grazia e Giustizia prevede 6944 magistrati. Il numero di magistrati ideale secondo i conti del ministero sarebbe di 7954. Il tasso medio di scopertura nei distretti giudiziari e del 12,7%. 781 i giorni – in media – di durata di un processo di primo grado a Messina. Lo studio di Confartigianato Veneto: il problema rischia di aggravarsi con i prepensionamenti a “quota 100”.

Giustizia 2. Bari, 12 mesi dopo, un tour da incubo nelle 8 sedi del tribunale. Dalla tendopoli alle udienze tra lavori in corso e traslochi. La rabbia degli avvocati: non abbiamo il dono dell’ubiquità. 94 i milioni necessari per creare un polo della Giustizia nelle ex Casermette. 17 i chilometri che separano le aule di Bitonto da quelle di Modugno.

Giustizia 3. Tempio Pausania. In Gallura i processi si bloccano. Migliaia di reati impuniti (Stampa p.14 e 15).

Cassazione, corsa a 9. Salvi in pole position. Non prima di ottobre la nomina del Pg: anche Riello tra i favoriti. Procura di Roma, tempi lunghi dopo il caso Palamara: ipotesi nuovo bando. Le indiscrezioni sul possibile sostituto di Fuzio uscito di scena dopo essere stato indagato (Messaggero p.11).

Diabolik, nel commando ora spunta un terzo uomo. Un “palo” avrebbe segnalato al killer l’arrivo in anticipo di Piscitelli al parco. Si cercano analogie con vecchi delitti dei clan. Il sicario voleva uccidere anche l’autista. La zona in cui è avvenuta l’esecuzione è un territorio del gruppo senese. L’assassino forse ha un tatuaggio (Messaggero p.13).

Russia 1. La Russia ammette: “Esploso un missile durante test atomico”. L’incidente al largo di Severodvinsk. Almeno 5 morti. Corsa nelle farmacie per le pillole anti-radiazioni. 185.000 gli abitanti di Severodvinsk, cittadina vicina al luogo dell’incidente. Secondo Greenpeace le radiazioni hanno superato 20 volte il livello normale (Stampa p.10).

Russia 2. L’opposizione in piazza contro l’esclusione dei suoi candidati alle elezioni. Arrestata Liubov Sobol. In sessantamila sfidano Putin. “Ora non potrà più ignorarci”. Dall’inizio delle proteste la polizia ha arrestato 2.400 persone (Stampa p.10). La repressione non ferma la protesta. Oltre 60 mila in strada per chiedere voto libero. Folla mai vista dal 2012 (Repubblica p.19).

Trovato impiccato Epstein. Si impicca in carcere il finanziere Epstein. Era accusato di decine di violenze su minori. Le vittime: il suo ultimo atto di egoismo. Aveva già tentato di uccidersi. Una donna coinvolge il principe Andrea. Amico dei potenti, sedicente filantropo, andava ai party con i Trump e sull’aereo con Clinton. Nonostante la condanna per violenza sessuale, gli atenei liberal accettavano i suoi assegni. La vita dorata di Jeffrey lo schiavista che finisce nelle buie celle di Manhattan. Per anni ha vissuto in un clima di impunità, anche quando le accuse si moltiplicavano (Stampa p.11).

Cuba ed ebrei. Viaggio nella piccola comunità dell’Avana. Nonostante le ristrettezze economiche, oggi ospita turisti e riscopre le tradizioni sefardite. La nuova vita degli ebrei di Cuba. “Sopravvissuti a Fidel, ora resistiamo”. Gran parte dei membri è fuggita a Miami dopo la Rivoluzione. Loris Zanatta: “Castro era un re cattolico. Comunista, ma con la Bibbia. Perseguitò la religione, ma fondò uno stato etico. Fidel prima di morire è tornato alle origini auspicando l’alleanza tra cattolicesimo e Islam contro il capitale (Stampa p.12).

Brexit, Buckingam Palace avverte: “Tenere la regina fuori dalle beghe”. Con il premier Boris Johnson intento a portare la Gran Bretagna fuori dall’Unione Europa «vivi o morti», e il Paese apparentemente avviato verso il divorzio da Bruxelles senza un accordo, potrebbe davvero toccare alla Regina bloccare la Brexit e salvare il suo regno dal precipizio? Fino a poco tempo fa la domanda sarebbe sembrata pura fantapolitica, ma adesso se ne discute apertamente, anche se talvolta solo in maniera provocatoria. Sta di fatto che il «Daily Telegraph», quotidiano vicino alla Casa Reale, ieri ha dato la notizia di colloqui tra Downing Street e Buckingham Palace per discutere della situazione e tenere la Regina fuori dalla Brexit.In 67 anni di regno, il più lungo nella storia del Paese, Elisabetta è sempre rimasta al di sopra della lotta politica. Ma nell’imprevedibilità in cui è piombato il Paese dal referendum del 2016, nulla si può escludere. Tranne, forse, un intervento della Regina (Stampa p.17).

Kashmir. Nella terra sotto coprifuoco dove anche pregare è vietato. “L’India ci vuole cancellare”. Le voci e gli appelli oltre il muro di silenzio imposto da Nuova Delhi allo Stato musulmano. Revocata l’autonomia le comunicazioni sono tutte bloccate. E nelle strade scontri e feriti. “Ora il mondo ci aiuti. Sarebbe meglio se ci bombardassero piuttosto che infliggerci la tortura quotidiana delle restrizioni” (Repubblica p.17).

Senza ponte. Le macerie, la speranza. La vita sospesa di Genova un anno dopo il crollo. “Era il nostro rumore di fondo”, dice la gente. “Una pioggia di calcinacci e cascate d’acqua quando pioveva”. La prova regina per ora è il reperto 132, tre metri di cemento e fili d’acciaio in “uno stato corrosivo di tipo generalizzato”. Pino Corrias su Repubblica a pagina 20. More

Buongiorno a tutti. La crisi su tutto. Salvini prova ad accelerare e presenta una mozione di sfiducia a Conte mentre partono le grandi manovre del partito anti-elezioni. La Lega teme una trappola Pd-M5S. I grillini frenano, voci di contatti tra renziani e Movimento. E intanto lo spread sale e la Borsa scende mentre tutti guardano con preoccupazione alla bomba atomica dei 23 miliardi di Iva da disinnescare. Costerebbe 541 euro a famiglia dice il Sole. Anche oggi sono tantissimi i commenti. Buona lettura a tutti.

La data del voto. Scontro sulla sfiducia. Partono le manovre del partito anti-elezioni. Il vicepremier vorrebbe accelerare al massimo, i grillini frenano. Hanno aperto canali coi renziani. In campo anche Gianni Letta. Renzi: «Non possiamo far aumentare l’Iva per lo sghiribizzo di Salvini» (Stampa p.2). Convocati a Roma per lunedì i parlamentari leghisti, la corsa del leader per la sfiducia a Conte. E attacca: «Sento che ci sono toni simili tra Renzi e Di Maio». La replica del Movimento: «Un giullare». Ora è scontro per la data del voto Salvini evoca l’inciucio M5S-Pd (Corriere p.2). Sfiducia dopo Ferragosto. I dubbi del Quirinale su elezioni a novembre. La data più probabile per la resa dei conti in Senato è il 20 agosto. Mattarella preoccupato: se le urne ritardano è a rischio il varo della legge di bilancio (Repubblica p.2). Tra 631 “matricole” alla prima legislatura e non ricandidabili, il partito anti urne. Grillini, renziani e forzisti insieme in senato avrebbero la maggioranza (Messaggero p.6).

Le manovre del partito anti-elezioni. Ugo Magri sulla Stampa a pagina 2. More

L’inciucio. Trame e veleni sui tempi della crisi. Il Carroccio sospetta di Fico e Franceschini. L’esecutivo è in carica, gli alleati non si parlano (Corriere p.3). Quei contatti tra renziani e grillini per fermare le urne. Anche radicali, forzisti e altri dem nel fronte per un governo di scopo basato sulla riforma costituzionale. Ma c’è lo stop di Di Maio e Zingaretti. Goffredo De Marchis su Repubblica (p.3). Salvini scopre che il Pd è diviso sull’opzione di votare presto. Problemi. Zingaretti vuole le elezioni subito, come Salvini, i parlamentari del Pd meno. La guerra delle date e i triangoli con il M5s (Foglio in prima). Il Bullo è disperato e ci prova con i grillini. Nonostante i toni da battaglia di Renzi, i suoi aprono un canale con Di Maio. Marcucci: «L’unico incubo è il Capitano premier». La trappola: anticipare la sfiducia a Salvini rispetto a Conte e allontanare le urne. E colpire il segretario dem che vuole il voto. Luca Telese sulla Verità (p.7).

Renziani e grillini per fermare le urne. Goffredo De Marchis su Repubblica a pagina 3. More

Taglio dei parlamentari. La carta quasi impossibile che può far slittare tutto. Tentazione tra pentastellati e dem, ma serve un’ampia intesa. Se slittasse in avanti la seduta sulla sfiducia, si potrebbe convocare la Camera sulla riforma. Francesco Verderami sul Corriere (p.2). Patuanelli “Votiamo il taglio dei parlamentari con chi ci sta”. Salvini stacca la spina con le Camere già chiuse per non consentire a questa legislatura di approvare una riforma sacrosanta (Repubblica p.6).

Velleità grillina. Francesco Verderami sul Corriere a pagina 2. More

Conte. Conte potrebbe restare in scena. Sarebbero 70 i parlamentari M5S che lo vorrebbero leader (Corriere p.9). Il prwsidente del Consiglio al leader del Carroccio: “In Parlamento dovrai guardarmi in faccia e poi votarmi contro” (Fatto p.2). L’idea di candidarsi. «E in Senato dirò tutta la mia verità». Il presidente del Consiglio ormai è sempre più una figura politica. Il pressing dei grillini perché scenda in campo con loro (Messaggero p.8). Il premier prepara l’“operazione verità”: ecco i bluff di Matteo nell’ultimo anno. Il discorso alle Camere per ricostruire le “omissioni” di Salvini. Obiettivo: addebitargli la fine dell’alleanza. Descriverà le riunioni disertate dal capo leghista mentre si prendevano decisioni (Stampa p.4).

Operazione verità di Conte. Francesca Schianchi sulla Stampa a pagina 4. More

Lega. Il leader ha confidato ai suoi: «I Cinque Stelle vorrebbero prima votare il taglio dei parlamentari. Puntano solo ad allungare il sugo ma nelle urne vedrete, glieli taglio io i parlamentari» Il grande azzardo di Salvini che ora teme “l’inciucione” (Stampa p.3). «Abbiamo il mondo contro dobbiamo fare prestissimo», In tour tra Abruzzo e Puglia, il leader teme trappole: non voglio giochini strani (Corriere p.5). Salvini ora teme il trappolone «Chiedo al Paese pieni poteri» (Giornale p.5). Zaia: «L’agonia è finita. Col nuovo esecutivo chiuderemo subito sull’autonomia. I 5Stelle sanno solo dire no» (Corriere p.9).

Datemi i pieni poteri. Paolo Bracalini sul Giorfnale a pagina 5. More

Cinquestelle. Il Movimento deve fare i conti con il divieto di superare il doppio mandato. Molti parlamentari sarebbero automaticamente esclusi dalle nuove liste. I grillini sognano Conte candidato al governo. Dibba subito in campo. Casaleggio incontra tutti i “big”: per Di Maio possibile un ruolo di regista. A chi non potrà correre potrebbe essere garantito un ruolo nel partito (Stampa p.5). Casaleggio: alle urne ci capiranno. Ma tra i falchi c’è chi apre ai dem. A Roma un summit di sei ore tra i big. Tante critiche a Di Maio: ascolti di più. Per Di Battista un ruolo di primo piano (Corriere p.6). Il tetto dei mandati decapita i vertici (si salva solo Dibba). Spinta per la deroga. Ma Fraccaro: la regola deve valere. L’eventuale strappo alla regola sarebbe votato su Rousseau, ma il sì finale spetterebbe a Grillo (Corriere p.6). L’ora del Maalox. Così i fan dei 5S fanno i conti sui social con il Grande Trauma. Tra irrealtà e livore contro Salvini (Foglio in prima).

L’ora del Maalox. Daniele Rainieri sul Foglio in prima. More

 

Intanto il Pd. Nel Pd parte la caccia al candidato premier: Gentiloni, Sala e Calenda in pole position. Anche Zingaretti in corsa. Si guarda al “modello Livorno”: una lista civica nazionale di sindaci alleata ai dem (Stampa p.6). Zingaretti non corre. L’idea Gentiloni a capo della coalizione. Il leader del Pd orientato a ritagliarsi un ruolo da regista. Primarie in forse, c’è poco tempo. Oltre all’ex premier, in corsa anche Calenda e Sala (Repubblica p.7). Renzi e Zingaretti, prove di tregua. «Sfiducia? Prima quella a Salvini». Nel partito tutti contro le alternative al voto, ma i paletti sull’iter possono allungare i tempi. «Precedenza alla mozione dem sul Viminale» (Corriere p.8). «Un traghettatore per fare la manovra. E poi andiamo subito alle urne». Pisapia: con il M5S non si governa. «Renzi è una risorsa. Il Pd unica forza del centrosinistra, basta personalismi» (Corriere p.8).

Prove di tregua. Daria Gorodisky sul Corriere a pagina 8. More

Pd 2. Renzi. Il piano di Renzi: governo di un anno con il M5S. Il fiorentino si muove a tutto campo e spera in Mattarella. Ma Zingaretti teme la trappola. L’ex premier adesso è filogrillino. L’ex segretario va all’attacco del Nazareno: fa sapere di avere con sé ancora 45 senatori su 51. Stefano Feltri sul Fatto (p.5). Zingaretti vuole le elezioni. Però Renzi pensa all’inciucio. Marcucci apre ai 5 Stelle: «Esecutivo di emergenza». E chiede di votare per prima la sfiducia a Salvini. Laura Cesaretti sul Giornale (p.2). Andrea Orlando, vicesegretario dem: “Salvini al Viminale da candidato premier è un problema. Tra di noi non serviranno le primarie. Con Di Maio nessuna alleanza possibile. Serve l’aiuto di tutti: un centrosinistra accogliente fondato sulla lotta alle diseguaglianze” (Stampa p.6).

Renzi filogrillino. Stefano Feltri sul Fatto a pagina 5. More

Forza Italia e Fdi. Salvini e la telefonata pre-crisi a Berlusconi: “Mi garantisci che Fi non farà strani patti?”. Prima della rottura con i 5S il leader leghista ha chiamato il leader di Forza Italia. E il Cavaliere prova a dettare le condizioni: “Serve un’alleanza pre-voto”. Ma i parlamentari azzurri non si fidano: “Dichiari l’intesa prima della sfiducia”. Berlusconi La nostra coalizione governa gran parte delle Regioni e dei Comuni con successo (Stampa p.7). Il pressing di FI e Meloni: alleanza prima del voto. Scriviamo un programma comune (Corriere p.5).

La telefonata al Cav. Alessandro Di Matteo sulla Stampa a pagina 7. More

Proiezioni e sondaggi. Le simulazioni YouTrend/Agi: Salvini con forzisti e Fratelli d’Italia avrebbe più di 400 deputati. Anche con Meloni la governabilità è garantita. Senza nessuno servono alleanze post-voto. La Lega da sola potrebbe non farcela. Col centrodestra maggioranza certa (Stampa p.7). La nuova Camera? Sovranisti in vetta. La proiezione: l’asse Lega-FdI a 358 seggi, con FI è record a 413. Il Movimento precipita, superato dal Pd (Corriere p.11). Quanto vale Salvini? Nei sondaggi tocca punte del 38%, ma non può governare da solo. E c’è l’effetto Conte. Sergio Rizzo su Repubblica (p.4). Alessandra Ghisleri: «Non ci sono vincitori annunciati alle urne il consenso è mutevole e le parabole veloci». L’analisi della sondaggista: non c’è disorientamento ma preoccupazione per i tanti dossier rimasti inevasi. Prevalenza leghista nei sondaggi? Va presa per quello che è, nessuno dimentichi la vicenda renziana (Messaggero p.12).

Consenso mutevole. Diodato Pirone sul Messaggero a pagina 12. More

I commenti e gli editoriali.

Fine di un’illusione. Luciano Fontana sul Corriere. Non poteva durare e non è durata, nonostante le assicurazioni continue che niente sarebbe cambiato e che i cinque anni di legislatura erano garantiti. More

Non aiuta giocare col deficit. Carlo Cottarelli sulla Stampa. Pensiamo davvero che un aumento del deficit pubblico sia il modo migliore per far crescere l’economia italiana più rapidamente nel medio periodo? Secondo me, non è questa la strada, ma è anche su questa ipotesi che si basa l’intera strategia di chi oggi ci sta portando a nuove elezioni. More

Le certezze e gli interrogativi. Stefano Folli su Repubblica. Due punti fermi: Zingaretti che che vuole il voto e Mattarella che non vuole la volontà di Mattarella di non favorire giochi dilatori. Il governo Conte dimissionario può gestire le elezioni? Può farlo con Salvini, protagonista e aspirante premier, al ministero dell’Interno? More

Che cosa ha spinto Salvini allo strappo. Roberto D’Alimonte sul Sole. È improbabile che la Lega ce la possa fare da sola. In ogni caso molto dipenderà dal suo risultato nelle regioni meridionali. Quanti collegi riuscirà a strappare in questa zona del paese ai Cinque Stelle? È il motivo per cui in questi giorni di crisi si vede Salvini in giro a far comizi nei lidi balneari del Sud.

Salvini si sfida con i voti, non con i veti. Claudio Cerasa sul Foglio. Un governo Salvini fa paura, ma uno anti Salvini fa ancora più paura. Ragioni e spunti per tifare per le elezioni presto.

La parabola dei leader e i giochi aperti. Luca Ricolfi sul Messaggero. Se una cosa ci ha insegnato la presente Legislatura, è che i partiti possono benissimo presentarsi alleati e poi dividersi, oppure presentarsi da acerrimi nemici e poi allearsi per formare un Governo. Insomma, i giochi sembrano chiusi, ma non lo sono. In tre mesi possono cambiare tante cose.

Salvini prepara l’assalto all’euro e a Bruxelles “Uscita concordata”. Claudio Tito su Repubblica. In campagna elettorale la Lega riproporrà l’addio alla moneta unica e la volontà di non sottostare agli accordi con la Commissione In alleanza con Visegrad

Salvini, basta errori. Alessandro Sallusti sul Giornale.

Chi ha paura di andare al voto? Pietro Senaldi su Libero. M5S, Pd, Conte cercano scuse perché il Colle rinvii le elezioni. Il leghista sente puzza di bruciato. Confidano tutti in Mattarella, che secondo Costituzione, prima di indire le elezioni è costretto a verificare se in Parlamento si può costituire una maggioranza alternativa a quella sfiduciata.

Tutti i pericoli della guerra lampo. Augusto Minzolini sul Giornale. Col segretario Pd un patto segreto come quello Molotov-Ribbentrop. Ma la «blitzkrieg» va chiusa in fretta. L’azzurro Rotondi: «Se Conte si proponesse nel modo giusto potrei anche votargli la fiducia».

W l’esercizio provvisorio. Foglio in prima. Votare presto e fare una Finanziaria con il pilota automatico è il minore dei mali possibili, “ed è anche bellissimo.

Un bubbone scoppiato. Elsa Fornero sul Foglio. Il governo ha accelerato il declino economico dell’Italia e le conseguenze del populismo peseranno per anni.

I rischi dello sfondare. Pier Carlo Padoan sul Foglio. Le elezioni preoccupano i mercati a causa dell’ostilità mostrata da Salvini nei confronti del modello soft di Tria.

Commissario. Commissario Ue: Tante le ipotesi. L’Italia ha tempo fino al 26 Resta in pole Garavaglia, oppure Centinaio. Il premier non si metterà di traverso sui nomi già fatti alla Von der Leyen, per non inasprire il clima già acceso. Improbabile che si viri su donne tecniche come Letizia Moratti o Fabiola Gianotti. Giorgetti solo come carta d’emergenza (Stampa p.2). Commissario Ue, lo indicherà il premier. E adesso in corsa restano solo i tecnici. In pole Moavero e Tria (Messaggero p.3).More

Mercati. Mercati, spread a 240 e 15 miliardi in fumo. Fitch: l’incertezza costa. L’agenzia conferma il rating BBB, ma anche le previsioni negative su Pil e conti pubblici. Gli analisti: sfidare l’Ue è pericoloso. Banche e Poste le più penalizzate del crollo dei prezzi dei Btp (Repubblica p.10). More

Iva. Il presidente dell’Abi Patuelli: “L’esercizio provvisorio è un segnale negativo per i mercati internazionali. Gli istituti di credito hanno superato un periodo complicato, ora i rischi possono arrivare da una nuova recessione. Aumenta l’incertezza politica Così è inevitabile l’aumento dell’Iva” (Stampa p.9). Iva, una bomba da 23 miliardi sulla manovra. Sarà molto difficile disinnescare le clausole di salvaguardia. E ne vanno trovati altri 20 per flat tax, cuneo fiscale e spesi indifferibili (Repubblica p.12). Nord Est, allarme imprese. «Così fabbriche più a rischio». Gli industriali: «Si eviti l’incremento dell’Iva. Ricucire con l’Ue» (Corriere p.10). L’aumento dell’Iva costa 541 euro in più a famiglia Fisco. Con l’incremento di aliquota ordinaria e ridotta più colpiti Nord-Est e Lombardia. Effetto pesante sul budget dei nuclei familiari con due figli (Sole p.4).

Migranti. Richard Gere sale a bordo dell’Open Arms. “Io coi migranti” (Stampa p.17). Richard Gere in mare con l’Ong: «A questi migranti serve un approdo». L’attore Usa sulla nave al largo di Lampedusa Corriere p.15). “Aiutiamo i nostri fratelli”. L’attore offre scorte di cibo. “Ora devono avere un porto”. Salvini lo attacca: “Un radical chic, spero si abbronzi” (Repubblica p.20).

Ani, capo di Open Arms: “Se salvare è un reato io sono una trafficante”. Preferisco invecchiare con la chiara coscienza di aver fatto la cosa giusta. Non importa cosa può accadermi se loro sono in salvo (Repubblica p.20).

Salvini bocciato. Residenza ai profughi bocciato il Viminale. (Repubblica p.21). More

Razzismo. Pietro, cacciato dal lido solo perché nero: “Tira un vento razzista”. Parla il 18enne italiano escluso dallo stabilimento di Chioggia poi chiuso. More

Diabolik. No ai funerali pubblici. Il questore: sicurezza a rischio. Il delitto dell’ultrà della Lazio. La famiglia protesta: faremo ricorso al Tar. In arrivo nella Capitale anche tifoserie rivali. More

L’conomia arranca… Azienda Italia, la grande frenata. Cresce poco e si ferma l’export. Rapporto Mediobanca sulle principali società industriali e dei servizi. Nel 2018 bruciata la metà dell’aumento del fatturato dell’anno precedente.More

…anche in Germania. Il gelo dell’export frena la Germania. (Corriere p.40).

E a Londra… Effetto Brexit. Londra verso la recessione. Per la prima volta da 7 anni, l’economia britannica si restringe. Nel trimestre aprile-giugno il Pil è sceso dello 0,2 per cento, portando il Regno Unito sull’orlo della recessione (definita da due trimestri negativi di seguito). La Gran Bretagna si avvicina dunque all’uscita dalla Ue, prevista per il 31 ottobre prossimo salvo rinvii, confermando i timori espressi dalla stessa Banca d’Inghilterra che la Brexit provocherà una crisi economica (Repubblica p.34).

Giappone. Giappone, il Pil cresce più del previsto e in ottobre scatta l’aumento dell’Iva (Sole p.13).

Petrolio. L’Agenzia internazionale dell’energia taglia le stime. A settembre il Wti era a 74 dollari al barile, ieri a 54,5. “Il prezzo del petrolio calerà ancora”. E gli Usa crescono a spese dell’Opec

(Stampa p.18).

Web. Facebook apre a giornali e tv: “Pagheremo i vostri contenuti”. Il social network cerca l’intesa con alcuni media americani (Stampa p.18). Il potere sottile (e pericoloso) dei colossi del web. Il commento di Daniele Manca sul Corriere (p.32).

Autostrade, tramonta la revoca “impossibile”. L’iter per ritirare la concessione mai partito. E la crisi di governo lo affossa. Una forzatura sarebbe costata allo Stato 25 miliardi di indennizzo (Messaggero p.14).

Boom di case all’asta. Ma i prezzi dimezzati colpiscono i debitori. Le nuove regole aiutano le banche e tagliano i tempi di esecuzione. Anna Greco su Repubblica (p.35).

Uber. Sharing economy. Uber crolla a Wall Street dubbi su conti e futuro (Repubblica p.35).

Hong Kong, Pechino all’attacco: “Gli Usa fomentano i disordini”. L’ambasciatore in Italia contro Washington: “Così soffia sul fuoco delle proteste” (Repubblica p.32). La protesta dei giovani arriva in aeroporto. “Appello ai turisti” (Stampa p.17). «Gli Usa dietro il caos a Hong Kong». Funzionari americani muovono i fili. La replica: estranei, regime criminale (Corriere p.12).

Trump contro gli 007. Non c’è pace per i vertici dei servizi Usa. Dopo Coats, il presidente silura anche la sua vice Gordon, per 25 anni alla Cia. Ma ora l’ex numero due dell’Fbi fa causa (Repubblica p.15).

Il superdrone di Putin, un “Cacciatore” dei cieli per i vent’anni al potere. Mosca presenta il nuovo velivolo da combattimento: va a 1000 km all’ora. Un armamento che può rimettere in discussione gli equilibri militari. L’S-70, secondo i produttori, ha un’autonomia di 5 mila chilometri (Repubblica p.16).

Amazon. Fornitori di Amazon nei guai: sfruttano gli studenti. Inchiesta del Guardian sulla cinese Foxconn: ragazzi al lavoro di notte per 10 ore e pochi yuan (Corriere p.12).

Francia. Emergenza sanità pubblica. Tagli e pochi medici in corsia. Bloccati oltre 200 pronto soccorso. Scioperi a catena: non ci sono abbastanza camici bianchi. Pazienti abbandonati sulle barelle (Stampa p.10).

Indagato. Americano bendato in caserma indagato il carabiniere della foto. C’è un nuovo carabiniere indagato per rivelazione del segreto d’ufficio nella vicenda della fotografia del ragazzo bendato. More

I Prefetti del mare. Un Corpo nobile, votato a salvare vite e a governare i porti. Cosa resta della Guardia costiera ai tempi di Salvini, “Capitano”, mai ammiraglio

Foglio p. IV

Borsa. La borsa s’è svuotata. Sono sempre di più i piccoli risparmiatori e gli imprenditori che si tengono lontani da Piazza Affari. Per investire i soldi ci vuole fiducia. E allora meglio il materasso, i gioielli o i titoli di stato tedeschi. Stefano Cingolani sul Foglio (p.I).

Il citazionista. Non c’è post senza Oscar Wilde. Ecco l’homo sapiens nell’epoca dei social. Poco importa chi ha scritto l’aforisma che l’avventore di internet riporta nella sua bacheca tra un tramonto e un drink. E’ stato Shakespeare o forse Freud, Carlo Marx o Tiziano Terzani? Foglio p. VI

 

Buongiorno a tutti. È crisi. La Lega rompe gli indugi ed evoca le elezioni anticipate. «Andiamo subito in Parlamento per prendere atto che non c’è più una maggioranza – dice Salvini – come evidente dal voto sulla Tav, e restituiamo velocemente la parola agli elettori». È l’apertura di tutti i quotidiani. L’altra notizia in prima – su tutti – è che Mattarella firma il Decreto sicurezza, ma scrive alle Camere che va modificato. Buona lettura a tutti.

Il Timing. Tutte le variabili della corsa al voto. Fra le scadenze a rischio l’indicazione del candidato italiano a Bruxelles. Emilia Patta sul Sole a pagina 3. I tempi, naturalmente, sono strettissimi. Almeno nelle intenzioni di Matteo Salvini. Le date già segnate per il voto sul calendario in casa leghista, se le Camere dovessero essere sciolte dal Presidente della Repubblica entro il 20 agosto, sono il 13 e (più probabilmente) il 20 ottobre. Ma c’è un ma, come sottolineano al Quirinale: la decisione di parlamentarizzare la crisi con il voto di sfiducia in Senato allunga un po’i tempi: bisogna convocare prima la conferenza dei capigruppo, poi calendarizzarla in Aula, poi richiamare deputati e senatori, poi discuterla e votarla. Insomma, difficile che si riesca a fare tutto questo entro il 20 agosto. Quindi, sempre in mancanza di una maggioranza alternativa, il voto a questo punto si sposta a novembre: le date utili sono il 10 o 17 novembre. Inedito assoluto, in piena sessione di bilancio. In mezzo, almeno due appuntamenti importanti per il governo Conte dimissionario, o per un governo di transizione verso le elezioni nel caso in cui la crisi prendesse questa strada: il 26 agosto deve essere presentato il nome del commississario italiano che entrerà nella squadra europea della presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il 27 settembre il governo deve presentare la Nota di aggiornamento al Def che prelude alla manovra economica. In questo calendario di scadenze ce n’è poi una che il leader pentastellato Luigi Di Maio ha già cerchiato in rosso, pronto a impugnare l’argomento in campagna elettorale contro Salvini: il 9 settembre è calendarizzata per l’ultimo e definitivo sì alla Camera la riforma che taglia di oltre un terzo il numero dei parlamentari, voto che naturalmente salterà dopo lo scioglimento delle Camere. Ed è già partita l’accusa: «Mi auguro che nessuno si tiri indietro dal taglio del numero dei parlamentari». L’accusa è dunque già quella di aver provocato la crisi per evitare il taglio. In realtà a Salvini della riforma in sé importa poco, ma è vero che la scadenza del 9 settembre ha avuto un ruolo importante nell’accelerazione della crisi: se fosse passata, Salvini si sarebbe ritrovato in un certo senso imbottigliato, nell’impossibilità di fatto di tornare al voto, fino alla primavera prossima inoltrata. In caso di sì definitivo alla riforma, infatti, bisognerebbe attendere i tre mesi previsti dalla Costituzione per dare il tempo agli aventi diritto, ossia 550mila elettori o 5 consigli regionali o un quinto dei parlamentari di una Camera, di attivare la procedura e raccogliere le firme. Anche se nessuno chiedesse il referendum si dovrebbero comunque aspettare da uno a due mesi per il ridisegno dei collegi. I tempi si allungherebbero poi di altri due mesi in caso di referendum, e un quinto di peones in Senato certi di non essere rieletti era già pronto a firmare la richiesta di referendum annunciata da Marco Taradash di Più Europa nei giorni scorsi. Niente urne almeno a fino a giugno 2020, dunque. Perché difficilmente il Presidente della Repubblica avrebbe sciolto le Camere con una procedura di conferma di una riforma così importante in corso. Fatto due più due, Salvini ha deciso di far saltare il banco per non fare la fine dell’altro Matteo, Renzi, che nella scorsa legislatura rimase imbottigliato a sua volta per via della bocciatura della legge elettorale da parte della Consulta e della conseguente necessità di intervenire sulla delicata materia in Parlamento. Emilia Patta sul Sole a pagina 3.

I timori di Mattarella per un voto in piena sessione di bilancio. More

L’annuncio della crisi. Salvini: basta così. Il leader leghista: “Subito le elezioni”. Conte: non decide lui. Di Maio: per i sondaggi ha distrutto il governo. E sonda il Pd Zingaretti: la sfida sarà alle urne, Renzi ci aiuti a vincere. “Niente governi balneari” dice il leader del Carroccio che cerca di convincere il premier a dimettersi, poi accetta il passaggio alle Camere. Ma è scontro sulla data del dibattito. More

Stavolta è finita per davvero. Ugo Magri sulla Stampa a pagina 4. More

Quattordici mesi posson bastare. Carmelo Lopapa su Repubblica a pagina 2.More

Il Bis-Conte dimezzato. Salvini chiama la crisi, Conte la ritarda, Tria si prepara alla transizione. Valerio Valentini sul Foglio in prima. More

Salvini apre la crisi. Salvini e la Lega. Salvini sgancia la bomba atomica: unica strada è il voto, vado da solo. Il leader della Lega ha deciso quasi senza consultarsi con nessuno, solo Giorgetti era stato informato in vacanza. More

Dal Colle. Mattarella e le consultazioni lampo per elezioni a fine ottobre. La preoccupazione del Quirinale è che non ci sarà tempo per fare la manovra e mettere in sicurezza i conti. Tra le ipotesi anche un esecutivo di «garanzia elettorale». Servirebbe a gestire le operazioni di voto. Marzio Breda sul Corriere a pagina 3.More

Conte allo scontro finale. “Deve sfiduciarmi in Aula e la Lega si sopravvaluta” Repubblica a pagina 3. Il compleanno amaro di Conte «Non sia svilita la nostra passione» Il colloquio teso con ilministro dell’Interno che lo invita a dimettersi. «Si assuma la responsabilità». Corriere pagina 8. “Lo scontro con Salvini farà emergere le qualità di Conte”. Intervista a Piero Ignazi. Per il politologo, la prospettiva della crisi alle Camere è la meno gradita al leader leghista: “Il premier è più duro di Di Maio”. Fatto a pagina 5More

Cinquestelle e Di Maio. “Staneremo Matteo sul taglio delle poltrone”. Di Maio all’angolo prova l’ultimo contrattacco. La giornata più difficile del leader 5S: “La Lega ci ha preso in giro”. E Di Battista attacca: spettacolo da vomito. Stampa a pagina 6. Il M5S nei guai ha una tentazione: alleanza con il Pd per le riforme. Sondaggi a picco e big non ricandidabili: c’è chi pensa di evitare il voto. L’idea di un esecutivo di scopo guidato da Fico per il taglio dei parlamentari, contatti informali con i dem. Ma Di Maio è già in campagna e chiama Di Battista per ricucire. Matteo Pucciarelli su Repubblica a pagina 6. Di Maio e lo smarrimento grillino: Matteo ha accoltellato il Paese. Il leader e tutti i vertici dei 5 Stelle «condannati» dalsecondomandato Il «vomito» diDibba per Salvini. Corriere pagina 6. More

Pd, il rebus alleanze. Zingaretti a Renzi: «Ci aiuti a vincere» Berlusconi «soddisfatto» dello strappo della Lega FI espellerà chisegue Toti. E lui: non ci fermiamo Corriere a pagina 9. Zingaretti: “Ora c’è solo il voto” Ma Renzi evoca la scissione Il leader: “La sfida è Pd-Lega”. L’ex premier: alla Leopolda tiro le somme. Repubblica a pagina 10.

Pd in cerca di leader. Renzi resta in attesa ma pensa alla scissione. La convinzione dei dem: «Ombre russe dietro l’accelerazione di Salvini». Democratici in ordine sparso. Laura Cesaretti sul Giornale a pagina 7. More

Il Pd verso le elezioni rischia la scissione. Renzi ora è all’angolo e potrebbe rompere.

Ormai i partiti sono due: Zingaretti si dice «pronto alla sfida», ma l’ex premier resta spiazzato. Le liste ora non le farà il Bullo. Luca Telese sulla Verità a pagina 4. More

Gori “I dem possono farcela con noi sindaci in prima linea”. Su temi come l’immigrazione e la sicurezza nelle città servono posizioni chiare, che il Pd non ha. Servono proposte concrete e serie

Giovanna Casadio intervista Giorgio Gori su Repubblica a pagina 11. More

“Non appoggeremo governi tecnici o altro”: il segretario nega la disponibilità dei dem a qualunque altro esecutivo Zingaretti: “Siamo pronti alla sfida” E Renzi congela l’uscita dal partito. Stampa a pagina 7. More

Forza Italia. Ecco il diktat di Berlusconi “Chi è con Toti sarà espulso”. Stampa a pagina 7. More

Fratelli d’Italia. FdI, Meloni accelera sul patto sovranista L’appello a Toti. La leader della destra già al lavoro sul programma comune con il carroccio su tasse e sicurezza. Messaggero a pagina 4. «Il voto subito darà al Paese un governo forte per cinque anni». Corriere a pagina 10.More

Effetti economici. Lo spettro dell’esercizio provvisorio riaccende spread e interessi sui Btp. Oggi il giudizio dell’agenzia di rating Fitch. Preoccupa il rispetto degli obiettivi europei. More

Il voto è possibile grazie ai vincoli esterni. I mercati sono calmi solo perché i populisti hanno tradito le promesse. Il Foglio. More

Lazar: “L’Europa non sottovaluti, il rischio è un governo sovranista. L’Italia dimostra che un partito populista può aumentare i consensi anche stando nell’esecutivo e non solo all’opposizione”. Paolo Griseri su Repubblica intervista Marc Lazar a pagina 6. More

La via inevitabile e il tempo perduto. Massimo Franco sul Corriere. More

Il gioco del cerino. Claudio Tito su Repubblica. More

Un anno vissuto litigiosamente. Sergio Rizzo su Repubblica. More

Il capitano alla prova più difficile. Giovanni Orsina sulla Stampa. More

La Lega: è finita. Mattarella fai presto. Alessandro Sallusti sul Giornale. More

Verso splendide elezioni. Claudio Cerasa sul Foglio. More

Rai non informa. Luciano Capone sul Foglio. More

La crisi arriva dall’America. Giovanni Castellaneta sul Foglio. More

Senza un perchè. Marco Travaglio sul Fatto. More

Non consegnate il Paese alle destre nere. Norma Rangeri sul Manifesto. More

Dai palazzi alla spiaggia. Vittorio Macioce sul Giornale. More

Governo sul sentiero per il cimitero. Pietro Senaldi su Libero. More

Ecco le grane che minacciano Matteo Salvini. Luigi Bisignani su Libero. More

Matteo non è scemo è solo prudente. Vittorio Feltri su Libero. More

San Lorenzo, ti preghiamo, fai cadere almeno Cinque stelle. Renato Farina su Libero. More

Da Grillini a tonni. Così Di Maio e i suoi sono finiti in trappola. Maurizio Belpietro sulla Verità. More

 

 

 

8 decreto sicurezza

Sicurezza, i rilievi del Colle: i naufraghi vanno salvati. I dubbi sulla gradazione delle ammende per le ong. Sul Corriere a pagina 5. Mattarella: “Salvare vite è un dovere modificate il decreto sicurezza”. Il Capo dello Stato firma ma scrive alle Camere: rilievi anche sulla sanzione da un milione per le navi Ong. Critiche per le norme rese più pesanti in Parlamento. La scelta di non andare allo scontro con il governo. Concetto Vecchio su Repubblica a pagina 13.

Vescovi contro Salvini: «Sì all’accoglienza» Decreto sicurezza bis, la Chiesa toscana dalla parte di Giulietti. No comment di Betori. Sul Quotidiano Nazionale a pagina 15

IL VESCOVO camminatore continua il pellegrinaggio alla testa di settanta ragazzi della diocesi. Oggi arriveranno alla meta, Argegna, in alta Garfagnana, il gruppo si scioglierà e lui forse replicherà al ministro Salvini che lo ha definito “testimonial del Pd”. Paolo Giulietti, dal 12 maggio arcivescovo di Lucca, non esitò a mostrarsi sui social con il cartello “La disumanità non può diventare legge”, dopo il sì parlamentare al decreto sicurezza bis. Scatenando le ire della Lega toscana, poi del leader nazionale. Non ha mezze misure, Giulietti, vescovo cinquantacinquenne vigoroso che si presenta in calzoni corti e cappellino. A Salvini si è limitato a dire che il cartello non è del Pd ma di Libera.

vecchio

L’obbligo morale dei naviganti di salvare i naufraghi rimane anche con il decreto sicurezza bis. È quanto emerge dai rilievi che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha formulato nella lettera con cui ha accompagnato ieri la promulgazione della legge anti-ong voluta dal vicepremier Matteo Salvini. Il Quirinale fa infatti riferimento alla convenzione di Montego Bay che prescrive «che ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio e i passeggeri, presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo». Nelle tre pagine inviate al premier Conte, e ai presidenti delle Camere Casellati e Fico, Mattarella segnala due «rilevanti perplessità» e chiede una parziale riscrittura della normativa. Un colpo di piccone a una norma che da più parti è stata ritenuta incostituzionale. Vediamo. La prima osservazione riguarda l’ammenda amministrativa fino a 1 milione di euro, che colpisce i comandanti delle navi. Una pena draconiana. Mattarella fa notare che, per effetto di un emendamento che ha modificato il decreto legge originario da lui firmato a giugno, la sanzione pecuniaria è stata aumentata di 15 volte nel minimo e di 20 nel massimo. Inoltre la multa non risulta più subordinata alla reiterazione della condotta. Infine il decreto non ha introdotto alcun criterio che distingua tra tipologia delle navi: così anche una persona in barca a vela che entra in porto dopo avere salvato un solo naufrago rischia una multa da un milione. Citando una sentenza della Consulta — la 112 del 2019 — il Quirinale ricorda «la necessaria proporzionalità tra sanzioni e comportamenti». Soprattutto, il decreto sicurezza bis non cancella affatto l’obbligo di salvare le vite umane. La seconda osservazione si riferisce alla parte del decreto sulle manifestazioni e l’ordine pubblico. Nello specifico viene criticato l’articolo 16 che disciplina l’oltraggio al pubblico ufficiale per un lungo elenco di figure, impedendo in questo modo al giudice di accertare la lieve entità che porta al non luogo a procedere, anche per fatti di minima importanza, come mandare a quel paese un postino per una raccomandata non consegnata immediatamente. In altre parole: il decreto non specifica una gradazione dell’ammenda. Si fa notare l’incongruenza di non avere compreso i magistrati tra i soggetti destinatari dell’oltraggio. Scrive Mattarella: «Non posso omettere di rilevare che questa norma — assente nel decreto legge del governo — non riguarda soltanto gli appartenenti alle forze dell’ordine, ma include i vigili urbani e gli addetti alla viabilità, i dipendenti dell’Agenzia delle entrate, gli impiegati degli uffici provinciali del lavoro addetti alle graduatorie del collocamento obbligatorio, gli ufficiali giudiziari, i controllori dei biglietti di Trenitalia, i controllori dei mezzi pubblici comunali, i titolari di delegazione dell’Aci allo sportello telematico, i direttori di ufficio postale, gli insegnanti delle scuole, le guardie ecologiche regionali, i dirigenti di uffici tecnici comunali, i parlamentari. Questa scelta impedisce al giudice di valutare la concreta offensività delle condotte poste in essere, il che solleva dubbi sulla sua conformità al nostro ordinamento e sulla sua ragionevolezza nel perseguire in termini così rigorosi condotte di scarsa rilevanza». Il Parlamento ora non ha alcun obbligo di seguire i consigli del Capo dello Stato. Mattarella ha comunque fatto valere le sue prerogative, ritenendo tuttavia non congruo il rinvio alle Camere, che, in questo particolare momento, sarebbe stato preso probabilmente a pretesto dalla Lega per aprire la crisi.

Il costituzionalista De Siervo: “Testo sgangherato ma ha fatto bene a promulgarlo”. Se lo avesse respinto, le Camere lo avrebbero riapprovato: il Presidente sarebbe stato costretto a firmarlo. Non credo che questo Parlamento accoglierà i rilievi. Resta però sempre la possibilità di ricorrere alla Consulta. Liana Milella su Repubblica a pagina 13 intervista Ugo De Siervo.

De siervo

«Se il Parlamento fosse saggio dovrebbe cambiare subito il testo, ma dubito che lo farà”. È questo il commento dell’ex presidente della Corte costituzionale Ugo De Siervo. Mattarella firma il decreto sicurezza bis, ma ne boccia i due articoli vantati da Salvini come risolutori. Che ne pensa? «È un messaggio come al solito garbato nella forma, ma particolarmente duro nella sostanza». Mattarella avrebbe potuto bocciare il decreto? «Il presidente non può bocciare definitivamente un testo legislativo, ma solo chiedere al Parlamento di modificarlo per alcuni motivi che evidenzia. Ma se le Camere lo riapprovano, il presidente deve promulgarlo. Forse questa consapevolezza lo ha indotto a scegliere una via solo in apparenza meno efficace, ma che meglio fa notare alcuni difetti molto gravi del testo. Testo sempre impugnabile dinanzi alla Corte oltre che modificabile dal Parlamento, ove lo voglia». Scusi se insisto, ma se non l’avesse firmato proprio? «La maggioranza che lo ha adottato avrebbe potuto essere indotta abbastanza facilmente a confermare la propria volontà sulla base della difesa della complessiva autonomia parlamentare, mettendo così in grave difficoltà il presidente davanti all’opinione pubblica. Coi due rilievi analiticamente sviluppati invece egli pone in evidenza degli oggetti precisi alla stessa opinione pubblica e agli organi giurisdizionali». Ci sono gravi svarioni legislativi? «Il primo rilievo riguarda l’assurdità delle sanzioni previste, enormemente larghe, mentre vi sono una serie di accordi internazionali che impongono il salvataggio dei naufraghi. Per di più, come nota il presidente, il legislatore non ha affatto considerato la diversità dei possibili comportamenti. Si pensi alla diversità tra una nave che si impegni sempre nel salvataggio e altri natanti che episodicamente o casualmente operino per salvare vite umane. Anche entrando in una logica repressiva occorre distinguere situazioni molto diverse tra loro». Il presidente richiama la Consulta sulla proporzionalità tra sanzioni e comportamenti. Ma il decreto non è squilibrato con pene altissime? «Certamente il secondo rilievo riguarda l’estrema genericità della previsione di sanzionare anche comportamenti molto tenui nei riguardi di forme di resistenza o minaccia a una serie indefinita di pubblici ufficiali: non aver distinto con precisione a chi ci si riferisce porta al paradosso che ogni comportamento anche tenue di resistenza possa riguardare non solo i poliziotti, ma vigili urbani, i più diversi dipendenti pubblici, perfino gli insegnanti. Si tratta davvero di una norma a dir poco generica. E tutto ciò urta con i criteri di ragionevolezza e con la stessa giurisprudenza della Corte. I rilievi appaiono pesantissime critiche a queste due sgangherati cambiamenti introdotti nel dibattito parlamentare». Con la crisi in atto che accadrà? «Il Parlamento è sempre sovrano, se deputati e senatori avessero la lucidità di considerare la pesantezza dei rilievi presidenziali dovrebbero intervenire subito. Prima che lo debba fare qualche giudice rinviando queste e altre questioni alla Corte. Purtroppo ho dubbi sull’attuale lucidità di molti dei nostri parlamentari».

 

Foglio

Il senso di Mattarella per lo stato. Il richiamo sul decreto sicurezza è un messaggio doppio per il Truce.

Sul Foglio a pagina 3

Il presidente della Repubblica ha promulgato il secondo decreto sulla sicurezza, ma ha chiesto al governo e al Parlamento di correggere alcune norme che giudica “irragionevoli”. Si tratta della dimensione esorbitante delle sanzioni previste per chi vìola le acque territoriali e dell’abolizione delle attenuanti per l’ag – gressione a una serie di pubblici funzionari, lista dalla quale sono stati esclusi, forse non per mera dimenticanza, i magistrati. Qualcuno considererà eccessiva la prudenza del Quirinale, ma bisogna tener conto che una volta messe in luce le incongruenze si apre la strada per una serie di contestazioni in sede di giudizio destinate a sfociare in un intervento della Corte costituzionale. Questa prospettiva, assolutamente realistica, rimette il decreto al suo posto, quello di una grida manzoniana, di una operazione propagandistica destinata a finire nel nulla. D’altra parte è ragionevole che il Quirinale, cui non sfugge la delicatezza della situazione politica che sta rotolando verso una crisi dalla difficile soluzione, non voglia nemmeno apparire come corresponsabile del logoramento del quadro politico, anche per non esporsi poi a critiche retrospettive e infondate per le decisioni che dovrà assumere sulla sorte della legislatura. Matteo Salvini non può strillare contro i “poteri forti” che gli legano le mani, e il decreto vuoto farà la fine che si merita. Peraltro il fatto di aver prospettato i dubbi sulla ragionevolezza del decreto ai presidenti delle Camere è un passo più forte della semplice lettera di accompagnamento alla promulgazione, è un atto istituzionale che investe le Camere e ha quasi il significato di un messaggio presidenziale, che non sarà possibile ignorare. Anche la misura e il rispetto istituzionale esercitati in modo tanto rigoroso e persino scrupoloso da Mattarella suonano obiettivamente come un’implicita condanna del modo raffazzonato e muscolare con cui il ministro dell’Interno agisce anche in settori assai delicati. Come diceva un’antica pubblicità “è il confronto che convince”.

La vittoria dell’umanità

Luigi Manconi su Repubblica a pagina 34

manconi

P ossiamo leggerla come una stridente coincidenza simbolica e trovarvi motivo di riflessione e di inquietudine; oppure, come un messaggio aggressivo e sottilmente sedizioso inviato dal ministro dell’Interno al fine di sancire gli attuali rapporti di forza e scoraggiare quanti ritengono che un’opposizione sia possibile. Accade così che mentre nella lettera di accompagnamento alla legge di conversione del decreto sicurezza bis, il capo dello Stato esprime esplicite preoccupazioni e una critica puntuale a proposito di alcuni passaggi del provvedimento, da otto giorni una nave della Ong Open Arms non riceve alcuna risposta alla richiesta di sbarco in un porto sicuro delle nostre coste. A bordo, oltre un centinaio di naufraghi, dei quali trenta minori, in gran parte non accompagnati. Forse pensava a loro il presidente della Repubblica, quando ha scritto, in quella stessa lettera, che “resta l’obbligo di soccorso in mare”. Ecco, nonostante il richiamo solenne di Mattarella, e nonostante l’orientamento di una parte crescente dell’opinione pubblica e l’impegno delle chiese, da quelle evangeliche a quella cattolica,l’obbligo di soccorso in mare non sembra proprio appartenere alle politiche e alla visione del mondo dell’attuale governo. Del governo tutto, si deve dire, perché al vociare canagliesco degli esponenti della Lega si accompagna la pavidità obliqua di quelli del Movimento Cinque Stelle. Ma perché si è arrivati, con quest’ultimo decreto, a un’ulteriore forzatura dell’ordinamento e a tali lesioni, attuali e potenziali, allo Stato di diritto? È accaduto che il precedente decreto ha tradotto in legge solo parzialmente gli indirizzi relativi al progetto di controllo-repressione dei flussi migratori e degli sbarchi e a quello di governo “poliziesco” del territorio e dell’ordine pubblico. I sindaci, la magistratura e infine la Corte costituzionale sono già intervenuti limitando le velleità di accentramento del comando e del potere e scongiurando un’alterazione ancora più insidiosa degli equilibri istituzionali, garanzia primaria del buon funzionamento dello stato di diritto. Nei primi decenni di questo Dopoguerra le opposizioni definivano, spesso a ragione, “ministro di polizia” il titolare del dicastero dell’Interno, ma quelle violazioni delle prerogative e delle regole erano legate a particolari congiunture sociali e a temporanei stati di emergenza. Oggi quello che possiamo chiamare il governo del Viminale si affida, oltre che all’incontinenza rabbiosa di un leader afflitto dallo “stile paranoico del potere”, alle modifiche normative introdotte a viva forza (è il caso di dire) nel sistema di pesi e contrappesi dell’ordinamento democratico. Con il decreto sicurezza bis, non solo si è attribuito al ministro dell’Interno il potere di “limitare o vietare l’ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale”, ma si è anche prevista l’applicabilità di rilevanti sanzioni pecuniarie nei confronti degli operatori che accompagnino i migranti, soccorsi in mare, nei pressi delle nostre coste, nonché nei confronti del comandante, armatore e proprietario della nave che violino il divieto di ingresso transito o sosta in acque territoriali italiane. Si tratta, in estrema sintesi, di presidi sanzionatori volti a rafforzare l’effettività dei provvedimenti di chiusura dei porti la cui competenza è ora attribuita al ministro dell’Interno. C’è un passaggio molto significativo nella lettera del capo dello Stato, laddove si evidenzia che la sanzione amministrativa è stata aumentata di 15 volte nel minimo e di 20 nel massimo, fino a un milione di euro per il comandante della nave che trasporta migranti. Cosicché quella che è prevista come sanzione amministrativa è paragonabile a una sanzione penale. Se ci pensate quella multa di un “milione” (in euro), oltre a esprimere una cattiveria un po’ sordida, tanto più se accostata al milione (in lire) del fortunato Signor Bonaventura, richiama il primitivo gioco maschile di chi la spara più grossa (in un bar, in uno spogliatoio, in un privé), in un clima dove la competizione non ha più alcunché di politico, ma si propone come colluttazione, agonismo da lotta nel fango e rito barbarico. In questo scenario, è pensabile che il governo del Viminale ascolti il richiamo di Sergio Mattarella all’obbligo di “soccorso in mare”? Temo che le residue speranze dei 121 naufraghi dell’Open Arms che, da una settimana, attendono “soccorso” – dall’Italia, dall’Europa, dagli uomini e dalle donne di buona volontà – siano destinate a rimanere deluse. Le conseguenze per loro sarebbero particolarmente dolorose, ma a pagare il costo di una tale ignominia saremo noi tutti. Il peccato dell’indifferenza, ha scritto Liliana Segre, è imperdonabile.

I saggi richiami del Capo dello Stato

SENZA RAGIONE E SENZA MISURA

DANILO PAOLINI

Avvenire

In un tempo e in un Paese in cui non si fa altro che parlare di “sicurezza”, la sicurezza delle norme che reggono la civile convivenza rischia, per amaro ma forse inevitabile paradosso, di essere ignorata. Altrimenti il presidente della Repubblica non sarebbe stato costretto – per altro in una giornata istituzionale particolarmente concitata, con il Governo sull’orlo della crisi (anzi, oltre) – ad accompagnare la promulgazione della legge di conversione del cosiddetto Decreto Sicurezza bis con una lettera ai presidenti delle Camere e del Consiglio in cui segnala due profili di quel testo «che suscitano rilevanti perplessità». Un messaggio, quello di Sergio Mattarella, che illumina con il rigore del giurista ma anche con la forza della logica, le sproporzioni (o le enormità?) contenute nel provvedimento. In origine un decreto legge, strumento teoricamente ammesso solo nei casi di «necessità e urgenza», a ben vedere pensato dal ministro dell’Interno contro le Ong e poi inasprito sull’onda emotiva dell’irritazione nei confronti, in particolare, di una persona: Carola Rackete, la comandante della nave “Sea Watch 3” che ha osato ribellarsi al divieto di entrare nel porto di Lampedusa con il suo carico di disperati raccolti in mezzo al mare. Così, il capo dello Stato non ha potuto fare a meno di osservare che, «per effetto di un emendamento» inserito durante l’iter parlamentare, le sanzioni per violazione del divieto d’ingresso nelle acque territoriali sono aumentate esponenzialmente, fino a raggiungere, nel massimo, il milione di euro. Una previsione «non ragionevole», non solo perché lasciata nell’ambito dell’atto amministrativo, ma perché l’obbligo per le navi di prestare soccorso ai naufraghi resta vigente, in quanto previsto dagli accordi internazionali. Quello del Quirinale, tra l’altro, è anche un richiamo alla linearità dell’operato del Parlamento, che ha modificato e aggiunto contenuti «non sempre in modo del tutto omogeneo» rispetto al testo originario. È il caso, oltre che delle sanzioni pecuniarie, della confisca delle navi, in un primo momento prevista solo in caso di “recidiva” e ora applicabile già alla prima violazione. Non meno importante il secondo rilievo del presidente della Repubblica, dal quale emerge con chiarezza ancora maggiore quanto l’irruenza, la parzialità e la smania poliziesca non si addicano al buon legislatore. Come si spiegherebbe, altrimenti, la norma che abolisce «la particolare tenuità del fatto» per resistenza, violenza, minaccia e oltraggio a pubblico ufficiale, la quale, così come è concepita, finisce per mettere sullo stesso piano chi aggredisce un agente di polizia e chi manda a quel paese il direttore di un ufficio postale? «Questa scelta legislativa – osserva Mattarella – impedisce al giudice di valutare la concreta offensività delle condotte poste in essere». Se tutto è sanzionabile, si rischia che niente lo sia. Da qui i «dubbi» del Colle sulla «ragionevolezza» di quella disposizione e sulla sua «conformità» al nostro ordinamento. Per sovrapprezzo, una dimenticanza (?) – anche questa rilevata dal presidente Mattarella – ha lasciato intatta la «particolare tenuità» dell’oltraggio quando è commesso nei confronti di un magistrato in udienza. In sostanza, il dirigente di un ufficio tecnico comunale è un pubblico ufficiale più tutelato rispetto al giudice di un processo di mafia. Per inciso, anche la norma sui pubblici ufficiali non era nel testo originario ed è stata introdotta in Parlamento. La cruda realtà è che il Decreto Sicurezza bis (e così la sua legge di conversione) è nato male e cresciuto peggio. Con pochi tratti di penna, il capo dello Stato ha ricordato una verità valida in ogni epoca storica: i cittadini non sono più sicuri soltanto perché chi li governa pro tempore si riempie la bocca della parola “sicurezza”. Lo sono, invece, se il diritto è certo, chiaro, quanto più possibile minimo, anche per questo umano. E retto.

DENUNCIA «DUE RILEVANTI CRITICITÀ» Mattarella affonda il decreto sicurezza bis e fa scudo alle Ong Il presidente firma ma «resta l’obbligo di salvare vite in mare». E chiede nuove leggi.

Biloslavo sul Giornale a pagina 8

Biloslavo

Il presidente della Repubblica, fa da scudo alle Ong demolendo, di fatto, il decreto sicurezza bis fortemente voluto dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha furbescamente promulgato il decreto facendolo diventare legge, ma sottolineando con forza tutto quello che non va e dovrebbe essere cambiato. In pratica ha inviato una lettera al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte e ai presidenti di Camera e Senato esprimendo le sue «rilevanti perplessità». E invitando governo e Parlamento all’«individuazione dei modi e dei tempi di un intervento normativo sulla disciplina in questione». Ovvero una nuova legge che affossi il decreto sicurezza bis, che fa tremare le Ong. Non è un caso che la prima «perplessità» di Mattarella riguardi proprio l’impennata delle multe alle Organizzazioni non governative. «Nel caso di violazione del divieto di ingresso nelle acque territoriali – scrive il capo dello Stato – la sanzione amministrativa pecuniaria applicabile è stata aumentata di 15 volte nel minimo e di 20 volte nel massimo, determinato in un milione di euro, mentre la sanzione amministrativa della confisca obbligatoria della nave non risulta più subordinata alla reiterazione della condotta». Forse nessuno lo ha informato che la democratica Spagna ha stabilito una multa che arriva fino a 901.000 euro proprio per Open Arms che ciondola con 121 migranti al largo di Lampedusa. E che i capitani delle navi delle Ong più estremiste cambiano ad ogni missione proprio per evitare la reiterazione del reato. La seconda mazzata presidenziale riguarda l’obbligo del salvataggio dei naufraghi. Per Mattarella «come correttamente indicato all’articolo 1 del decreto convertito, la limitazione o il divieto di ingresso può essere disposto «nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia», così come ai sensi dell’articolo 2 «il comandante della nave è tenuto ad osservare la normativa internazionale». E cita la Convenzione di Montego Bay, che obbliga al soccorso in mare, ma non al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Le navi delle Ong spesso recuperano migranti su gommoni che non stanno affondando e soprattutto si sostituiscono agli Stati operando come vogliono in acque di ricerca e soccorso libiche e intralciando la Guardia costiera di Tripoli. Nelle ultime ore la nave Alan Kurdi, della Ong tedesca Sea-Eye, ha fatto una corsa in mare per recuperare un gommone di migranti, ma sul posto è arrivata prima una motovedetta libica. Alla fine il Quirinale nell’unico punto che forse coglie nel segno contesta la norma sull’oltraggio a pubblico ufficiale: «Non riguarda soltanto gli appartenenti alle Forze dell’ordine ma include un ampio numero di funzionari pubblici» compresi «i controllori dei biglietti di Trenitalia, (…) i direttori di ufficio postale, gli insegnanti» che sarebbero messi tutti sullo stesso piano.

9 Moscopoli

Le 17 missioni russe di Savoini, prima e dopo il Metropol

In alcuni viaggi era assieme a D’Amico: alla frontiera non venivano schedati. Paolo Brera su Repubblica a pagina 7.

Paolo brera

Prima e dopo quella mattina d’affari torbidi nella hall dell’hotel Metropol di Mosca, Gianluca Savoini – consigliere e amico di Matteo Salvini – ha fatto su e giù decine di volte: Milano-Mosca e ritorno, per lo più, con puntate toccata e fuga di un giorno o due. Almeno 14 missioni nel 2018, e almeno tre quest’anno. In molti di questi voli, accanto a lui c’era Claudio D’Amico, il consulente strategico di Salvini per gli affari internazionali. I loro nomi sono spesso insieme nell’elenco delle prenotazioni aeree divulgato ieri da un’inchiesta giornalistica internazionale che ha rivelato anche un altro mistero: Come fantasmi, i loro passaggi non lasciano tracce nelle registrazioni obbligatorie ai varchi aeroportuali. Nel database del ministero degli Interni russo, in cui i giornalisti dicono di avere spulciato, i loro nomi non ci sono. L’ultimo capitolo di Moscopoli, la trattativa sul petrolio russo con cui la procura di Milano sospetta che la Lega volesse finanziare la corsa alle Europee, è firmato insieme da BuzzFeed, Bellingcat e dal russo The Insider. L’elenco dei voli a cui ha preso parte Savoini, spiegano i tre media, è «in un database online non indicizzato (cioè non accessibile con i motori di ricerca, ndr) con le prenotazioni online, utilizzato da dipartimenti russi per la sicurezza aziendale». Dati che sono stati poi «incrociati con l’attività social» dei protagonisti. Per ogni viaggio vengono indicati la data e la rotta, la compagnia e il numero del volo. E si dà prudentemente atto che sono prenotazioni e non voli. Ma è il mondo dei social a collocare poi effettivamente Savoini in Russia in molte date compatibili con le prenotazioni. Un assiduo, Savoini. Nulla si sa del motivo di tutte quelle prenotazioni, di tutti quei voli ravvicinati, di quella lunga serie di blitz prenotati. Ma certo collima coi sospetti della procura di Milano: i magistrati che indagano sulla trattava del Metropol ipotizzano che il tentativo di portare a casa l’accordo sia durato molto più a lungo di una mattina di vodka e caffè nero nel lussuoso albergo dei misteri, il 18 ottobre. E Savoini, a Mosca, c’era. Vola quasi sempre Aeroflot. Prima dell’incontro al Metropol, i viaggi si infittiscono. Eccolo il 21 settembre sul “Su2415” da Milano a Mosca, con ritorno il 24 sul “Su2404”. Riparte il 4 ottobre e rientra il 6. Eccolo ancora a Mosca il 16, e il 18 – dopo la riunione al Metropol – riparte per Milano. Ma non passano sei giorni e riecco il suo nome: decollo il 24, rientro il 28. Altri due voli a novembre, con puntata interna a Kazan (andata e ritorno in giornata, da e per Mosca, il 30 novembre). E torna a Mosca a dicembre, a gennaio, a febbraio e a marzo di quest’anno. I tasselli dell’inchiesta giornalistica sono compatibili con quelli dell’inchiesta giudiziaria: la procura ipotizza una trattativa durata almeno fino a febbraio. L’ultimo volo scovato dai segugi dei media è il “Su2613” del 15 marzo, con rientro il 18 sul volo “Su2414”. Matteo Salvini ha più volte preso le distanze dal suo amico ed ex collaboratore Savoini con un’alzata di spalle. Ma non può fare altrettanto con D’Amico, il suo consulente strategico cofinanziatore con Savoini dell’attività economica di cui è stato direttore in Russia (la Orion Ltd): era con Savoini anche sul Milano-Mosca e ritorno di ottobre, alla vigilia e dopo l’incontro del Metropol. Ed era con lui almeno un paio di volte quest’anno, e un altro paio prima del Metropol. Eppure, nessuno dei due lascia le inevitabili tracce ai varchi obbligatori, quelli che registrano i dati di tutti gli ingressi e le uscite riversandoli nel “Database centrale per la registrazione degli stranieri” presso il ministero degli Interni russo. Evidentemente ricevevano un trattamento speciale.

9 Clima

La Terra divorata

AllarmeOnu:troppa carne in tavola, pesticidi nei campi,suolo prosciugato Il clima così va in crisi e si rischia la fame

Corriere p.15

L’allarme Onu sui cambiamenti climatici “Mediterraneo a rischio desertificazione”. Aumenteranno fame e migrazioni. Gli scienziati: dieta vegetariana per ridurre consumi di carne e CO2

Stampa a pagina 14

“La dieta può salvare il pianeta” L’Onu esorta a mangiare meno carne

Il rapporto del comitato scientifico: “La crisi climatica produrrà fame e migrazioni”. Su Repubblica a pagina 20

Semprini

La regione del Mediterraneo è una delle principali vittime del disastro climatico e dei flussi migratori compulsivi che da essi saranno generati. E’ questo il più recente monito lanciato dalle Nazioni Unite in materia di cambiamenti climatici, partendo da alcuni dati fondamentali. Il primo dei quali è che mezzo miliardo di persone già vivono in aree del Pianeta vittime della desertificazione, mentre l’erosione dei territori avviene a una velocità tra le 10 e le 100 volte superiore alla loro formazione. In un contesto dai toni già drammatici l’aumento delle temperature provocato dai gas serra emessi dall’uomo rende il fenomeno peggiore, agevolandone un’accelerazione in termini di aumento della siccità, ondate di calore e desertificazione. Fattori catastrofici che interessano «almeno» l’area del Mediterraneo avverte l’«Intergovernmental panel on climate change», il comitato scientifico dell’Onu sul clima, nell’edizione 2019 del rapporto «Cambiamento climatico e territorio». Al contempo si assiste a un’accelerazione degli eventi meteorologici estremi, come cicloni, uragani, tornado e alluvioni: più caldo vuol dire maggior evaporazione, e maggior vapore acqueo nell’atmosfera vuol dire piogge più intense. Quest’anno i ricercatori dell’Ipcc (un centinaio da 52 Paesi, fra cui l’italiana Angela Morelli) si sono concentrati sui rapporti fra il clima e la gestione del suolo. Ciò perché i fenomeni descritti nel rapporto danneggiano l’agricoltura e riducono la produzione di derrate alimentari. Le popolazioni dei Paesi più poveri sono quelle che ne risentono di più e quando non si ha più da mangiare si è costretti a spostarsi per cercare di sopravvivere, o a combattere per le poche risorse rimaste. Ed ecco allora l’aumento compulsivo dei flussi dal sud al nord del mondo, ovvero dalle zone afflitte dalla mancanza di mezzi di sussitenza a quelle che, almeno per ora, ne dispongono. Flussi che già interessano in particolar modo il Mediterraneo, ecco il perché dell’indicazione specifica contenuta nel dossier Onu. Un’area dove i fenomeni migratori insistono su varie direttrici e non solo dall’Africa verso l’Europa del sud. Il timore inol

tre è che questi processi di desertificazione e le conseguenti crisi alimentari esploderanno contestualmente in diversi continenti, come spiega Cynthya Rosenzweig, ricercatrice scientifica del Nasa Goddard Institute for Space Studies e una degli autori del rapporto. «Il rischio di un fallimento contestuale a diverse zone del Pianeta sta aumentando», dice la scienziata descrivendo un fenomeno simile a una bomba a orologeria. «Si prevede che Asia e Africa avranno la maggiore quota di popolazione colpita dall’aumento della desertificazione – si legge nel rapporto di 1.200 pagine -. I cambiamenti climatici possono amplificare le migrazioni. Eventi atmosferici estremi possono portare alla rottura della catena alimentare, minacciare il tenore di vita, esacerbare i conflitti e costringere la gente a migrare». Non a caso molti ritengono che tra le cause dei conflitti più recenti, assieme alle questioni politiche e gli interessi economici vi sia una componente relativa al fattore climatico, in particolare alle crisi alimentari e idriche. In un quadro tanto desolante c’è però una lettura in parte rassicurante, ovvero una buona gestione del territorio è uno strumento fondamentale per contrastare la crisi climatica. L’agricoltura sostenibile ferma erosione e desertificazione, il ripristino di terreni degradati e la difesa delle foreste e degli ecosistemi garantiscono l’assorbimento naturale dell’anidride carbonica da parte delle piante. Il rapporto sottolinea anche come combattere lo spreco di cibo abbatterebbe i gas serra. Oggi il 25-30% della produzione alimentare viene persa o finisce nella spazzatura, e tale spreco contribuisce per l’8-10% alla produzione di emissioni nocive. Strategica è anche la dieta: meno carne (non solo per motivi di salute, ma anche e soprattutto per le emissioni ad alto contenuto di metano prodotte dagli allevamenti bovini) e più verdure, chiosa l’Ipcc, «possono agevolare la riduzione potenziale fino a otto miliardi di tonnellate di CO2 all’anno». — cBY NC ND ALCUNI DIRITTI RISE

Il risultato del monitoraggio in occasione del “Keep Clean and Run” lungo il corso d’acqua dalla sorgente alla foce Anche i fiumi sono una minaccia per il mare Il Po riversa 11 tonnellate di plastica al giorno

I corsi d’acqua sono responsabili dell’80% dei rifiuti che finiscono negli oceani

Stampa pagina 15

ALLARMEAMBIENTEGLOBALE: ILNAZIONALISMOÈ PERDENTE

Sos clima L’agenzia delleNazioniUnite ha appena diffuso un rapporto di dimensione inusuale, che suona il gong aisordi governanti dellaTerra

Valter velyroni sul Corriere

N el bel saggio di Kyle Harper pubblicato da Einaudi e intitolato «Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero», si dimostra come, all’origine del tramonto e poi deltracollo della grandezza di Roma, siano state mutazioni climatiche e, legate ad esse, pandemie devastanti. Fenomeni che interruppero il ciclo economicoedevastarono il tessuto sociale e umano della civiltà da cui la nostra storia trae tanta origine. Le stagioni della Terra sono state scandite da grandi eventi naturali. Ancora una volta l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di clima, con un rapporto di dimensione inusuale, ha suonato il gong ai sordi governanti della Terra. Ci ha ricordato che sono a repentaglio, per via dell’impressionante riscaldamento globale in corso, le risorse che la nostra specie ha considerato naturale fossero a disposizione: l’acqua, la terra da coltivare, quella dove abitare. Pochi giorni fa centinaia di studiosi italiani hanno sottoscritto un appello dell’Istituto di Scienze della vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa in cui si dice testualmente: «Gli scenari futuri “business as usual” (cioè in assenza di politiche di riduzione di emissioni di gas serra) prodotti da tutti i modelli del sistema Terra scientificamente accreditati, indicano che gli effetti dei cambiamenti climatici su innumerevoli settori della società e sugli ecosistemi naturali sono tali da mettere in pericolo lo sviluppo sostenibile della società come oggi la conosciamo e, quindi, il futuro delle prossime generazioni». Sembra poco? Basta aprire le finestre e, insieme, gli occhi. Abbiamo vissuto il luglio più caldo nella storia dell’umanità, i fenomeni atmosferici violenti conosciuti in una zona temperata come l’Italia hanno prodotto, secondo Coldiretti,14miliardididanni all’agricoltura. A Parigi si raccolgono in agosto le foglie dagli alberi, stremati dal caldo, in Siberia bruciano i boschi e in Groenlandia si sciolgono, in un giorno, 12 miliardi di tonnellate di ghiaccio. Ad Anchorage, in Alaska, sono stati raggiunti i 32 gradi di temperatura, quando la media storica del periodo è 18 gradi. L’Ipcc dell’Onu, che raccoglie studiosi di tutto il mondo ci dice che il riscaldamento della Terra, al ritmo al quale siamo, porterà spaventosi problemi di approvvigionamento idrico. Per essere chiari: il rischio che si presenta, a breve,èquello della rottura del ciclo alimentare. La Terra è da anni, ormai,

sotto il dominio di una condizione ambientale sfuggita al controllo. I fenomeni sono violenti. I dieci anni più caldi degli ultimi132 sono tuttiracchiusi in un periodo che va dal 1998 ad oggi. Il nostro astronauta Luca Parmitano, che ha visto la Terra da una posizione unica, ha detto: «Negli ultimi sei anni ho visto deserti avanzareeghiacci sciogliersi. Spero che le nostre parole possano allarmare davvero verso il nemico numero uno di oggi». Scienziati, astronauti, meteorologi ci indicano il pericolo numero uno. Ma noi, come il capitano Smith del Titanic, «andiamo avanti, tranquillamente». Perché la nostra vita pubblicaèseminata di mille paure, ma non della più grande. Forse perché questa paura postula una risposta globale, non nazionalista, non sovranista. Infatti solo se le nazioni della Terra si accorderanno sulla limitazione delle emissioni in atmosfera, il mondo si salverà. Si parla ogni giorno di migrazione, si passano settimane a discutere di quarantadue esseri umani su una barca.Eci si dimentica che, dal 2008 al 2015, duecento milioni di esseri umani sono sfollati per ragioni ambientali. Ci sono isole inghiottite dal

mare, villaggi inondati o travolti dal fango. Rischiano le coste dell’America ricca, non solo le zone povere. Quasi metà dell’umanità vive in aree limitrofe al mare, quelle che saranno più interessate dall’innalzamento delle acque conseguente allo scioglimento dei ghiacciai. Cosa sarà di loro? Come affronteremo la migrazione di poveri e ricchi? In un film di qualche anno fa si prediceva la glaciazione degliUsaela fuga degli americani verso sud, alle frontiere col Messico. Frontiere che, per beffa, si immaginava fossero tenute chiuse… Il presidente brasiliano Bolsonaro dice di aver ripreso l’abbattimento degli alberi nella foresta amazzonica perché questo è un fatto che riguarda solo il Brasile e che il mondo si deve fare gli affari suoi. Non è la strada giusta. Nulla come l’ambiente infatti è sistemico, interdipendente, globalizzato. E, più dei dazi che stanno deprimendo l’economia mondiale, i potenti della Terra dovrebbero dar vita a un grande piano pubblico di riconversione ecologica dell’economia. Questa scelta potrebbe essere il driver di una nuova fase espansiva. Una scelta prodotta dalla paura genererebbe, per una volta, crescita economica, lavoro qualificatoesalvaguardia del nostro bene più prezioso. Dovremmo sempre ricordare un saggio proverbio indiano che dice: «Solo quando l’ultimo albero sarà abbattuto e l’ultimo fiume avvelenato e l’ultimo pesce pescato, cirenderemo conto che non possiamo mangiare il denaro». © RIP

L’Africa paga il prezzo più alto

Il commento di Mario Tozzi

Stampa a pagina 15

C i sono voluti anni per certificare ciò che era già chiaro fino dall’inizio della crisi: il cambiamento climatico accelerato, anomalo rispetto al passato e causato dalle attività produttive dei sapiens, ha un impatto sociale e umano devastante, soprattutto sulla parte povera del mondo. Un impatto che, però, si risentirà anche sulla parte più ricca, in termini di migranti e scarsità di risorse. I 240 milioni di persone che si metteranno in moto nei prossimi 20 anni saranno migranti climatici. E la gran parte si muoverà attraverso il Mediterraneo. Quello cui stiamo assistendo è un paradosso: il surriscaldamento atmosferico sta trasformando le regioni circum-desertiche in inferni in cui non è più possibile utilizzare la terra per l’agricoltura e la zootecnia, ma neppure per la raccolta spontanea. E anche le regioni tropicali sono flagellate da alluvioni e tempeste che rendono impossibile coltivare e vivere in sicurezza. Tutto ciò dipende, ormai senza dubbi consistenti, dalle attività produttive degli uomini, che recano, però, vantaggio solo alla parte ricca e fortunata del pianeta. Mentre la parte povera e sfortunata si prende solo gli svantaggi. In altre parole noi abbiamo tratto una grande ricchezza da quelle attività, subendone solo piccoli svantaggi, mentre gli africani non hanno ricavato alcun vantaggio dallo sviluppo economico che sta cambiando il clima, subendone invece la perdita delle terre dove sono vissuti da generazioni. Come da sempre, l’Africa è terra di rapina, di uomini, di corpi, di minerali e di fonti energetiche. E di terreno, il land-grabbing, che somma ormai 15 milioni di ettari (di terra «buona») che non sono più nella disponibilità degli autoctoni. Non funziona poi più dire «aiutiamoli a casa loro»: come sarebbe possibile, se il posto dove sono nati non ha più alcuna risorsa, non è possibile coltivare né allevare e il deserto mangia abitazioni e infrastrutture? E come prestare fiducia a chi dice di volere aiutare, se si tratta degli stessi che hanno distrutto il territorio? Se poi volessimo davvero farlo, dovremmo prima ricostruirla noi, quella casa, lasciando all’Africa le sue ricchezze, destinando risorse economiche ad hoc e fermando il cambiamento climatico. Siamo sicuri che funzionerebbe meglio delle frontiere armate per cercare un nuovo equilibrio nella redistribuzione della ricchezza, visto che la nostra è stata guadagnata a discapito degli altri. Altrimenti quei sapiens continueranno a migrare dall’Africa, come hanno fatto i nostri e i loro antenati, da 45.000 anni a questa parte. — cBY NC ND

Clima, partiamo dalla spesa. La corsa a produrre più cibo.

Carlin Petrini su Repubblica a pagina 34

Carlin

N essuna novità. Purtroppo il rapporto dell’Onu sui cambiamenti climatici presentato ieri mette nero su bianco quanto studiosi e associazioni dicono da anni: dobbiamo intervenire subito per fermare il riscaldamento globale altrimenti si rischia la scomparsa. L’allarme era stato lanciato in maniera inequivocabile durante l’incontro di tutti gli Stati del mondo (o almeno della stragrande maggioranza) durante la Cop 21 di Parigi del 2015, che si chiuse con un accordo per fissare l’obiettivo di limitare l’incremento del riscaldamento globale a meno di 2°C rispetto ai livelli pre-industriali. Ma si è fatto e si sta facendo ben poco. Poco o nulla è cambiato, se non in peggio. In questi giorni, è in corso un incendio di portata catastrofica in Russia e per giorni nessuno è intervenuto perché la legge russa prevede che le azioni di spegnimento siano messe in atto quando il fuoco minaccia la città. La conseguenza sono ettari ed ettari di bosco bruciato e una riduzione del polmone verde e un aumento del riscaldamento globale. Dall’altra parte il presidente degli Usa nega addirittura il fenomeno. Il nuovo rapporto dell’Onu evidenzia, se mai non ce ne fossimo accorti, un’accelerazione dei fenomeni legati alla crisi climatica con conseguenze sempre più disastrose e che toccano in maniera più o meno visibile tutto il mondo. Tra le aree più colpite l’Asia e l’Africa, ma anche il Mediterraneo è fortemente a rischio e con lui le nazioni rivierasche. Questo rapporto più di altri si concentra sulla relazione fra il cambiamento climatico e la salute del suolo, studiando le ricadute del surriscaldamento globale su agricoltura e foreste. Proprio l’agricoltura e la produzione di cibo svolgono una funzione importante. Fondamentali per la riduzione del gas serra, e quindi del riscaldamento globale, la produzione sostenibile del cibo, la riduzione degli sprechi e la tutela delle foreste (sacrificate per lasciare spazio a coltivazione di soia Ogm per grandi allevamenti). La corsa forsennata a produrre più cibo sta causando sconquassi ambientali e sociali spaventosi. Questo sistema ha fallito e sta facendo fallire il pianeta impoverendo la terra e aumentando i livelli di Co2. La desertificazione e fenomeni atmosferici violenti e improvvisi pregiudicano la produzione agricola e la sicurezza delle forniture alimentari. Allora non stupiamoci se ci sono ondate migratorie così consistenti. Sono persone che fuggono da condizioni precarie e senza futuro. Pagano anni di disastri creati della nostra economia. In attesa che i potenti del mondo prendano coscienza della crisi climatica, noi nel nostro piccolo possiamo quotidianamente fare qualcosa di importante. Partiamo dalla spesa e da alcuni accorgimenti: fare acquisti oculati, non sprecare, cucinare l’occorrente, ridurre drasticamente il consumo di carne, scegliere cibi di stagione e da agricoltura biologica e di prossimità, evitare prodotti con confezioni di plastica, impegnarsi nella raccolta differenziata. C’è bisogno di una nuova visione sistemica, che metta in evidenza le esternalità positive di queste pratiche a dispetto di una economia che dilapida le risorse ambientali. Se ciò non avverrà, il dazio che dovremo pagare sarà impressionante e i costi che dovranno pagare le future generazioni diventeranno insostenibili. Ecco il terreno su cui si dovrà discutere nei prossimi anni di nuovo umanesimo, su cui si potrà costruire una politica degna di questo nome e vivere in una economia che non distrugge il bene comune, ma lo tutela e lo difende. È finito il tempo dell’indignazione o peggio dell’indifferenza. Bisogna agire e anche velocemente.

Ma la rivoluzione nei campi non è sufficiente. Tutti i Paesi, compresi gli Stati Uniti, devono rendere sostenibili l’industria e l’energia

Roberto Iotti sul Sole a pagina 16

sole

Al di là delle cifre e delle prospettive a dir poco catastrofiche indicate dal rapporto dell’Ipcc, va sottolineato un aspetto importante: l’agricoltura del mondo è chiamata in prima linea nella lotta al cambiamento climatico, al surriscaldamento del pianeta, alla desertificazione. È e sarà l’agricoltura a doversi fare carico di un cambiamento epocale per poter produrre derrate con tecniche sempre più sostenibili. La missione è indicata chiaramente dagli esperti dell’Ipcc: l’agricoltura dovrà puntare «alla produzione sostenibile di cibo, alla gestione sostenibile delle foreste, alla gestione del carbonio organico nel suolo, alla conservazione degli ecosistemi, al ripristino del territorio, alla riduzione della deforestazione e del degrado, alla riduzione della perdita e dello spreco di cibo». In questa sorta di chiamata alle armi c’è però una distonia. Già da anni, con l’implementazione dei programmi Fao per esempio, i sistemi agricoli meno evoluti nel mondo hanno già compiuto passi da gigante sulla strada indicata dall’Ipcc. Dalle Ande fino alle pianure dell’India e dell’Africa non c’è coltivatore che non sappia quanto valga la preservazione del suolo e dell’acqua. Anche i sistemi agroeconomici più evoluti – Nord America ed Europa in primis – già da tempo applicano l’agricoltura sostenibile, quella di precisione e adottano i principi dell’economia circolare. I coltivatori sono i primi a sapere che il risparmio sulle quantità dei fattori della produzione si traduce in maggiore redditività della coltura. Soprattutto oggi con scenari di grande volatilità dei prezzi agricoli sui mercati mondiali. La distonia: nonostante questi progressi nel campo produttivo e ambientale, l’agricoltura mondiale – da sola – non può sovvertire le previsioni formulate dall’Ipcc. Tutti sappiamo che in fatto di contrasto all’inquinamento ambientale, al surriscaldamento dell’atmosfera, in fatto di emissioni di gas serra e inquinanti, di utilizzo dell’acqua le Nazioni del mondo hanno posizioni e strategie di intervento molto differenti. L’industria valuta il fattore ambiente come un costo, ma può essere anche un plus. Un generatore di valore aggiunto. Tuttavia solo in Europa si stanno perseguendo programmi impegnativi di uso razionale delle risorse, dell’energia e di miglioramento delle emissioni. Gli Stati Uniti di Trump hanno invece disdettato in buona parte gli accordi della conferenza mondiale sul clima di Parigi: gli oneri derivanti dalla lotta all’inquinamento sono giudicati come un elemento che falsa la concorrenza internazionale. Ogni giorno Paesi quali la Cina e l’India – ma non solo – riversano nelle acque e nel cielo gas e inquinanti. In Africa l’estrazione delle terre rare, così preziose per l’industria tecnologica, non va tanto per il sottile nella distruzione degli ecosistemi. Così come sembra inarrestabile la corsa ai legnami pregiati che sta rosicchiando ogni anno migliaia di ettari di foreste pluviali in Amazzonia. A questo punto appare quasi lapalissiano dire che per arginare il cambiamento climatico occorre il concorso e la forza di tutti i sistemi produttivi. Sarà ovvio ma è così.

Parla Riccardo Valentini, l’italiano nel team che ha vinto il Nobel: “La speranza sono i ragazzi della generazione Greta. I giovani sanno che saranno loro a pagare i nostri errori e adesso sono pronti a combattere f Dobbiamo imparare a mangiare meno carne: gli allevamenti intensivi sono molto inquinanti”.

Luca Fraioli su Repubblica a pagina 20.

Fraioli

«Stiamo usando male la Terra. Se continuiamo così presto il Pianeta, complice il riscaldamento globale, non riuscirà più a produrre risorse per tutti. Ma c’è una speranza, ed è rappresentata dai ragazzi: hanno capito che è in gioco il loro futuro e stanno agendo di conseguenza. Anche tra i miei studenti molti rinunciano alla carne per incidere meno sulle emissioni di CO2». Riccardo Valentini insegna ecologia all’Università della Tuscia, è membro del Centro mediterraneo per i cambiamenti climatici, ma soprattutto è uno degli autori principali del rapporto presentato ieri dall’Ipcc sulla relazione tra suolo e global warming. Così come era tra gli autori del celebre rapporto che nel 2007 valse all’Ipcc il Nobel per la pace, insieme ad Al Gore. Professor Valentini, qual è in sintesi il messaggio che gli scienziati dell’Ipcc hanno lanciato ieri? «Che la Terra è ormai sottoposta a pressioni fortissime per la produzione di cibo e per l’estrazione di risorse. Il cambiamento climatico ha un impatto importante sul suolo. Senza una inversione di rotta il Pianeta avrà sempre più difficoltà a soddisfare le nostre esigenze». Dunque meglio essere un po’ meno esigenti? «Esatto. A cominciare dal cibo. Dovremmo imparare a mangiare meno carne, perché la metà del metano (gas a effetto serra come la CO2) rilasciato in atmosfera proviene dagli allevamenti. E poi dovremmo sprecare meno: con gli alimenti che buttiamo nei paesi ricchi potremmo sfamare quattro volte la popolazione mondiale senza cibo». Voi continuate a stilare rapporti e a suggerire rimedi. Ma chi vi ascolta? «Dovrebbero farlo i politici: è loro compito guidare il cambiamento degli stili di vita, far ridurre gli sprechi, innovare i metodi di produzione in modo che abbiamo un impatto ridotto sull’ambiente. Purtroppo, però, non esistono più veri leader, statisti capaci di indicare la strada. Oggi i politici decidono che misura adottare dopo aver visto sui social cosa vogliono gli elettori». A cominciare dal presidente della nazione più potente, che ha persino rinnegato l’accordo di Parigi sul clima. «Già, l’America di Trump è il vero convitato di pietra nei summit sul riscaldamento globale. Eppure non bisogna disperare. Mi conforta il caso della Cina: fino a pochi anni fa i suoi politici erano refrattari a qualsiasi misura per la difesa della Terra, ora invece sono in prima linea. E hanno trasformato la lotta al global warming in un business. Si pensi ai pannelli fotovoltaici o alle auto elettriche, settori in cui le aziende cinesi hanno la leadership mondiale. Forse prima o poi lo capiranno anche i politici di altre nazioni». Nel frattempo? «Nel frattempo l’unica vera speranza sono questi ragazzi che protestano sulla scia di Greta Thunberg. Sanno che saranno loro a pagare i nostri errori e sono pronti a combattere e a modificare il proprio stile di vita». Persino cambiare dieta pur di salvare il Pianeta? «Certo. Dal prossimo ottobre all’Università di Parma e in altri atenei europei, oltre che in alcune aziende, le mense adotteranno un menù concepito per ridurre le emissioni di gas serra. L’obiettivo del progetto, elaborato con la Fondazione Barilla Center for food and nutrition, è di scegliere i cibi in modo da tagliare in un anno 5000 tonnellate di CO2». Ma gli studenti troveranno altrettanto gustoso il loro pasto? «Questa è la vera sfida, ma lo sapremo solo alla fine della sperimentazione». La politica non ascolta voi scienziati ma neppure i giovani di Fridays for Future. Perché? «Perché non votano, per ora. Ma presto lo faranno e i politici dovranno adeguarsi. Fosse per me, darei da subito più potere a questi ragazzi, noi vecchi non siamo più capaci di cambiare le cose”.

La Terra bollente moltiplica i migranti. Il riscaldamento aumenterà la fame, il Mediterraneo è a rischio desertificazione. Alluvioni, siccità e caldo ridurranno il cibo. Africa e Asia le prime vittime. Valeria Robecco sul Giornale a pagina 9

Robecco Giornale

Progressiva desertificazione, crisi alimentari, drammatica accelerazione dei flussi migratori. Sono queste in sintesi le fosche previsioni delle Nazioni Unite contenute nell’ultimo rapporto sugli effetti del riscaldamento climatico. Il dossier del comitato scientifico dell’Onu sul clima, l’Ipcc, preparato da oltre 100 esperti provenienti da 52 paesi, mostra che alluvioni, siccità e tempeste minacciano di ridurre nel tempo l’offerta di cibo globale, pregiudicando la produzione agricola e la sicurezza delle forniture alimentari. L’agricoltura però non è soltanto la vittima del riscaldamento globale provocato dai gas serra emessi dall’uomo, ma anche uno strumento per combatterlo, purché sia sostenibile e accompagnata da una buona gestione del suolo, con riforestazione e difesa degli ecosistemi. L’Ipcc lo scorso ottobre avvertiva che rimanevano solo una dozzina d’anni per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi dai livelli pre-industriali (l’obiettivo più ambizioso dell’Accordo di Parigi sul clima). E ora sottolinea che fa aumentare siccità, ondate di calore e desertificazione, ma anche eventi meteorologici estremi come cicloni e alluvioni. Pure il Mediterraneo è ad alto rischio di desertificazione e incendi, ma a pagare le conseguenze maggiori saranno in particolare le popolazioni più povere di Africa e Asia. Questo potrebbe aumentare un flusso di immigrazione che sta già ridefinendo le politiche in Nord America, Europa e altre parti del mondo. Gli eventi atmosferici estremi possono infatti portare alla rottura della catena alimentare, minacciare il tenore di vita, esacerbare i conflitti e costringere la gente a migrare, sia all’interno dei paesi che fra un paese e l’altro. «La vita delle persone sarà influenzata da massicci flussi migratori», afferma Pete Smith, professore di scienze delle piante e del suolo all’University of Aberdeen e uno dei principali autori del rapporto: «Le persone non rimangono e muoiono dove sono, ma migrano». Durante la presentazione del documento di 1.200 pagine Valerie Masson-Delmotte, co-presidente di uno dei tre gruppi di lavoro, spiega che «oggi 500 milioni di persone vivono in aree soggette a desertificazione», e chi «si trova in aree già degradate subisce sempre più l’influenza negativa dei cambiamenti climatici». Un altro rischio per gli esperti è che le crisi alimentari si possano sviluppare contemporaneamente in diversi continenti, come fa sapere Cynthia Rosenzweig, un’altra delle autrici dello studio e ricercatrice presso il Goddard Institute for Space Studies della Nasa. Inoltre, dalla ricerca emerge anche come livelli aumentati di CO2 possano abbassare le qualità nutritive dei raccolti. Si intravedono spiragli, però, se verrà effettuata una rivalutazione dell’uso del suolo e dell’agricoltura, ad esempio aumentando la produttività della terra, o riducendo lo spreco di cibo. Nonostante i recenti dati secondo cui nel mondo ci sono oltre 820 milioni di persone denutrite, il rapporto fa sapere che «oggi il 25-30% della produzione alimentare viene persa o finisce nella spazzatura». Se si eliminasse questo spreco, si taglierebbero anche i gas serra. E contano anche le scelte alimentari dei singoli: una dieta con più vegetali e meno carne riduce in modo significativo le emissioni di gas serra, «potrebbe liberare diversi milioni di km quadrati di territorio e fornire un potenziale tecnico di mitigazione da 0,7 a 8,0 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2 all’anno».

10 Intervista al Papa

PAPA FRANCESCO “L’Europa non deve sciogliersi, bisogna salvarla, ha radici umane e cristiane. Una donna come Ursula von der Leyen può ravvivare la forza dei Padri Fondatori” “Il sovranismo mi spaventa, porta alle guerre”

La sovranità va difesa, ma il sovranismo è un’esagerazione che finisce sempre male

Fuggono da guerre e fame. Mai tralasciare il diritto più importante: quello alla vita

In un Paese europeo ci sono cittadine semivuote: si potrebbero portare lì comunità di profughi

Stampa a pagina 2 e 3

intervista

Il Papa apre la porta puntuale alle 10,30, con il suo sorriso gentile. Entra in una delle stanze che usa per ricevere la gente, arredata con l’essenziale, senza distrazioni o lussi, solo un crocifisso appeso alla parete. Siamo arrivati dall’ingresso del Perugino, il più vicino a Casa Santa Marta. Scenario abituale: qualche tonaca, gendarmi e guardie svizzere. Sullo sfondo, il Cupolone di San Pietro. In Vaticano il solito tran tran è rallentato dall’afa e dal clima vacanziero. Per Papa Francesco non è un giorno qualunque: è il 6 agosto, 41° anniversario della morte di san Paolo VI, pontefice a cui è particolarmente affezionato: «In questa giornata cerco sempre un momento per scendere nelle Grotte sotto la Basilica – rivelerà – e sostare, da solo, in preghiera e silenzio davanti alla sua tomba. Mi fa bene al cuore». I convenevoli durano poco, in un attimo siamo nel pieno della conversazione. Francesco è allegro e rilassato. E concentrato. Impressiona la sua capacità di ascolto. Guarda sempre negli occhi. Mai l’orologio. Si prende le pause necessarie prima di esprimere un pensiero delicato. Parla di Europa, Amazzonia e ambiente. Il colloquio è intenso e senza interruzioni. Il Papa non beve neanche un sorso d’acqua. Glielo facciamo notare, lui scuote le spalle e risponde, sorridendo: «Non sono l’unico che non ha bevuto». Santità, Lei ha auspicato che «l’Europa torni a essere il sogno dei Padri Fondatori». Che cosa si aspetta? «L’Europa non può e non deve sciogliersi. È un’unità storica e culturale oltre che geografica. Il sogno deiPadri Fondatori ha avutoconsistenzaperchéèstata un’attuazione di questa unità. Ora non si deve perdere questopatrimonio». Come la vede oggi? «Si è indebolita con gli anni, anche a causa di alcuni problemi di amministrazione, di dissidiinterni. Mabisognasalvarla. Dopo le elezioni, spero che inizi un processo di rilancio e che vada avanti senza interruzioni». È contento della designazione di una donna alla carica di presidente della Commissione europea? «Sì. Anche perché una donna può essere adatta a ravvivare la forza dei Padri Fondatori. Le donne hanno la capacità di accomunare,di unire». Quali sono le sfide principali? «Una su tutte: il dialogo. Fra le parti,fragliuomini.Ilmeccanismo mentale deve essere “prima l’Europa, poi ciascuno di noi”. Il “ciascuno di noi” non è secondario, è importante, ma conta più l’Europa. Nell’Unione europea ci si deve parlare, confrontare, conoscere. Inveceavoltesi vedonosolo monologhi di compromesso. No: occorreanche l’ascolto». Che cosa serve per il dialogo? «Bisogna partire dalla propria identità». Ecco, le identità: quanto contano? Se si esagera con la difesa delle identità non si rischia l’isolamento? Come si risponde alle identità che generano estremismi? «Le faccio l’esempio del dialogo ecumenico: io non posso fare ecumenismo se non partendo dal mio essere cattolico, e l’altro che fa ecumenismo con me deve farlo da protestante, ortodosso… La propria identità non si negozia, si integra. Il problema delle esagerazioni è che si chiude la propria identità, non ci si apre. L’identità è una ricchezza – culturale, nazionale, storica, artistica – e ogni paese ha la propria, ma va integrata col dialogo. Questo è decisivo: dalla propria identità occorre aprirsi al dialogo per ricevere dalle identità degli altri qualcosa di più grande. Mai dimenticare che il tutto è superiore alla parte. La globalizzazione, l’unità non va concepita come una sfera, ma come un poliedro: ogni popolo conserva la propria identità nell’unità con gli altri». Quali i pericoli dai sovranismi? «Il sovranismo è un atteggiamento di isolamento. Sono preoccupato perché si sentono discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel 1934. “Prima noi. Noi… noi…”: sono pensieri che fanno paura. Il sovranismo è chiusura. Un paese deve essere sovrano, ma non chiuso. La sovranità va difesa, ma vanno protetti e promossi anche i rapporti con gli altri paesi, con la Comunità europea. Il sovranismo è un’esagerazione che finisce male sempre: porta alle guerre». E i populismi? «Stessodiscorso.All’iniziofaticavo a comprenderlo perché studiando Teologia ho approfondito il popolarismo, cioè la cultura del popolo: ma una cosa è che il popolo si esprima, un’altra è imporre al popolo l’atteggiamento populista. Il popolo è sovrano (ha un modo di pensare, di esprimersi e di sentire, di valutare), invece i populismiciportanoasovranismi: quel suffisso, “ismi”, non famaibene». Qual è la via da percorrere sul tema migranti? «Innanzitutto, mai tralasciare il diritto più importante di tut

ti:quelloallavita.Gliimmigrati arrivano soprattutto per fuggire dalla guerra o dalla fame, dal Medio Oriente e dall’Africa.Sullaguerra, dobbiamoimpegnarci e lottare per la pace. La fame riguarda principalmente l’Africa. Il continente africano è vittima di una maledizione crudele: nell’immaginariocollettivosembrache vada sfruttato. Invece una parte della soluzione è investire lì per aiutare a risolvere i loro problemi e fermare così i flussi migratori». Ma dal momento che arrivano da noi come bisogna comportarsi? «Vanno seguiti dei criteri. Primo: ricevere, che è anche un compito cristiano, evangelico. Le porte vanno aperte, non chiuse.Secondo:accompagnare. Terzo: promuovere. Quarto integrare. Allo stesso tempo, i governi devono pensare e agire con prudenza, che è una virtù di governo. Chi amministra è chiamato a ragionare su quanti migranti si possono accogliere». E se il numero è superiore alle possibilità di accoglienza? «Lasituazionepuòessererisolta attraverso il dialogo con gli altri Paesi. Ci sono Stati che hanno bisogno di gente, penso all’agricoltura.Hovistocherecentemente di fronte a un’emergenza qualcosa del genere è successo: questo mi dà speranza. E poi, sa che cosa servirebbeanche?». Che cosa? «Creatività. Per esempio, mi hanno raccontato che in un paese europeo ci sono cittadine semivuote a causa del calo demografico: si potrebbero trasferire lì alcune comunità di migranti, che tra l’altro sarebbero in grado di ravvivare l’economiadella zona». Su quali valori comuni occorre basare il rilancio dell’Ue? L’Europa ha ancora bisogno del cristianesimo? E in questo contesto gli ortodossi che ruolo hanno? «Ilpunto di partenza e di ripartenza sono i valori umani, della persona umana. Insieme ai valori cristiani: l’Europa ha radici umane e cristiane, è la storia che lo racconta. E quando dicoquesto,nonseparocattolici, ortodossi e protestanti. Gli ortodossi hanno un ruolo preziosissimoperl’Europa.Abbiamo tutti gli stessi valori fondanti». Attraversiamo idealmente l’Oceano e pensiamo al Sudamerica. Perché ha convocato in Vaticano, a ottobre, un Sinodo sull’Amazzonia? «È “figlio” della “Laudato si’”. Chi non l’ha letta non capirà mai il Sinodo sull’Amazzonia. La Laudato si’ non è un’enciclica verde, è un’enciclica sociale, che si basa su una realtà “verde”, la custodia del Creato». C’è qualche episodio per Lei significativo? «Alcuni mesi fa sette pescatori mi hanno detto: “Negli ultimi mesi abbiamo raccolto 6 tonnellatediplastica”.L’altrogiorno ho letto di un ghiacciaio enormeinIslandachesièscioltoquasi deltutto:gli hanno costruito un monumento funebre. Con l’incendio della Siberia alcuni ghiacciai della Groenlandia si sono sciolti, a tonnellate. La gente di un paese del Pacifico si sta spostando perché fra vent’anni l’isola su cui vive non ci sarà più. Ma il dato che mi ha sconvolto di piùè ancora unaltro». Quale? «L’Overshoot Day: il 29 luglio abbiamoesauritotuttelerisorse rigenerabili del 2019. Dal 30 luglio abbiamo iniziato a consumare più risorse di quellecheilPianetariescearigenerare in un anno. È gravissimo. Èuna situazionedi emergenza mondiale.EilnostrosaràunSinodo di urgenza. Attenzione però: un Sinodo non è una riunione di scienziati o di politici. Non è un Parlamento: è un’altra cosa. Nasce dalla Chiesa e avrà missione e dimensione evangelizzatrici. Sarà un lavoro di comunione guidato dallo SpiritoSanto». Ma perché concentrarsi sull’Amazzonia? «È un luogo rappresentativo e decisivo. Insieme agli oceani contribuisce in maniera determinante alla sopravvivenza delpianeta. Granpartedell’ossigeno che respiriamo arriva da lì. Ecco perché la deforestazione significa uccidere l’umanità. E poi l’Amazzonia coinvolge nove Stati, dunque non riguarda una sola nazione. E penso alla ricchezza della biodiversità amazzonica, vegetalee animale:è meravigliosa». Al Sinodo si discuterà anche la possibilità di ordinare dei «viri probati», uomini anziani e sposati che possano rimediare alla carenza di clero. Sarà uno dei temi principali? «Assolutamente no: è semplicemente un numero dell’Instrumentum Laboris (il documentodilavoro,ndr).L’importantesarannoiministeridell’evangelizzazionee idiversimodidi evangelizzare». Quali sono gli ostacoli alla salvaguardia dell’Amazzonia? «La minaccia della vita delle popolazioni e del territorio deriva da interessi economici e politici dei settori dominanti dellasocietà». Dunque come deve comportarsi la politica? «Eliminare le proprie connivenze e corruzioni. Deve assumersi responsabilità concrete, per esempio sul tema delle miniereacieloaperto,cheavvelenano l’acqua provocando tante malattie. Poi c’è la questionedeifertilizzanti». Santità, che cosa teme più di tutto per il nostro Pianeta? «Lascomparsadellebiodiversità. Nuove malattie letali. Una deriva e una devastazione della natura che potranno portarealla mortedell’umanità». Intravede una qualche presa di coscienza sul tema ambiente e cambiamento climatico? «Sì, in particolare nei movimenti di giovani ecologisti, come quello guidato da Greta Thunberg, “Fridays for future”. Ho visto un loro cartello chemi hacolpito:“Ilfuturosiamonoi!”». La nostra condotta quotidiana – raccolta differenziata, l’attenzione a non sprecare l’acqua in casa – può incidere o è insufficiente per contrastare il fenomeno? «Incide eccome, perché si tratta di azioni concrete. E poi, soprattutto, crea e diffonde la cultura di non sporcare il creato».—

11 F35 e altro

L’INDECISIONE SUGLI F-35 RISCHIA DI AVERE UN COSTO ALTO PER L’ITALIA

Stefano Stefanini sulla Stampa

Crisi, non crisi o rimpasto: è troppo ricordare al governo che, quale sia l’esito, c’è anche l’ordinaria amministrazione? A maggior ragione quando ne dipendono capacità di difesa nazionale, ritorni industriali e tecnologici e il rapporto con il nostro principale alleato strategico (gli Stati Uniti)? Da dicembre scorso l’Italia deve confermare l’impegno per l’acquisto di 28 Joint Strike Fighters (F-35) cacciabombardieri americani della quinta generazione. L’incertezza (voluta?) mette a rischio il futuro dello stabilimento novarese di Cameri che ne produce le ali più parte della fusoliera ed effettua l’assemblaggio. L’incuria fa a pugni con quell’interesse nazionale che nel “contratto per il governo del cambiamento” straripa. A parole. Abbiamo già acquistato 27 velivoli in una fornitura complessiva di circa 90. Partecipiamo alla produzione di quelli destinati all’Italia e all’Olanda. Il dado è tratto. L’impegno specifico, da comunicare adesso al Pentagono, è la conferma della seconda mandata di altri 28 JSF (tecnicamente sono i lotti 15-16-17) che andrebbero in assemblaggio a Cameri nel 2023. Non rappresenta una novità né militare né economica. Non risulta ci siano obiezioni di Palazzo Chigi. Salvo alchimie governative (versante giallo), la ministra della Difesa è pienamente abilitata a darla. L’indecisione comporta tre ordini di conseguenze. Primo, i velivoli in questione sono essenziali per la difesa nazionale. Tutti i Paesi, amici o meno, con i quali ci confrontiamo si stanno dotando di cacciabombardieri della quinta generazione, F-35, Rafale, Mig o Sukhoi. La nostra scelta, evidentemente in ambito occidentale, è caduta su quello più avanzato e performante. Li abbiamo ridotti al minimo necessario. Siamo circondati da mari che si pattugliano anche dall’aria. Ci sono ben altre minacce che i gommoni carichi di migranti. Secondo, niente conferma dei lotti 15-16-17, niente lavoro per Cameri a partire dal 2023 salvo qualche rimasuglio olandese. Sono a rischio circa 600 posti di lavoro a tempo interminato, più indotto. Sarebbe invece il momento di cogliere l’opportunità di estendere l’assemblaggio effettuato a Cameri ad altri acquirenti di F-35, come Belgio e Polonia, e di candidare l’industria italiana a riempire il vuoto lasciato nel programma dal forzato ritiro di Ankara, causa l’acquisto delle batterie S-400 russe. L’industria turca sta amaramente piangendo lavoro e ritorni tecnologici persi. Terzo, il ritardo sta creando una palpabile irritazione a Washington nei confronti di un’Italia che, fra balletti con Mosca e Pechino, ritrosia sull’Iran e continua maretta in ambito Ue, appare sempre meno l’alleato affidabile e coerente che possa vantare un rapporto bilaterale privilegiato. Le epidermiche simpatie con l’amministrazione Trump non bastano. Nell’attuale stato della coalizione governativa la conferma dell’impegno – già esistente – per i prossimi 28 F-35 può apparire un dettaglio trascurabile. Rivela però inettitudine a gestire la cosa pubblica e distacco dai problemi reali del Paese. Si governa con scelte non con Rousseau. La Tav ha già messo a nudo una deriva pentastellata verso la de-industrializzazione. Per uscire dalla stagnazione prolungata gli italiani vogliono posti di lavoro e grandi opere, come negli anni ’50 e ’60. Non panem (reddito di cittadinanza) et circenses (legge sullo sport).—

AI MILLENNIALS AMERICANI IL COLLEGE NON SERVE PIÙ

Vittorio Sabadin sulla Stampa

I l 49% dei millenials americani, i giovani nati alla fine del secolo scorso, non pensa che frequentare il college e prendere una laurea sia importante per il proprio futuro. Anche la Generazione Z, quella nata in questo secolo, è totalmente d’accordo: i tempi sono cambiati, esistono strade diverse e più dirette di approccio al lavoro, la laurea in molti casi fa perdere solo tempo e denaro. Un sondaggio su 3000 adulti condotto da Td Ameritrade e pubblicato su Marketwatch svela quanto stia cambiando il modello sul quale la borghesia americana ha fondato i propri valori: finita la high school, i ragazzi partivano per il college e tornavano dopo quattro anni con una laurea che avrebbe procurato loro un lavoro ben pagato e un riconosciuto prestigio sociale. Oggi non è più così. Nel 2012 il presidente Barack Obama aveva definito la laurea “un imperativo economico che ogni famiglia in America deve essere in grado di permettersi”, ma secondo il Bureau of Labor Statistics meno del 20 % dei lavori disponibili nel 2018 negli Stati Uniti richiedeva una laurea. Entro il 2026, prevede il New York Times, questa percentuale dovrebbe salire un poco, ma non oltre il 25 %. Se ci sono troppi laureati rispetto ai posti disponibili i loro salari scendono, e infatti è dal 2000 che rallenta la crescita del divario salariale tra liceali e laureati: oggi in America il 25% di chi esce dal college non guadagna più di un diplomato medio. La Generazione Z si sta domandando se ne valga la pena. Il college costa molto, gli studenti si indebitano per frequentarlo e il debito complessivo da loro accumulato ha raggiunto 1,5 trilioni di dollari, quasi il triplo dei 600 miliardi di 10 anni fa. Ogni studente al momento della laurea ha in media un debito di 37 mila dollari, che dovrà ripagare con i primi stipendi. La scelta, ha detto a Marketwatch Malavika Vivek, una studentessa che ha rinunciato al Caltech per un apprendistato in un’azienda farmaceutica, “è tra pagare e non avere alcuna esperienza del mondo reale, o tra essere pagati e avere esperienza del mondo reale”. Lei ha scelto la seconda opzione, convinta che il college non crea il tuo futuro, né può distruggerlo se non ci vai. “Oggi le opzioni sono diverse – spiega Dara Luber, ricercatrice di Ameritrade -. Sempre più studenti seguono corsi online, si iscrivono alla scuola locale, fanno il pendolare da casa o frequentano un istituto professionale”. Anche in Gran Bretagna ci si domanda se la laurea valga il denaro speso, visto che, ha scritto il Financial Times, il 33% dei laureati ha stipendi inferiori o pari a quelli dei non laureati. Gli studenti ricevono pessimi servizi da facoltà costose: lo studio è indubbiamente un valore di per sé, ma non è sempre riconosciuto in busta paga. Se poi è esteso a tutti non ne beneficia più nessuno: anche i laureati sono senza lavoro. L’intero sistema educativo va rivisto, scrive l’esperto Bryan Caplan in “The case against education”, perché è diventato troppo dispersivo e inefficiente per le esigenze del mondo contemporaneo. —

1 JUVe e napoletani

Napoletani banditi dallo Juve Stadium: “Qui non entrate”

” La società di Agnelli nega i biglietti non solo ai residenti ma a tutti i nati in Campania. La Questura si dissocia

Fatto pagina 15

Così sei poco Signora. Gaffe o discriminazione, Juventus-Napoli vietata a chi è nato in Campania Bufera per le restrizioni all’acquisto dei biglietti Il club: «Comunicate agli uffici competenti»

Sul Giornale a pagina 28.

Se la Juve discrimina i napoletani

Niente stadium per i Caracciolo e mister Sarri

Tony Damascelli sul Giornale

Damascelli

Torino vietata ai napoletani. Lo ha deciso la Juventus, negando i biglietti di accesso all’Allianz stadium per la partita tra Juventus e Napoli, in programma il 31 di agosto, non soltanto ai residenti in Campania, come già imponeva l’Osservatorio del Viminale, per motivi di ordine pubblico, ma addirittura a chi in Campania è nato. Il comunicato emesso dal club bianconero è goffo, ridicolo, razzista ma è, soprattutto, miserabile, figlio di una arroganza e di una ignoranza dinanzi alle quali non c’è alibi, non c’è soluzione, se non quella delle scuse, prima, delle dimissioni e licenziamento, subito dopo. La mediocrità etica impressionante, con il silenzio complice delle istituzioni calcistiche, deve essere censurata dal presidente della Juventus, Andrea Agnelli. A corredo paradossale, ieri, allo stesso Agnelli è stato (…)

(…) assegnato, dalla Camera di Commercio, il riconoscimento dl Torinese dell’anno 2018, per i meriti imprenditoriali nella valorizzazione del marchio Juventus diventata un colosso commerciale e uno dei principali motori dell’economia turistica di Torino. Turisti non napoletani, aggiungo io. Il comunicato della Juventus, infatti, ha aspetti che sfiorano il grottesco: Maurizio Sarri è nato a Bagnoli, anch’egli non potrebbe entrare allo stadio, va da sé, come provocazione, che la famiglia Caracciolo, da cui donna Allegra, madre di Andrea, discende, abbia chiarissime origini napoletane, dunque si porti appresso il marchio indegno come i giornalisti al seguito della squadra. Il delegato alla sicurezza dello stadio, che ha firmato il comunicato, le cui generalità restano misteriose perché cancellate nella pubblicazione (ma del quale si conoscono nome e cognome), i partenopei non hanno diritto di cittadinanza calcistica all’Allianz il trentuno prossimo venturo anche se tifosi bianconeri. Difficile trovare parole per spiegare tanta rozzezza di pensiero, tanto analfabetismo civico. Inutile battersi per scudetti revocati quando si perde la battaglia del rispetto di un ospite nella tua casa. Scontata la colata lavica di insulti nei confronti del club e della squadra bianconera. Non c’è avvocato (con la a minuscola perché con l’A maiuscola non sarebbe mai arrivato a tanto) che possa montare una memoria difensiva sull’accaduto, lo stesso silenzio ufficiale del club conferma che oltre all’imbarazzo resista una supponenza già conosciute. Ma tant’è, il misfatto è compiuto, qualunque smacchiatore non potrà cancellare questo oltraggio all’intelligenza e all’educazione. Non sono meravigliato se penso alle figure alle quali è stata delegata la sicurezza dello stadio, fra queste anche chi si è reso protagonista di collegamenti con la criminalità dedita al bagarinaggio. Questo è il passato ma il futuro prossimo preoccupa, le partite contro il Napoli, già cariche di tensione, si trasformano in momenti di allarme, l’immagine del club bianconero ne esce sporcata, qualche anima, fintamente astuta, sostiene che sia lo stesso dispositivo della scorsa stagione poi modificato dal Viminale, ciò significherebbe che la correzione dell’osservatorio è stata ignorata e l’errore è stato ribadito. Tutto vero, tutto scritto, tutto pubblicato. Tutto molto vergognoso. La Juventus, da sempre, gioca contro tutti. Stavolta ha perso contro se stessa.

1 Diabolik

CosìDiabolik è caduto in trappola L’ultràdellaLaziouccisoalparco.Chiavrebbedovutoincontrare?Ilbodyguardsalvoperl’armainceppata

Corriere

Roma, agguato a Diabolik la pista della mafia albanese. La scorta, l’arma inceppata, l’autista nuovo tutto quello che non torna dell’omicidio.

Messaggero a pagina 13

Una trappola per Diabolik I pm: omicidio di mafia Piscitelli aspettava qualcuno. Con lui sulla panchina l’autista, ma la pistola del killer si è inceppata Pista della droga, l’ipotesi del debito mai pagato con i gruppi organizzati italiani o albanesi. Su Repubblica a pagina 18

Salta la pax criminale. Adesso Roma teme la guerra della droga. Dopo l’uscita di scena di Carminati non c’è più un mediatore degli equilibri tra clan. E ora si rischia il caos. Floriana Bulfon su Repubblica a pagina 19.

Buolfon

L’unica certezza è che quell’omicidio è un pessimo affare. Lo sanno tutti a Roma che le pallottole mettono a rischio la linfa criminale della metropoli, quell’enorme fiume di droga distribuito in cento piazze di spaccio e smistato all’ingrosso in tutta Italia. Chi ha deciso la morte di Fabrizio Piscitelli, il Diabolik delle trame in Curva Nord e della mala rampante capitolina, si è assunto una grande responsabilità. Ha infranto la pax mafiosa che regola “il mercato ideale” delle cosche, come lo definiva il procuratore Giuseppe Pignatone citando l’intercettazione di un ’ndranghetista: il posto perfetto dove arricchirsi e riciclare, così vasto e affamato di cocaina da offrire spazio a chiunque. A patto però di non sparare. Anche per questo gli investigatori sono convinti che si tratti di un delitto di rango, ma non escludono che il movente possa essere più personale che commerciale. Una circostanza che però non nega il danno commesso dal killer, tale da incrinare il complesso equilibrio che permette alle filiali delle mafie italiane e straniere di convivere e siglare alleanze con i boss nativi. Un accordo che si regge su un solo pilastro: non attirare l’attenzione e governare il mercato senza scontri. Vale per tutti, dai capi del narcotraffico agli operai della dose come Alessandro. «Me danno cent’euro, faccio il turno del pomeriggio perché la mattina vado a scuola» racconta. Ha sedici anni e se ne sta seduto sotto a una scala sgarrupata a ridosso di quel Grande raccordo anulare, dove Roma sembra finire e si aprono i self service della droga. A Tor Bella Monaca e a San Basilio non c’è tregua, si spaccia sempre. Un sistema industriale, protetto da vedette, telecamere, pusher che lavorano su tre turni e “capi scala” che controllano. Chili nascosti nei doppi fondi delle auto, importazione dal Sud America, con transito dai porti olandesi e dalla Spagna: per citare le fiction, Suburra ormai si è trasformata in Narcos. Nessuno sa quanto valga il business ma sulle strade si raccolgono decine di milioni a settimana: il fatturato della sola Tor Bella è stimato in cento milioni l’anno. Per questo le cosche del Sud hanno stretto accordi di mutuo soccorso e reciproco vantaggio appoggiandosi alla criminalità autoctona, quella che tiene in mano il territorio usando una violenza molto calcolata. Roma città aperta, sì: a tutte le mafie. Le relazioni della Dia offrono l’elenco della colonizzazione, con i nomi che rappresentano il gotha delle cosche. È presente l’intero vertice della ’ndrangheta dai Gallico di Palmi, agli Alvaro di Sinopoli, fino ai Marando di Platì e agli emissari di Africo e San Luca. Poi ci sono i siciliani e i padrini campani che considerano Roma la porta della cocaina. Sanno che qui c’è un consumo senza pari in Italia e un porto sicuro per i traffici internazionali. Domenico Tassone, un calabrese da anni trasferito a Ostia, spiegava di gestire «una fetta delle importazioni da lui quantificata nel 75% del totale. In Italia solo due o tre persone potevano vantare la stessa disponibilità». Un eldorado dai profitti infiniti, che però funziona solo se si tengono ferme le armi. Diabolik, capo ultrà laziale arrestato in passato per traffico di droga, viene indicato dagli investigatori alla testa di una “batteria” attiva tra i lucchetti dell’amore eterno di Ponte Milvio, nella zona da sempre sotto l’influenza di Massimo Carminati. Aveva agli ordini uno stuolo di picchiatori albanesi e lavorava per conto dei fratelli Salvatore e Genny Esposito. Sono i figli del boss Luigi “Nacchella” legati a Michele Senese: un pezzo da novanta della camorra, forse il primo a creare una mafia ibrida, tanto che uno dei suoi diceva di essere «un napoletano della Tuscolana». Il contatto tra gli Esposito e Senese, detto ‘o pazzo per le tante perizie psichiatriche grazie alle quali evitava il carcere, avviene in una casa di cura romana. Da quel momento i fratelli Esposito crescono e collaborano con la ’ndrangheta attiva a San Basilio, con gli albanesi. Il problema di Roma però è da sempre lo stesso, sin dagli anni Settanta: nessuno comanda ma tutti devono trovare degli equilibri. Prima c’era Massimo Carminati, «elemento di raccordo e di coordinamento», come recita una sentenza di patteggiamento. Dopo il suo arresto, gli atti investigativi non hanno più registrato una figura di “grande mediatore”. A spiccare ci sono stati solo Salvatore Nicitra, ex della Banda, intercettato mentre mette fine a una controversia da 800mila euro tra Senese e Franco Gambacurta, il “ras di Montespaccato”. E Francesco D’Agati, 83 anni, chiamato “Zio Ciccio” come tributo alla sua autorevolezza. È il fratello del capo mandamento di Villabate ed è stato braccio destro nelle ambasciate capitoline di Pippo Calò. Sarebbe stato lui a mediare la “tregua della costa” laziale, ponendo fine a uno stillicidio di duelli calibro nove tra i padrini di Ostia. E si racconta di un suo consulto, poche ore prima che i funerali con carrozza ed elicottero rendessero nota a tutta la città la morte di Vittorio Casamonica: “Zio Ciccio” ha ricevuto a casa Guerino Casamonica, pronipote del patriarca rom, insieme ad alcuni palermitani. D’Agati e Nicitra però da alcuni mesi sono sotto stretta sorveglianza. Ed è sempre più complesso tenere in riga un crogiolo di interessi criminali. Imponendo limiti ai nuovi arrivati, albanesi e slavi, abituati a farsi spazio con i kalashnikov. Tenendo a freno l’esuberanza delle seconde generazioni di pregiudicati calabresi, campani, siciliani cresciuti al fianco degli eredi di usuari e rapinatori romani. O le tentazioni offerte dai vuoti creati dalle retate delle polizie, come quelle ai danni dei Casamonica. Solo le prossime settimane permetteranno di capire se la rete globale dei narcointeressi sarà in grado di frenare gli appetiti dei singoli.

1 stabiloimento razzista

“Qui i neri non li vogliamo” Stabilimento chiuso per razzismo

Su Repubblica a pagina 29

Stabilimento razzista

«Tu non puoi entrare, perché sei nero». È la sera del 21 luglio, un ragazzo 18enne di origine etiope sta per entrare a una festa al Cayo Blanco, un locale di Sottomarina, la spiaggia di Chioggia. È insieme ad alcuni amici, vogliono ascoltare un po’ di musica e ballare. Loro possono entrare, lui no. I bodyguard gli si parano davanti, sbarrano l’ingresso. Mettendo in chiaro le cose: qualche giorno fa un gruppo di ragazzi di origine africana ha rubato alcune collanine all’interno del locale, quindi i neri non entrano più. Inutili le proteste, è costretto a restare fuori. A distanza di poco più di due settimane dall’episodio di razzismo, ieri è arrivato il provvedimento del questore di Venezia, Maurizio Masciopinto, che ha disposto la sospensione per 15 giorni della licenza allo stabilimento balneare. Un provvedimento cautelare, in base all’articolo 100 del testo unico di pubblica sicurezza, per una serie di episodi violenti e razzisti dei quali è accusato il personale di sicurezza della struttura. «Una misura che conferma la gravità del fatto», racconta Barnaba Busatto, avvocato a amico di famiglia del ragazzo, un ex calciatore delle giovanili della Spal residente ad Adria (Rovigo). È stato proprio a Busatto che il ragazzo, quella stessa sera, ha telefonato per raccontargli, in presa diretta, la discriminazione di cui era vittima. «Ha cercato di passarmi i buttafuori», aggiunge il legale, «ma non hanno voluto parlarmi, spiegando che è un loro diritto decidere chi può entrare e chi no». Episodi di razzismo e anche di violenza. Il 3 agosto un 43enne è stato allontanato e poi colpito con calci e pugni da un buttafuori dello stabilimento, riportando la frattura di perone e mascella, con una prognosi di 30 giorni. «Ci stanno diffamando, non siamo razzisti», la replica del locale.

ECONOMIA

1 bce

Bce pronta a intervenire Un nuovo bazooka in arrivo a settembre “Serve ancora una politica monetaria accomodante” Così i tassi resteranno molto bassi ancora a lungo

«Si prevede una crescita più debole nel secondo e terzo trimestre del 2019»

Stampa pagina 20

LaBce:avanti conglistimoliall’economia.Borse su

Corriere o.32

Bce in trincea “Pil europeo fermo interventi pronti”. Inflazione bassa, Brexit, dazi e crisi industriale in Germania e Italia giustificano un altro stimolo monetario.

Tonia Mastrobuoni su Repubblica a pagina 31

Tonia

Jean-Claude Trichet, passaporto francese, è stato il più tedesco dei banchieri centrali europei. Rigorosissimo, commise persino l’errore di alzare i tassi di interesse all’inizio della Grande crisi per eccesso di ortodossia. Perciò la sua intervista a tutta pagina sull’Handelsblatt uscita ieri è sicuramente un appello ascoltato da molti, nel paese di Angela Merkel. «La Germania ha avuto una sana politica fiscale in passato. Ma ora è necessaria una politica fiscale più attiva, a vantaggio delle infrastrutture pubbliche e per rafforzare la domanda» ha sottolineato. E occorre incoraggiare anche maggiori aumenti salariali per spingere la domanda interna, ha aggiunto l’ex capo dei guardiani dell’euro, l’ultimo a predicare costantemente, a suo tempo, la moderazione salariale. Ieri anche il bollettino mensile della Bce ha ribadito lo stesso messaggio di Trichet, che peraltro era stato espresso già a chiare lettere da Mario Draghi a fine luglio. I paesi che hanno i margini di bilancio, dovrebbero sfruttarlo, dovrebbero mettere sul piatto pacchetti di stimolo. Intanto, a fronte di un indebolimento della domanda nel secondo e terzo trimestre, i guardiani dell’euro sono convinti che un “significativo” stimolo monetario resti necessario. Il bazooka della Bce è pronto e molti analisti si aspettano che inizi a sparare già a settembre. Nell’eurozona il Pil si è fermato allo 0,2% nel secondo trimestre, e con un settore manifatturiero che in Paesi come l’Italia e la Germania è in pieno “shock idiosincratico” e rischia di andare “sempre peggio” secondo Draghi, la Bce si attende un ulteriore peggioramento. E dunque, molti si attendono già a breve, al consiglio direttivo del 12 settembre, un taglio dei tassi sui depositi da -0,4 a -0,5%, con buona pace delle banche, soprattutto tedesche, che hanno già avviato la contraerea, minacciando di trasferirli sui correntisti e aumentando la pressione sull’opinione pubblica. Del resto, anche le incognite derivanti dalla crisi di governo aperta ieri dal vicepremier Matteo Salvini rischiano di agitare il mercato dei redditi. Già nelle ultime ore gli spread hanno ricominciato a salire, in attesa dei giudizi imminenti delle agenzie di rating e alla grande incognita della manovra d’autunno. Anche l’inflazione si è fermata all’1,1%, motivo in più per la Bce per mantenere la guardia alta. Anche nel bollettino di ieri c’è un accenno a un nuovo giro di acquisti di bond sovrani e privati, il famoso quantitative easing che vale già 2.600 miliardi di titoli pubblici che restano ancora in pancia alla Bce e che “continueranno ad essere reinvestiti” alla scadenza, come ha ribadito ieri. La maggior parte degli analisti si attende un riavvio degli acquisti da gennaio del 2020. Nel bollettino si evocano poi le nubi che stanno oscurando già l’orizzonte dei mesi autunnali, e due in particolare rischiano di fare l’effetto di uno tsunami sull’area euro. Spaventa il timone del primo ministro britannico Boris Johnson sempre più puntato verso un’uscita disordinata dall’Unione; spaventa la “crescente minaccia del protezionismo” aizzata dal presidente americano Donald Trump. Una dinamica che ha spinto in territorio negativo i tassi delle principali banche centrali. Venerdì scorso è precipitata sotto zero addirittura l’intera curva dei rendimenti dei bund tedeschi. Ma anche i bond sovrani di Paesi extra euro come la Svezia, la Danimarca, la Svizzera e in Giappone sono sotto pressione. E la tensione globale sta schiacciando persino i treasuries americani: il rendimento del decennale si è quasi dimezzato dal 3,25% dello scorso novembre all’1,72% attuale. Il tutto mentre sulla Federal Reserve aumenta il mobbing di Trump, che vorrebbe tagli dei tassi a livelli forsennati.

2 saccomani

Addio a Saccomanni, l’ex ministro gentiluomo Già direttore generale della Banca d’Italia, era presidente diUnicredit

Corriere p.32

Rossi

«Un italiano serio e capace, il Paese ha perso una guida»

Il ricordo F abrizio Saccomanni è stato un mio amico, oltre che un capo, una guida, un predecessore. La notizia della sua morte improvvisa mi ha colpito come fosse stata quella di un fratello. Ma il mio legame personale con lui qui non conta,resterà un fatto privato. Conta il fatto che Saccomanni è stato un grande italiano. Fra i tanti suoi incarichi, anche internazionali, spiccano quelli di Direttore generale della Banca d’Italia, presidente dell’Ivass (l’autorità che vigila sulle assicurazioni), ministro dell’Economia e delle finanze, presidente di Unicredit. Non inganni la sua bonomia romanesca, da cultore del Belli qual era: in tutte quelle vesti, e nelle altre che non ho citato, ha messo rigore analitico, capacità negoziale, grande forza morale. Dimostrando al mondo, che lo conosceva bene, quanto un italiano possa essere serio e capace. Al nostro Paese ha dato molto, la sua scomparsa è una perdita pertutti.

Salvatore Rossi su Corriere pagina 32

Addio a Saccomanni civil servant con il sorriso

Stroncato da un malore il primo giorno di vacanza in Sardegna Presidente di Unicredit aveva 76 anni una vita in Bankitalia e ministro con Letta

Andrea Greco su Repubblica a pagina 31

Greco

Un infarto al primo giorno di vacanza porta via Fabrizio Saccomanni, presidente di Unicredit dopo 46 anni in Bankitalia e uno da ministro del Tesoro nel governo Letta. L’economista di Roma solo mercoledì aveva partecipato al cda della banca e alla conferenza stampa, dov’era apparso in buone condizioni e come sempre gioviale. Un arresto cardiaco lo ha colpito ieri all’ora di pranzo sugli scogli della Gallura vicino al golf di Puntaldia, rendendo inutili i tentativi di rianimazione medica e l’elicottero del soccorso. Avrebbe compiuto 77 anni il 22 novembre. «Scompare un uomo di solida caratura internazionale, al quale il Paese si è affidato in più occasioni, attribuendogli significativi incarichi», lo ha ricordato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Imperturbabilmente cordiale — dote rara nel mondo della finanza — era tra i pochi banchieri della sua generazione a vantare solide esperienze ed entrature internazionali; tra cui gli anni londinesi alla vicepresidenza della Bers (2003-2006). «A nome di tutto il cda e di tutte le persone di Unicredit voglio esprimere l’immenso dolore per l’improvvisa scomparsa — ha scritto l’ad della banca, Jean Pierre Mustier — . Per me scompare anzitutto un amico di grande intelligenza e umanità, colto, competente e arguto. È una perdita per l’intero Paese». In attesa della nomina di un nuovo presidente la banca ha fatto sapere che le funzioni vanno al vice presidente vicario Cesare Bisoni. «Unicredit perde un presidente di grandissimo livello e spessore che ha guidato il cda in una fase caratterizzata da sfide impegnative, con grande equilibrio e trasparenza, visione strategica limpida, forte senso della direzione di marcia», ha aggiunto l’ad. Quando in aprile 2018 Saccomanni diventò presidente della banca, fonti attendibili rivelarono che proprio il carismatico banchiere francese ebbe l’ultima parola nella scelta, a scapito di Massimo Tononi (oggi presidente di Cassa depositi per conto delle Fondazioni azioniste), di cui temeva il piglio più operativo e diretto. Quel misto di bonomia, ironico garbo, competenza e lealtà alle istituzioni, erano già valsi a Saccomanni l’assegnazione di delicati incarichi nelle istituzioni, a farne un membro d’onore della pattuglia di “servitori dello Stato” oggi piuttosto vituperata. Entrato nel 1967 in Banca d’Italia, divenne direttore generale nel 2006, fino alla chiamata di Enrico Letta (su consiglio del Quirinale) nell’aprile 2013 a capo del Tesoro. Durò 10 mesi, fino al governo Renzi. Le stesse caratteristiche avevano anche reso Saccomanni un candidato per altri incarichi di prestigio. Come nel 1998 per il consiglio della Bce, poi toccato a Tommaso Padoa-Schioppa, amico dai tempi degli studi in Bocconi. O la volata per diventare governatore di Banca d’Italia nel 2011 (poi vinta da Ignazio Visco). O la presidenza di Intesa Sanpaolo, per cui nel 2016 fu antagonista di Gian Maria Gros-Pietro. Saccomanni fu anche il ministro del Tesoro che a metà 2013 trattò con il commissario Ue Almunia un raffazzonato rilancio di Mps, che sarà nazionalizzata dal Tesoro di Pier Carlo Padoan tre anni dopo. E fu il ministro che in quei mesi sdoganò la direttiva Ue sul fallimento “privato” delle banche (bail in) senza ottenere clausole di salvaguardia sui bond subordinati diffusi tra i risparmiatori italiani. Lo scorso febbraio, in Senato, il ministro del Tesoro Giovanni Tria disse che Saccomanni «fu praticamente ricattato dal ministro delle finanze tedesco» a riguardo. Ieri Tria ha espresso «profondo cordoglio» per «una grande risorsa di statura anche internazionale» persa dal Paese.

Addio a Saccomanni super-banchiere della Repubblica

Stampa pagina 21

SAC C O M A N N I , LA CARRIERA I N C O M P I U TA DI UN TECNICO »

STEFANO FELTRI sul Fatto

Feltri

Fabrizio Saccomanni è morto all’i m p ro vviso, a 76 anni. Chi lo ha conosciuto ricorda ora il suo carattere solare, la simpatia romanesca che declinava anche in versi, l’a p p arente leggerezza con cui affrontava incarichi gravosi. I siti web gli attribuiscono come qualifica “pr es i de nt e di Unicred it ”, perché questo era l’i nc arico che ricopriva da un anno. Eppure Saccomanni aveva passato la carriera dall’altra parte, dal lato dei vigilanti, non dei vigilati. Una carriera tutta in Banca d’Italia, fino al secondo gradino più alto, quello di direttore generale. Saccomanni era sicuro di raggiungere anche l’ultima tappa, quella di governatore. Ma è rimasto stritolato in una partita di potere: nel 2011 era l’erede naturale di Mario Draghi, in procinto di passare alla Bce. Ma per la poltrona correva anche Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro che vantava (o millantava) il sostegno del grande nemico di Draghi, l’allora ministro Giulio Tremonti. E c’era pure Lorenzo Bini Smaghi, di ritorno da Francoforte. I veti incrociati produssero la nomina di Ignazio Visco. Gli ultimi anni di Saccomanni sono stati un lungo e insoddisfacente risarcimento: direttore generale onorario di via Nazionale, poi ministro dell’Economia nel governo Letta e, infine, membro del cda di Unicredit al posto di uno dei simboli del potere bancario più vischioso, Fabrizio Palenzona. E poi presidente, succeduto all’o ttu age nar io Giuseppe Vita. Fuori da Bankitalia la giovialità di Saccomanni è stata messa a dura prova. Si è trovato bersaglio del rimpallo di responsabilità s ul l’adozione disinvolta da parte dell’Italia delle nuove regole sui fallimenti bancari, quelle che hanno bruciato azioni e obbligazioni subordinate nel 2015 per Banca Etruria e gli altri tre istituti collassati. Nel 2017 lo stesso Ignazio Visco attribuisce al governo di cui Saccomanni faceva parte la colpa di aver gestito male la trattativa poi l’attuale titolare del Tesoro Giovanni Tria racconta in Parlamento che “S a c c omanni fu praticamente ricattato dal ministro delle Finanze tedesco”, il quale disse che se l’Italia non avesse accettato “si sarebbe diffusa la notizia che il nostro sistema bancario era prossimo al fallimento”. Chissà se la prematura scomparsa renderà più facile usarlo come capro espiatorio di responsabilità collettive o prevarrà un po’ di ritegno.

Una lunga militanza nell’esercito della Competenza. L’eredità di Saccomanni

Sul Foglio a pagina 4

Foglio

Fabrizio Saccomanni è stato un alto dirigente delle istituzioni pubbliche. Uno di quelli, e sono tanti, che nel corso della propria lunga carriera ha sempre avuto in mente l’interesse generale. Come altri prima di lui è passato dalla Banca d’Italia al ministero dell’Economia e delle Finanze. Due delle poche scuole di alta direzione ancora presenti nel paese. L’ho conosciuto già ministro: mi assunse alla fine di maggio 2013 come suo portavoce, al termine di una selezione condotta sulla base di curriculum e colloqui. Un piccolo segnale di quella attitudine ad affidarsi alle competenze piuttosto che alla fedeltà, che distingue i tecnici dai politici. Fu ministro del governo del “cacciavite”: quella era la metafora scelta da Enrico Letta per caratterizzare il suo gabinetto. Una metafora efficace, adottata da chi conosce la difficoltà del governare, da chi è consapevole di quanto lunga sia la strada per riformare una comunità di individui organizzati in piccoli gruppi, arroccati a piccoli privilegi e avversi a qualsiasi rischio associato con la trasformazione. Metafora risultata sfortunata in un’epoca di frustrazioni, nella quale molti giudicano il passato migliore del presente e pretendono che il governo risolva tutti i problemi cambiando radicalmente tutto e subito, a condizione che il cambiamento non li riguardi se impone qualche sacrificio. L’epoca della coltivazione del consenso a ciclo continuo, che divorerà un leader politico dietro l’altro nei sei anni successivi. In cui si parla molto ma si fa poco, ché le dirette Facebook sono sempre più facili da farsi mentre scema il numero di quelli capaci di usare un cacciavite. Consapevole che un ministro svolge sempre un ruolo politico, quale che sia la sua estrazione, non ha avuto il tempo di comprendere a fondo la politica e i suoi meccanismi. Come accade a chiunque nell’Italia di questi anni, entrato negli uffici di Via XX settembre ha dovuto occuparsi soprattutto di emergenze: la crisi economica, con la seconda recessione 2012-2013 che non mollava il paese dopo quella più profonda e globale del 2008-2009; la richiesta dell’alleato Berlusconi di cancellare la tassa sulla prima casa, in contrasto con l’esigenza di migliorare i conti pubblici e allontanare dall’Italia il rischio di insolvenza che alla fine del 2011 aveva portato al governo Mario Monti, a danno proprio del Cavaliere; una Comunicazione della Commissione europea che cambiava le regole per la gestione delle crisi bancarie – rendendo all’Italia impossibile l’utilizzo di denaro pubblico per effettuare il salvataggio di intermediari finanziari insolventi (impossibile per norma, dato che l’elevato livello di debito pubblico rendeva già pressoché impossibile il ricorso al deficit per interventi di questo tipo); il difficile negoziato sulla nuova direttiva bancaria dell’Unione europea, con la quale si introdusse il principio del bailin, nel quale l’Italia era completamente isolata tra i 28, stretta in una morsa, tra la necessità di opporsi all’introduzione pro-ciclica di una regola sgradita e l’inopportuni – tà di mostrare ai mercati le debolezze che emergeranno da lì a poco con l’esplosione delle sofferenze bancarie. Aveva uno spirito arguto ed era capace di battute fulminanti, probabilmente merito della passione per Giuseppe Gioachino Belli. Eppure la lunga militanza nell’esercito della Competenza, tra le fila degli Esperti, gli rendeva difficile entrare in sintonia con il senso comune. E quando in televisione difendeva la “burocrazia”, il telespettatore che dall’altra parte dello schermo si irrigidiva sul divano – al pensiero così evocato di lunghe code in polverosi uffici – certo non immaginava che il ministro si sentisse in dovere di difendere quegli alti funzionari dell’Amministrazio – ne che cercano faticosamente di lavorare a un futuro migliore per il paese, spesso tra gli strali della fast politics. Roberto Basso

ADDIO A SACCOMANNI, CIVIL SERVANT ITALIANO DALLO SPIRITO EUROPEO

Davide Colombo sul Sole a pagina 14

Colombo sole

Un civil servant di tradizione bocconiana. Fabrizio Saccomanni, 76 anni, morto ieri in una località di vacanza, aveva militato in quel partito trasversale di europeisti convinti che negli anni della costruzione dell’Unione monetaria vide tra i suoi protagonisti uomini come Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, Romano Prodi e Tommaso Padoa-Schioppa. Era talmente preso dal progetto europeo che nel 2003, come lui stesso dichiarò, in dissidio con l’euroscettico Antonio Fazio, decise di lasciare la “sua” Banca d’Italia per diventare vicepresidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo dei Paesi dell’Europa centroorientale. Fu Mario Draghi a richiamarlo a Palazzo Koch dopo questo periodo di “esilio” all’estero, e gli affidò l’incarico di Direttore generale, ruolo che ricoprì per due mandati dal 2006 al 2013, avendo visto sfumare la nomina a governatore che lo stesso Draghi nel 2011, in procinto di passare alla guida della Bce, aveva sostenuto davanti al Consiglio superiore della Banca d’Italia. Il governo Berlusconi puntava su un altro candidato: Vittorio Grilli, all’epoca direttore generale del Tesoro. Nessuno dei due uscì vincitore e la scelta cadde su Ignazio Visco. «La Banca è in buone mani», commentò Saccomanni in un’intervista all’Espresso di qualche settimana dopo, e liquidò la sua mancata nomina come «una grave ingiustizia commessa per futili motivi». Uno degli appellativi più ricorrenti scelti in virtù della sua lunga carriera internazionale era quello di «ministro degli Esteri della Banca d’Italia». Aveva rappresentato la Banca nei lunghi anni dei negoziati per la costruzione dell’Unione monetaria e non gli dispiaceva sentirselo dire, come è capitato ancora in questi mesi in qualche presentazione del suo ultimo (fondamentale) libro “Le crepe del sistema” (Il Mulino), un’appassionata analisi dell’eredità della Grande crisi e il progressivo indebolimento delle istituzioni della cooperazione internazionale. Per Saccomanni, compagno di corso in Bocconi di Mario Monti, la politica era sinonimo di servizio pubblico. E con quello spirito accettò di entrare nel governo di Enrico Letta come ministro dell’Economia. Toccò a lui, nel giugno del 2013 dare la notizia più bella: la chiusura della procedura di infrazione per deficit eccessivo e il ritorno dell’Italia nel gruppo dei Paesi virtuosi dell’Unione. In via XX Settembre arrivò con lui anche il nuovo Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, un altro collega di Bankitalia, e fu sua la prima nomina di un commissario alla di Davide Colombo spending review: scelse Carlo Cottarelli, tecnico che aveva conosciuto nei cinque anni passati al Fondo monetario internazionale. Schietto, sincero, dall’inconfondibile accento romano e con la battuta sempre pronta, Saccomani era un appasionato di musica classica e lo scorso dicembre era stato nominato presidente del Cda della Filarmonica della Scala. I membri del Direttorio e tutto il personale di Bankitalia hanno espresso profondo dolore per la sua scomparsa ma tutto il mondo della politica e della finanza ieri gli ha tributato un commosso omaggio. «La Repubblica gli è riconoscente per i servigi prestati e partecipa al cordoglio per la sua morte» ha scritto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ne ha ricordato i numerosi incarichi in Banca d’Italia e l’impegno assunto come ministro: «Seppe esprimere anche in quell’occasione il rigore della sua formazione di economista, unito a integrità e comprensione dei fenomeni sociali». Infine l’ultimo impegno, alla presidenza di UniCredit, ricordato dall’amministratore delegato Jean Pierre Mustier. Appena due giorni fa Saccomanni aveva partecipato a Milano alla presentazione del bilancio semestrale: «Con Fabrizio – ha detto Mustier – il confronto è stato di grande stimolo e praticamente quotidiano. UniCredit perde un presidente di grandissimo livello, che ha guidato il consiglio della banca in una fase caratterizzata da sfide impegnative, con grande equilibrio e trasparenza, una visione strategica limpida, un forte senso della direzione di marcia». © RIPRODUZIONE RISERVATA

3 fs

«Pronti a investire fino a 58 miliardi perfavorire crescita e sviluppo del Paese» «Siamo in 60 Stati, anche questo è made in Italy»

GIANFRANCOBATTISTI IL NUMEROUNODI FS

Daniele Manca a pagina 30

Gianfranco Battisti non è uomo di molte parole. Un passato nel gruppo Fiat e poi l’ingresso nel 1998 nel gruppo delle Ferrovie dello Stato lo ha portato oggi a essereil numero uno della società di trasporti.Azienda che ha il primato degli investimenti nel nostro Paese. Le cifre raccontano un impegno che nei prossimi cinque anni raggiungerà i 58 miliardi. Di questi 42 in infrastrutture tra opere ferroviarie (28 miliardi), strade (14), treni e bus (12). Numeri che danno la dimensione di quanto siano strategiche e snodo essenziale per lo sviluppo del Paese le Fs. Battisti si è fatto carico anche di un rilancio non proprio semplice di una compagnia come Alitalia con la visione di mettere assieme treni e aerei, facile a dirsi meno a farsi. Ma anche qui con la convinzione che iltrasporto intermodale (che mette in comunicazione cioè i diversi sistemi) sia fondamentale per un Paese come l’Italia che deve poter disporre di infrastrutture logistiche che facciano da supporto all’industria manifatturiera. Senza dimenticare però le enormi potenzialità legate al turismo, facendone anzi un volano di sviluppo. Legatoaquel patrimonio, vero e proprio giacimento ancora quasi tutto da esplorare, rappresentato dalle città, dai luoghi, dai monumenti, dalle testimonianze della storia passata che sparsi per il territorio devono essere riconnessi e resi accessibili a un turismo mondiale che questo ci chiede. Da un anno Battisti è alla guida del gruppo, ma alle spalle ha 21 anni di lavoro nelle Fs a tutti i livelli. Quello di cui va più fiero dopo un anno da amministratore delegato fa uscire l’anima del ferroviere.Il profilo basso— dice—di chi vuole far parlareifatti. «Aver portato la puntualità reale dell’Alta velocità dal 50% all’80% è la cosa che mirende più orgoglioso». Che significa puntualità reale? «Quella che il cliente percepisce. Adesso ho davanti a me un enorme monitor, in tempo reale mi dice che l’indice di puntualità è dell’80,6%. Sui treni regionali è del 92%, sui treni cargo 65%. Aver guadagnato 30 punti sull’Alta velocità è un risultato straordinario, ma ancora migliorabile. È il nostro biglietto da visita fondamentale per il rapporto con i clienti innanzitutto. E per la nostra credibilità in Italia e all’estero». Quale estero? «Ogni tanto sfugge il fatto che siamo presenti in 60 Paesi con 71 società. Che in Gran Bretagna dovremmo aver vinto proprio in queste ore un’altra gara. Ma anche che in consorzio gestiamo le linee 3, 4, 5, 6 della metropolitana di Riad. Che a Johannesburg stiamo creando il principale polo intermodale in Sud Africa. Che progettiamo le linee ferroviarie inSerbia, Romania. Possediamo quelle greche. Anche questoèmade in Italy». Un tempo la capacità di creare infrastrutture, si pensi alle grandi dighe nel mondo, era punto di vanto per il nostro Paese. «Non “era”, “è” un punto di vanto. Stiamo partecipando a programmi a Los Angeles per 10 miliardi di dollari eaWashingtonper 12. Trump ha detto che nei prossimi anni negli Stati Uniti verranno investiti 1000 miliardi di dollari in infrastrutture». In infrastrutture non solo in treni. «Anche qui si sottovaluta come le Fs siano un gruppo che fa treni, ma anche strade, partecipa a progetti per le città intelligenti. Riqualifica intere porzioni di città. Pensi solo a Milano e alla riqualificazione degli scali, un progetto da un milione e 300 mila metri quadri che contribuirà alla grande trasformazione urbanistica della città. SempreaMilano a PortaRomana verrà poi costruito anche il villaggio per le Olimpiadi del 2026. Per rimanere nel nostro Paese. Ma si calcola che nei prossimi 15-20 anni gli interventi in infrastrutture ferroviarie e stradali varranno nel mondo qualcosa come ventimila miliardi di euro». D’accordo ma tutto questo non distrae dal core business deitreni? «Affatto. Anzi. La priorità delle priorità per me rimangono i treni regionali peri pendolari in Italia». Ma questo come si combina con il resto? «Il puntoèproprio questo. Sinora si è ragionatoacompartimenti stagni. Da quando ho ricevuto il nuovo incarico, avendo trascorso 21 anni in questo gruppo ho capito che andava cambiato l’approccio. Non dovevamo offrire solo un servizio il migliore possibile, ma occuparci delle persone conipropri bisogni mettendole al centro del nostro modello di sviluppo». Sì ma concretamente? «Concretamente sono 600 nuovi convogli dei quali 239 anticipati entro il 2023 per un valore complessivo di6miliardi .Eiprimi sono già entrati in servizio in Emilia Romagna. L’86% della domanda è concentrata proprio nel trasporto regionale. Ecco perché è importante proprio nel trasporto regionale migliorare il modello di offerta. Abbiamo iniziato mettendo il servizio di assistenza alla clientela dedicato ai pendolari nelle principali stazioni, security e customer care sui treni a maggior domanda assumendo circa 2 mila nuove persone. Ma dietro tutto questo c’è un nuovo modello di business». Quale? «L’intermodalità. Occuparsi di mobilità significa capire che i clienti non devono avere un servizio da stazione a stazione ma “doorto door”, da punto di partenza a punto di arrivo. E che nel tragitto potranno usare diversi mezzi. Vanno messi in rete stazioni, aeroporti e porti come porte di accesso al Paese attraverso treni, aerei e bus». Insomma ci sta dicendo che siete entrati nell’avventura Alitalia perché cambiava il modello di business anche di Fs? Nessuno però al mondo lo fa. «All’Italia serve questo approccio. Un turista che da New York vuole andareaFirenze avrà un biglietto unico, atterrerà a Fiumicino, e troverà un Freccia rossa che lo porterà in centroaFirenze. Una semplicità che potrà aiutarlo ad aver voglia di visitare anche Siena, Pisa. Pensi, che abbiamo collegato attraverso un sistema di accessibilità diffuso 252 destinazioni in Italia a forte vocazione turistica. E questo va incontro anche all’esigenza di redistribuireiflussi turisti oggi troppo concentrati sulle destinazioni tradizionali come solo Roma, Firenze, Venezia». E quando cominciate? «Il 15 settembre dovremmo fare l’offerta affidandoci a un management solido». Ma sarà sostenibile per Fs il rilancio di una compagnia che tantoècostata ai contribuenti? «Siamo con la prima compagnia al mondo che è Delta, con Atlantia che è una delle maggiori al mondo nel suo settore, dobbiamo metterci di impegno per non riuscire. Anche perché noi pensiamo ai passeggeri, ma non dimentichiamo che siamo la seconda manifattura d’Europa e che quindi merci e logistica saranno anch’essi volano di sviluppo». Ma la logistica italiana è così frammentata. «Sì, c’è troppa polverizzazione, 16 mila imprese sono troppe. E intercettare solo il 16% del mercato è poco. Dobbiamo diventareipiù grandi. Per questo avremo 100 nuovi locomotori, 714 nuovi carri. E non mi accontento certo di una puntualità al 65%. Come vede gli investimenti in infrastrutture pagano due volte, nel momento nel quale si fanno e quando messi in opera agevolano l’intera economia». ©

4 truffati

Banche, sì airimborsi aitruffati: 6 mesi perle domande La Lente di Diana Cavalcoli L a lunga attesa dei risparmiatori truffati dalle banche è finita. Potranno chiedere il rimborso. Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha firmato il decreto che fissa i termini perla presentazione delle domande al Fondo Indennizzo Risparmiatori (Fir). Uno strumento istituito dalla legge di bilancio 2019 che conta una dotazione di 1,5 miliardi di euro. «Il decreto—spiega ora il Mef — dovrà essere registrato dalla Corte dei conti». Ma cosa fare per chiedere il rimborso? Per consentire l’erogazione delle prestazioni del Fir, le domande devono essere inviate entro 180 giorni dal giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto ministeriale. Possono accedere al Firi risparmiatori, i piccoli imprenditori e le microimprese. Le richieste corredate dall’idonea documentazione possono essere inviate esclusivamente in via telematica utilizzando i moduli presenti sulla piattaforma informatica gestita da Consap. Soddisfatta anche l’Unione nazionale consumatori. «Bene, ottima notizia. Si chiude, finalmente, un lungo percorso», ha detto il rappresentante legale dell’associazione Corrado Canafoglia. ©

Banche fallite il decreto indennizzi arriva al traguardo.

Rosaria Amato su Repubblica a pagina 30

Amato

Via libera agli indennizzi per i risparmiatori truffati dalle banche: ieri, il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha annunciato la firma dell’ultimo dei decreti di attuazione del Fir, il Fondo da un miliardo e mezzo di euro istituito dall’ultima legge di Bilancio. Tutti gli interessati, gli ex azionisti e obbligazionisti delle banche poste in liquidazione coatta amministrativa dopo il 16 novembre 2015 e prima del 1° gennaio 2018, hanno adesso 180 giorni di tempo (a partire dalla pubblicazione di quest’ultimo decreto sulla Gazzetta Ufficiale) per registrarsi sulla piattaforma informatica gestita dalla Consap, allegando la documentazione richiesta, che serve a dimostrare di aver subito un danno ingiusto (la legge parla di «violazione massiva») a causa del mancato rispetto degli obblighi di informazione, diligenza, correttezza, buona fede oggettiva e trasparenza. L’annuncio di Tria arriva con un notevole ritardo rispetto ai tempi previsti (alcune associazioni venete si erano già organizzate per i festeggiamenti per il 3 agosto, con una “Festa mondiale del risparmio indennizzato”, che è stata rinviata) ma viene accolto con molta soddisfazione dalla quasi totalità dei risparmiatori: «Il governo ha mantenuto la parola, ora molte persone potranno dormire meglio la notte», commenta Patrizio Miatello, dell’associazione trevigiana Ezzelino III da Onara. Molto critico, invece, il Codacons: «Migliaia di piccoli risparmiatori truffati attendono giustizia da ben 6 anni — obietta il presidente Carlo Rienzi — e la firma tardiva del decreto ministeriale porterà i rimborsi ad essere erogati tra molto tempo, non prima della primavera del 2020». Al Mef si intestano il successo dell’operazione sia il sottosegretario leghista Massimo Bitonci, che parla di «promessa della Lega mantenuta», che il sottosegretario grillino Alessio Villarosa: «Il M5S è coerente — rivendica — avevamo promesso le giuste tutele ai risparmiatori e mi sono impegnato in prima persona per realizzarle». Entrambi ricordano le ultime modifiche alla normativa, che hanno permesso di ampliare la platea dei beneficiari dei rimborsi automatici (riservati a chi non supera i 35 mila euro di reddito o i 100 mila di patrimonio mobiliare).

5 Fca Peugeot

Cinesi in uscita da Peugeot, ipotesi Fca Dongfeng verso la cessione delle quote del costruttore francese,sul mercato andrebbe il14%

Il gruppo cinese Dongfeng pare deciso ad uscire dal capitale del costruttore francese Psa (detiene il 14,1%), per monetizzare l’acquisizione fatta nel 2014, quando Dongfeng era entrata in Peugeot insieme allo Stato francese. A quel tempo iltitolo della casa transalpina valeva 7,50 euro, mentre ieri, alla Borsa di Parigi, le azioni sono quotate circa 20 euro. Chi potrà acquistare questa partecipazione? Carlos Tavares, capo da cinque anni di Psa (include i marchi Peugeot, Citroën, DS e Opel, quest’ultimo in attivo dopo venti anni di rosso e 19 miliardi di perdite accumulate), recentemente ha dichiarato: «Staticamente penso che ci saranno altre opportunità di alleanze». La stessa affermazione è stata fatta da Mike Manley, ceo di Fiat Chrysler, confermata anche dal p residente John Elkann. La famiglia Peugeot è nella società con una quota del 14,1% e tra i clan Elkann/

Corriere pagina 31

lsls

6 alitalia

Nuova Alitalia, dubbi su Delta e si rifà avanti Lufthansa

Voli, alleanze e royalties Vacilla lo schema di newco tra Atlantia, Fs e gli americani. I tedeschi sarebbero disponibili a rivedere il piano di tagli al personale

Su Repubblica a pagina 30

Alitalia

Quaranta giorni per salvare Alitalia prima che si esauriscano le risorse residue del prestito ponte e del ricavato dei biglietti dei voli estivi. Il tempo stringe mentre c’è da decidere il piano industriale, un tema delicato che potrebbe far riemergere da dietro le quinte l’alternativa Lufthansa. I tedeschi starebbero solo aspettando un passo falso di Delta. Che in queste ore, assieme a Fs e Atlantia, deve decidere il nuovo assetto di Alitalia. La linea aerea Usa che dovrebbe entrare nella newco con un impegno compreso tra il 10 e il 20%, ha di fatto escluso il vettore romano dalla nuova joint venture transatlantica Blue Skies, che però resta forse l’unica ragione per allearsi con Delta. «Alitalia — accusano i sindacati del personale di bordo della federazione che unisce Anpac, Anp e Anpav — è oggi ridotta a partner irrilevante in Blue Skies, l’accordo commerciale fra Delta, Air France-Klm e Virgin Atlantic sottoscritto per rafforzare la presenza nei collegamenti verso il Nord America». Ed è stata di fatto sostituita da Virgin «a conferma dell’inadeguatezza del top management che va cambiato» dicono con rabbia i sindacalisti che hanno sempre guardato con favore ad un ingresso soft e a esuberi zero di Lufthansa. Come se ciò non bastasse, Delta ha impostato il progetto di rilancio puntando sul taglio del medio raggio di Alitalia e di alcuni voli intercontinentali e portando una buona fetta dei collegamenti dall’Italia verso Parigi, la casa dell’alleato Air France-Klm di cui gli americani hanno il 10% del capitale. Un accordo a senso unico che lascerebbe solo le briciole dei collegamenti di lungo raggio al nostro Paese e in particolare allo scalo di Fiumicino, gestito dalla controllata di Atlantia, Aeroporti di Roma. Altro nodo che andrà presto sciolto riguarda le percentuali dei compensi richiesti da Delta per “permettere” ad Alitalia di sopravvivere e volare sulle ghiotte — ma ridotte al lumicino per quantità — rotte dall’Italia al Nord America: questi accordi ormai residuali sulle royalties, secondo indiscrezioni, arriverebbero fino al 30%. Un salasso che accanto al taglio di una ventina di aerei della flotta Alitalia rischia di vanificare qualunque ipotesi di rilancio favorendo unicamente gli americani e in parte Air France. Altro tema sul tavolo proprio quello del rinnovo della flotta. Gli aerei col tricolore hanno un’età media di 13 anni mentre il concorrente Ryanair si ferm a 8 anni e easyJet 7. Ecco perché queste tensioni, a 40 giorni dalla partenza della Nuova Alitalia, rischiano di alimentare le incertezze e i dubbi sul bisogno di mantenere in piedi un accordo con il partner statunitense che cerca di girare il piano industriale a proprio favore. Una partita a poker che sta riaccendendo i motori di Lufthansa: i tedeschi, secondo quanto apprende Repubblica, sarebbero ancora disponibili a scendere a patti rispetto alla proposta (bocciata dal governo) fatta lo scorso anno. Al punto che alcuni ambasciatori del vettore tedesco starebbero provando a riallacciare il dialogo. Un dialogo che troverebbe favorevoli la Lega e alcuni sindacati di categoria, a patto di azzerare i tagli draconiani alla forza lavoro. L’ultimo scoglio da superare riguarda il nome dell’amministratore delegato: un bel problema visto che intorno ad Alitalia c’è il deserto e nessun manager di settore, al momento, è pronto a scommettere su una compagnia in perenne stato comatoso. Inoltre, si sta ragionando sul mantenimento all’interno del perimetro della nuova compagnia dell’handling, il servizio bagagli, mettendo in salvo 3.500 posti di lavoro. Altri lavoratori potrebbero mantenere l’occupazione se dovesse maturare l’ipotesi della creazione di un importante polo per la manutenzione. I tempi però restano strettissimi. E Alitalia rischia di concludere la sua storia nel peggiore dei modi, come tante altre compagnie blasonate in crisi fallite (quasi) sempre a fine estate o allo scoccare dell’autunno quando scarseggiano i passeggeri.

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ESTERI

1 fiamme

Fiamme tra i missili nucleari L’estate nera dell’armata russa Nuovo incidente in una base militare: due morti e timori perla fuga diradiazioni

Incidente ● Ieri si è verificato un incendio nella base russa di Nyonoska, regione di Arcangelo, dove vengono condotte ricerche sui motori dei missili intercontinentali destinati ai sottomarini

Corriere p.12

Ancora fiamme in una base militare In Russia è allarme fuga radioattiva L’incidente nel poligono sul mar Bianco dove vengono assemblati i missili per i sommergibili atomici Due morti e sette feriti. Il giallo del rilascio di radiazioni: il ministero della Difesa corregge le autorità locali

Repubblica a pagina 14

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Olga “Noi giovani non abbiamo paura. Cambieremo Mosca”. Nelle manifestazioni per le elezioni libere, la 17enne Misik si è messa a leggere i diritti sanciti nel Paese ed è stata fermata. “Finire in cella non è un grande prezzo per la libertà. Volevo solo ricordare le nostre libertà fondamentali: la libertà di parola, il diritto alle riunioni pacifiche, a eleggere e a essere eletti Il mio sangue ribolle per la volontà di cambiare le cose. Non so se passerà con l’età, ma ora come ora ho più che mai voglia di combattere. Sarà pure una velleità d’adolescente ma io sono pronta a dedicare la vita alla causa di una Russia libera e, se necessario, a sacrificarla”. Rosalba Castelletti su Repubblica a pagina 15.

Olga

Olga Misik tornerà a sfilare lungo le strade moscovite anche domani. Anche a costo di essere portata di nuovo in carcere. «Non è un prezzo così alto da pagare per i diritti e le libertà». Dice con la fiducia acerba dei suoi 17 anni in una Russia «libera e giusta». E la convinzione che «noi giovani possiamo fare tutto, cambiare il mondo e costruire un futuro più luminoso». Come quando, il 27 luglio, si è seduta gambe incrociate sull’asfalto e si è messa a leggere la Costituzione, incorniciata da una falange di minacciosi agenti con i loro grotteschi caschi antisommossa. Lo scatto che l’ha resa simbolo di una resistenza pacifica e democratica. Senza fucile, senza pietre. Solo la legge fondativa della Russia post-comunista che oggi manganella e ingabbia inermi dimostranti contro l’esclusione di candidati indipendenti dalle prossime elezioni moscovite. Una protesta che ha il sapore di una favola. La bambina contro i giganti, come la Nobel Malala Yousafzai o la coetanea Greta Thunberg. Come mai hai deciso di leggere la Costituzione alla manifestazione? «Volevo ricordare quali sono i nostri diritti fondamentali. Ho letto l’articolo 29 sulla libertà di parola, il 31 sul diritto alle riunioni pacifiche, il 32 sul diritto di eleggere ed essere eletti che era anche il motivo principale di quella protesta. E poi ancora l’articolo 3 secondo cui il popolo è l’unica fonte di potere nello Stato, l’articolo 21 sul divieto di tortura, altro tema spaventosamente attuale. E infine l’articolo 42 sull’obbligo di custodire l’ambiente. In Siberia bruciano le foreste, ma per le autorità spegnere gli incendi non è “economicamente vantaggioso”». Non hai ancora l’età per votare. Perché ritieni così importanti le elezioni moscovite di settembre? «Perché le conseguenze mi riguarderanno. La Duma di Mosca regola la vita nella capitale, decide a cosa assegnare i fondi. Avere deputati onesti influisce sulla vita di tutti. È anche diventata una protesta di principio: dimostriamo che non intendiamo sopportare l’illegalità che piace tanto alle autorità». Ci sono stati oltre mille fermi nel quarto fine settimana di proteste. Che cosa temono le autorità? «Sono in un tale vicolo cieco che hanno letteralmente paura di tutto. Perfino di una minorenne con la Costituzione in mano. Per non parlare dei cittadini in strada pacifici e disarmati: sono l’incarnazione degli incubi del sindaco Serghej Sobjanin». Come ti sei avvicinata alla politica? «È con la manifestazione del 9 settembre 2018 contro la riforma delle pensioni che è iniziato il mio percorso. Paradossalmente, fino a un giorno prima, la politica non mi interessava. Ma da allora non mi sono mai voltata indietro». Fai parte del movimento “Bessrochka”, Protesta perpetua. Qual è il suo obiettivo? «Bessrochka è una protesta pacifica decentralizzata. Non ha struttura, né partecipanti o leader, ha solo sostenitori: è ciò che lo distingue da altri movimenti. La sostanza è che non si deve smettere di manifestare neanche per un minuto, non si abbandonano le manifestazioni dopo che sono finite e bisogna fare costantemente qualcosa per il bene della rivoluzione. Chiunque faccia una di queste cose, senza volerlo diventa attivista di Bessrochka. Anch’io ci sono capitata per caso, giusto perché sostengo qualsiasi iniziativa. Abbiamo canali su YouTube e Telegram, una pagina Facebook e diverse chat. Lo slogan è: “Non ci fidiamo dei politici, ci fidiamo di noi stessi”». Come mai, così giovane, avevi sentito il bisogno di protestare contro la legge sulle pensioni? «Il mio sangue ribolle per la volontà di cambiare le cose. Non so se passi con l’età, ma ora come ora sono più che pronta a combattere». A quante proteste hai partecipato? «Dieci. Ma la mia protesta non si ferma mai, nemmeno per un minuto. Mi dedico all’attivismo e alle campagne online. Inventiamo in continuazione qualcosa di nuovo, partecipiamo ai picchetti e organizziamo mini-proteste». E quante volte sei stata fermata? «Quattro. Il 12 giugno alla protesta a sostegno del giornalista Ivan Golunov, il 26 luglio mentre distribuivo volantini, il 27 perché indossavo l’uniforme di Bessrochka e infine sabato scorso mentre tornavo a casa la sera. Ai poliziotti non è piaciuto che sia corsa alla loro vista». Che cosa rischi dopo i fermi? «Il totale dell’eventuale multa è di 650mila rubli (9mila euro, ndr), ma sono sicura che non dovrò pagare tutto: i fermi erano illegali, i verbali sono stati redatti in modo errato e i rapporti della polizia erano falsi». Non hai paura? «Non ho paura né di arresti, tribunali, multe, scontri con la polizia né di essere torturata o sbattuta in una cella. Sfortunatamente, tutto questo è prassi frequente in Russia. L’unica cosa che mi preoccupa è la salute di mia madre. È sfinita dai miei continui problemi legali. I miei genitori non approvano il mio attivismo. Mio padre è un putinista». E i tuoi coetanei? «La maggior parte dei miei amici mi sostiene, mio fratello minore è molto orgoglioso di ciò che faccio». Non tutte le reazioni sono state positive… «La Russia non è un Paese amichevole. Molta gente ha iniziato a inventare le balle più stupide su di me. E mi sorprende moltissimo questa brama di distruzione anziché di creazione. Di me parlano persino i principali “propagandisti”, come il corrotto “giornalista” Vladimir Solovjov. Però devo dire che tutto sommato ci sono più parole buone e oneste che cattive e ingannevoli». Senti il peso di essere diventata tuo malgrado un simbolo? «Sabato scorso camminavo sull’Arbat e ho sollevato la Costituzione come simbolo della mia protesta personale. Solo dopo un po’ mi sono accorta di guidare una folla. Eppure mi sembrava tutto così normale». Vuoi diventare giornalista. Ti ispiri a qualcuno? «Vorrei dire alla gente la verità, vorrei cambiare il mondo con l’aiuto delle parole. Non ho modelli né in politica né nel giornalismo. Mi entusiasma solo l’idea di una me stessa migliore». In che Russia vorresti vivere? «Una Russia libera e giusta». Che cosa può fare la tua generazione per cambiare le cose? «Possiamo fare tutto. Il futuro appartiene ai giovani. Siamo pronti a costruirlo. Non abbiamo paura. Io sono pronta a dedicare la mia vita a questa causa e, se necessario, a sacrificarla. Sarà pure una velleità giovanile, ma morire per un futuro più luminoso è la migliore morte e il miglior futuro che io possa sognare».

3 Il szoldato che leggeva Grosman

Il soldato che leggeva Grossman. Ucciso a 19 anni, shock in Israele. Dvir Sorek stava rientrando nel kibbutz religioso dove studiava. L’esercito avvia una maxi caccia all’uomo. Con lui aveva libri appena acquistati. Lo scrittore: “So bene come soffre la famiglia”. Esultano Hamas e Jihad. Vincenzo Nigro su Repubblica a pagina 16.

Nigro

Ritornava da Gerusalemme nel suo insediamento in Cisgiordania. Portava con sé i libri che aveva acquistato, alcuni testi religiosi per i rabbini della sua scuola. Ma fra le braccia stringeva anche un altro libro, l’ultimo di David Grossman, Con me la vita gioca molto. Dvir Sorek, un giovane soldato-studente religioso israeliano di 19 anni, è stato ucciso a coltellate nella notte fra mercoledì e giovedì mentre rientrava nella sua colonia nei Territori palestinesi. L’assassinio di un ragazzo che tutti descrivono come una giovane colomba, un esempio di virtù e pacifismo e che rischia di infiammare le lunghe settimane che rimangono fino alle elezioni del 17 settembre. Dvir mercoledì sera rientrava a casa, nell’insediamento di Ofra, pochi chilometri da Gerusalemme; attraversava i Territori palestinesi che Israele occupa ormai da anni. A mezzanotte i suoi genitori avvertono la polizia: «Dvir non è rientrato, non ha avvertito, non è mai successo». L’esercito lo ritrova alle 2.30 del mattino, a poche decine di metri da un altro insediamento storico, quello di Gush Etzion, il corpo trapassato da molte coltellate. L’esercito e i servizi di sicurezza partono immediatamente, lanciano una caccia all’uomo come decine e decine di volta hanno fatto. Un altro colono ebraico ucciso nei Territori palestinesi, un’altra vittima di una catena di sangue che da decenni non risparmia ebrei e palestinesi. Nessun gruppo terroristico rivendica l’omicidio, anche se immediatamente Hamas e la Jihad palestinese esultano per il colpo, usano la morte di Dvir per lanciare i loro messaggi. »L’attacco dimostra il fallimento di Israele nell’ostacolare la nostra resistenza», dice Hamas. Immediato parte il coro dei capi politici israeliani: sono sotto elezioni, e non possono mostrare nessuna incertezza sull’omicidio di un giovane studente di una yeshiva, una scuola talmudica. Il premier Benjamin Netanyahu, che in mattinata inaugura la costruzione di altre 700 case in un insediamento anche questo in Territorio palestinese, dice che «le nostre forze di sicurezza non si fermeranno finché non avranno trovato i colpevoli di questo atto di terrorismo». Benny Gantz, l’ex capo dell’esercito che ora guida il primo partito di opposizione a Netanyahu, se possibile è ancora più duro, deve dimostrare di saper essere violento con i terroristi: «Faccio le mie condoglianze alla famiglia di Dvir Sorek, i nostri soldati daranno la caccia e prenderanno i terroristi. Vivi o morti!» Il copione è noto. Tutti i capi dei partiti, i ministri e gli ex ministri israeliani lanciano i loro messaggi di “guerra al terrore”, messaggi di forza per rassicurare i loro concittadini elettori. Ma chi conosceva Dvir racconta la storia di un soldato che non era ancora inserito nell’esercito, che rientrava a casa vestito da studente rabbinico, in borghese, e senza armi. Il direttore della scuola religiosa, Kenneth Brander, lo ricorda con parole di pace: «Dvir era un ragazzo meraviglioso, pieno di talento: era un poeta, un musicista, devoto alla natura, un giovane uomo che credeva fosse necessario trattare ogni essere umano come Dio ci ha insegnato, non importa quale religione segua». I suoi compagni di scuola diffondono un comunicato per dire che «noi continueremo a credere che bisogna costruire lo Stato di Israele seguendo l’idea di amore per Israele e di amore per l’umanità». Tutti descrivono il giovane come un ragazzo mite, studioso, uno dei 7 figli di Yoav, il direttore di una rivista storica ebraica, e di Rachel, un’artista. Suo nonno materno, il rabbino Benjamin Herling, fu uno dei promotori del movimento dei coloni ebraici: anche lui fu ucciso, nel 2000, in un attacco di militanti palestinesi. E nonostante questo la famiglia aveva continuato a vivere nei Territori palestinesi, seguendo lo stile di vita impostato a una stretta osservanza dei principi religiosi ebraici. Per ultimo parla lo scrittore David Grossman, lui che 13 anni fa ha perso un figlio in una delle guerre che Israele ha combattuto in Libano. Lui che scopre che quel ragazzo fra le mani aveva ancora il suo libro. «Non lo conoscevo, ma da quanto ho capito era un ragazzo che diffondeva luce attorno a sé, che era illuminato, che aveva uno spirito da artista. So bene cosa attende adesso la sua famiglia, lo so per esperienza personale», aggiunge Grossman. E il riferimento è al figlio scomparso in Libano. «L’immagine di lui che abbraccia il mio libro mi spezza il cuore».

4 Libia

Il ministro Trenta e i soldati in Libia

I missili che sfiorano gli italiani “sono molto precisi”. Sospiro di sollievo!

Sul Foglio a pagina 3

Ieri il Foglio ha fatto notare che il contingente italiano in Libia è sfiorato dai missili sparati dalle forze del generale Haftar contro l’aeroporto di Misurata e il governo (si fa per dire) da Roma non pronuncia nemmeno una sillaba a proposito. I bombardamenti su quel luogo sono già stati tre in dieci giorni e colpiscono a cinquecento metri dai soldati. Il contesto è una guerra civile che sconvolge il paese e in cui i governi stranieri si intromettono molto volentieri con aiuti militari. Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, in mattinata ha risposto con una dichiarazione che conferma tutto, anche se usa una definizione – “base italiana” – che il ministero della Difesa aveva finora evitato con accortezza perché la missione italiana si occupa di un ospedale da campo e non vuole sembrare altro. Comunque ecco la dichiarazione: “Negli ultimi due giorni gli aerei del generale (Khalifa) Haftar hanno colpito anche l’aeroporto di Misurata, dove si trova la base italiana. Si tratta di attacchi molto precisi, che non hanno coinvolto in alcun modo gli italiani e il nostro ospedale e tale precisione indica che certamente non siamo noi l’obiettivo degli attacchi. Noi non siamo un target per nessuna delle due fazioni”. Dopo la dichiarazione siamo rincuorati. Si tratta di attacchi “molto precisi, che non ci prendono di mira”. Droni cinesi pilotati da militari degli Emirati Arabi Uniti bombardano nel cuore della notte aerei cargo che trasportano armi e munizioni in prossimità del contingente italiano, ma adesso sappiamo che la cosa non ci riguarda. Il C-130 che doveva rifornire gli italiani non è riuscito ad atterrare ed è tornato indietro, ma tiriamo un sospiro di sollievo: non siamo noi il target per nessuna delle due fazioni. Ci chiediamo se altre nazioni tollererebbero la situazione. In pratica siamo al grado zero della politica italiana in Libia. Da qui si può soltanto risalire. Sparano sopra la testa ai soldati, ma confidiamo che i libici abbiano una buona mira e si ammazzino tra loro senza colpire il nostro contingente.

5 Usa

Usa, retata anti-migranti Arrestati 700 irregolari. Blitz in Mississippi Mentre trump era a el paso. Decine di bambini separati dai genitori Si dimette la sottosegretaria Breier

Stampa pagina 11

6 frigo solidale

Parigi ha un cuore Contro gli sprechi c’è il frigo solidale

Un’idea per conservare il cibo avanzato che così diventa accessibile ai poveri. Parla l’ideatrice

Su Repubblica a pagina 17.

7 portogallo

L’antipopulismo del Portogallo fa ingolosire gli investitori

Micol Flammini sul Foglio a pagina 3

portogallo

Il 2018 è stato per il Portogallo il terzo anno di crescita consecutivo, la nazione cresce e diventa sempre più appetibile per gli investimenti stranieri nel suo essere una piccola e virtuosa anomalia europea. Ha un forte governo socialista che probabilmente, secondo i sondaggi, verrà riconfermato dopo le elezioni che si terranno a ottobre, è stato attraversato da una profonda crisi economica – con il rapporto deficit/pil che nel 2011 sfiorava l’11 per cento e la disoccupazione era al 17 – dalla quale è uscito, senza far troppo rumore, dopo tre anni di austerity. Oggi il Portogallo è una storia europea di successo in tanti settori, anche nella gestione dell’immigrazione. Il governo di António Costa, durante la ripresa, si è anche trovato a dover affrontare il problema della forza lavoro, il paese ha un tasso di natalità tra i più bassi in Europa e in costante calo (1,31 nascite per donna nel 2016) e, mentre il Portogallo cominciava a riprendersi, mancavano le energie per far ripartire l’economia. La possibilità di accogliere migranti è parsa per il governo socialista come una soluzione e nel 2015, quando la Commissione europea chiese ai paesi membri che ciascuno si assumesse le sue responsabilità e accogliesse migranti, Lisbona rispose che era pronta a far entrare quattromila rifugiati. Nel 2017 ne aveva accolti 2.951 e a tenerli sul suo territorio, in un paese in crescita ma non ricco, aveva anche fatto fatica: secondo il rapporto Relocation and Resettlement, emesso dalla Commissione, dopo 18 mesi, molti cercavano di nuovo di cambiare paese. L’immigrazione tuttavia è stata un tassello importante nel rilancio dell’eco – nomia e, ora che la situazione è più stabile, che il rapporto deficit/pil è sceso allo 0,5 per cento e che il paese cresce dell’1,7 per cento – più della Germania – il Portogallo sta iniziando ad attrarre tutto un altro tipo di immigrazione: investitori che vedono nella crescita e nell’at – teggiamento aperto del paese nei confronti degli stranieri un’opportunità. Per attrarre gli investitori stranieri la nazione ha anche iniziato a offrire agevolazioni fiscali, adottando un sistema che in altri paesi europei è visto come controverso, ha deciso di dare dei “visti d’oro” ai cittadini di paesi terzi che spendono più di cinquecentomila euro per acquistare una proprietà o che creano posti di lavoro. In questo modo ha attirato brasiliani, israeliani, americani e russi, affascinati non soltanto da questi privilegi fiscali. Come spiega il Financial Times sono anche il clima sociale e politico a fare del Portogallo una meta attraente per imprenditori. Il paese ha il tasso di criminalità più basso d’Europa, un fattore che di recente ha richiamato l’atten – zione di migliaia di immigrati dal Brasile che invece ha uno dei tassi di omicidi più alto al mondo, ed è considerato libero da divisioni generate da populismo, nazionalismo e sentimenti anti immigrazione. Per chi decide di investire in Unione europea, stabilità politica e pace sociale sono tra i criteri più importanti tra quelli che vengono presi in considerazione dagli imprenditori. António Costa, il premier socialista, è dato dai sondaggi al 40 per cento e il suo partito con ogni probabilità vincerà di nuovo le legislative di ottobre. Questo crea un clima di affidabilità e dà anche sicurezza di stabilità. La pace sociale, l’apertura della nazione e la sua impermeabilità al populismo sono considerati dei vantaggi competitivi. Lo scorso anno il numero di residenti stranieri è arrivato a 93.000 e i progetti di investimenti diretti sono stati valutati intorno ai 3 miliardi di sterline nel 2018, il livello più alto da un decennio. Micol Flammini

7 kashmir

Niente web né corrente Kashmir isolato dal mondo «Arrestati 500 attivisti» `Strade deserte e negozi chiusi dopo la fine dello status speciale decisa dall’India. Modi: «Era la base del terrorismo pakistano». Islamabad blocca i collegamenti ferroviari con Dehli. Ma punta sulla diplomazia: «nessuna guerra». Messaggero a pagina 12

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GIUSTIZIA

1 Fuori e di nuovo dentro

NUOVA FINE PENA: 2027 Sbagliati i calcoli, ritorna in carcere il boss Paviglianiti

LALIBERTÀ del boss è durata meno di 48 ore. Domenico Paviglianiti, 58enne, uno dei capi storici della ’n d ra n – gheta reggina, uscito dal carcere di Novara lunedì per un guazzabuglio giudiziario, è stato ripreso ieri dai carabinieri con un intervento svolto in collaborazione con la polizia. “Vi state sbagliando – ha detto – perché io per i giudici sono un uomo libero: ci sono calcoli precisi che mi danno ragione”. Il “boss dei boss”, come lo chiamavano le cronache degli anni Ottanta e Novanta, era così sicuro di sé che non si era ancora mosso da un bed&breakfast a Torino. Fino a lunedì scorso Paviglianiti era un ergastolano. Poi un giudice di Bologna, accogliendo uno dei ricorsi che gli avvocati difensori non hanno smesso di inoltrare fin dal 2015, lo ha trasformato in un condannato a trent’anni. Nel 1999 Paviglianiti era stato estradato dalla Spagna (fu catturato tre anni prima): le autorità iberiche aveva dato il via libera a condizione che l’uomo non fosse sottoposto a una “carcerazione a vita”. Roma dovette fornire una serie di garanzie. Secondo gli ultimi calcoli il fine pena è nel 2027. Così è scattato il nuovo arresto.

Fatto a pagona 8

2 Rossi e arezzo

Bonafede: “Via Rossi da Arezzo, immagine alterata su Etruria” Le motivazioni del parere negativo sul procuratore capo che indagava sul pad re della Boschi ed era consulente del governo: “Condotte inopportune e avventate”

Fatto pagina 8

3 omicidio stradale

L’omicidio stradale a Bergamo e il ruolo del gip. L’ennesimo caso di cronaca mistificato dalla giustizia populista di Salvini. Ermes Antonucci sul Foglio a pagina 2

Omicidio stradale

Roma. Il vicepremier Matteo Salvini ha criticato pubblicamente la decisione del gip di Bergamo di scarcerare e porre agli arresti domiciliari l’uomo accusato di aver travolto e ucciso, lo scorso sabato notte ad Azzano San Paolo, due giovani ragazzi di 18 e 21 anni che viaggiavano su uno scooter, dopo una lite in discoteca. Il gip ha riqualificato l’ipotesi di reato a carico dell’uomo da duplice omicidio volontario a omicidio stradale aggravato dall’omissione di soccorso. “Una persona che uccide due giovani è già fuori dal carcere dopo nemmeno quattro giorni. Una decisione che lascia sconcertati e offende le famiglie delle vittime”, ha scritto Salvini sui propri profili social. “E’ pro – prio vero che serve una riforma della giustizia che preveda la certezza della pena”, ha poi aggiunto il leader della Lega, spazzando via in un colpo solo secoli di conquiste di civiltà giuridica nel nostro paese e inventando un nuovo principio del diritto penale populista: la certezza della pena durante le indagini. Evidentemente per un ministro dell’In – terno abituato a mettere continuamente alla gogna chi è accusato di aver commesso reati (specialmente se immigrato) è normale concepire l’indagine come la semplice anticipazione della pena e non una fase in cui, come previsto dal nostro ordinamento, al massimo possono essere adottati provvedimenti di custodia cautelare quando necessari. Nell’interrogatorio di convalida dell’ar – resto, l’uomo (che è stato anche trovato positivo all’alcol test) ha fornito la sua versione dei fatti: “Ho sentito un botto e sono andato nel panico, non volevo uccidere”, ha raccontato riferendosi al lunotto posteriore della sua auto, frantumato lungo la strada (non si sa ancora da chi e come) dopo avere lasciato la discoteca e prima di travolgere i due ragazzi in scooter. Ancora non è chiaro se il vetro sia stato rotto durante la lite da uno dei due amici poi deceduti. Alla luce delle prime indagini e della versione fornita dall’uomo, il gip di Bergamo ha ritenuto che non ci fossero elementi sufficienti per provare la dolosità della condotta e ha così riqualificato l’ipotesi di reato in omicidio stradale aggravato, concedendo gli arresti domiciliari. Ovviamente non siamo di fronte ad alcuna sentenza definitiva, come Salvini vorrebbe far intendere, ma soltanto a una decisione di carattere cautelare e temporanea, peraltro suscettibile di cambiare nelle prossime ore se dovessero emergere elementi utili dal prosieguo delle indagini, ad esempio dall’autopsia sul corpo dei due giovani che verrà effettuata venerdì. Anche nel caso in cui pm e giudice delle indagini preliminari dovessero rintracciare nuovi elementi a carico dell’uomo, sarà comunque il processo a chiarire le dinamiche dell’incidente e le responsabilità penali, come previsto in un normale Stato di diritto, anche se ciò pare inaccettabile per i cultori della giustizia “fast food”, come Salvini, impegnati a individuare subito il colpevole ogni qualvolta vi sia un caso di cronaca pur di raccattare like sui social. Se usassimo la stessa logica, per giunta, dovremmo considerare già colpevoli le oltre novemila persone che – stando ai dati dello stesso ministero della Giustizia – sono detenute nelle carceri italiane e ancora in attesa di una sentenza di primo grado. Ma l’idea che più fa rabbrividire è che la Lega intenda riformare la giustizia italiana sulla base di un inarrestabile desiderio di giustizia sommaria e con l’annientamento dei diritti fondamentali degli indagati e imputati.

Letture

5 Prodi Ottanta anni

Intervista a Romano Prodi. «In Italia vedo troppi solisti serve un leader che unisca»

Parla l’ex premier e presidente della Commissione Ue: «Così non si va avanti»

«Ho ancora la speranza che l’Europa cambi il mondo, ma gli artefici ora sono Usa e Cina». Non siamo riusciti a liberare la globalizzazione dalle diseguaglianze sono preoccupato ma non pessimista. La molla di un paese è la fiducia e noi la stiamo perdendo. I segnali sono il crollo demografico e la fuga dei migliori. La mia vita politica? Rifarei tutto. Qualche sorpresa c’è stata: sconfitto non da avversari ma da amici. Non sono spaesato, coltivo rapporti sono sempre curioso. Festeggiamenti? Li ho fatti per i 50 anni di matrimonio.

Mario Ajello sul Messaggero a pagina 11

ajello

P rofessore, compie 80 anni. Festeggia con la sua tribù? «Si festeggia una volta all’anno. E ho già festeggiato i 50 anni di matrimonio». Quindi, niente? «Gli 80 anni sono per me oggetto di riflessione«. Si possono avere 80 anni in molti modi. Quello nostalgico, quello recriminatorio, quello improntato alla serenità… «Lamia è senz’altro lamodalità numero tre. Con il riconoscimento che siamo stati una generazione fortunata. Io studiavo a Milano, e lì mi sono laureato nei primi anni ‘60 alla Cattolica in giurisprudenza con l’economista keynesiano Siro Lombardini, e non c’era dubbio, tra di noi, che Milano avrebbe superato New York». Così non è stato? «Avevamo l’idea che l’Italia e il mondo sarebbero diventati migliori, che ci sarebbe stato uno sviluppo senza sosta. Siamo stati una generazione fortunata, perché avevamo questo tipo di convinzione». Quindi il suo attuale approccio sereno è una sorta di eredità genetica? «Certamente. Non riesco ad essere del tutto pessimista». Neanche preoccupato? «Questo, sì. La società che pensava di diventare migliore di New York non solo non lo è diventata ma oggi ha paura di tutto. L’idea di Ulivo e l’idea di Europa sono state eredi e espressioni del mio ottimismo personale e generazionale. Nonostante tutte le difficoltà, c’era l’idea che con l’Ulivo si potesse cambiare l’Italia e che con l’Europa possa cambiare il mondo. Quest’ultima speranza mi è rimasta». Gli anziani spesso si abbandonano alla deprecatio del presente. Lei griderebbe mai: o tempora omores? «Ma figuriamoci. Il problema è quello di diventare anche noi protagonisti del cambiamento, non demonizzarlo. Io credo che se riusciamo ad essere uniti in Europa possiamo ancora partecipare alle grandi trasformazioni del mondo. Abbiamo però poco tempo per imparare a guidare anche noi le innovazioni in corso. Gli artefici del cambiamento per ora sono americani e cinesi». Dica la verità, non si sente un po’ smarrito in questo tempo in cui le categorie a cui era abituato – la forza della cultura o lo spirito di solidarietà – sembrano veniremeno? «Smarrito? No. Perché leggo, scrivo, cerco di capire. Sono curioso come una scimmia». Anche le scimmie possono sentirsi spaesate. «Non è il mio caso. Ogni cosa che accade attira la mia attenzione. Pensi che io, al contrario, di molti coetanei sono uno che non rilegge i libri della gioventù o della vita. Tranne quando servono». Esempio? «Tucidide. Ho appena riletto la Guerra del Peloponneso, per vedere se davvero vi è una similitudine tra Atene e Sparta – l’una come potenza arrembante e l’altra come forza stabilizzata – e la Cina, arrembante, e gli Stati Uniti, stabilizzati. E mi auguro che stavolta le cose finiscano in maniera diversa: cioè con la pace e non con la guerra». Ciò non significa però non essere spaesato o non sentirsi superato. «Spaesato vuol dire rompere i rapporti. Io li coltivo. Con gli amici di sempre a Bologna e nel resto d’Italia, con gli studenti, con i vicini di casa, con i colleghi politici, con i leader, soprattutto stranieri. Negli ultimi 15 giorni ho avuto incontri con giovani che mi spiegano le innovazioni tecnologiche. Persone intorno ai 30 che hanno nel sangue il cambiamento. Cerco di capire da loro e con loro le conseguenze sociali e globali di ciò che sta accadendo. Quanto agli aspetti tecnici delle innovazioni, mi astengo: quelli non li capirò mai». E che cosa sta capendo? «Che la prima conseguenza di ciò che sta accadendo è l’aumento delle diseguaglianze. Abbiamo contribuito a creare la globalizzazione, che è stato un fenomeno positivo, ma non siamo stati capaci di liberarla dall’aumento delle diseguaglianza. La chiave del futuro è avere coscienza che un cambiamento così iniquo non può durare all’infinito». Non teme che questa sia una preoccupazione figlia soprattutto della sua cultura di base, del suo cattolicesimo democratico? «No, è una grande preoccupazione generale, mondiale. Poi ci sono le preoccupazioni europee. La prima è il crollo demografico. Mi fa particolarmente impressione perché significa sfiducia nel futuro». E l’Italia? «La fuga di molte delle energie migliori è il problema più serio. La differenza tra il mio dopo laurea e oggi è anche in questo. Pure noi andavamo all’estero, a studiare e a fare esperienze, ma sapendo che ci andavamo per poi tornare in Italia. E la speranza di tornare c’è sempre stata nei nostri emigranti. La molla di un Paese è la fiducia e noi la stiamo perdendo». Non teme, come accade a molti anziani, specie se intellettuali, di diventare un trombone? «Oddio, spero di no. Anche se non si sa mai. Io posso salvarmi da questo, perché cerco di suonare poco e sempre in orchestra». In politica, non sarebbe stato meglio se avesse fatto di più da solo, senza ascoltare troppo i partiti di sinistra in guerra tra di loro e contro di lei? «Rifarei quello che ho fatto. Il problema dell’Italia è cantare in coro, non avere dei solisti. Ce ne sono anche troppi. E come vediamo in queste ore, non leggono nemmeno lo stesso spartito. A questo punto, mi viene in mente la “Prova d’orchestra” di Fellini. Crisi o non crisi, andando avanti così non si va da nessuna parte». La ferita politica che le sanguina ancora è quella dei 101 pugnalatori sulla via del Colle? «Non è una ferita. Avevo fatto bene i miei conti e sapevo di non avere possibilità. Naturalmente qualche sorpresa c’è stata, perché i no sono stati più del previsto. Nella mia vita politica non ho mai ricevuto sconfitte a causa degli avversari, ma sempre da parte degli amici». Lei e la classe dirigente di cui fa parte non avete cambiato l’Italia. La delusione è fortissima? «Non provo delusione, prendo atto. Nel mio privato sono felice e tranquillo. Per quanto riguarda la sfera pubblica, sono preoccupato perché alla speranza collettiva si è sostituito un messaggio per illudere l’oggi e non per preparare il domani». Lo vede che in fondo è pessimista? «Il pessimista pensa che le cose non cambino. Io invece constato i cambiamenti ma ne vedo anche le tante criticità. Oggi credo che in Italia, per rendere concreta una speranza collettiva, occorrerebbe un leader morale non necessariamente politico. Servirebbe qualche grande pensatore, qualche grande scienziato, una figura nella quale riconoscersi». Uno che unifica? «Sì. Perché la società si è radicalizzata troppo. Quando vado in giro, tantissima gente mi abbraccia e dice di rimpiangere il passato. Ma tanti mi insultano. Né l’una né l’altra cosa accadevano negli anni scorsi. Perciò dico che ci vuole qualche figura che unifichi, che impersonifichi l’intera società». Lei, da ottantenne, prega più di prima? «Se mi sta chiedendo se il senso religioso agisce in me con più profondità di prima, le rispondo di sì».

Gli 80 anni di Prodi l’unico leader a sinistra che ha vinto le elezioni L’inventore dell’Ulivo che ha battuto Berlusconi una volta e mezza. La passione per l’Europa e il fattore C. Il Quirinale perso per gli errori di Bersani e Renzi. Nella partita per il Colle mandato allo sbaraglio dal Pd Una carriera senza scandali. Filippo Ceccarelli su Repubblica a pagina 10

Ceccarelli

Oltre agli auguri per i suoi 80 anni, se non suonasse un po’ retorico si potrebbe sostenere che Romano Prodi merita anche un grazie per come li ha vissuti al servizio della politica; e se servisse a qualcosa, questo 9 agosto sarebbe pure l’occasione buona per riconoscere che forse gli spettano addirittura delle scuse. Tanto vale allora cominciare da queste ultime, usurpandole a nome del centrosinistra nelle sue varie stagioni e terminazioni nervose; scuse per non aver saputo approfittare fino in fondo dell’intelligenza e del senso pratico del Professore, della sua visione, della sua competenza e della sua placida solidità umana, col bel risultato di averlo trattato, in cronologica sequenza, prima come un intruso, poi come un rompiscatole fissato, quindi come uno da togliersi dalle scatole; salvo poi ancora invocarlo come il messia, quindi di nuovo come uno scocciatore da levare di mezzo, pussa via, finendo così per aver fatto di chi era senz’altro il migliore leader su piazza una figura-chiave nella quale, senza colpa, ma certo ai suoi danni, meglio di chiunque altro si rispecchia il fallimento della sinistra di governo in Italia e un po’ anche in Europa, amen. Ottant’anni, comunque, e ben vissuti, nonostante tutto. Fin da quando il bimbo Romano, figlio di cattolici che abitavano in un appartamento di proprietà del Pci (A Reggio Emilia poteva accadere), e che aveva nove fratelli e per questo dovette imparare il prima possibile a parlare, ma anche a stare zitto, vide nel cortile di casa le prove delle cerimonie comuniste per la morte di Stalin; e presto si comprese che sarebbe stato per sempre un primo della classe, però aperto, curioso, la parrocchia, il catechismo, i viaggi; una guida morale come don Pippo Dossetti, un maestro come Nino Andreatta; e il prima possibile divenne un professore di economia, però viva – distretti, piastrelle, lavoro, contratti – senza astrattezze né spocchie accademiche; insomma, una carriera folgorante, l’Inghilterra, l’America, il Mulino, i consigli a De Mita, al Papa, poi perfino alla Goldman Sachs, e oggi ai russi e ai cinesi. Ministro mezzo tecnico e mezzo democristoide a poco più di trent’anni; una moglie-compagna per nulla vistosa, ma decisiva, e impegnata nel sociale; vacanze con famigliona-tribu nella casona con letti a castello, calciobalilla e concerti domestici, figli scout, Bologna insieme piccola e grande. Quando il 9 agosto di 25 anni orsono, appena tornato da un pellegrinaggio ciclistico a Compostela, an nuncia il suo impegno politico nell’Italia berlusconizzata, Prodi non è esattamente un frullino del potere. È stato due volte presidente dell’Iri, lì ha negoziato con Cuccia, ha detto no a Craxi, né luciderà “le maniglie di casa Agnelli”. «Lo chiamano Mortadella – dice Bettino – ma è il più duro di tutti». Aspetto un po’ goffo, pronuncia marcata, ma spiccatissima comunicativa, scrivono che “gronda bonomia dagli artigli”, cauto, spiritoso, permaloso, vendicativo. Intuisce l’Ulivo, fa correre il Pullman, a tutt’oggi resta l’unico che ha battuto una volta e mezzo Berlusconi, anche se nel 2006 è un pareggio, e il secondo governo un calvario. Ma prima, con Ciampi, taglia il traguardo dell’Europa. Tra le due esperienze la guida della Commissione europea, anche lì gioie e dolori, in ogni caso un rango che pone Prodi al di sopra di qualsiasi altro statista – e mai macchiato, tocca aggiungere, da scandali di Prima, Seconda e Terza Repubblica. A un certo punto si diffuse la voce che portava fortuna, donde il celebre “fattore C”. Ma è un assunto più che discutibile, considerato il logoramento cui lo sottopose D’Alema, le continue liti e bizze degli “alleati”, la fregola obamiana di Veltroni, la dabbenaggine con cui Bersani lo mandò allo sbaraglio sul Quirinale e infine la superbia autolesionista di Renzi. Osservato con gli occhi di oggi, e un filo di inevitabile malinconia, si può ragionevolmente far pesare che tuttora il Prof incarna una politica – e a suo modo anche un potere – che si connota come quanto di più antico e lontano dalla brutale esibizione del proprio ego nevrotico oggi all’ordine del giorno. In nessun altro leader come in Prodi i contenuti e la competenza ancora prevalgono sull’immagine, la visione internazionale sull’esteriorità e l’improvvisazione, la prudenza, la pazienza e l’ostinata trattativa sulla battutona social, la laicità sul bacione al crocifisso e la Madonna del telefonino, l’equilibrio e la misura sull’odierno ballo di San Vito. E se 80 anni sono tanti, alla luce di questo elenco la speranza è che siano anche pochi.

7 curve

Cambio di rotta. Questa è l’estate del trionfo curvy. Tutti hanno diritto a essere rappresentati. Prima eravamo emarginate, adesso siamo l’ago della bilancia. Da mercato di nicchia, la moda “morbida” è dilagata e tra i brand è una corsa all’inclusività. Non sempre sincera.

Srena Tibaldi su Repubblica a pagina 27.

Le curve

«Non sono un momento. Sono una forza da non sottovalutare». Dice così la ventiduenne rapper americana Chika mentre, in reggiseno e slip Calvin Klein (foto in alto), se ne sta sullo stesso divano su cui, 25 anni fa, era stata ritratta una giovane e nuda Kate Moss (per la cronaca, era la campagna del profumo Obsession). Ma tanto era eterea Kate e tanto è massiccia Chika, a sorpresa protagonista dello spot per la lingerie del marchio. Il succo però non cambia: entrambe sono state scelte perché rompono gli stereotipi. In questo il brand ha dimostrato un notevole tempismo, perché se è vero che da tempo si discute su un’idea di bellezza più universale di quel che è stato sinora, è adesso che le cose stanno davvero cambiando. Questa è l’estate del trionfo curvy. Basta guardarsi attorno: da mercato di nicchia che era, la moda “morbida” sta dilagando; in teoria perché era il momento di andare oltre certe convenzioni, in pratica perché funziona tanto nella comunicazione quanto a livello commerciale. Difficile farne a meno. «In passato la moda si basava sull’essere esclusiva, per pochi. Ora, più persone veste un brand e più è desiderato», spiega l’antropologa Simona Segre Reinach, autrice del volume The size effect. E cosa c’è di più inclusivo di un ideale che va oltre la taglia campionario? «Un cambiamento epocale per un sistema che ha sempre esaltato la taglia 40». Per tornare a Chika, si capisce anche come mai questa rivoluzione abbia colpito il mondo dei costumi da bagno e della lingerie: lì i corpi sono scoperti e, di conseguenza, esaltati. Il messaggio è forte anche per questo. Il tema offre molto da dire e da fare, nel bene e nel male. Rientra nel primo caso l’ultima Swimsuit Issue della rivista Sports Illustrated, sinora basata sull’assioma “fanciulla filiforme, meglio se bionda, in tanga su una spiaggia”. Di fronte al calo d’interesse tra i più giovani, molto attenti a certe tematiche, la testata già nel 2016 aveva tentato di mettersi in pari mettendo in copertina Ashley Graham, star della moda curvy. Quest’anno sono andati oltre: ci è finita la 45enne curvilinea Tyra Banks, e nello stesso numero hanno trovato posto, tra Halima Aden in burkini e Paulina Porizkova, 54 anni, ben tre modelle formose: la bionda Hunter McGrady, la polinesiana Veronica Pome’e e Tara Lynn, considerata una delle icone del settore. «Tutti abbiamo diritto a essere rappresentati. Dove prima eravamo considerate una nicchia, adesso siamo l’ago della bilancia: facciamo la differenza», conferma Tara. Ma c’è pure chi ha capito troppo tardi la portata del fenomeno, e ne paga le conseguenze. È di pochi giorni fa la notizia che Victoria’s Secret, il colosso della lingerie e dello swimwear “sexy”, non produrrà più la sua annuale sfilata televisiva, affollata di (magrissime) top in completi striminziti e ali da angelo. Colpa del crollo negli ascolti e nelle vendite, originati proprio dal rifiuto del marchio di aprirsi ai nuovi standard: nemmeno un anno fa il direttore marketing Ed Razek tuonava contro le modelle più floride, salvo annunciare poi in pompa magna le prime due testimonial “fuori taglia”, Barbara Palvin e Lorena Duran, rispettivamente una 42 risicata e una 44 abbondante. Non è ovviamente bastato: è di questi giorni l’annuncio che Razek va opportunamente in pensione e il coinvolgimento del brand nello scandalo Jeffrey Epstein — una prossimità inaccettabile in epoca #metoo — è stata l’ultima goccia, che nemmeno l’ingaggio della modella transgender Valentina Sampaio è riuscito a mitigare. Un errore di giudizio grossolano il loro, perché le potenzialità di questo mondo sono evidenti: alla Miami Swim Week, enorme rassegna di moda mare, modelle curvy e “classiche” ormai si equivalgono; uno dei brand che oggi più fa parlare è Aerie, che fa costumi dalla xxs alla xxl, e le start-up promettenti come Third Love e Lively (creata da un’ex dipendente di Victoria’s Secret) puntano alle formose. Resta da capire quanto di questa mobilitazione sia sincera, e quanto frutto del marketing. «Impossibile stabilirlo ora», riflette Simona Segre Reinach. «Solo sulla lunga distanza se ne vedranno gli effetti reali». È d’accordo Tara Lynn: «Ovviamente molti brand si stanno buttando sull’inclusività solo per cogliere il momento, senza un progetto reale. Però, spesso, quest’opportunismo è il solo modo che hanno le minoranze per iniziare a farsi considerare. Quindi, a me sta bene così».

Dolce&Gabbana. “Le nostre donne ideali sono formose: e ora vestiamo anche la 54”.

Su Repubblica a pagina 27.

Non ci sono stati annunci ufficiali, ma la decisione di Domenico Dolce e Stefano Gabbana è suonata come una rivoluzione: d’ora in poi le loro collezioni saranno prodotte sino alla taglia 54, senza alcuna distinzione tra plus size e non. «Proprio perché per noi non c’è differenza tra una small e una large abbiamo deciso di non comunicare la cosa», spiegano i due. «Ricevevamo molte richieste in tal senso dalla Russia, e abbiamo capito che si trattava di un mercato dalle grandi potenzialità in tutto il mondo. C’è poi da dire che le nostre donne hanno sempre avuto corpi dalle curve accentuate. Questa è la femminilità che amiamo e che abbiamo sempre vestito, perciò è la naturale evoluzione della nostra identità».

8 Un paese cattivo

Ritratto di un Paese cattivo

Natalia Aspesi su Repubblica a pagina 34.

Natalia

Ma come è potuto succedere così velocemente? Perché eravamo un Paese quasi normale, col bello e il brutto, e in un paio d’anni siamo diventati un popolo con tutta la ferocia che si vuole dare adesso a questa definizione? L’assalto di insetti sconosciuti, lo scioglimento dei ghiacciai, il mago Merlino redivivo, l’invasione degli ultracorpi come nell’omonimo spaventosissimo film di Don Siegel del 1956? Tutte le risposte fino ad ora non sono convincenti: si vorrebbe che per dare un senso a questa deriva, a questa mutazione forse genetica, forse negromantica, forse diabolica, quel che resta degli intelligentoni, dei professoroni, insomma delle stimabili persone ancora in grado di ragionare, organizzassero un convegno il più possibile scientifico allo scopo di trovare una risposta e una soluzione; ammesso che un tale consesso non in mutande da bagno e senza bambini al di sotto dei 30 anni, non possa essere considerato ‘una nuova fattispecie delittuosa’ da Sicurezza bis e quindi subito sciolto a manganellate. Di manganellate già ne riceviamo da togliere il fiato, più volte al dì: e ogni volta ci indigniamo, ci spaventiamo, gridiamo contro, auspichiamo interventi divini non potendo più contare su quelli umani. Visto che non si sa da che parte cominciare a frenare questo Paese in picchiata, né noi popolino stancamente democratico, né quelli che sarebbero stati votati per farlo ma non ne hanno il tempo perché devono sistemare cose loro più urgenti. È la velocità del disastro che spaventa noi sempliciotti che nulla sappiamo né abbiamo doni profetici come i signori e le signore dei talk show. Stiamo lì a lamentarci per l’ennesima porcata e ormai temiamo che ne arriverà subito un’altra e un’altra ancora, imprevedibile nella sua iniquità. Su Facebook di cui nulla so e non so gestire, ricevo quasi esclusivamente post che potremmo definire di sinistra, o meglio contro ogni parola o azione, sempre riprovevoli, di chi al famoso popolo piace moltissimo. Tutti soverchiati da più sensate ricette alla besciamella, purtroppo pessime, foto di gattini o di luoghi stupendissimi dove c’è chi passa le vacanze, e anche di abiti tutti uguali a basso prezzo, e dialoghi in greco antico e ricordi di concerti per oboe indimenticabili e di inimitabili film anni ’70. Però riesce a farsi strada il dibattito politico, vuoi sarcastico vuoi dolente, tutto contro Salvini, Di Maio, Meloni, Berlusconi: poi sempre da sinistra, contro Zingaretti, Renzi e chiunque osi aprir bocca o post per affrontare la continua apocalisse. Insomma o sei da una parte o NON sei dall’altra. Ci sono delle accanite antidestra che arrivano a criticare Moro perché ‘nessuno va in spiaggia vestito’, ma c’è anche per fortuna chi riporta bellissime dichiarazioni democratiche: però di grandi leader del passato e ormai del tutto straniere. Ma i post antigovernativi, roba facile dato i suoi protagonisti, o cattivi o incapaci, non servono a nulla, soprattutto perché ognuno si lamenta per sé dimenticando l’antica bizzarria dell’unione che fa la forza; ma anche perché pur raffinatissimi martellatori di sghignazzi, troppi si sono lasciati contagiare dalle parolacce e dall’insulto, quando la buona creanza e il pensiero non ridotto a invettiva poteva essere almeno un’ultima spiaggia. Certo c’è ancora qualche innocente che vorrebbe sapere cosa mai hanno fatto di terribile questi immigrati da adesso condannati a morte e i loro ormai impossibili salvatori condannati alla miseria, visto che almeno negli ultimi mesi, fanciulli mascalzoni, maschiacci (e qualche signora nervosa) uxoricidi, imbroglioni e lestofanti, spacciatori, ubriachi e drogati che spiaccicano o sono spiaccicati in auto o assassinano carabinieri, o buttano cassonetti sulla testa di ragazzini, insomma tutti i protagonisti della cronaca nera, sono italiani o comunque bianchi (tranne i tre marocchini italianizzati di scorta agli assassini allo spray della discoteca di Corinaldo). Anche nel delinquere, prima gli italiani! Ormai si prevedono disastri sempre più irrimediabili, e cominciamo ad essere rassegnati, noi che possiamo solo subire: il pensiero che conforta allora è: prima ci autosotterriamo prima ritorneremo alla luce. 20 anni, 30? Vedremo. Il tempo adesso a noi pare scaduto, qualunque sia l’iniziativa, governo horror che continua, governo che cade nell’horror, non tormentateci più. Ci dedicheremo alla caccia alle farfalle, alla rilettura del Manzoni, allo Judo, alle ricette senza besciamella, all’esperanto, ci iscriveremo al gruppo terrapiatta o a quello forse più attuale che sostiene l’estinzione del genere umano. Basta non vedere più la faccia demoniaca del nostro secondo figlio della povera Maria Vergine che chissà come è pentita di quel peccato. Dimenticare. Aspettare. Sperare in nuovi ultracorpi che invadano il Papeete Beach e altri luoghi di culto, per ridare il senno e la vita agli italiani attualmente sostituiti dai famosi non-morti del Trono di Spade.

9 Camus

Camus giornalista in rivolta. Maria Santos-Sainz ha raccolto in un saggio gli articoli del Premio Nobel: “Era un cronista libero, oggi un modello contro le fake news”. È sempre stato dalla parte degli ultimi e degli oppressi. Nei tempi bui diceva: resistere è non consentire menzogne.

Anais Ginori su Repubblica a pagina 37.

Camus

Partiva con il taccuino per fare reportage nelle zone più remote dell’Algeria, raccontava fatti di cronaca e processi, incrociava fonti, denunciava casi di corruzione, scriveva appassionati editoriali e intanto ripensava le regole dell’informazione. Prima di essere scrittore e intellettuale, Albert Camus è stato un giornalista. Un mestiere che ha praticato durante tutta la sua vita. A raccontare il volto meno noto del premio Nobel è Maria Santos-Sainz, docente alla facoltà di giornalismo dell’università di Bordeaux, che ha raccolto e commentato in un saggio lunghi estratti di articoli, tra cui diversi inediti. «La passione e il rigore di Camus sono un esempio ancora oggi» spiega l’autrice che ha dedicato il volume ai suoi giovani studenti e a tutti quelli che ancora sognano di intraprendere questo mestiere. Molti ricordano il Camus editorialista a Parigi, lei invece mostra che la sua carriera nei giornali comincia già prima, in Algeria, come semplice cronista. «Dopo qualche articolo per una rivista studentesca, nel 1938, a soli venticinque anni, entra a far parte della redazione del quotidiano Alger Républicain, chiamato da un collega più anziano, Pascal Pia, con il quale formerà una sorta di sposalizio professionale. Camus gli dedicherà poi Il Mito di Sisifo. Quando il giornale verrà censurato e poi chiuso dalle autorità algerine, si ritroveranno in Francia a Combat, la rivista fondata da un gruppo di resistenti durante l’Occupazione». Che tipo di giornalista era Camus? «È stato cronista di giudiziaria e nera, ha scritto reportage, organizzato inchieste, è stato editorialista ma anche caporedattore e segretario di redazione a Paris-Soir». Quali sono gli articoli più importanti? «Camus è ricordato soprattutto per il suo impegno a Combat che gli aveva procurato dei falsi documenti, si faceva chiamare Albert Maté, per lavorare durante l’Occupazione. I suoi editoriali fanno parte del patrimonio giornalistico non solo francese ma anche europeo. Penso alla serie “Né vittime né carnefici”. Ha parlato della banalità del Male prima di Hannah Arendt. All’indomani della Liberazione ha fatto pubblicare la testimonianza di un sopravvissuto al lager di Dachau. Ed è stato anche uno dei pochi giornalisti occidentali a essere insorto dopo i bombardamenti americani a Hiroshima e Nagasaki. Nel 1939 aveva scritto un Manifesto del giornalista libero». Cosa diceva nel manifesto? «Illustrava quattro comandamenti: lucidità, rifiuto, ironia, ostinazione. La lucidità, spiegava, è la capacità di resistere all’ingranaggio dell’odio e al culto della fatalità. Il rifiuto, continuava, si rende talvolta necessario davanti a quella che chiamava “marea montante della stupidità”. L’ostinazione era per lui una virtù cardinale, insieme all’ironia, straordinaria arma contro i potenti». Aveva tutte queste qualità che ha appena descritto? «Il reportage “Miseria della Cabilia” pubblicato a puntate su Alger Républicain è un buon esempio. Camus era partito per dieci giorni, muovendosi a piedi e in autobus in una delle regioni più remote dell’Algeria. Era il contrario della rapidità che vediamo oggi. Diceva: “Non bisogna arrivare per primi, ma essere i migliori”». C’era anche una forma di militanza nei suoi articoli? «È sempre stato dalla parte degli ultimi, degli oppressi. Non dimenticava le sue origini. Era un giornalista in rivolta, come il titolo di un suo famoso libro. Ma non piegava i fatti alle idee. Le sue cronache sulla povertà della Cabilia erano coraggiose, denunciava lo schiavismo dei coloni nei confronti di queste popolazioni. Sono articoli puntuali, accompagnati da cifre. I prezzi dei generi alimentari, l’importo dei salari, il numero di medici o funzionari. Per me è stato quasi un precursore di quello che chiamiamo data journalism». Quanto il giornalismo ha influenzato i suoi libri? «Il processo raccontato ne Lo Straniero è ispirato a quello dell’affaire Hodent che Camus aveva seguito da cronista per Alger Républicain. Hodent era un funzionario arrestato dopo aver tentato di denunciare la speculazione e la corruzione nel commercio del grano. Camus si era battuto per farlo assolvere, aveva scritto una lettera al governatore di Algeri che per me è dello stesso livello del J’accuse di Émile Zola». Com’era il suo stile? «Asciutto, potente, attento alle parole. “Nominare male le cose, è partecipare all’infelicità del mondo” aveva detto. Utilizzava spesso la prima persona, talvolta si rivolgeva direttamente al lettore per renderlo partecipe. Se faceva un errore, non aveva paura di ammetterlo e correggersi nell’articolo successivo». È un modello ancora attuale? «Dico spesso ai miei studenti: volete ritrovare credibilità e lottare contro le fake news? Leggete gli articoli di Camus. La sua integrità deontologica e morale è un modello. È stato censurato ed espulso dall’Algeria per i suoi articoli da cronista. Dopo essere stato uno degli editorialisti più famosi di Combat ha scelto di andarsene perché la proprietà non era più dei giornalisti e non voleva scendere a patti con altri editori. Era convinto che la qualità di un Paese si riconosca dal valore della stampa. Aveva una bella definizione del giornalismo nei tempi bui: “Resistere è non consentire la menzogna”. Mi sembra ancora d’attualità». Gli ultimi articoli furono pubblicati su L’Express, cinque anni prima di morire. «L’esperienza è durata poco e non è andata bene. La sua posizione sull’Algeria non è stata compresa. È stata la sua ultima esperienza nei giornali. Qualche tempo dopo, aveva confidato all’amico Jean Daniel di avere nostalgia del mestiere. Considerava il giornalismo come una vocazione, non una semplice lavoro».

10 Di maio Termini imerese

IL GOVERNO TERMINI, PLEASE Il disastro Di Maio spiegato con Termini Imerese, a un passo da una morte che si poteva evitare se il ministro non avesse fatto scappare dall’Italia un investitore chiave. Inchiesta

La parabola dell’ex stabilimento Sicilfiat è l’emblema di un processo che ha subìto una brusca accelerata: la deindustrializzazione italiana

Di Maio non ha dato il benestare all’accordo siglato da Invitalia e Blutec per la restituzione dei finanziamenti e un piano industriale

Venne individuato un investitore estero, i cinesi dell’azienda Jiayuan, disposti a investire 50 milioni per il rilancio dell’impianto. Poi la fuga

Gli incompetenti sono riusciti così a far sfumare la firma del memorandum d’intesa prevista per lo scorso 23 marzo

L’inchiesta di Annalisa Chirico sul Foglio a pagina 1

Termini imerese

Esistono molti modi per uccidere una fabbrica: affidarsi agli incompetenti è uno di questi. Termini Imerese non trova pace. La parabola dell’ex stabilimento Sicilfiat, realizzato nel 1970 a pochi passi dal mare, in prossimità dell’autostrada e della ferrovia per agevolare la logistica della cosiddetta “zona industriale”, è l’emblema di un processo annoso che con il governo gialloverde ha subìto una brusca accelerata: si chiama “deindustrializzazione”. E dire che negli anni Ottanta la fabbrica aveva raggiunto i tremiladuecento addetti, oltre il doppio rispetto al primo giorno. Poi il declino. Dell’impianto, del Mezzogiorno, dell’Italia. Se è chiamato ad occuparsi di lavoro e sviluppo economico chi non ha mai avuto dimestichezza né con l’uno né con l’altro, non resta che farsi il segno della croce. A Termini Imerese lo sanno bene gli operai che da giorni protestano davanti ai cancelli dello stabilimento, senza cassa integrazione da due mesi “per problemi tecnici”, si dice, e adesso assistono all’ennesima piroetta dell’ennesimo ministro del Lavoro che annuncia l’ennesima “norma d’urgen – za” per l’ennesima proroga degli ammortizzatori sociali. Luigi Di Maio promette una nuova iniezione di soldi pubblici, a carico dei contribuenti. Senza un progetto, senza una visione. Già questo sarebbe di per sé grave per il governo che ha promesso il “cambiamento”, insieme all’abroga – zione della povertà, e rispolvera invece le peggiori ricette assistenzialiste della Prima Repubblica. Ma nel caso di specie, nel caso di Termini Imerese, c’è di più. Quando nel 2011 Sergio Marchionne chiude lo stabilimento della Lancia Ypsilon ritenuto troppo piccolo, scomodo e poco produttivo, il ministero di via Veneto e Invitalia tentano diversi esperimenti per tenere in vita il polo industriale. Si susseguono una catena di fallimenti, tra avventurismi e scandali vari, fino all’ingresso nel 2015 di Blutec, società del gruppo Metec Stola del torinese Roberto Ginatta, vicino alla famiglia Agnelli (in particolare, ad Andrea e a Lapo Elkann). Il piano è quello di produrre componentistica per auto ibride ed elettriche, i privati siglano un accordo con Invitalia per un piano agevolato di finanziamenti pubblici, il progetto parte ma ben presto si accumulano ritardi e diffide per la mancata presentazione del primo “Sal” (stato avanzamento lavori) al punto di provocare un duro braccio di ferro tra il gruppo e la società del ministero dell’Economia. Nel frattempo, però, si presenta una possibilità concreta per risollevare le sorti della fabbrica: viene individuato un investitore estero, i cinesi dell’azienda Jiayuan, disposti a investire cinquanta milioni di euro per il rilancio dell’impianto. C’è già un protocollo d’inte – sa messo nero su bianco da Blutec e dalla società mandarina, si prevede la firma in occasione della visita di stato del presidente Xi Jinping lo scorso marzo, ma il governo gialloverde, e nello specifico il ministro Di Maio, si lasciano scappare questa opportunità. I cinesi avrebbero prodotto 50mila auto elettriche in tre anni destinate al mercato europeo, Blutec ha definito ogni dettaglio per favorire l’ingresso dell’investitore estero, l’unica fonte di cura è la transazione aperta con Invitalia per la restituzione di circa 21 milioni di euro di agevolazioni concesse. A ben vedere, già da diversi mesi il gruppo torinese ha raggiunto un accordo con Invitalia ma la questione è congelata per la mancata firma del ministro (in)competente, Di Maio. L’ac – cordo stabilisce, in particolare, la restituzione rateizzata dei circa 21 milioni di euro ottenuti come prima tranche del finanziamento agevolato di 95 milioni previsto dal “contratto di sviluppo”. Ai solleciti dell’azienda presso il ministero si aggiungono quelli di Invitalia, come testimoniato dalla missiva del 19 luglio 2018, firmata dall’ad Domenico Arcuri e visionata dal Foglio. “Per come concordato nel corso delle riunioni presso codesto ministero – si legge – le modalità di restituzione sono state oggetto di riunioni tra l’ufficio legale di Invitalia e i legali di Blutec. A seguito di articolate trattative si è addivenuti ad una bozza di accordo che in sintesi statuisce…”, segue l’elenco delle obbligazioni assunte da Blutec per restituire i fondi già incassati e ottenerne di nuovi secondo un nuovo piano industriale. “In ragione di tutto quanto sopra rappresentato – conclude Arcuri – si richiede l’autorizzazione alla sottoscrizione del descritto accordo”. Dal ministero di Di Maio giunge un silenzio tombale. Se il ministro avesse apposto la sua firma, Blutec avrebbe restituito le somme secondo l’accordo siglato con Invitalia che, dal canto suo, avrebbe definito un nuovo contratto di finanziamento modulato sulla base dei nuovi progetti sull’elettrico, quelli alla base della partnership con i cinesi pronti a investire 50 milioni di euro. Ma la storia, com’è noto, non si fa con i “se”. Le cose vanno diversamente. Nessuna firma, accordo congelato, fabbrica in sofferenza fino agli arresti dei manager di Blutec, il presidente Ginatta e l’ad Cosimo Di Cursi, che finiscono ai domiciliari lo scorso marzo (il secondo rientra in fretta dal Brasile per consegnarsi all’autorità giudiziaria). L’inchiesta per presunta malversazione ai danni dello stato colpisce i vertici del gruppo a una settimana dalla visita di stato del presidente cinese Xi che avrebbe dovuto benedire la firma del memorandum d’intesa tra Blutec e Jiayuan. In questi giorni davanti ai cancelli della fabbrica un operaio sulla cinquantina, Vito La Mattina, ha piantato una tenda e vive lì. Non ha trovato ancora il tempo per guardare il video che spopola in Rete, quello del vicepremier Di Maio che, senza un filo di vergogna, spiega il senso del “mandato zero”. Il signor Vito non si è rivolto neppure al locale “navigator”, di redditi di cittadinanza non vuol sentir parlare. “Per oltre venticinque anni ho lavorato in Fiat, sono stanco di fare il cassaintegrato – dice ai cronisti che lo interpellano – Ho degli attestati di specializzazione, mi mandino dove vogliono ma mi facciano lavorare”. Non riesce più a pagare bollette e rate del mutuo, la moglie e i due figli maggiorenni li ha mandati a vivere dalla madre. “Non ho i soldi per fare la spesa. Da quando Blutec ha rilevato la fabbrica – racconta l’operaio – non ho mai lavorato, neppure per un’ora, mai messo piede nello stabilimento perché ormai da cinque anni siamo sempre in cassa integrazione”. Un collega ha intrapreso lo sciopero della fame, un altro minaccia di togliersi la vita. “Si è determinata una situazione di estremo disagio che va sanata subito – si legge nella nota congiunta firmata da Cgil Sicilia e Fiom regionale – Chiediamo al governo nazionale e al Parlamento di votare l’emendamento per la proroga della cassa integrazione dal primo luglio al 31 dicembre, dando séguito all’im – pegno assunto dal ministro Di Maio, finora inevaso”. Le organizzazioni sindacali chiedono inoltre che, entro il 31 ottobre, il commissario straordinario presenti il piano industriale “per rilanciare lo stabilimento e il lavoro dei 670 lavoratori Blutec e dei 300 dell’indotto”. Il clima è rovente, la disperazione brucia. Come spesso accade in Italia, alla conclamata inadeguatezza dei governanti che, dal ministero di via Veneto, avrebbero dovuto gestire con diligenza ed efficacia un dossier così rilevante per centinaia di famiglie e per lo sviluppo industriale del Sud, si è affiancata la tempesta giudiziaria. Lo scorso 12 marzo i finanzieri del nucleo di polizia economico-finanziaria di Palermo eseguono le misure cautelari disposte dal gip di Termini Imerese nei confronti del 72enne Ginatta e di Di Cursi, rispettivamente presidente e ad di Blutec. I due manager sono accusati di malversazione ai danni dello stato per non aver impiegato correttamente la prima tranche di 21 milioni ottenuti per il rilancio dello stabilimento. Viene emesso inoltre un decreto di sequestro preventivo dell’intero complesso aziendale e delle relative quote sociali della Blutec spa, nonché dei patrimoni dei due indagati per un valore di sedici milioni e mezzo di euro. Gli arresti, a una settimana dall’arrivo del presidente Xi, impediscono la firma del protocollo d’intesa con i cinesi di Jiayuan che non rinunciano al dossier ma lo congelano. Il tribunale del riesame di Palermo dichiara l’incompe – tenza territoriale del gip siculo e trasmette gli atti al tribunale di Torino. “Il criterio discretivo della sede effettiva della società – affermano i giudici – è da ricollegare alla necessità di individuare il luogo in cui si perfezionano le scelte dell’organo di gestione che dirige l’impresa, al quale è imputabile l’inadempimento descritto dalla condotta tipica”. Nel caso di specie, Blutec è una società con sede a Rivoli, nel torinese, dove hanno sede gli uffici di Ginatta e di Di Cursi: in quel luogo, secondo l’ipotesi accusatoria, sarebbe stata assunta la decisione di non destinare le somme erogate alle finalità di pubblico interesse cui le stesse erano state specificamente destinate. Anche le misure cautelari vengono annullate dal Riesame che, pur riconoscendo la gravità del quadro indiziario, ritiene insussistente il pericolo di reiterazione del reato essendo Ginatta incensurato, avendo egli manifestato la volontà di restituire il finanziamento concesso ed essendo di fatto impossibilitato a ottenere nuovi finanziamenti pubblici prima della restituzione integrale di quello revocato. Le sue quote in Blutec sono sotto sequestro, e con la nomina dell’amministratore giudiziario si è proceduto alla sua estromissione dalla gestione aziendale. “La rilevata assenza di un’improrogabile necessità di limitare la libertà personale del Ginatta”, senza attendere la decisione del giudice competente, impone l’annullamento dell’ordi – nanza, scrivono i giudici. Ginatta e Di Cursi tornano in libertà. I legali dei due manager respingono “con forza” le accuse. Il gruppo Blutec paga, ogni anno, 65 milioni di stipendi per oltre tremila dipendenti. “Al momento dell’ingresso nel dicembre 2014, nella sola Termini Imerese il gruppo ha investito più di 37 milioni di euro, pagando stipendi per un ammontare complessivo di 17,5 milioni con mezzi propri e senza attingere ad alcuna risorsa pubblica — sosten – gono gli avvocati Michele Briamonte e Nicola Menardo dello studio Grande Stevens — confidando anzi nel supporto doveroso di capitale pubblico per il rilancio del sito secondo i termini e gli strumenti consentiti dalla legge e nell’interesse della collettività”. Di conseguenza, “è molto arduo immaginare una preordinata macchinazione per sottrarre fondi pubblici nettamente inferiori ai costi già ad oggi sostenuti in proprio per la reindustrializzazione del sito e i relativi progetti occupazionali”. La morale di questa storia infinita è che Termini Imerese è a un passo da una morte che si poteva evitare. Di Maio non ha dato il suo benestare all’accordo, siglato da Invitalia e Blutec, per la restituzione dei finanziamenti e per un nuovo piano industriale forte dell’investimento cinese. Gli incompetenti sono riusciti così a far sfumare la firma del memorandum d’intesa prevista per lo scorso 23 marzo, in occasione della visita del presidente Xi a Palermo, ultima tappa del viaggio italiano. Gli arresti e la grancassa mediatica hanno fatto il resto. Per quel che vale, sul piano giudiziario, ad oggi i vertici di Blutec non sono stati neanche rinviati a giudizio: presto o tardi, le accuse, già gravide di conseguenze economiche e sociali, passeranno al vaglio di un giudice, si spera. Nel frattempo i cinesi, che avevano concesso tre mesi al gruppo torinese per calmare le acque e ottenere l’approvazione del ministero di via Veneto, si sono congedati senza tanti convenevoli. Davanti ai cancelli dello stabilimento resta la tenda del signor Vito, l’operaio solitario che risponde alle domande dei cronisti, visto che in questi giorni i ministri, da quelle parti, non si fanno vedere.

Perché Di Maio è fallimentare anche come “cavaliere bianco” di Whirlpool

Alberto Brambilla sul Foglio a pagina 1

Roma. A marzo Luigi Di Maio ha fatto scappare gli investitori cinesi per Termini Imerese, oggi non riesce a convincere quelli americani a restare nella sua Campania. La multinazionale americana di elettrodomestici Whirlpool non ha abboccato all’esca degli incentivi offerti per decreto dal ministro dello Sviluppo economico per lo stabilimento di Napoli e ha detto che venderà comunque il sito per convertirlo a produzioni diverse dalle lavatrici, probabilmente frigoriferi industriali. “Whirlpool non ha mai chiesto al governo alcun tipo di intervento per continuare a produrre lavatrici […] l’unica soluzione per mantenere i massimi livelli occupazionali e garantire la continuità aziendale è dare una nuova missione al sito”, ha detto Alessandro Magnoni, ad dell’area europa e medioriente di Whirlpool, a Repubblica Napoli. Il problema sta nel modo in cui il governo ha deciso di volere convincere l’azien – da con 420 dipendenti nel sito a non abbandonare la regione dalla quale viene Di Maio, originario di Pomigliano D’Arco. Gli effetti della norma possono essere controproducenti. Con il decreto sulle “crisi di impresa” discusso in Consiglio dei ministri martedì vengono concessi fino a 16,9 milioni di contributi addizionali per “le imprese del settore elettrodomestici con un organico superiore alle 4.000 unità e con attività produttive sul territorio nazionale, di cui almeno una in area di crisi industriale complessa”. Il decreto fa in sostanza un ritratto preciso della Whirlpool di Napoli alla quale vengono concessi degli sgravi fiscali. Per come è strutturata, la misura corre il rischio di essere un chiaro aiuto di stato in violazione delle regole europee perché è riferita a un solo soggetto, si potrebbe dire “ad aziendam”. Il concetto di aiuto di stato è la selettività perché non si riferisce a un settore o a un’area di crisi ma altera la parità di concorrenza. L’apertura di una procedura d’infrazione per aiuti di stato da parte della Commissione europea, in un prossimo futuro, non dev’essere allettante per Whirlpool. In caso l’azienda dovrebbe restituire tutti gli aiuti con gli interessi. Un altro problema è l’opportunità di inserire una norma per un’azienda in un decreto dal momento che non si comprendono i motivi di urgenza. E’ eccezionale che un’azienda chiuda o si trasferisca? Quante altre imprese chiudono senza ricevere sostegno dal ministro? La strategia negoziale di Di Maio è stata fallimentare. Prima aggressiva e poi accondiscendente senza avere alcuna garanzia di successo. Nel giro di pochi mesi ha completamente cambiato idea. In aprile aveva minacciato l’azienda dicendo di volere indietro una parte degli incentivi ricevuti dal gruppo negli anni. Whirlpool ha ricevuto 27 milioni di fondi pubblici, a fronte di oltre 800 milioni di investimenti garantiti dal 2014. Dopodiché, al contrario, ha fatto un’offerta che l’azienda non avrebbe potuto rifiutare ma senza avere la certezza che sarebbe rimasta dalla città. “Grazie a queste risorse Whirlpool non potrà dire che se ne andrà da Napoli. Dovrà però onorare gli impegni che ha preso”, ha detto Di Maio. Nell’incontro tra governo, azienda e sindacati del 1° di agosto Whirlpool aveva chiarito che 17 milioni di incentivi non avrebbero dato una risposta alla perdita di 20 milioni l’anno che soffre lo stabilimento. E che non riuscirebbe a riassorbirla nemmeno se costruisse a Napoli i prodotti che ora fabbrica in Cina e in Polonia, ovvero arrivando alla sostanziale saturazione degli impianti. Whirlpool, quotata a Wall Street, a maggio aveva comunicato agli investitori e all’Autorità di Borsa che “intende procedere alla riconversione del sito e vendere l’attività a terzi in grado di garantire continuità industriale e massimi livelli di occupazione” e presenterà un piano a settembre. Non poteva capitare un “cavaliere bianco” più improponibile di Di Maio per soccorrere le lavatrici di Napoli. Alberto Brambilla

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LO ZAR 20 ANNI AL POTERE

Da sconosciuto a inscalfibile Ma il vero rebus è il suo futuro Nominato premier il 9 agosto ’99. La nuova sfida sarà nel 2024: cambierà le regole per ricandidarsi ancora? Angelo Allegri sul Giornale a pagina 10

Giornale

Un rebus avvolto da un mistero, nascosto in un enigma. L’adagio di Churchill sul Cremlino è così vecchio da sembrare usurato. Ma nel tempo a Mosca le cose non sono cambiate molto. Nel momento in cui il potere di Vladimir Putin compie 20 anni, gli interrogativi, insoddisfatti, sono tutti rivolti al futuro: che cosa succederà nel 2024, quando alla scadenza del quarto mandato non potrà più ricandidarsi? C’è chi è pronto a scommettere su una nuova modifica della Costituzione che gli permetta di proseguire nell’incarico; e chi al contrario interpreta gli eventi delle ultime settimane, le proteste di piazza a Mosca con più di mille arresti, come un sintomo di debolezza che potrebbe aprire nuovi scenari. Come al solito quando si parla di Putin, le ipotesi e le voci sono molte, mentre le certezze scarseggiano. La nomina a premier, il 9 agosto 1999, è la conferma di quanto il suo percorso sia costellato di sorprese. Allora, sconosciuto all’opinione pubblica e a gran parte degli osservatori occidentali, fu chiamato alla ribalta dal sempre più malato Boris Eltsin che lo incaricò di gestire una difficile successione. A quattro mesi dalla nomina del nuovo primo ministro, il presidente che amava la vodka anticipò le sue dimissioni, consentendo al delfino di affrontare una campagna elettorale in una situazione favorevole. Putin si sdebitò subito con un decreto che garantiva l’immunità totale al suo scopritore, al centro di un’inchiesta per corruzione. La determinazione mostrata dall’ex funzionario del Kgb contro i guerriglieri ceceni («Li inseguiremo anche dentro il cesso»), soprattutto dopo una serie di attentati nelle città russe, contribuì in modo decisivo alla sua popolarità. Poco importa che le circostanze dell’ondata di terrore non siano mai state chiarite: l’ex spia Litvinenko scrisse in un libro che a mettere le bombe erano stati gli stessi servizi di sicurezza. Quello che conta è che un po’ alla volta Putin dimostrò di essere in grado di far uscire il Paese dal caos degli anni Novanta. Già nel 2002 una band musicale formata tutta da ragazze, portò al successo una canzone in cui ritornello era un inno al presidente: «Voglio un uomo come Putin, che è pieno di forza/Voglio un uomo come Putin, che non beve una goccia»). Ad aiutarlo nella sua ascesa almeno due elementi. Prima di tutto i prezzi delle materie prime internazionali, alti per quasi un decennio, che consentirono all’esportatrice Russia inediti spazi di manovra in campo economico. Poi l’abilità dimostrata nel sostenere l’Occidente (e soprattutto gli Stati Uniti) nella lotta contro il nuovo nemico: il terrorismo islamico. La Russia dilaniata dalle faide tra oligarchi del decennio precedente tornò al tavolo delle Grandi Potenze. Con il tempo qualche nodo è venuto al pettine: la dipendenza dalle esportazioni energetiche continua a essere eccessiva. Il risultato è una stagnazione che condanna il 15% della popolazione a vivere sotto la soglia di povertà (in numeri assoluti il drappello è cresciuto di 500mila persone nell’ultimo anno). Per rimettere in sesto i conti, nel 2018 (proprio in coincidenza, guarda caso, con i campionati del mondo di calcio giocati in Russia) la soglia della pensione è stata bruscamente alzata. Oggi gli uomini possono smettere di lavorare a 65 anni, ma l’età media della popolazione maschile, trascinata verso il basso da alcol e cattive abitudini, è di 67. Anche per questo il gradimento del presidente ha avuto negli ultimi mesi un crollo di circa 25 punti: da quasi il 90% a poco oltre il 60. Sono numeri che renderebbero felice ogni politico occidentale, ma che non bastano agli uomini del Cremlino per sentirsi sicuri. La vicenda del voto per il consiglio comunale di Mosca, previsto per i primi di settembre, è indicativa: i candidati dell’opposizione, già penalizzati da norme che privilegiano i partiti «ufficiali», sono stati in molti casi esclusi dalle elezioni con motivazioni risibili. Le proteste stroncate con la violenza. Per Putin, lo ha detto lui stesso in una recente intervista, il concetto di «democrazia liberale» è tramontato. La sua giornata di lavoro inizia con la lettura del contenuto di tre buste di cuoio: i rapporti quotidiani di Fsb (servizio segreto interno), Svr (spionaggio internazionale) e del Fso, le forze di sicurezza del Cremlino, la sua guardia pretoriana personale.

5 Mare Nostrum

Addio al Mare Nostrum e agli interessi nazionali Francia e Algeria portano le zone economiche esclusive o di pesca a ridosso delle coste italiane

L’ABDICAZIONE DI ROMA

L’Italia non sfrutta le 200 miglia e rinuncia ai suoi diritti marittimi. E gli altri Paesi ne approfittano

Gian Micalessin sul Giornale a pagina 17

Micalessin

Mare Nostrum addio. Nel Mediterraneo l’Italia è pronta alla resa, pronta a piegarsi alle manovre di chi, ignorando gli obblighi negoziali imposti dalle convenzioni internazionali, estende unilateralmente i diritti di sfruttamento di mare e fondali fino al limite delle 200 miglia arrivando a lambire le coste della nostra penisola. Giorgia Meloni recentemente ha riportato l’attenzione su quel trattato di Caen con la Francia che sancirebbe un’iniqua spartizione delle acque del Mediterraneo nord occidentale. L’iniquità, realizzata dopo l’insurrezione dei nostri pescatori, sarebbe all’origine della mancata ratifica del trattato da parte del nostro Parlamento e dei tentativi francesi di imporlo di fatto. Ma quel trattato, seppur indulgente nei confronti di Parigi, è stato – secondo l’ammiraglio in congedo Fabio Caffio esperto di Diritto Marittimo – «il frutto di una lunga trattativa che ha comportato rinunce, ma anche acquisizioni in quelle zone dove il diritto non garantiva una soluzione chiara». Ben più grave sarebbe invece l’inerzia politico diplomatica esibita dall’Italia di fronte al sopruso di un’Algeria che nell’aprile 2018 ha istituito, ricorda Caffio, «una sua Zee con un confine valevole anche per il fondale, che si sovrappone in gran parte alla piattaforma e alla Zpe (Zona di protezione ecologica) italiana a ovest della Sardegna». Per comprendere l’apatia di un’Italia incapace di difendere i propri interessi nel Mediterraneo bisogna partire dalla rinuncia, condivisa da tutti i governi dell’ultimo trentennio, a definire una Zona Economica Esclusiva in campo marittimo. Una rinuncia paradossale per un’Italia a corto di risorse energetiche, ma forte di un’estensione costiera di 7.600 chilometri che, anche senza sfruttare appieno le 200 miglia di Zona Economica Esclusiva (Zee) garantita dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, ci consentirebbe di effettuare prospezioni nei più vari settori del Mediterraneo. A differenza di Francia e Spagna, che hanno definito con chiarezza le loro aree di giurisdizione trasformandole in Zee, l’Italia si è limitata a dichiarare, nel 2011, una zona di protezione ecologica nel Tirreno. Una scelta che confermava già allora l’attitudine ad anteporre i temi ambientali all’interesse economico nazionale. Quattro governi dopo nell’Adriatico, l’esecutivo giallo verde, influenzato dal disfattismo produttivo di un M5S appiattito sui temi ecologici, ha rinunciato alle prospezioni per l’individuazione dei giacimenti di metano. Giacimenti che rischiano così di venir regalati a Croazia, Montenegro e Albania. Ma l’autolesionismo dell’Adriatico è ben poca cosa rispetto all’arrendevolezza con cui subiamo la decisione algerina di estendere da 40 a 180 miglia la propria Zee portandola a lambire le nostre acque territoriali intorno a Sant’Antioco, Carloforte, Portovesme, Oristano, Bosa, e Alghero. Quell’allargamento non concordato mette a serio rischio non solo la novantina d’aziende del settore pesca che operano nella zona, ma tutto quel comparto ittico in cui l’Italia ha rinunciato, negli ultimi 34 anni, a un terzo della propria flotta e a 19.000 posti di lavoro. Il tutto mentre l’aumento del consumo ittico ci costringe a importare l’80 per cento del pesce destinato ai tavoli di ristoranti e famiglie. Qualcuno si chiede, però, chi in Europa possa aver incoraggiato la scelta di un’Algeria che rischiava – agendo da sola – di venir messa all’angolo dall’Unione Europea. «L’obiettivo algerino – a detta dell’Ammiraglio Caffio – non sembra tanto la contestazione delle aree di giurisdizione italiana, quanto di quelle spagnole, la cui legittimità è anche contrastata a nord dalla Francia». L’evidenziarsi di un interesse francese suscita però un inevitabile sospetto. «Nel 1973 la Francia – sottolinea Caffio ricordando l’origine della controversia con Parigi sfociata, dopo quarant’anni di trattative nel contestato Accordo di Caen – propose come soluzione globale, l’adozione di un “punto centrale”…. equidistante tra Francia, Italia, Algeria e Spagna in cui far convergere le delimitazione tra i quattro Paesi. Ebbene, sarà un caso, – continua l’ammiraglio – ma la cuspide della nuova ZEE algerina che s’incunea a occidente del Sassarese sardo, è molto prossima all’ipotetico punto centrale indicato allora dalla Francia. L’Algeria continua in sostanza a considerarsi Stato frontista della Francia, come Parigi aveva ipotizzato decenni fa, ignorando del tutto le coste sarde cui si riconoscerebbero esclusivamente 12 miglia di acque territoriali». Dietro le pretese algerine si muoverebbe, insomma, la lunga mano di Parigi decisa a punirci per la mancata ratifica del trattato di Caen e a imporci surrettiziamente le stesse condizioni da noi rifiutate quarant’anni fa. E sempre la Francia potrebbe aver contribuito a bloccare le manovre di un’Unione Europea chiamata per statuto a difendere gli interessi italiani e spagnoli contrastando anche in sede Onu l’allargamento non concordato della Zee algerina. Di certo, ritrovarsi le trivelle della Sonatrach – e quelle della Total con cui la compagnia energetica di Algeri opera congiuntamente – a 13 miglia dalle coste della Sardegna rappresenterebbe una beffa enorme per un Italia che si è, invece, auto imposta regole severissime per le prospezioni off shore. Ma una doppia beffa sarebbe dover comprare il pesce finito nelle reti dei pescherecci di Algeri attivi in quelle acque del Mediterraneo dove, nel nome della difesa ambientale, abbiamo imposto limiti durissimi ai nostri pescatori costringendoli, in qualche caso, ad abbandonare la propria attività.

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Buonguorno a tutti. Apertura obbligata per tutti i quotidiani: la crisi e il governo che traballa. Si va dal C’era una volta il governo di Repubblica, al Governo nel caos del Corriere alla Spallata di Salvini al governo della Stampa fino al Salvini sevizia Di Maio del Giornale al “fotografico” Di Maio sotto il treno di Libero. Passando per Salvini tradisce Di Maio e chiede poltrone al Carrozzone del Manifesto. Altri temi del giorno gli ottanta euro di Renzi al centro della manovra della Lega, Trump che rimette nel mirino la Fed, i venti di crisi in Germania (se la Germania ha la febbre, l’Italia rischia una polmonite dice Deaglio sulla Stampa), per finire con l’omicidio di Diabolik e una australiana licenziata per un twet contro il governo. Buona lettura.

Aria di crisi. Salvini rompe gli indugi e dà una spallata al governo. Dopo il voto che dà il via libera alla Tav, un vertice con il premier scongiura la crisi. La Lega chiede la testa di Toninelli, Costa e Trenta. Si affaccia l’ipotesi di un Conte-bis. More

Disfatte e giochetti. Antonio Polito sul Corriere. More

Una coalizione mai nata. Stefano Folli su Repubblica. More

Corto circuito fra i gialloverdi sull’orlo della crisi balneare. Marcello Sorgi sulla Stampa. More

Perché scommetto che non andremo a votare. Alessandro Sallusti sul Giornale. More

Salvini punta alle elezioni in primavera. Augusto Minzolini sul Giornale. More

Morituri te salutant. Marco Travaglio sul Fatto. More

Per ora vince Conte. Paolo Mieli intervistato dal Fatto. More

Sorpresa: il partito della nazione alla fine lo ha fatto il Truce. Giuliano Ferrara sul Foglio. More

Il bacio ad alta velocità Zingaretti-Zingaraccia travolge il governo. Claudio Cerasa sul Foglio in prima. More

Abbiamo già visto tutte le illusioni della manovra propagandata da mago Salvini. Veronica De Romanis sul Foglio. More

Ultimatum Salvini: si cambia o si vota. Maurizio Belpietro sulla Verità. More

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Alessandro Campi More

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Intervista a Rino Formica: «È l’ultima chiamata prima della guerra civile. Ora il Presidente parli». L’ex ministro socialista: «Assistiamo alla decomposizione delle istituzioni, nel decreto sicurezza si accetta la fine del ruolo di Palazzo Chigi. I leader politici sono screditati. Solo un’autorità morale e politica può mobilitare la calma forza democratica dell’opinione pubblica. Lo strumento c’è, è il messaggio del Colle alle camere». Daniela Preziosi sul Manifesto a pagina 5. More

Conte teme per il futuro del suo governo e cancella la conferenza stampa d’agosto. More

Il Quirinale attende “con rispetto” le decisioni delle forze politiche. More

Le osservazioni sul Sicurezza bis. Mattarella firmerà a ore la legge Sicurezza bis accompagnandola con due osservazioni sul sistema di sanzioni per Ong e ordine pubblico. More

Crisi ad agosto, rischio governo balneare Mattarella potrebbe puntare su un premier neutrale. Voto possibile già il 13 ottobre (Qn p.5). Perché il futuro di Salvini dipende dal patto con Mattarella. Il leader leghista prende atto che il governo non c’è più ma tra lui e le elezioni c’è un problema “tecnico” da risolvere (Foglio in prima). More

L’ultimatum a Conte “Programma e ministri nuovi o si vota a ottobre” (Repubblica p.2). «Cambiare in fretta o meglio le elezioni». [/read] Nel mirino del leader Toninelli, Trenta e Tria. L’ipotesi: vertice con Di Maio e poi lunedì al Colle (Corriere p.3). Beach tour dimezzato, linea dura di Matteo: nulla più come prima. Cancellati i comizi balneari di Sabaudia e Anzio, avverte i suoi: restate nei paraggi. Non si possono garantire reddito di cittadinanza a tutti e salario minimo (Messaggero p.4). Romeo: «Così il governo non è più credibile» (Corriere p.3). «Pronti a fare campagna elettorale se il patto salta ci sono solo le urne» (Messaggero p.4). Esulta il fronte di chi vuole le urne: il Movimento non può più risalire (Corriere p.6). [/read]

Il tormento di Di Maio: “Forse dobbiamo finirla qui”. More

Così Toninelli fa harakiri. La lista dei cantieri sbloccati. More

L’ex premier Matteo Renzi mette le mani avanti: “Se si vota nasce una forza di centro. More

Quel che Renzi non dice. Il commento di Eugenio Scalfari su Repubblica. Credo che l’ex segretario possa essere ancora utile ai democratici ma in un ruolo non politico.More

E il Pd? Caos Pd, Zingaretti: «Ora Conte lasci» More

Tav e Valli. Più fondi per la Tav, verso il via libera. Ue: finanziamento al 55%. Il voto in Parlamento era il segnale atteso dalla Commissione. Che si prepara a rivedere i contributi prima della fine dell’estate. More

Cio 1. Il Cio propone incontro a Governo e Coni: «Troviamoci per cambiare la legge» More

Cio 1. Il presidente del basket Gianni Petrucci e lo scontro governo-sport dopo la nuova legge: “Inutile il muro contro muro. Malagò? Guidare il Coni non è una battaglia personale. More

La nave spagnola con 121 migranti: “Aspettiamo ma cosa farà l’Italia?” (Stampa p.17).

Cerciello, nuovi video con gli americani prima dell’omicidio. Agli atti immagini inedite dei due indagati dopo l’uscita dall’hotel. More

Roma, ucciso Diabolik il capo degli Irriducibili. Attirato in trappola, un colpo di pistola alla testa: Fabrizio Piscitelli aveva 53 anni. Era seduto su una panchina, il killer vestito da runner lo ha preso alle spalle. More

L’appello di Libero. L’ex governatore ai domiciliari non ha mezzi per sopravvivere. C’è una colletta per pagare il cibo a Formigoni. Un amico si attiva per raccogliere fondi. Si può contribuire. Sul lastrico per sentenza (Libero p.9).

Manovra. Bonus 80 euro a rischio per 3 milioni di persone. Con la trasformazione in detrazione chi non versa Irpef perderebbe il beneficio. More

Via gli 80 euro. I poveri sempre più poveri. Il commento di Chiara Saraceno More

Trump: il nostro problema è la Fed, non la Cina. Il presidente chiede una politica di riduzione dei tassi più aggressiva. La Casa Bianca intensifica il pressing dopo i tagli in India, Nuova Zelanda e Thailandia (Sole p.5). Trump attacca la Fed: ridicola. E l’oro vola sopra 1.500 dollari (Corriere p.27).

Sulla Germania lo spettro della recessione. A giugno crolla la produzione industriale. Meno 1,5% su maggio e un clamoroso -5,2% rispetto a un anno fa. Soffrono il settore manifatturiero e le banche. More

Il rischio del domino. Se la Germania prende il raffreddore l’Italia rischia la polmonite. Il commento di Mario Deaglio sulla Stampa. More

La guerra commerciale Usa-Cina è un gioco a somma negativa.

Raffaele Borriello sul Sole a pagina 17 More

Libero scambio: nasce in Africa l’area più grande al mondo. Il trattato farà cadere le barriere, tariffarie e non, tra i Paesi del Continente (l’unico Stato che non ha firmato è l’Eritrea). Il quartier generale dell’AfCfta sarà in Ghana. L’attuazione avverrà per fasi successive. Gli obiettivi sono ambiziosi e il principale ostacolo è la carente rete di infrastrutture (Sole p.19). More

Ilva, Arcelor “batte” Di Maio e ora punta il ministro Costa. L’azienda incassa il ritorno dell’immunità (“a scadenza”) e ora vuole bloccare il riesame dell’Autorizzazione ambientale. More

Scoperte due intese per distorcere la concorrenza. Maxi-multa Antitrust ai big del cartone ondulato “Ora pagate 287 milioni” (Stampa p.19).

Stop ai nuovi assunti e al Viminale arrivano i militari in pensione. I sindacati temono un utilizzo massiccio degli ausiliari per i posti vacanti (Repubblica p.22).

Trump a El Paso sfida le proteste: “Controlli sulle armi”. Il presidente contestato nei luoghi delle stragi. Donald promette misure dopo le sparatorie, ma torna ad attaccare i migranti (Stampa p.10).

Stati Uniti. La più popolare star della televisione americana svela i suoi dubbi: “Risponderò presto alla gente” Winfrey un anno fa aveva smentito la corsa alla Casa Bianca: “Ma quella domanda resta valida” Oprah non esclude la candidatura “Ci penso, in molti me lo chiedono”. Ancora non credo che dovrei candidarmi alla Casa Bianca, ma sono chiamata a servire il Paese. Quando sono con gli amici la domanda continua a venire fuori. Un quesito che ha una sua validità (Stampa p.10).

Kashmir. Il Pakistan allontana l’ambasciatore indiano. Kashmir, gli Stati Uniti temono che la tensione tra i due Paesi metta in crisi i negoziati sull’Afghanistan (Stampa p.11). More

Afghanistan. Gli accordi di Doha per porre fine al conflitto in Afghanistan dopo 18 anni. La diversa visione del tempo tra l’America e i taleban sulla via della pace a Kabul (Stampa p.11). I Talebani firmano la strage mentre trattano per la pace. A Kabul 14 morti. In Qatar è in corso il negoziato con gli Stati Uniti (Repubblica p.18).

Turchia. Erdogan, sultano tra due guerre. Turchia sul doppio fronte. In Siria incassa l’ok degli Usa alla “zona sicura”, mentre in Libia appoggia Sarraj. Obiettivo: conquistare l’Africa (Fatto p.18). More

Libia. Il governo lo sa che i soldati italiani in Libia sono sfiorati dai missili? Aumenta la frequenza dei bombardamenti di Haftar contro l’aeroporto di Misurata dove c’è anche il nostro contingente. La Difesa: “Niente danni” (Foglio in prima). More

I titoli dei giornali non si fanno su Twitter. Il New York Times cede alle pressioni e cambia una prima pagina su Trump (Foglio p.3) More

Impiegata del ministero licenziata per un tweet contro il governo (Repubblica p.18). More

Monica Lewinsky tra i produttori della nuova serie tv sul Sexgate di Clinton (Repubblica p.18). More

Ergastolo annullato, il boss torna in libertà. «L’Italia ha violato i patti di estradizione dalla Spagna». E lui esce dopo 23 anni (su 168 totali). Luigi Ferrarella sul Corriere (p.16). More

LETTURE

Farmaci. Mai così tanti prodotti introvabili: sono 2.100 L’Aifa: “La colpa è delle case farmaceutiche”. Emergenza in farmacia. Ora mancano le medicine. Il fenomeno si accentua in estate quando scatta la corsa all’accaparramento. Stampa p.15 More

Abraham b. Yehoshua: per sfuggire alle accuse di corruzione, il premier ha provocato una paralisi ideologica. Israele, la politica non c’è più. Così Netanyahu ha svuotato la contrapposizione destra-sinistra. L’energia politica si disperde in piccole soluzioni localizzate. Stampa p.26 More

Il direttore. Giovanni di Lorenzo. L’italiano che dirige «DieZeit» e rifugge lo Zeitgeist. «Iniziai da un articolo su Branduardi scritto con una macchina prestata». Conquisto i lettori andando contro lo spirito del tempo. Stefano Lorenzetto sul Corriere a pagina 19 More

La Divina Pellegrini. La forza e l’amore. Federica Pellegrini “Voglio solo essere felice, ho imparato dalle cicatrici”. Ne ho prese, di batoste, il buio fa male. A Londra 2012 ero innamorata persa di Magnini e fallii. Emanuela Audisio su Repubblica a pagina 16 More

 

Buongiorno a tutti. Due le notizie principali e aperture pressochè identiche di tutti i quotidiani.

La guerra della Cina agli Usa e il rischio recessione. More

Il decreto sicurezza che è legge mentre si avvicina lo scontro sulla Tav. More Ma non c’è aria di vacanza più che di elezioni. More Intanto Salvini si mangia i Cinquestelle. More E iniziano le grandi manovre per la manovra, fra cuneo fiscale e flat tax. Landini non va al Viminale perché la manovra si fa a Palazzo Chigi. Conflitti d’Oriente: Kashmir e Hong Kong scuotono l’Asia e il mondo. More

Pechino alla guerra con Trump

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3 Quota 100

Il presidente dell’Anci Antonio Decaro sulla polemica per Quota 100: “Non bastano i concorsi riapriamo le graduatorie”. Nelle città più piccole i sindaci fanno anche i dipendenti e i volontari

(Stampa p.9).

4 Fca

Fca, il rilancio di Manley mentre proseguono i colloqui fra i francesi e Nissan per riequilibrare l’aalleanza: “Possibile riparlarsi con Renault. Se cambiano le circostanze, anche i sogni a volte si avverano. Ma Fiat Chrysler ha un futuro anche come azienda indipendente” (Stampa p.19).

5 Inps

Inps, le nomine a rischio. Duello sui poteri di Tridico. Gli organi di controllo a Tesoro e Lavoro: possibili ricorsi sugli atti. «Il presidente non può firmare delibere di competenza del cda». Che è vacante. L’esecutivo prova a correre ai ripari. Già oggi in cdm la possibile designazione dei membri del board (Messaggero p.7).

6 Miur

Meno bocciati alle superiori ma uno su 5 ha un debito. Il Miur diffonde i dati sull’anno scolastico appena finito: i promossi crescono dell’1,1%. La selezione più dura in prima: il 10,3% non è ammesso alla classe successiva (Messaggero p.14).

7 Rider

Consegne a domicilio, il decreto non soddisfa i rider (Repubblica p.8). Di Maio dà il pacco ai fattorini. Se i rider hanno più diritti non dipende dallo scarso impegno grillino

Con un anno di ritardo Luigi Di Maio potrebbe mantenere la promessa di licenziare una norma che stabilisce le regole per i contratti dei rider, i fattorini che consegnano cibo a domicilio. I compromessi che il ministro ha dovuto accettare, tuttavia, sono così tanti che delle promesse iniziali rimane poco (Foglio pagina 3). Rider e tutele, c’è la polizza ma resta il nodo del cottimo (Corriere p.28). Just Eat e TakeAway vanno a nozze: nasce il big mondiale del cibo a casa. Via libera al numero uno del settore nel mondo, con 355 milioni di consegne. Dopo l’euforia da start up, ora nel settore c’è bisogno di fare massa con le fusioni (Sole p.15).

8 istat

Istat, economia italiana in lieve ripresa. Segnali di stabilizzazione per l’occupazione, pesa l’effetto dazi. Per la prima volta dalla fine del 2018 si intravede uno spiraglio. Entro dicembre va raggiunto lo 0,2% (Fatto p.8). Certo, la crescita non si fa con le previsioni. Perché torni il segno più davanti ai dati del Pil è necessario che questi indicatori si traducano in ordini e fatturato (Corriere p.8).

9 bio on

Bio-On, la start-up delle bioplastiche fondata a Bologna nel 2007 ed arrivata a capitalizzare un miliardo di euro sul mercato Aim di Borsa Italiana, respinge le accuse del fondo americano Quintessential e reagisce con durezza. Ieri la società guidata da Marco Astorri ha depositato un esposto alla Procura della Repubblica di Bologna in relazione al video e al report pubblicati il 24 luglio scorso dal fondo Qcm, specializzato nell’identificare società con conti giudicati irregolari su cui il fondo stesso lucra vendendo il titolo allo scoperto e lanciando al contempo denunce sullo stato della società che determinano un drastico calo delle quotazioni.

La vicenda aveva avuto inizio il 24 luglio scorso quando il fondo aveva diffuso un report e un video in cui si sosteneva che la società presenta bilanci in attivo grazie a un sistema di scatole cinesi. In seguito a questo Bio-On ha lasciato sul terreno circa il 75 della sua capitalizzazione passando da una quotazione di 55 euro a15, salvo risalire ai circa 20 di ieri (Corriere p.29).

10 Gdermania

Brexit senza rete, dazi e il rischio delle elezioni. Perché frena la Germania. In giugno solo mille occupati in più, rispetto agli usuali 44 mila. In autunno tre voti regionali ad Est potrebbero far traballare Merkel. Il presidente degli industriali chiede al governo di varare una riduzione dell’orario di lavoro. In “caduta libera” le aspettative aziendali. Scholz, ministro delle Finanze, esclude interventi in deficit. “Non sarebbe saggio”. Ma già nel 2008 Berlino sottovalutò la Grande Crisi (Repubblica p.21).

A fine luglio Mario Draghi era stato chiaro. Le due grandi industrie europee, Germania e Italia, stanno subendo uno «shock idiosincratico» e avrebbero bisogno di una boccata di ossigeno, di uno stimolo. Ma poche ore dopo il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz aveva già liquidato il suo allarme con una scrollata di spalle. «Non è necessario, né sarebbe saggio, comportarsi come se fossimo in crisi. Non lo siamo». E questo nonostante l’intera curva dei rendimenti dei titoli di Stato tedeschi sia sotto zero: se la Germania si indebitasse, gli interessi dei titoli a qualsiasi scadenza li pagherebbero i creditori. Insomma, non ci sarebbe momento più propizio per varare un generoso programma economico per tirare fuori la Germania dalle secche in cui si sta insabbiando. E invece.

POLITICA

1 decreto sicurezza è legge

Il decreto sicurezza bis è legge. Salvini esulta, il Pd: “Vergogna”. Solo 5 senatori del M5S si astengono. E il vicepremier leghista ringrazia la Beata Vergine. Airola: Ho votato sì al decreto. Mi sovvengono le parole di Rino Formica: “La politica è sangue e merda”. Zingaretti: Il decreto è passato grazie agli schiavi dei 5 Stelle. L’Italia adesso sarà ancora più insicura (Stampa p.6). Ok al dl sicurezza ma Salvini rilancia: ora la Tav o è crisi. Via libera alla fiducia con 160 voti a favore e 57 contrari. «Il no all’alta velocità sarebbe un siluro a Conte». Ben 32 gli assenti. Forza Italia non partecipa allo scrutinio, Fratelli d’Italia si astiene. Renzi, di ritorno dall’America, non è in aula (Messaggero p.2). L’aiuto della coppia di «sudamericani (Corriere p.3). La capogruppo di FI Bernini: «Siamo rimasti in Aula per una protesta decisa. Distacco abissale con loro» (Corriere p.3). Giorgia Meloni: «Noi astenuti sul decreto per coerenza adesso però la Lega stacchi la spina» (Messaggero p.3).

1 bis Il decreto

Super poteri al Viminale e ai prefetti: ecco cosa prevede la nuova legge. Stretta sulla gestione dell’ordine pubblico: basta volti coperti nelle piazze. Maxi-multe e confisca delle navi. Ma l’ultima parola sarà dei giudici (Stampa p.6). Pene eccessive per Ong e cortei. I dubbi del Quirinale sul decreto. Mattarella firmerà la legge, ma non è escluso che accompagni il via libera con una lettera. E c’è l’ipotesi di uno stop della Consulta (Repubblica p.3). Azzariti: “Violata la Costituzione in più parti. La solidarietà è un dovere, non può essere punita” (Repubblica p.2).

«Un decreto che viola la Carta in più punti» dice Gaetano Azzariti, costituzionalista della Sapienza. Vede punti che potrebbero portare al no del Capo dello Stato? «Vorrei innanzitutto ricordare che il presidente, già per il primo decreto sicurezza, scrisse una lettera in cui avvertiva la necessità “di sottolineare che dovevano restare fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur non espressamente richiamati nel testo normativo”». E quindi? «Il punto è proprio questo. Ove il capo dello Stato dovesse ritenere che anche l’attuale decreto fosse in contrasto con l’articolo 10 della Costituzione, che impone l’obbligo di “conformarsi” al diritto internazionale, nonché con altri principi fondamentali della Carta, quali il dovere inderogabile di solidarietà, sussisterebbero tutti i presupposti per il rinvio del decreto alle Camere». Il capitolo sui migranti viola la Carta? «A mio parere il decreto da un lato è contraddittorio e dall’altro, per alcuni profili, si pone in contrasto con la Costituzione. Gli articoli 1 e 2 sui divieti d’ingresso, sulle multe e sul sequestro delle navi, impongono il rispetto degli obblighi internazionali ma, al tempo stesso, li contraddicono prevedendo limiti o divieti incompatibili con il diritto del mare, nonché con la Costituzione». Ordinare multe salate, il sequestro e la vendita delle navi non disincentiva del tutto i salvataggi? «Ma le sembra possibile prevedere sanzioni comminate nei confronti di atti doverosi? Spesso si dimentica che gli obblighi di soccorso non trovano radici solo nel diritto internazionale, ma anche in quel fondamentale dovere inderogabile di solidarietà che la Costituzione impone e che le leggi sanzionano con reati tipo l’omissione di soccorso». Ma questo reato vale per gli italiani o pure per i migranti? «La Costituzione si riferisce alla persona umana, senza distinzioni di sesso, razza o provenienza geografica». La stretta sulle manifestazioni non dà un potere enorme alla polizia e scoraggia la partecipazione? «Faccio due osservazioni. La prima è che già le norme attuali sono molto rigorose, per lo più predisposte negli anni Settanta, ai tempi del terrorismo, quindi in una situazione di reale emergenza. La seconda è che la Costituzione esprime un forte favore nei confronti della partecipazione politica in piazza che dovrebbe essere particolarmente sentita dai leader che si dichiarano populisti, ma che all’opposto scrivono norme per governare senza il controllo del popolo a cominciare dagli ostacoli posti alle manifestazioni. Interpreto così le pene più gravi per la minaccia e la resistenza al pubblico ufficiale che potrebbero punire pure forme verbali di dissenso e non azioni violente». Ritiene eccessivo il Daspo? «L’uso del Daspo, nato per casi specifici in ambito sportivo, sta diventando una misura limitativa della libertà personale, che contrasta con l’articolo 13 della Carta. La Consulta, giusto la settimana scorsa, ha posto un freno ai Daspo previsti dal precedente decreto sicurezza sul divieto di prestazioni sanitarie».

2 Grillini

Di Maio teme trappole. E Casaleggio si schiera con il fronte dei “duri”. Il pressing sui ribelli del vicepremier e la paura del voto limitano i danni: nessun “no”. Ma c’è il sospetto che Pd e FI si astengano sulla mozione no-Tav per scatenare la rottura. Lo strappo di bugani ha traumatizzato il Movimento e anche Grillo appare sempre più lontano da Luigi (Messaggero p.4). Nei 5 Stelle processo all’alleanza, tra i falchi c’è chi evoca la scissione. E Casaleggio si vede con Bugani. Summit dopo la rottura con Di Maio (che punta sulle liste civiche). L’idea di testare alleanze con la società civile nelle elezioni regionali per poi replicarle alle Politiche (Corriere p.6). Il pressing di Di Maio sui dissidenti: “Un nuovo governo sarebbe peggio”. Il leader 5Stelle li convoca uno a uno: “Non dobbiamo dare alibi a Salvini per la crisi”. E promette per settembre “tanti cambiamenti”, alludendo al rimpasto. Airola alla fine vota sì e cita Formica: “La politica è sangue e m…” (Repubblica p.4).

I GRILLINI IN BALÌA DELL’AL

LEATO FRANCESCO BEI

Superata con abbondanti dosi di Maalox l’emergenza del decreto sicurezza bis, il Movimento cinque Stelle si prepara domani ad affrontare la seconda e più difficile prova nella sua straziante convivenza con Matteo Salvini: il dibattito parlamentare sulle mozioni pro e contro la Tav. E’ questa infatti l’ultima possibilità rimasta al capo della Lega per strappare.

Poi il Parlamento chiude e se ne riparlerà dopo la lunga pausa estiva. Se intende costringere il presidente del Consiglio a salire al Quirinale, il momento è arrivato. Altri voti parlamentari non sono previsti. I grillini stanno vivendo momenti di grandissima apprensione, si capisce: costretti a qualsiasi contorsione politica, danno l’idea di un esercito in balia del proprio avversario. Posso soltanto dire di sì e sperare che Salvini sia clemente ancora per un po’. Alternative non ce ne sono, almeno finché Di Maio resterà capo politico del Movimento (in caso di crisi, come farebbe infatti a dialogare con quello che ha definito il “partito di Bibbiano”?). E non basterà a salvarsi l’anima la citazione di Rino Formica che ha fatto ieri il senatore anti-Tav Alberto Airola per giustificare la sua giravolta sul decreto. La politica sarà pure “sangue e merda” ma ha una coerenza spietata: il debole soccombe sempre, il forte prende tutto e non fa prigionieri. Ieri il M5s ha detto di sì a un decreto che nei primi articoli contraddice la Costituzione (articolo 10: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica»). Ma ormai la sopravvivenza politica fa premio su qualsiasi altra considerazione, costituzionale o umanitaria. O semplicemente umana. Ironia della sorte, il dibattito sulle mozioni Tav era stato pensato da Di Maio proprio per assecondare il sì al tunnel pronunciato dal premier Conte. Un voto inutile in sé, ma utilissimo per far digerire il via libera al treno ai militanti che ancora credono a un M5s coerente con le idee delle origini. Sarebbe quindi una vera crudeltà se Salvini, dopo aver ottenuto tutto quello che voleva, utilizzasse domani quel voto per inchiodare Di Maio e mandare a casa il governo. Probabilmente non accadrà nulla di tutto ciò, nonostante minacce e ultimatum leghisti. E il ministro dell’Interno proseguirà nella sua strategia del Q.T.C. – Quousque Tandem Catilina – per provocare i cinque stelle: quousque tandem, fino a quando Di Maio sopporterà le umiliazioni a cui lo sottopone brutalmente Salvini? L’ordine dei cinque stelle è quello di non raccogliere le provocazioni, lasciando al solo Alessandro Di Battista il compito di rispondere al leader leghista. Per ora sembra funzionare, a meno di sorprese sulla Tav. Ma di certo, purtroppo per loro, Salvini non smetterà di spostare ogni giorno l’asticella più in alto, perché da questo conflitto continuo con i grillini trae parte del suo consenso. Se il M5s riuscirà a passare la nottata, il problema sarà comunque solo rimandato di un mese, quando si dovranno passare le forche caudine della manovra. Si è capito che Salvini è ormai lanciato verso un’ipotesi di legge di bilancio che si avvicina o sfora persino il tetto del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil, contravvenendo alle regole europee e smentendo le stesse promesse di risanamento contenute nell’ultimo Def approvato dal governo di cui fa parte. Il ministro Tria e il premier Conte sono invece al lavoro su una finanziaria prudente, che resti all’interno dei parametri e degli impegni assunti. E’ questo il vero nodo, da qui non si scappa. O la Flat Tax e lo sfondamento dei conti o un sentiero virtuoso di discesa del deficit e del debito. Terze strade non ce ne sono.

 

3 editoriali

La ferocia e la viltà

di Massimo Giannini

S ul filo di lana, a boccate di olio di ricino, e per un pugno di voti. Ma alla fine questo criminogeno decreto sicurezza-bis, almeno lui, entra in porto. Con la giusta preoccupazione di Mattarella, che lo firmerà per dovere costituzionale ma senza nascondere i suoi dubbi sull’abnorme inasprimento delle pene per chi soccorre i migranti. Ma con la feroce gioia di Salvini, che ancora ebbro dei fumi alcolici e psichedelici del Viminale Beach dice di non vedere «rischi per la libertà di stampa» dopo aver insinuato l’ombra della pedofilia su un cronista colpevole solo di aver fatto il proprio lavoro per Repubblica. E con la pusillanime quiescenza di Di Maio che per restare abbarbicato alle poltrone ministeriali e agli scranni parlamentari sarebbe pronto a firmare qualsiasi nefandezza leghista

F osse pure la pena capitale per chi non ha in casa un rosario. Dunque, il Salvi-Maio va avanti. Non sa dove andare, comunque ci va. Rissoso e confuso, con una maggioranza risicata e già esausta, procede a strappi e rattoppi, a colpi di miccette digitali e petardi ideologici. Per il Carroccio c’è sempre una Tav a “mettere a repentaglio l’esecutivo”, per il Movimento c’è sempre un salario minimo a fare da “prova del fuoco” dell’alleanza. Per tutti, c’è sempre un inutile ma palingenetico “altrove” da inseguire. Pur di tirare a campare senza tirare le cuoia. E soprattutto di non guardare nel pozzo della realtà, che invece è fatta di crisi economiche e miserie politiche. Debito pubblico in aumento e traffici di sottobosco in hotel moscoviti, produzione industriale in picchiata e moto d’acqua della polizia usate quelle sì come ”taxi del mare”, crescita zero e “mandati zero”. Giuseppe Conte governa questo nulla. Tra una “interlocuzione” e l’altra, e in attesa di giocarsi a dadi il Paese con una mostruosa manovra d’autunno. “Coalizioni del caos”: la formula coniata dall’ultimo numero dell’Economist sembra tagliata su misura per l’Italia. Il settimanale inglese la estende giustamente a quasi tutte le democrazie occidentali moderne. Negli Usa Trump ha già dovuto gestire due “shutdown”, il secondo dei quali è stato il più lungo della storia americana. Nella Gran Bretagna di Brexit si è votato nel 2017, la May si è appena dimessa e Westminster è ormai “alla bottiglia di gin”. In Spagna si è votato tre volte dal 2015, e già pare in vista una quarta elezione. In Svezia si è votato da poco e ci sono voluti quattro mesi per far nascere un governo di minoranza. Nella Repubblica Ceca, dopo le elezioni del 2018, ne sono serviti otto (contro i nostri tre mesi). Viviamo un’epoca di instabilità endemica: nei ventotto stati membri della Ue quasi un terzo dei Parlamenti insediati è frutto di elezioni anticipate, e a parte la Francia (dove Macron è all’Eliseo grazie a un quarto dei consensi ottenuti al primo turno e a oltre il 65% al secondo), tutti gli altri Paesi sono guidati da governi di coalizione. Secondo l’Economist, questa situazione sta generando modelli di diffusa “ingovernabilità. Che non vuol dire anarchia politica né rivolta sociale. Piuttosto, un’incapacità dei governi di produrre risultati concreti, che cambiano davvero le condizioni materiali di vita dei cittadini. I governanti galleggiano, senza riuscire a fare nulla di realmente “significativo e importante” per i governati. L’Italia è l’idealtipo di questa vacua “ingovernabilità”. Esaurita la “spinta propulsiva” delle leggi-bandiera (reddito di cittadinanza e Quota 100), al di là degli slogan da balcone (“il potere al popolo”, “abbiamo abolito la povertà”, “a morte le élite e i poteri forti”), scontato il radicalismo purificatore di misure puramente simboliche (come il taglio dei vitalizi) o penosamente securitarie (come le supermulte per le Ong): cosa resta della grande promessa dei due populismi, nati antagonisti e finiti alleai? Niente, se non il conflitto quotidiano tra due forze troppo disomogenee, e tenute insieme solo dal cemento del “vaffa” e del “me ne frego”. Un impasto di qualunquismo anti-sistema: tendenzialmente illiberale (per non dire dispotico) e naturalmente di destra (per non dire fascistoide). Il governo gialloverde appare sempre più simile al “Gulliver incatenato” di cui parla Yves Meny (Popolo, ma non troppo, Il Mulino). Avevano annunciato una “Rivoluzione”, sono a un passo dall’implosione. Fiaccati dallo scontro quotidiano e dall’idra burocratica che non sanno ammaestrare. Condannati alla paralisi dell’azione pubblica dalle reciproche interdizioni e dalle rispettive incompetenze. Con un Parlamento ridotto a teatro di ombre (secondo la visione più moderata) o a bivacco di manipoli (secondo la visione più resistenziale). E con un Web che per ora, grazie alla Bestie di Morisi e al Rousseau di Casaleggio agisce come collettore del consenso politico, ma in prospettiva evolverà fatalmente in incubatore del malcontento sociale. Come affrontare i nodi d’autunno, in un simile caos, nessuno sa dirlo. Meno che mai i leader, coalizzati sempre più riottosi e riluttanti. La Flat Tax e le clausole Iva, i cantieri delle grandi opere, la pseudo-riforma della giustizia, l’autonomia differenziata. L’Intifada gialloverde esplode ogni giorno su tutto. A conferma di un’alleanza innaturale fin dall’inizio, che associa il bullismo dell’ultradestra salviniana (trasformata in egemonia culturale) e il nullismo della pseudo-sinistra grillina (degenerata in entropia identitaria). Avevano spacciato il “contratto di governo” come una svolta epocale, che il resto del mondo ci avrebbe non solo invidiato, ma addirittura “copiato”. Era chiaramente un trucco da apprendisti stregoni, come se la politica non fosse carne e sangue, ma scartoffia da avvocati. Eppure, quel “contratto” conteneva già il riconoscimento implicito del suo palese velleitarismo. Ormai non lo ricorda più nessuno, e meno che mai i contraenti, ma quel patto del maggio 2018 prevede il famoso ’Comitato di conciliazione’, garanzia di tenuta di “tutta la politica dell’esecutivo”. «In caso di contrasto – c’è scritto nel testo – le parti si impegnano a discuterne con la massima sollecitudine, e nel rispetto dei principi di buona fede e leale cooperazione…». E poi, nel comma successivo: «Nel caso in cui le divergenze persistano, verrà convocato il ‘Comitato di conciliazione’… che si attiverà in tempo utile per raggiungere un’intesa e suggerire le scelte conseguenti…». Questo hanno scritto e firmato insieme, Salvini e Di Maio. Con la regia di Conte, l’azzeccagarbugli del popolo. Per come sono andate, stanno andando e andranno le cose, quel ‘Comitato di Conciliazione’ dovrebbe aver funzionato sempre, e dovrebbe ancora funzionare in modo permanente, ventiquattrore su ventiquattro. Ma com’è evidente, non si concilia l’inconciliabile. E a Palazzo Chigi, ormai, non c’è più niente da conciliare se non la paura. Quella di Salvini di governare da solo, e quella di Di Maio di non governare mai più.

4 Tav

Domani nuovo voto in Senato. Il Carroccio può contare anche sull’appoggio di Berlusconi. Sulla Tav patto inedito Lega-dem. “La mozione dei 5S non passerà” (Stampa p.7). Salvini apre il fronte Tav: «Chi dice no fa cadere Conte». Il leghista: «Non sto al governo per tirare a campare». Toninelli: «Minacci chi vuole ma il governo non cade» (Giornale p.3). La Lega usa la Tav per tentare di separare il M5s di Di Maio da quello di Dibba (Foglio p.4). Tav, continua l’equivoco M5S. Stefano Folli su Repubblica (p.31).

5 legge elettorale

“Il taglio degli eletti favorisce Salvini”. Contatti 5S-Pd per cambiare le regole. Lo studio riservato: ai dem 84 deputati, grillini sull’orlo dell’estinzione. L’ipotesi di una nuova legge elettorale in chiave anti Lega. Nel ritocco delle regole per le elezioni verrebbe eliminata la quota maggioritaria. Per la procedura della riduzione dei parlamentari serviranno 5 mesi (Stampa p.8).

Nei palazzi gira un foglietto che manda in depressione i nemici di Salvini. Dà l’idea di come sarebbe il prossimo Parlamento, per effetto della riforma che riduce il numero degli eletti. Applicando a quei tagli le percentuali delle ultime Europee, una coalizione di centrodestra si porterebbe a casa 258 dei 400 deputati e 128 dei 200 senatori (dal conto mancano le circoscrizioni estere). Il Pd, con i suoi vari cespugli, si accontenterebbe di 84 onorevoli e 40 senatori. Quanto ai Cinque stelle, sarebbero sull’orlo dell’estinzione. Raggranellerebbero 48 seggi a Montecitorio (oggi sono 216) e la miseria di 26 a Palazzo Madama (rispetto ai 107 attuali). Chi non si fidasse di questa tabella, finora rimasta riservata, sappia che ce n’è un’altra costata parecchia fatica all’esperto numero uno, Federico Fornaro di Leu. Il quale è giunto a risultati quasi identici: Salvini è virtualmente padrone d’Italia. E lo sarà ancora di più dopo il taglio dei parlamentari, che la Camera licenzierà entro metà settembre. A meno che, per fare uno sgambetto alla Lega, qualcuno non cambi le carte in tavola. Riscrivendo la legge elettorale.

6 Voto a febbraio

E Matteo è pronto a sfidare il Colle per votare a febbraio. La mozione M5S sulla Tav senza numeri la resa dei conti è rinviata alla manovra. Per Salvini il taglio dei parlamentari non blocca le urne, anche col referendum. Il Carroccio potrebbe votare una finanziaria indigesta per evitare l’esercizio provvisorio in cambio di elezioni certe (Messaggero p.3).

Pressing di Giorgetti sul capo per cambiare passo. Ma in Senato si parla di ferie (Corriere p.5).

Le elezioni anticipate che non vuole nessuno. Il commento di Antonio Polito sul Corriere in prima.

Il Generale Agosto ha vinto la battaglia del decreto sicurezza bis. Che il governo cadesse in piena estate, con la finestra elettorale di settembre già chiusa, era infatti un’ipotesi contraria alle leggi di natura. Così, il numero di coloro che nel centrodestra si sono assentati o astenuti per non votare contro il governo, ha soverchiato il numero di coloro che nei Cinquestelle (cinque in tutto) si sono assentati per non votare a favore del governo, con l’intento di dissentire.

Anzi, il gioco è stato anche più sottile. Proprio il fatto che esista ormai in Parlamento una «terza forza» disposta a salvare il governo in caso di bisogno (ieri è anche venuta allo scoperto la pattuglia dei «totiani»), ha consentito ai dissidenti «fichiani» dei Cinquestelle di fare il bel gesto anti-Salvini senza però rischiare la crisi. Vi sembra bizantino? Lo è. Ma questa è oramai la situazione parlamentare: il governo esiste non perché ci sia una coesa maggioranza politica che lo sostenga, ma perché non c’è una maggioranza in grado di buttarlo giù. Anche se potesse, nell’opposizione praticamente nessuno ha davvero voglia o interesse a provocare una crisi e le elezioni anticipate. Così il gabinetto Conte viaggia sul vuoto, come un treno senza rotaie a levitazione magnetica (anche sulla Tav, nel voto di domani sulle mozioni, andrà così). D’altra parte un governo, per quanto diviso e indebolito, non può cadere sui provvedimenti più popolari. E le norme sulla sicurezza, nonostante le contestazioni, sono tra questi. Al punto che da una bocciatura sarebbe stato proprio Salvini a trarre i maggiori vantaggi: ci avrebbe potuto imbastire la più conveniente delle campagne elettorali. E infatti Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno dichiarato che non erano contro il decreto, e l’avrebbero anzi voluto più «duro» o più incisivo. Dal che si deduce che, almeno per quando riguarda migranti e sicurezza, la vera linea di divisione in Parlamento passa ancora tra destra e sinistra. Così Salvini ha due maggioranze: quella del «cambiamento», sempre più precaria, e quella di centrodestra, sempre ben disposta.

7 pd

“Zingaretti assediato da Renzi, il Veltroni verde è un disastro”. Il filosofo Massimo Cacciari intervistato dal Fatto stronca la svolta green dei dem e rimpiange la mancata scissione dell’ex premier: “Il segretario ha i parlamentari contro”. Matteo doveva andarsene quando era alto nei sondaggi, adesso sa che non gli conviene: avrebbe il 4 o il 5% (Fatto p.6). Ora il Pd pensi ai più deboli. Il commento di Pietro Ignazi su Repubblica (p.30).

7 tg2

Si spacca il Tg2 targato Salvini. “Il ministro risponda alle domande”. Rivolta interna nel telegiornale diretto da Sangiuliano. Dopo un comunicato di una parte del Comitato di redazione ne arriva un secondo, a nome di 60 colleghi, critico col vicepremier e solidale con i cronisti di Repubblica e Report (Repubblica p.11). Quel direttore in camicia verde. Il commento di Stefano Cappellini su Repubblica (p.30).

8 Commissario

Il ministro Centinaio: staccare la spina? Io lo dico da due mesi. «Per il commissario Ue in pista io e Garavaglia» (Corriere p.2). “Io e Garavaglia i nomi di Conte per andare a Bruxelles” (Stampa p.7). “Se mi bocciano sarà guerra. Ho dovuto bloccare a metà il mio giro in moto della Sardegna, sono stato precettato per la fiducia. Ma questo governo doveva finire due mesi fa” (Repubblica p.4).

Attraversa abbronzatissimo e rapido il salone Garibaldi di Palazzo Madama quando sono già passate le 18, giusto in tempo per partecipare al voto di fiducia. Basettone lungo, non proprio felicissimo di essere qui, il ministro leghista all’Agricoltura Gian Marco Centinaio. Cerchia ristretta del leader Salvini e anche per questo il più accreditato per il posto da commissario europeo. «Ho dovuto interrompere il giro della Sardegna in Harley Davidson che sto facendo da qualche giorno, mi hanno precettato per votare la fiducia…» dice con aria scocciata. Incassate anche il Dl sicurezza bis, Salvini alza il tiro sulla Tav anche se la mozione 5S sarà bocciata. Pensa che il governo rischi ancora? «Non avevo dubbi sulle votazioni. Ora si tratta di vedere cosa accadrà con la manovra e la Flat tax». Insomma niente crisi fino all’autunno. «Non è un mistero che per me questo governo avrebbe dovuto chiudere i battenti due mesi fa. Quando i rapporti con i 5 stelle si sono ridotti ai minimi termini (a cavallo delle Europee, ndr). Il premier Conte sa come la penso. E così Matteo e anche Di Maio. Non a caso quando si è parlato di rimpasto hanno chiesto la mia testa». Le sue dimissioni? «Certo. Ma non ho problemi. Pronto a servirla io stesso sul piatto, se serve». Invece non ne avrà bisogno perché potrebbe essere lei il commissario Ue italiano. Come se la cava con l’inglese? «The ball is on the table». Dunque alla grande, certo. Va davvero lei? «Matteo Salvini ha fatto il mio nome. E quello del sottosegretario all’Economia Massimo Garavaglia». Per quali deleghe? «Sottovalutate tutti la portata dell’Agricoltura. Continuate pure, va bene così. Perché è quella sulla quale puntiamo realmente: gestisce il budget più consistente. Non a caso non l’attribuiscono mai a un grande Paese europeo ma questa volta l’Italia ha diritto ad essere compensata». E la Concorrenza, che il premier Conte aveva dato per scontata. «Non so, non ne so parlare. Non sarebbe tra i miei temi…». Forse non è alla portata della Lega, realmente. «Sottovalutate anche l’Industria». Lì potrebbe andare l’economista Garavaglia? «Però comprende il Turismo, che è roba mia..» (sorride: di mestiere fa il titolare di una struttura alberghiera). Ma Massimo sui temi economici sa il fatto suo». Rischiate di essere impallinati, lo sa? «Sappiamo, lo ha detto anche Matteo. Beh, sarebbe un fatto senza precedenti: il partito più votato in Europa privato del diritto di esprimere un proprio commissario. Lo facciano pure, a quel punto però scateniamo una guerra».

9 Moto d’acqua

Moto d’acqua, interviene Gabrielli Il capo della polizia: verificherò se è stato limitato il diritto di cronaca. Salvini: non vedo rischi perla stampa (Corriere p.9). Il cronista di Repubblica ascoltato dalla Digos “Ostacolato il mio lavoro”. Il capo della polizia Gabrielli: sugli agenti in corso accertamenti disciplinari e penali (Repubblica p.10).

Gabrielli e ministro, botta e risposta sulla moto d’acqua. «In quella vicenda c’è solo una cosa che mi interessa e che sto approfondendo: se c’è stata una limitazione al diritto di informazione e cronaca». Il capo della Polizia, Franco Gabrielli, è intervenuto sul caso del figlio del vicepremier Matteo Salvini, che la scorsa settimana ha fatto un giro su una moto d’acqua della Polizia a Milano Marittima. Per Gabrielli la vicenda «sembra un po’ amplificata. Vi potrei portare decine di immagini di nostri mezzi che vengono utilizzati anche da ragazzini». Ma Gabrielli aggiunge: «Mi preoccupa di più, e ho chiesto un approfondimento, quando c’è una limitazione al diritto di cronaca che ritengo debba essere posto al centro» (Stampa p.6).

10 Corinaldo

“Ero a Corinaldo ma non c’entro con la strage”. Il ventenne nega i contatti con l’altra banda. Via agli interrogatori. Il legale: “È un ragazzino sconvolto”. Nelle intercettazioni accuse a Di Puorto: “Andrà all’inferno”. La fidanzatina di Cavallari prendeva 30 euro più le spese per portare i ragazzi in macchina. Arrestata a Parigi per furto, prenotava alberghi con “Cava” che poi non pagava. Quel taser in auto. La donna del capo che accompagnava il gruppo nelle trasferte criminali. Da complice in affari ad autista e compagna di uno dei principali accusati (Stampa p.13). Spray, si spacca la gang. «I morti? Tutta colpa di quei bamboccioni». La banda di Modena scarica il gruppo di Di Puorto, il cui padre è legato a un boss dei Casalesi. Cavallari interrogato a Genova: «Sono stati loro» (Messaggero p.8). «In 10 per trovare quel Dna. Così siamo arrivati alla banda». Schiavone (Ris) e la strage di Corinaldo: la bomboletta spray fu usata tutta (Corriere p.17).

I valori del branco negli antichi codici feudali

Inquieta la completa mancanza di percezione dell’illecito. Presi con le mani nel sacco si mostrano stupiti, quasifossero interrotti in una pratica legittima

Dacia Maraini sul Corriere a pagina 27

D ifficile da capire questa esplosione di criminalità minorile. Anche perché sembra slegata da ogni questione sociale. Non sono gli adolescenti poveri, gli emarginati che delinquono ma ragazzi di famiglie agiate che interrogati, parlano di noia. Quasi sempre sono in preda all’alcol o alle droghe. Ma soprattutto quello che inquieta è la completa mancanza di percezione dell’illecito. Presi con le mani nel sacco si mostrano stupiti, quasi fossero interrotti in una pratica legittima. Il che significa che è saltato nella maniera più completa il senso del bene e del male. Penso ai due ragazzi americani che hanno preso a coltellate un onesto carabiniere. Ritenevano di avere colpito un truffatoreeperloro era una giustificazione perreagire con inaudita furia omicida. Penso alle baby gang italiane che col peperoncino creavano panico per strappare alle vittime portafogli, collane, catenine d’oro, orologi preziosi. Ma è solo la droga che crea queste forme di ottundimento morale? Non potrebbe essere che questiragazzi, essendo figli di un tempo in cui la supremazia virile è messa in discussione, si sentano impegnati,come una avanguardia di soldati in cerca di vendetta, a intraprendere una guerra ciecaecrudele contro un nemico invisibile che li sta privando della più arcaica identità maschile? I valori che circolano presso questi branchiricordano antichi codici feudali: disprezzo verso i deboli, sfida ai pericoli più rischiosi, propensione verso guerre devastanti contro un nemico odiatoemisterioso che, come nei fumetti, viene da un cosmo ostile e minaccioso. In effetti la maggioranza assoluta di questi guerrieri da fumetto sono maschi e le prede che prediligono sono le giovani femmine, da condannare perle loro nuove libertà. Gli adulti certo non danno il buono esempio, e questo non fa che diffondere l’idea della legittimità del crimine.

“Non è follia: i nostri giovani sono solo cattivi e frustrati”

Vittorino Andreoli L’omicidio del carabiniere, le rapine con lo spray, l’investimento mortale: lo psichiatra commenta gli ultimi episodi di cronaca

“No, non è follia. La parola chiave è frustrazione: il sentirsi inadeguati, esclusi, senza futuro. D’estate si accentua il bisogno di fare cose estreme. Questi ragazzi che fanno cose inaccettabili si comporterebbero bene se avessero degli stimoli. Ma si vedono la sera e non sanno cosa fare”, osserva lo psichiatra Vittorino Andreoli a proposito dei recenti, feroci episodi di cronaca. Dai baby-gangster delle rapine con lo spray, in manette per la strage in discoteca a Corinaldo (Ancona), al lancio da 20 metri di altezza di un cassonetto in Liguria che ha quasi ucciso un dodicenne in una tenda, passando anche per l’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega con undici coltellate sferrate da un diciannovenne e quello dei ragazzi investiti da un uomo in auto dopo una banalissima lite a Bergamo.

Vittorino Andreoli, psichiatra, vede “fru – straz ione” e “v uoto” dietro i violenti crimini che hanno segnato questo scorcio d’estate. Sono quasi sempre giovanissimi gli autori e le vittime di atti cruenti. Da dove originano questi casi? Nei periodi di crisi sociale, esistenziale, di principi, esplode il problema dell’eroismo giovanile. I giovani assumono comportamenti estremi, pseudo-eroici. La violenza è fare qualcosa di eccezionale, sentirsi eroi, soprattutto in quest’epoca in cui ci sono gli strumenti per rendere note sui social le azioni compiute. D’estate si accentua il bisogno di fare, di vincere. Durante le vacanze, la società si diverte, spera di avere esperienze straordinarie e il bisogno di non essere esclusi si accentua. La frustrazione è la parola chiave: le vacanze l’a u m e n t ano. I ragazzi che fanno cose incredibili e inaccettabili potrebbero comportarsi bene se solo avessero stimoli. Ma si vedono di sera e non sanno cosa fare. Fo l l i a? No, il punto di partenza è la frustrazione, il sentirsi inadeguati, esclusi, che genera la voglia di fare cose d’eccezione. Non c’entra la follia. C’entrano comportamenti compensativi. I giovani reagisco

no compensando la frustrazione. La follia è una patologia seria legata a qualcosa di più profondo. Non è vero che la violenza è più frequente in presenza di follia. Si riscontra in alcune patologie psichiatriche, ma non è più possibile sostenere il binomio “folle uguale violento”. Nel caso dei 14 ragazzi di Manduria (arrestati nei mesi scorsi, ndr), per esempio, il pazzo è la vittima. Bertold Brecht diceva: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Quanto più i giovani saranno esclusi dalla società, tanto più avremo pseudo-eroi. Che ruolo ha la dimensione collettiv a? Enorme. Il gruppo è una condizione in cui uno assume più forza dalla presenza dell’altro. Nessuno fra chi partecipa al gruppo agirebbe isolatamente. Il fenomeno del gruppo esiste adesso, come nel passato. Ma ci sono caratteristiche che legate al tempo. Crede che incida questo momento storico? Certo. Il tasso di disoccupazione giovanile è al 32,8%. È una condizione che predispone agli atti di pseudoeroismo. In una società piatta, che non ha più ideologie, l’unico imperativo sociale è il denaro. Non si pensa più. Si usa solo il telefonino. Che ruolo ha l’affe t t i v i t à ? L’amore è un legame affettivo vasto, che oggi si consuma, perché questa è la società dell’empirismo radicale che vive nell’adesso. L’amore, invece, è una storia, necessita di futuro, programmi, crescita. I protagonisti sono quasi sempre maschi. Come mai? Perché le donne sono più pazienti, più riflessive, sanno attendere. Sono meno pseudo-eroiche. Una donna sa attendere 9 mesi la nascita del suo bambino. Esiste una geografia dell’effe ra te zz a? No, oggi c’è un vuoto nei giovani, non hanno futuro. E l’uso di sostanze ha un’enorme incidenza, perché imbrogliando danno l’illusione di essere diversi.

Da Corinaldo agli incidenti per uccidere l’estate violenta dei giovani senza regole

Paolo Graldi sul Messaggero in prima e a pagina 22

L’età. La giovane età o piuttosto la giovanissima età tiene insieme, accomuna l’impressionante sequenza di episodi di cronaca di queste ore, dove la furia calcolata deflagra, sbalordisce per il cinismo e la strafottenza che la sottendono. Sono ragazzi che si riconoscono nel comune sentire la violenza come mezzo e come fine; si attraggono cercando soldi usando la scorciatoia della rapina, dell’assalto verso i deboli, gli indifesi. Rabbiosi, violenti e però anche vigliacchi. Ilmodello è quello delle piccole bande che si nutrono di miti trash e vivono il sopruso con insensata allegria e sprezzo delle legalità. Gli scenari squarciati dalle intercettazioni sui componenti della bande del peperoncino lasciano interdetti. I sei giovanotti, arrestati dopomesi di indagini, ritenuti responsabili della strage della discoteca “La Lanterna Azzurra” di Corinaldo e di una infinita serie di colpi con il medesimo modus operandi, rivelano sghignazzando la loro vita sballata, si gasano ricordando le scorribande nei locali dove seminavano il panico con il gas per poi, nel caos generale, arraffare oggetti d’oro e cellulari. Il padre di uno dei capetti ha affidato la sua dolorosa testimonianza a un tg: «Rubava fin da bambino, anche in casa, in negozio, diceva che sulla paghetta ci sputava sopra, che il lavoro è per i fessi. Neanche San Patrignano, dove lo hanno tenuto per un po’, lo ha piegato. Niente e nessuno. Adesso merita una pena severa, da scontare tutta». A scuolamalissimo. Come gli altri della gang. Al bar sfuriateminacciose, spacconate, sbornie. In fretta scopriamo nei dettagli un mondo di devianze gravi, radicate, dove bullismo e droga, furti e rapine, spaventosi potenziali criminali, si incontrano e si intrecciano. E così, seguendo il filo rosso dell’età, incontriamo i due studenti americani venuti a sballarsi a Roma dalla California e adesso imputati di un atroce delitto, l’uccisione di un carabiniere. Ragazzi per bene secondo i genitori, dai precedenti premonitori e inquietanti secondo i loro docenti e i compagni che li tenevano alla larga. Del resto, quali pensieri emodi d’agire si agitano nella testa di un ragazzo che in vacanza si porta un pugnale damarine e mostra che il suo primo interesse è comprare cocaina? Il germe, il virus della violenza, viene prima dell’atto che lo rivela, è già presente e rilascia tracce di sé, come in agguato, in attesa di esplodere. Di esplosione, di lucida determinazione assassina si deve parlare allungando lo sguardo nel Paese dei due omicidi, gli Usa, dove le azioni con armi da guerra falciano decine di vittime casuali, nel mirino per razzismo, xenofobia, odio puro. Ecco, l’odio. Il disprezzo degli altri comemotore e carburante di violenza. Lo rintracciamo nell’episodio di Bergamo dell’altra notte, esemplare nello svolgimento: apprezzamenti sgraditi a una ragazza, il risentimento del fidanzato, l’attesa fuori dalla discoteca e poi l’agguato con speronamento dello scooter. Duemorti, entrambi giovanissimi. Il colpevole viene arrestato a casa sua, tranquillo sul divano, accarezzando il cane davanti alla tv. Lavora con lamamma, adora la disco music. Il suo motto? «Senza presente non c’è futuro». Nelle stesse ore un diciassettenne a Londra lanciava, forse per vedere l’effetto che fa, un bambino da un terrazzo: i medici dicono che si salverà, permiracolo. In questa deriva di violenza a macchia di leopardo, dove tuttavia prevale quella di gruppo, organizzata, imitativa di criminalità strutturate e radicate, si è come di fronte a un corto circuito che annienta i valori più elementari, si fa beffa della legge e dei suoi rappresentanti in una sfida demenzialema gonfia di arroganza temeraria. In questo quadro che si ripete a copione diviene imponente l’assenza degli adulti. Non ci sono. Sono sfumati, disattenti, distratti. Soccombenti, quando non addirittura cattivi maestri. La forza dell’educazione presa a calci, gli insegnamenti della scuola come acqua sul marmo. E s’impongono, perfino nel più insignificante gesto quotidiano, gli stereotipi del vediogame d’assalto: la forza, la brutalità, la sopraffazione. C’è di che essere altamente allarmati. Qui non è questione di generazione, di nuovi stili di vita, di modi diversi d’intendere il vivere nella collettività. La lettura professionale delle “confessioni” telefoniche della banda della strage di Corinaldo ci restituisce uno spaccato di verità che non va portato soltanto nell’aula del giudizio penale o nelle cattedre di criminologia forense ma nelle case, sui tavoli da pranzo, sui divani davanti alla televisione. Nei dibattiti alle feste della politica ed anche ai tavolini dei caffè delle vacanze. Perché questi ragazzi che si bruciano la gioventù e il futuro portano in corpo qualcosa che potrebbe rivelarsi contagioso. E diffondersi come un’epidemia malvagia e virulenta. © RIPRODUZIONE

10 Sopraelevata

Primi colpi di piccone sulla tangenziale Est. Così Roma abbatte il suo ecomostro. Da demolire 500 metri di sopraelevata, serviranno almeno 450 giorni. Legambiente: “Bisogna rigenerare la zona”. Pier Luigi Cervellati, urbanista: “Un tempo i problemi venivano discussi in sedi pubbliche. Ci siamo dimenticati ogni pianificazione. I Comuni non consultano più i cittadini”. Abbiamo perduto il senso della città come bene collettivo. Sull’urbanistica c’è disinteresse generale (Stampa p.15).

10 Carabiniere

I killer di Cerciello all’incontro per colpire. Lo zainetto forse era un pretesto: nascosto prima dell’appuntamento. Ai magistrati hanno detto di temere un’altra truffa da parte del mediatore (Messaggero p.9). I ragazzi all’incontro senza borsello. I due americani lo hanno lasciato in una fioriera: ritrovato dopo il delitto del vicebrigadiere Cerciello (Corriere p.15).

10 Travaglio

Ieri, con la fiducia all’orribile decreto Sicurezza-bis, i 5Stelle hanno pagato l’ultima cambiale a Salvini. Se sia l’ultima in ordine di tempo o in assoluto, lo scopriremo presto. Le conseguenze del bis sono meno preoccupanti di quelle del primo che, accanto a (poche) norme di buonsenso, ne conteneva due micidiali: la fine dei permessi umanitari, che ha moltiplicato i clandestini; e lo smantellamento degli Sprar, i centri comunali d’integrazione, che ha moltiplicato i migranti a zonzo per le strade a bighellonare, o mendicare, o infastidire i passanti, o cadere preda della criminalità comune e organizzata. Gli “stranieri”, non avendo dove andare e cosa fare, appaiono molti più di quelli che sono: tutta benzina sul fuoco della rabbia più o meno razzista nei quartieri popolari e tutta benzina nel motore della Lega. Che, fatto il danno, riesce pure a lucrarci dei voti. In compenso nulla, nei due dl Sicurezza, è previsto per i rimpatri degli irregolari: promessa che ha gonfiato le vele del salvinismo e paradossalmente continua a gonfiarle perché la propaganda di sinistra seguita a dipingere il Cazzaro Verde come nemico dei clandestini: così la gente pensa che li stia rimpatriando davvero o, se non lo fa, non è perché non è capace, ma perchè i cattivoni buonisti glielo impediscono. Anche stavolta, da sinistra, s’è levata la solita litania: che aspetta il M5S a far cadere il governo a trazione Salvini? Noi l’abbiamo scritto fin da prima che nascesse il Salvimaio: “Se si alleano con la Lega, i grillini verranno inseguiti con i forconi da molti elettori”. Ripetuto l’estate scorsa: “I 5 Stelle valutino il momento più propizio per staccare la spina”. E ribadito dopo la d ébacle grillina alle Europee: “Ai 5 Stelle conviene tornare all’opposizione”. Il che non ci ha impedito di notare che finora, mentre Salvini stravinceva nella gara di chiacchiere e di rutti, i 5Stelle stravincevano in quella delle leggi approvate: ai due Dl Sicurezza e alla (il)legittima difesa, dall’esito nullo o negativo, e ai cedimenti su Tap e altre opere inutili (su cui però il M5S si ritrova solo in Parlamento, come pure sul Tav), i 5Stelle possono opporre una dozzina di riforme buone e giuste (anche se non han saputo comunicarle). Che, anche se la legislatura finisse oggi, darebbero comunque al governo Conte un bilancio più positivo che negativo. Il guaio è che l’interesse del M5S non coincide con quello dell’Italia: ricattati come sono un giorno sì e l’altro pure da Salvini, i 5Stelle avrebbero tutto da guadagnare da un bagno purificatore all’opposizione. Per far tesoro della cura dimagrante forzata al 17%. Per rimediare agli errori commessi.

Per ritrovare l’identità smarrita, riorganizzarsi al vertice e alla base e mostrare a chi se l’è già dimenticato di cosa sono capaci i vecchi partiti. Ma gli italiani, almeno chi non vuole un monocolore Salvini senza contrappesi, inevitabile in caso di elezioni presto, hanno l’interesse opposto: che si voti non prima dell’estate 2020, nella speranza che il pallone gonfiato dimostri alla prova dei fatti la sua palese incapacità anche a chi oggi non la nota e si sgonfi. Cioè che finisca o si ridimensioni l’innamoramento-incantamento della solita Italia sotto il balcone del ducetto di turno. Ma, per votare fra un anno, stante l’indisponibilità del Pd a governare col M5S, ci vogliono altri 12 mesi di governo Conte. Dopo le Europee, Di Maio ha avuto una sola preoccupazione: non fornire a Salvini pretesti per rompere su dei “no” impopolari (su Flat Tax, Tav e migranti). Infatti ha opposto resistenza sugli unici temi che la gente avverte poco e Salvini ancor meno: autonomie regionali e riforma della giustizia. Ma ora la finestra elettorale di luglio si è chiusa e Salvini è stato azzoppato – anche se non lo dà a vedere e i sondaggi ancora non lo registrano – da tre gravi scandali (caso Rubli, caso Arata-Siri, Tangentopoli lombarda) di cui nessuno, neppure lui, conosce gli sviluppi e le conseguenze in una campagna elettorale. Ma, se Di Maio&C. vogliono tenere in piedi il governo, sperare di logorare l’ “alleato” e recuperare un po’ dei 4milioni e mezzo di astenuti, anziché farsi fagocitare definitivamente, non possono continuare a comportarsi come se fossero gli unici a temere il voto. Anche perchè sanno che, con le spade di Damocle giudiziarie sul capo, lo teme un bel po’anche Salvini: altrimenti avrebbe approfittato della famosa “finestra”. Di Maio, per quanto ancora rintronato dalla batosta, resta il leader più capace del M5S. Ma deve guarire dalla sindrome da accerchiamento che ultimamente lo porta a sospettare di Di Battista, di Fico e tanti altri, al punto da mettere in fuga un veterano e fedelissimo della prima ora come Max Bugani, molto vicino a Casaleggio e Grillo. Nel forum di un mese fa col Fatto, Di Maio parlò di una sorta di direttorio con tutti i big per gestire collegialmente il Movimento nella fase più drammatica della sua storia: che aspetta a formarlo? E a chiedere a Grillo, dopo tanti passi indietro, di fare un bel passo in avanti? Così ricompatterebbe i tanti parlamentari ed elettori disorientati. Le cose da fare al governo, mentre “quell’altro” fa il tour dei Papeete, non mancano, e tutte previste dal Contratto: salario minimo, legge sui rider, riforma Bonafede, manette agli evasori, conflitto d’interessi, taglio delle tasse sul lavoro e così via. Con una campagna estate-autunno sui contenuti, la gente potrebbe addirittura capire perché il governo resta in piedi e chi, al suo interno, pensa a lavorare. A quel punto sarà Salvini, se si opporrà, quello del Partito del No che viola il Contratto e si assume l’onere di rompere. I ricatti non sono mai belli, ma con un “alleato” ricattatore sono l’unica speranza di sopravvivenza. Come diceva Sandro Pertini, “a brigante, brigante e mezzo”.

10 Centrodestar

«Macché rivoluzione, Toti vuole solamente rifare il governatore». Giorgio Mulè: «Il suo progetto è un balbettio e i suoi consensi si fermeranno a La Spezia» (Giornale p.8). Azzurrini in fuga. Berlusconi abbandonato anche dai suoi ragazzi. Mentre i “seniores” di Forza Italia si sono schierati con il Cav, il presidente giovanile Stefano Cavedagna se ne va con un gruppo di dirigenti: partito ormai troppo centrista (Libero p.8).

10 Corinaldo

10 linguaggio

SORPRESA, LEPAROLACCE AIUTANO AFARECARRIERA

Michele Farina sul Corriere a pagina 26

Il turpiloquio serve alla carriera?O averfatto carriera permette di dire impunemente parolacce? Dilemma interessante, se anche il Financial Times si interroga sull’importanza di essere scurrili(specie sul posto di lavoro). Suona sorprendente: molte ricerche sociologiche indicano che chi si esprime «come un cavallante» (una volta si diceva così) può risultare «più onesto, credibile e persuasivo» di chi si esprime educatamente. Davvero? Prima di concentrarsi sul mondo degli affari, l’FT fa riferimento all’ascesa di Boris Johnson, il neo primo ministro britannico che non si fa problemi a definire proprio quel mondo (che teme gli effetti della Brexit) con un’espressione poco elegante: fucking business. D’altra parte, da Trump all’Ungheria passando per l’Italia, i politici che usano termini volgari e magari offensivi sono perdonati se non esaltati, perché dicono «pane al pane e vino al vino». Una ricerca della Stanford University evidenzia come «l’improperio» sia giudicato sintomo di genuina onestà. E la politica non è l’unico campo in cui «la prevalenza della parolaccia» sembra funzionare: una delle espressioni colorite di Jamie Dimon di JP Morgan Chase, il capo più longevo nella storia delle grandi banche d’affari, è stupid shit, dove ilriferimento scatologico viene usato pubblicamente con varie sfumatureevari bersagli, dai politici agli avvocati.In Gran Bretagna sembra dimostrato che la gente dice parolacce in media 14 volte al giorno. Una ricerca negli Usa indica che nel mondo corporate il linguaggio scurrile è in aumento, specie tra i millennial. Più che parlare come un (bistrattato) cavallante, dovremmo dire: parlare come un banchiere?

SORPRESA, LEPAROLACCE AIUTANO AFARECARRIERA I l turpiloquio serve alla carriera?O averfatto carriera permette di dire impunemente parolacce? Dilemma interessante, se anche il Financial Times si interroga sull’importanza di essere scurrili(specie sul posto di lavoro). Suona sorprendente: molte ricerche sociologiche indicano che chi si esprime «come un cavallante» (una volta si diceva così) può risultare «più onesto, credibile e persuasivo» di chi si esprime educatamente. Davvero? Prima di concentrarsi sul mondo degli affari, l’FT fa riferimento all’ascesa di Boris Johnson, il neo primo ministro britannico che non si fa problemi a definire proprio quel mondo (che teme gli effetti della Brexit) con un’espressione poco elegante: fucking business. D’altra parte, da Trump all’Ungheria passando per l’Italia, i politici che usano termini volgari e magari offensivi sono perdonati se non esaltati, perché dicono «pane al pane e vino al vino». Una ricerca della Stanford University evidenzia come «l’improperio» sia giudicato sintomo di genuina onestà. E la politica non è l’unico campo in cui «la prevalenza della parolaccia» sembra funzionare: una delle espressioni colorite di Jamie Dimon di JP Morgan Chase, il capo più longevo nella storia delle grandi banche d’affari, è stupid shit, dove ilriferimento scatologico viene usato pubblicamente con varie sfumatureevari bersagli, dai politici agli avvocati.In Gran Bretagna sembra dimostrato che la gente dice parolacce in media 14 volte al giorno. Una ricerca negli Usa indica che nel mondo corporate il linguaggio scurrile è in aumento, specie tra i millennial. Più che parlare come un (bistrattato) cavallante, dovremmo dire: parlare come un banchiere?

Michele Farina sul Corriere a pagina 26

Dimmi come insulti e ti dirò che italiano sei

Francesco Merlo su repubblica a pagina 34

L’ insulto stuzzica, friccica e attizza la morbosità che spesso (sempre?) accompagna l’indignazione, «come siamo ridotti, signora mia». Ormai gli italiani apprezzano l’uso di “cazzoculomerda” anche quando lo condannano: «zecca tedesca non si dice, però». Persino le insolenze di Salvini ai giornalisti, ieri a Valerio Lo Muzio oggi a Giorgio Mottola, solleticano il ridacchio corrivo. C’è sempre l’alibi di «non ci credo che siano arrivati a tanto» a spingerci a vedere e rivedere i video del turpiloquio, delle risse, godendone e censurandoli, frequentandoli e disprezzandoli da veri viziosi del moralismo. La repulsione diventa turbamento complice quando il racconto si dilunga sulle coltellate che hanno ucciso il carabiniere Mario Cerciello Rega, sulla profondità delle ferite, la lunghezza della lama, i litri di sangue. Alla fine chi legge (o guarda) non pensa più all’omicidio di un ragazzo che tutti avrebbero voluto come figlio, ma lampeggia e rabbrividisce per i dettagli dell’orrore e per il crescendo della nefandezza. Allo stesso modo, ingrandendo a dismisura i particolari di uno stupro, si entra di botto nell’indecenza e nella pornografia, sempre in nome della pudicizia violata e del cuore tenero. Quando il papà dell’assassino del carabiniere è arrivato in Italia invano abbiamo sperato che gli lasciassero il tempo di dominarsi, di raccapezzarsi. E meno male che Ethan Finnegan ha saputo resistere all’insana curiosità per l’albergo a 5 stelle dove alloggiava, e quanto guadagna al mese, e cosa si prova in California ad avere un figlio così. Una volta sarebbe stato superfluo spiegare che “zingaraccia” era peggio di un insulto e tanto più se quella donna fosse davvero colpevole di qualcosa. Salvini per una volta non ha infatti usato una parolaccia, ma un concetto per inchiodarla all’abiezione sociale, per mostrare che le colpe non sono sue ma della sua “razza”. Se un signore nero rovinosamente vi tamponasse e voi perdeste il controllo, gli gridereste “negraccio” o «scemo, guarda cosa hai fatto?». Si misura con l’audience il piacere di guardare i programmi politici costruiti per insultare o far litigare, e i Reality dove due belle ragazze, costrette in case-gabbie, si strappano i capelli. Ed esecrare il giovanotto che in diretta tv ha detto cornuto al vecchio è un modo di parlarne di più per goderne meglio. Alla fine ti fanno pure credere che gli eventuali tuoi rimescolii e ribollimenti siano la resistenza patetica e malata alla modernità che sarebbe alimentata dal fascino della gogna. Ed è più pruriginoso mettere alla gogna una papessa: una volta c’era la Boldrini; anche la Fornero è ormai un insulto datato; resistono la Boschi e la Carfagna: che piacere difenderle sceneggiando le offese, farne esecrato spettacolo. Ecco: se volete conoscere e capire un italiano di oggi cercate quali vizi gli sembrano più odiosi negli altri. Avrete trovato le linee di forza dei vizi suoi e delle sue vertigini

Francesco Merlo su repubblica a pagina 34

10 cio

Il Comitato olimpico scrive: meglio cambiare quella legge. La lettera ai membri Cio italiani: suggerite al governo di modificare la riforma. Altrimenti… (Corriere p.41).

Al Comitato olimpico internazionale (Cio) non va giù la legge diriforma dello sport, attualmente all’esame del Senato. A Losanna, sede del Cio, presieduto da Thomas Bach, hanno studiato il testo legislativo ispirato dal sottosegretario allapresidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti in collaborazione con il collega e omologo di 5 Stelle Simone Valente (ma non c’è dubbio che l’ideologo principe della rivoluzione dello sport italiano sia l’uomo di governo leghista) e hanno trovato diversi punti da correggere, perché non rispettosi della Carta Olimpica. Proprio come aveva anticipato Giovanni Malagò nell’audizione al Senato. E il Noc relations, dipartimento del Cio guidato dallo spagnolo Pere Mirò, che coordina il lavoro e le comunicazioni conicomitati olimpici sparsi per il mondo, ha preso carta e penna e stamane invierà una lettera ai membri Cio italiani, Franco Carraro, Ivo Ferriani e Giovanni Malagò. Non certo per augurare buona vacanza, ma per rivolgere loro un invito pressante affinché si facciano parte responsabile presso il governo e le altre istituzioniitaliane,perché la riformanonvenga approvata così com’è. Il Cio chiede che sia modificata. Per Losanna sono almeno 6ipunti da rivedere. Se questo suggerimento diplomatico non venisse raccolto dal governo e dalle parti politiche interessate, se fosse interpretato come una intromissione, una invasione di campo, si aprirebbe un contenzioso dagli sviluppi imprevedibili. Sicuramente gravi. Il Cio potrebbe mettere sotto indagine il Coni, fino a sospendere l’Italia, come ha già fatto recentemente con India e Kuwait. Meglio non pensarci, meglio evitare.

Cio, no alla legge ora l’Italia rischia. In arrivo la lettera di Bach. Possibile una sospensione con gli azzurri a Tokyo solo come indipendenti. Torna in dubbio pure Milano-Cortina 2026 (Repubblica p.41).

Bocciata. La legge di riforma dello sport italiano non è gradita al Comitato Olimpico Internazionale. La lettera in cui il giudizio viene espresso ufficialmente dal Cio non è ancora arrivata, ma è questione di ore, forse oggi stesso sarà a Roma con tutte le conseguenze che un verdetto del genere può comportare. Addirittura – nel peggiore dei casi – la sospensione dell’Italia all’interno del Cio, con la partecipazione degli azzurri alle Olimpiadi solo come atleti indipendenti sotto la bandiera del Comitato Olimpico (come avvenuto al Kuwait a Rio 2016). Una conseguenza, appunto, estrema, che prevede vari step prima di arrivare ad un esito così pesante. È certo però che non esiste più la stessa fiducia tra il Cio, in primis col presidente Bach, e l’Italia che ha conquistato le Olimpiadi invernali mettendo in campo una squadra apparentemente solida tra istituzione politiche e sportive. Le pressioni del Coni su Losanna per ottenere un giudizio sulla legge di riforma sono andate a buon fine. La lettera dovrebbe arrivare proprio nel giorno in cui al Senato si vota sul disegno di legge in materia di ordinamento sportivo già approvato dalla Camera. In quel testo si nascondono i motivi del dissidio: in alcuni punti i legali di Bach hanno ravvisato incompatibilità con l’articolo 27 della Carta olimpica e il quinto principio dell’olimpismo. La legge non garantirebbe l’autodeterminazione del Coni – referente del Cio per quanto riguarda l’Italia – nel definire la sua struttura e la sua governance. Sarebbero “inconstituzionali” riunioni come quella della settimana scorsa, in cui solo i segretari dei Comitati regionali del Coni sono stati convocati da Rocco Sabelli, presidente-ad di Sport e Salute che gestisce i fondi pubblici al posto del Foro Italico, escludendo i presidenti che fanno capo al Coni. Il grande avversario del numero 1 del Coni Malagò non è l’ex manager di Alitalia, ma il sottosegretario leghista Giorgetti grande ispiratore di una riforma tutt’altro che condivisa. Un colpo di mano che potrebbe avere conseguenze anche su Milano-Cortina 2026 se gli svedesi si appellassero al Cio. Ironia della sorte, proprio ieri sono stati annunciati finanziamenti di 2 milioni per 16 eventi sportivi da parte della presidenza del Consiglio. Ma intanto non si sa sotto quale bandiera sfilerà l’Italia a Tokyo.

ESTERI

1 Hong kong

Hong Kong in sciopero e il caos totale. Cosa farà la Cina? (Corriere p.12). I manifestanti mettono in difficoltà gli agenti. Usati proiettili di gomma: 82 arresti. Bloccati aerei e metro: lo sciopero generale paralizza Hong Kong. Squadre di uomini legati alle triadi hanno attaccato i cortei con bastoni. Le autorità di Pechino annunciano “qualcosa di nuovo” per la città.La governatrice Lam “Chi protesta sfida la sovranità nazionale del Paese” (Stampa p.2).

Hong Kong è paralizzata e i manifestanti vincono la scommessa contro le autorità. Lo sciopero generale doveva essere il banco di prova del sostegno che gli attivisti avevano nella città-Stato e l’azzardo ha avuto successo: più di cento voli cancellati, la metropolitana ha chiuso e gli autobus si sono fermati. La maggior parte dei dipendenti pubblici ha incrociato le braccia. L’ultima volta che Hong Kong aveva visto uno sciopero generale era ancora colonia britannica. La polizia, in difficoltà,

Stampa p.2

Era il 1980 quando gli studenti sudcoreani si opposero alla dittatura Il motivo che si ascoltava allora è stato ripreso nell’ex colonia britannica Dalla Corea alla città-Stato Una canzone guida la rivolta

Stampa p.2

Hong Kong senza tregua Scioperi, scontri e arresti “Situazione pericolosa”

Treni e metropolitana bloccati, almeno 200 voli cancellati, strade chiuse e scontri tra manifestanti e polizia in diverse zone della città. Dopo settimane di proteste, lunedì la tensione a Hong Kong ha toccato livelli di allerta, con la città paralizzata dallo sciopero generale indetto dal movimento pro-democrazia e una situazione che la governatrice filo cinese Carrie Lam ha definito «molto pericolosa». La polizia ha risposto alle barricate dei manifestanti con decine di arresti, 82, che portano a 500 il numero delle persone fermate dall’inizio delle manifestazioni. È la più grave crisi

Repubblica p.18

2 Kasmir

L’India toglie l’autonomia al Kashmir. Il Pakistan: “Pronti a qualsiasi azione”. Il premier Modi revoca lo statuto speciale alla regione a maggioranza musulmana contesa da quasi 70 anni (Stampa p.5).

Le due potenze atomiche dell’Asia del Sud sull’orlo di un conflitto diretto

ROBERT BAER L’analista ex agente Cia: l’atomica resta un deterrente “Ora gli integralisti colpiranno ma non si arriverà a una guerra”. Cancellare l’indipendenza è una chiara ritorsione di Nuova Delhi nei confronti di Islamabad

L’ articolo 370 della Costituzione indiana, che il governo integralista hindu del primo ministro Narendra Modi ha appena sostanzialmente abrogato, era un cerotto che da 69 anni nascondeva malamente una ferita mai sanata. Lo statuto speciale concesso da Dehli al Kashmir, stato a maggioranza musulmana al confini con il Pakistan, era permanentemente provvisorio, come hanno riconosciuto diverse sentenze della Corte suprema indiana. Un nodo che era bene non sciogliere. Si riapre ora, con tutti i timori di un confronto tra due potenze nucleari, la questione dello stato indiano autonomo ai piedi del Karakorum, quello che i pachistani chiamano IoK (Indian Occupied Kashmir). Per

Stampa p.5

Via l’autonomia al Kashmir L’India infiamma il Pakistan Cambiata la Costituzione e cancellati 70 anni distoria. Khan:situazione esplosiva

Corriere p.12

Kashmir L’India revoca l’autonomia Così si riaccende la polveriera

Stato isolato: sospese le comunicazioni e imposto il coprifuoco Il Pakistan protesta

“Ora nessun accordo è più inviolabile e sono a rischio anche altre province”

Gli indipendentisti non lo accetteranno Ma i residenti potrebbero averne vantaggi economici

Repubblica p.12

Il Kashmir conteso tra India e Pakistan Il duello delle atomiche

Federico Rampini su Repubblica a pagina 30

DAL CONFINE INDIA-PAKISTAN ALLA CINA VENTI BRUTALI GIANNI RIOTTA

5.565 chilometri separano Milano Marittima e la spiaggia del Papeete dalle giogaie di Jammu e del Kashmir, frontiera nucleare tra India e Pakistan, da anni considerata il luogo più pericoloso del pianeta.

Troppi perché l’opinione pubblica italiana esca dal torpore provinciale e si accorgano dei venti brutali dell’estate 2019. Il governo indiano del presidente nazionalista hindu Narendra Modi ha abrogato la clausola costituzionale, articolo 370, che dal 1947 garantiva ai musulmani degli antichi principati di Jammu e Kashmir autonomia e diritti locali. Era un patto stipulato nei giorni tumultuosi dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, quando l’India hindu si separò dal Pakistan musulmano, con due milioni di morti, secondo alcune stime, e oltre 15 milioni di profughi. Il venerato leader Jawaharlal Nehru comprese che senza un compromesso restavano solo due genocidi opposti, tra paesi che presto si sarebbero dotati di ordigni nucleari, ma neppure l’articolo 370 ha impedito tre guerre tra India e Pakistan e una perenne tensione di guerriglie e terrorismo, costata 45.000 morti, nel Kashmir che entrambe le potenze asiatiche rivendicano. Dopo il trionfo elettorale di maggio, Modi ha dettato al suo partito Bharatiya Janata (partito del Popolo Indiano) la linea dura in Kashmir. Modi sa che il tasso di crescita del 7% non basta a soddisfare le popolazioni ancora in miseria e, parlando di sviluppo del Kashmir, dove è oggi difficile investire per i fondi internazionali, cela il progetto populista dell’azzardata manovra: sollevare spiriti patriottici e religiosi contro il Pakistan musulmano e accentrare il potere. Come Vladimir Putin in Russia e Xi Jinping in Cina, Narendra Modi prende atto che l’equilibrio della Pax Americana del dopoguerra è finito, con il presidente Trump a curare la sua agenda interna e l’Europa troppo divisa per fungere da alternativa. Vuole, a sua volta, farsi “uomo forte” e nazionalizzare il Kashmir è un primo passo, decisivo e senza ritorno. Il Pakistan si opporrà, “ogni soluzione pacifica è finita” dichiara il portavoce del governo di Islamabad, e nella più popolosa democrazia della Terra, l’India, chi dissente, come l’ex ministro Mehbhooba Mufti, finisce in galera. Una distanza ancor maggiore, 9.272 chilometri, divide le spiaggette della politica italiana da Hong Kong, metropoli di mercati asiatici, in piena rivolta contro il tentativo cinese di cancellare le autonomie concordate al momento del ritorno alla madrepatria, dopo decenni di colonialismo britannico. Scontri, manifestazioni, comizi online oppongono giovani, intellettuali, professionisti al governo locale ligio al presidente Xi Jinping, deciso a imporre una legge arcigna per processare in Cina ogni cittadino, anche solo di passaggio, da Hong Kong. Trenta anni dopo la strage di piazza Tienanmen, il caso diventa braccio di ferro per la libertà e sorprende il partito comunista a Pechino, costringendolo a mobilitare l’esercito al confine, mentre la guerra commerciale con Trump fa precipitare la valuta renminbi sotto la soglia cruciale di 7 sul dollaro e Hong Kong è network indispensabile per difendersi dai dazi. Il mondo cerca, tra repressione rampante e slanci democratici perfino a Mosca, nuove egemonie e alleanze, la Corea del Sud si scontra col Giappone, il Vietnam con l’ancestrale nemico cinese sui giacimenti petroliferi offshore, la Marina Usa pattuglia al largo di Taiwan, Putin accetta la condizione di vassallo di Xi e organizza manovre militari congiunte, spaventando i coreani di Seul, mentre il dittatore nordcoreano Kim Jong-un flirta con Trump ma non disarma il programma nucleare. L’80% delle merci passa, giorno dopo giorno, dalle acque del Mar Cinese Meridionale, conteso tra Pechino e Washington, il collo di bottiglia del petrolio nello stretto di Hormuz vive un’estate di schermaglie tra iraniani, inglesi e americani: in un paese povero di energia e affamato di export come l’Italia, le crisi asiatiche dovrebbero appassionarci. Invece ignoriamo i diktat di Modi in Kashmir, disprezziamo la nobile battaglia dei patrioti di Hong Kong in cambio di risibili mance cinesi, ci illudiamo di difendere i nostri interessi strategici e economici con i Pulcinella alla Savoini. Il mondo grande e terribile rifonda gli assetti del XIX secolo, l’Italia si ritrova senza i fedeli amici di un tempo e con troppi nuovi padroni, esosi nel dettar legge, senza concedere diritto di replica alla politica del Papeete. Facebook riotta.it—

3 Bomba al cairo

Il Cairo, autobomba fa strage all’ospedale. Al Sisi: “Terroristi, è stata la Fratellanza”. La vettura è esplosa davanti al Cancer Institute: 20 morti e 47 feriti. É il quarto attacco da inizio anno (Stampa p.10).

Autobomba contro l’ospedale Torna la paura al Cairo: 20 morti Sospettisu un gruppo considerato vicino ai Fratelli musulmani. Al Sisi: «Atto codardo»

Corriere p.10

4 Trump stragi

Discorso alla nazione dopo le sparatorie di El paso e Dayton. Trump risponde ai massacri “Pena di morte a chi compie reati d’odio e stragi di massa”. Condanno razzismo, bigottismo e suprematismo bianco. Queste ideologie devono essere sconfitte. Il Messico minaccia azioni legali contro gli Usa: “Non ha protetto i nostri cittadini” (Stampa p.10).

Stragi di massa, ora Trump invoca la pena di morte

Messaggero p.11

«Combattiamoilsuprematismobianco» TrumpdopolestragiinTexaseOhio:colpadeidisturbimentali,nondeifucili.Obama:bastaparoled’odiodaileader

«Dietroislamistienazionalisti giovanifallitiedisadattati Sullearmicistiamosvegliando» IlPulitzerWarrick: gesti estremi,ma riflettonomentalità diffuse

Corriere p.11

5 petroliera

Johnson si unisce agli Stati Uniti nella missione nel Golfo Persico (Stampa p.17).

La Gran Bretagna ha annunciato che sarà a fianco degli Stati Uniti nella missione navale a protezione delle navi mercantili nel Golfo Persico. Una mossa a sorpresa, dopo il rifiuto di Francia e Germania, con la quale Boris Johnson si riallinea a Donald Trump nella sfida della cosiddetta «guerra delle petroliere» con l’Iran, e accantona definitivamente i piani di una missione a guida euro

6 Libia

Raid di Haftar sulla festa di nozze 43 vittime. Non si ferma il fiume di sangue in Libia (Stampa p.17).

Sono almeno 43 i civili uccisi, tra cui diversi bambini, in un bombardamento delle forze del maresciallo Khalifa Hatar in una zona residenziale di Marzuq, roccaforte dei miliziani Tebu, 900 km a Sud di Tripoli. I raid, che sarebbero stati almeno tre secondo i testimoni, hanno centrato «una festa di nozze», colpendo un edificio governativo nel distretto di Qalaa, dove erano riunite circa 200 persone. «Nessuno era armato», affermano fonti locali e del governo di unità nazionale, smentendo che nel mirino fosse finita la festa di matrimonio. Immediata la condanna del leader del governo di unità nazionale, Fayez al Sarraj: ha chiesto ancora una volta che sia aperta una indagine dell’Onu per «crimini di guerra» contro Haftar. La condanna di Europa

Stampa p.17

Raid di Haftar fa strage “Oltre quaranta uccisi durante un matrimonio”

La morte è arrivata dall’alto domenica a Murzuq, nella Libia di sudovest: le forze aeree di Khalifa Haftar hanno bombardato il luogo che – sostiene la tv satellitare Al Jazeera – ospitava un matrimonio (secondo altre fonti era invece un incontro delle organizzazioni civiche), uccidendo almeno 42 persone e ferendone una sessantina. Alcune fonti parlano anche dell’uso di un drone, come quello abbattuto dalla contraerea del governo di Tripoli sabato scorso. I caccia dell’ “uomo forte” della Cirenaica volevano colpire “mercenari ciadiani”, cioè membri della tribù Tebu fedele al governo di Al Serraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite. Da quando è partita l’offensiva di Haftar verso la capitale, il 4 aprile scorso, sono almeno 1100 le persone uccise. Intanto la diplomazia va avanti nei suoi sforzi. L’inviato dell’Onu Ghassan Salamé ha proposto un cessate-il-fuoco per la festa religiosa dell’Eid al Adha, che parte l’11 agosto, ma pochi si illudono che la tregua possa durare. Il presidente francese Emmanuel Macron ha incontrato l’egiziano Abdel Fattah al Sisi: entrambi sponsor di Haftar, hanno concordato sulla richiesta di una tregua il prima possibile.

Repubblica p.18

7 Europa

Il primo successo di Salvini e Di Maio Grazie agli anti europeisti, l’Europa non è mai stata così amata in Italia E’ forse il caso di dire che in Italia per amare, o quantomeno apprezzare, un po’ di più l’Europa serviva un governo euroscettico (Foglio p.3).

L’Eurobarometro, il sondaggio periodico della Commissione europea, effettuato dopo le ultime elezioni, afferma che “l’Unione europea è vista in una luce più positiva che in qualsiasi momento degli ultimi dieci anni”. Questo nel complesso dei 28 paesi membri, mentre per l’Italia i giudizi sono più negativi, al di sotto della media. In ogni caso il trend è in crescita, nel senso che gli italiani hanno un giudizio migliore. Ad esempio la fiducia nell’Unione europea è adesso al 37 per cento, in aumento di un punto, mentre la sfiducia è ferma al 55 per cento. Prevalgono i giudizi negativi, quindi, ma la situazione è migliore rispetto a ciò che riguarda le istituzioni nazionali: la fiducia nel Parlamento italiano è ferma al 31 per cento (sfiducia al 64) e quella nel governo al 30 (sfiducia al 66). Inoltre il 56 per cento degli intervistati si dice ottimista sul futuro dell’Unione europea; la percentuale degli italiani che ha un’immagine negativa dell’Ue è scesa di 7 punti percentuali rispetto allo scorso autunno e quella che ha un’immagine positiva è salita di 3 punti. Anche le risposte sul funzionamento della democrazia nell’Ue sono positive: il 52 per cento degli italiani si ritiene soddisfatto (in aumento di 10 punti rispetto allo scorso autunno). Infine persino l’appoggio all’euro, che è stato descritto dalla Lega e dal M5s come l’origine di tutti i mali dell’economia italiana, è forte e più di prima: il 65 per cento degli italiani è favorevole all’Unione monetaria (in aumento di 2 punti), in un contesto in cui l’approvazione per la moneta unica è salita nell’Eurozona al 76 per cento, il livello più alto dal 2004. Il nostro paese rimane tra i meno euroentusiasti, con giudizi positivi spesso inferiori alla media, ma è bastato un anno di governo euroscettico e di scontri con la Commissione europea per far apprezzare di più le virtù dell’Unione europea. Non era un obiettivo presente nel contratto di governo, ma è sicuramente il miglior risultato ottenuto – in maniera del tutto involontaria – da Di Maio e Salvini.

L’IDENTITÀEUROPEARESISTE

Giovanni Pitruzzella sul Corriere a pagina 26

I valori che si riassumono nella formula «Stato di diritto» sono sempre di più al centro dell’azione delle istituzioni europee. Pensiamo a tre fatti recenti: la Corte di giustizia dell’Unione europea ha ritenuto in contrasto con il diritto dell’Unione una legge polacca che, prevedendo il pensionamento anticipato di numerosi giudici e rimettendo al potere insindacabile del presidente della Repubblica la decisione se mantenere alcuni di essi in servizio, di fatto comprometteva l’indipendenza del potere giudiziario; la nuova presidente della Commissione europea si è impegnata a realizzare forme efficaci di tutela dello Stato di diritto, per esempio negando l’accesso ai fondi europei a quei Paesi che lo mettono a rischio; il nuovo Parlamento europeo ha confermato il parere favorevole allanomina al vertice della Procura europea di Laura Kövesi, una magistrata romena simbolo di imparzialità nel contrastare gli abusi del potere politico.Questifatti siricollegano a tendenze più di fondo dell’integrazione europea, come il rilievo assunto dalla Carta dei diritti fondamentali nella giurisprudenza dei giudici europei ed ilriconoscimento dell’indipendenza del potere giudiziario in ciascuno Stato come principio fondamentale dell’ordinamento dell’Unione. Stato di diritto, Rule of law, Staatsrecht, sono concetti che hanno caratterizzato la storia dei nostri Stati fornendo i tratti di un’identità comune che ha concorso a definire l’Europa, distinguendola rispetto ad altri spazi geopolitici. In tutti i 28 Stati membri i cittadini sono titolari di diritti che possono fare valere anche nei confronti dei poteri pubblici, a garanzia di questi diritti possono contare su giudici indipendenti, il potere politico non è onnipotente, ma deve obbedire alla legge e rispettareiloro diritti. Tutto ciò non è scontato, può essere minacciatoeanche perduto. L’Unione europea ha, tra l’altro, il compito di garantire questo patrimonio costituzionale. Non solo perché questo compito è scritto nei Trattati, ma perché neifatti le istituzioni europee si sono date carico della salvaguardia dei valori dello Stato di diritto, anche quando il governo di uno Stato li ha momentaneamenteminacciati, come dimostra ilrecente caso polacco. L’«Europa è in crisi» è il mantra che ha accompagnato le opinioni pubbliche negli ultimi anni. Certamente non mancano le critiche nei confronti di alcune delle sue politiche, eppure le recenti elezioni del Parlamento europeo hanno dimostrato che l’Unione è ancora vitale e che riesceamantenere un buon livello di consenso in numerosi Paesi. C’è una specie di contraddizione tra l’insufficienza di molte politiche europee e l’attaccamento che, pur in un contesto comunicativo dominato dalle critiche all’Europa, la maggioranza dei cittadini ancora mantiene con l’Unione. Per spiegare questo dato, si può avanzare la seguente ipotesi: c’è una casa comune europea di cui i cittadini degli Stati sentono, bene o male, difar parte, anche quando sono insoddisfatti nei confronti di specifici interventi dell’Unione. Insomma, esiste un’identità europea che va ben oltre le singole politiche, la quale è fatta di valori condivisi e affonda la sua radice nelle tradizioni costituzionali comuni ai popoli europei. Identità nazionali e identità europea possono così coesistereenutrirsi a vicenda, come dimostra non solo la già rilevata centralità dello Stato di diritto, ma tanti altri aspetti, come, per esempio, quell’«economia sociale di mercato» che differenzia l’esperienza europea da quella di altri grandi spazi politici e economici, dominati o dal fondamentalismo di mercato (gli Usa) o dal capitalismo di Stato (la Cina). Per superare i venti di crisi che ancora soffiano forti in Europa è necessario mettere in cantiere politiche adeguate alle sfide attuali, ma anche ricordare quei valori comuni che delineano una specifica identità europea.

8 cina e Russia

Il vero peso di Cina e Russia. L’editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere.

C on la fine dei vecchi schieramenti internazionali e l’indebolimento delle antiche alleanzeèemersa in pieno la fragilità dell’Italia. Di un Paese facilmente percepito all’esterno come privo dell’indiscutibile autonomia e anche di quel sentimento della propria indipendenza che solo l’esistenza di un’autentica classe dirigente rappresenta e garantisce davvero. Evidentemente però la classe dirigente italiana, a cominciare da quella politica, è lungi dal dare questa impressione (o forse è l’Italia intera che in un certo senso non la dà?), ed ecco allora in questi ultimi tempi avvicinarsi dalle nostre parti russi, ungheresi, cinesi, ognuno peril proprio tornaconto, ognuno con le proprie mire. Com’era prevedibile l’opinione pubblica italiana non sta reagendo a questi tentativi in modo univoco. Perlopiù reagisce ancora e sempre, infatti, in base al modello tipico della partigianeria nostrana dei due pesi e due misure. Ma stavolta nell’applicazione di questo modello essa è aiutata da un importante elemento nuovo: la grande diversità delle strategie messe in campo dai vari Paesi desiderosi di ottenereorafforzare la loro «amicizia» con l’Italia o con alcuni suoi esponenti. Le quali strategie sono all’incirca di due tipi distinti: quella adottata per questa occasione dairussi da un lato, e quella scelta dai cinesi dall’altro

A l fine di guadagnarsi sos tenitori in casa nostra i russi, significativamente, hanno ritenuto inutile ricorrere nella Penisola ai sofisticati metodi d’intervento elettronico come quelli adoperati per le elezioni Usa, ripiegando invece sul molto più tradizionale esborso di quattrini. In piena armonia con il loro glorioso passato sovieticoei metodi di allora, hanno proceduto all’elargizione-trasferimento di rubli. Al massimo, a quel che sembra, impiegando la solita finta intermediazione commerciale, dunque con l’inevitabile intromissione di un sottobosco di mezze tacche, di bru bru i quali — non esistendo più i marmorei Compagno G di cui poteva disporre il Pci — aprono puntualmente la strada a inevitabili catastrofi mediaticogiudiziarie. Quanto ai destinatari delle erogazioni in questione, i russi hanno confermato una certa loro mancanza di fantasia. Secondo tutti gli indizi, infatti, il beneficato di Moscaèstato il più prevedibile, cioè la Lega (quindi con Salvini molto probabilmenteaconoscenza d’ogni cosa); il più prevedibile in quanto da tempo in piena sintonia politica con la Russia,favorevole in ogni occasione ai suoi obiettivi, nonché simpatizzante esplicita di Putin e del suo stile di governo. Tutte cose che a giudizio di molti (compreso chi scrive) solo un bel gruzzolo di soldi può giustificare. Da qui lo sputtanamento inevitabile della Lega medesima e del suo leader «al soldo dello straniero». Che differenza con la Cina! Anche la Cina ha da tempo messo l’Italia nel mirino: a quel che si capisce con obiettivi anche più ambiziosi, assai più ambiziosi, di quelli di Mosca. Ma essendo ben più ricca, disponendo di un’enorme massa di consumatori, avendo un’economia pienamente inserita a tutti i livelli nel sistema capitalistico mondiale, può fareameno di comprare la propria influenza infilando mazzette di yuan nelle ventiquattrore di qualche italiano. Pechino invece offreatutti principalmente di fare ottimi affari e un mucchio di quattrini. Da un lato, infatti, con le sue centinaia di milioni di cittadini neo-benestanti essa costituisce un mercato vastissimo e appetitoso per qualunque azienda desideri vendere qualcosa; dall’altro, grazie alle sue centinaia di milioni di operai sottopagati e privi di qualunque tutela sindacale, non solo importare dalla Cina significa importareaprezzi assai vantaggiosi, ma egualmente vantaggiosissime sono le condizioni che es

sa può offrireaun’azienda occidentale che voglia trasferire lì la propria produzione. Non è finita. La Cina, infatti, si presenta come il Paese di Bengodi pure per chi non è interessatoavendere, a comprareefabbricare, essendo pratico esclusivamente del mondo delle idee e dei libri. E infatti a intellettuali noti e meno noti, ad accademici affermati, a ex politici trasformatisi in conferenzieri, ad artisti, a scrittori così come a scienziati, gli intelligenti dirigenti di Pechino sono da anni larghissimi di inviti, di occasioni di viaggi e di visita, con un’accoglienza sempre attentissima e senza badareaspese. Accompagnata spesso da ricchi cachet. Il risultatoèche intrattenere rapporti con la Repubblica popolare cinese eisuoi gerarchi, commerciare con essa, manifestarle i più caldi sentimenti di ammirazione e di amicizia, dare vita a comuni iniziative d’ogni tipo, anche culturali, tutto ciò è da tutti considerato assolutamente giustoeappropriato, consono a un sano principio di collaborazione tra i popoli. In una parola, democraticamente irreprensibile. E di conseguenza, ad esempio, si può decidere tutti d’accordo di aprire l’economia italiana a investimenti cinesi senza alcun controllo, di far comprare alla Cina o darle in appalto porti o pezzi di porti, di farle costruire quello che vuole, d’inserire la Penisola nella sua rete planetaria d’influenza dal grazioso nome di «via della seta». Per apprezzare nella giusta misura l’entità del successo di una tale politica di penetrazione e d’influenza basta immaginare per un attimo che cosa succederebbe se, invece che dalla Cina, essa fosse attuata, mettiamo, dall’Ungheria. Eppure l’Ungheria di Orbán è un Paese incommensurabilmente più libero della Cina di Xi Jinping. È un Paese dove i diritti umani sono in larga parte rispettati laddove in Cina essi sono altrettanto sistematicamente violati, laddove in Cina, com’è universalmente noto, il gulag prolifera, non viene tollerato il minimo dissenso, le esecuzioni capitali si contano a migliaia e—non mi sembra un dettaglio proprio insignificante — si pratica una vera e propria politica genocidiaria e di persecuzione religiosa nei confronti degli uiguri musulmani e dei tibetani buddisti. Eppureadispetto di tutto ciò, in barba a ogni dato di fatto, agli occhi di una parte importante dell’opinione pubblica italiana (ma non solo, non solo), intrattenere rapporti con l’Ungheria di Orbán, non parliamo con Orbán in persona, è considerato un fatto politicamente ambiguo, il sintomo di per sé di uno spirito autoritario, il prodromo possibile di chissà quali propositi liberticidi. Con la Cina, al contrario, nessun problema. Conclusione? Oggi per acquisire in Occidente amicizie che contano e influenza senza colpo ferire non basta disporre di molte risorse. È necessario essere capaci di agire su un vasto fronte, essere disposti a largheggiare in molte direzioni. Per comprarne uno bisogna non darlo a vedereesoddisfarne almeno cento.

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GIUSTIZIA

1 Caselli

Processi più rapidi: aboliamo l’appello. Il commento di Gian Carlo Caselli sul Fatto (p.13).

Purtroppo, nel nostro Paese la questione dell’eccessiva lunghezza dei procedimenti si trascina da tempo ed è sempre più acuta. Sappiamo, e non vanno sottovalutati, i sentimenti di angoscia, ira e delusione che provoca l’attesa interminabile del riconoscimento delle proprie ragioni, spesso riguardanti beni fondamentali. Bonafede ha il merito di (ri)provarci, nonostante l’ostilità di quanti – gira e rigira – per salvaguardare certi interessi hanno come obiettivo non “più” ma “meno” giustizia. Si deve però avere l’audacia e il coraggio di affrontare il problema della riforma della giustizia –una buona volta – non con aggiustamenti ma con decisione e scelte radicali veramente innovative. La mia idea è di abolire il grado di appello. È vero che negli ordinamenti con un sistema processual-penale di tipo accusatorio di regola c’è un solo grado di giudizio nel merito, con eventuale ricorso a una suprema corte? È vero che anche in Italia è stato introdotto nel 1989 un sistema di tipo accusatorio? La risposta alle due domande è Sì. Allora, perché soltanto nel nostro Paese si registrano ancora più gradi di giudizio nel merito? Eliminare questa anomalia è una questione di sistema. L’obiezione è che diminuirebbero le garanzie. Ma la vera garanzia sta in un processo breve che possa puntare a una giustizia certa. Non in un processo che è diventato un percorso a ostacoli, pieno di trabocchetti, infarcito di regole che in realtà non sono garanzie ma insidie formali.

 

Texas,strage alsupermarket

Almeno 19 morti, forse 22, anche bambini. Un’altra sparatoria insanguina l’America a pochi giorni da quella messa a segno da un giovane suprematista bianco al food festival inCalifornia.Teatro della tragediaunaffollato supermercato di El Paso, in Texas. Il bilancio provvisorio parla anche di feriti gravi molto gravi.Adagire un solo killer,poifermato dalla polizia. Patrick Crusius, 21 anni, di Dallas, bianco.

Corriere in prima e pagine 10 e 11

Assalto, spari e terrore nel centro commerciale Morti e feriti in Texas Molti bambini coinvolti nella strage in un sabato dishopping a El Paso Almeno 19 vittime,fermato un 21enne bianco.Trump: «Dio sia con voi»

Corriere a pagina 10

L’ANALISI

Sedici attacchi solo nel 2019 Cosìsi passa dall’emulazione al contagio

Guido Olimpio sul Corriere in prima e a pagina 11

Sedici attacchi nel solo 2019. Il penultimo al Festival dell’Aglio a Girloy, in California dove ha agito un giovane con simpatie perl’estrema destra e un profilo tuttavia confuso. Infatti l’Fbi non ha ancora compreso il movente. Poi, a seguire, il tiro sui clienti del centro commerciale a El Paso. Qualche esperto che segue questo fenomeno è arrivato ad ipotizzare che esista il contagio, qualcosa di più dell’emulazione. Con episodiravvicinati nel tempo dove qualcuno apre il fuoco su persone inermi. Quasi che ci fosse un’ispirazione diretta, istantanea. Così scuole, posti di lavoro, luoghi della vita quotidiana sono trasformati in un’arena di sangue. Alcune di queste stragi americane hanno una motivazione politica. C’è il terrorista che sirichiama all’Isis. Non è riuscitoaraggiungere il Califfatoeapre il fronte in America. Molto più spesso agiscono terroristi interni. Bianchi, xenofobi, misogini. Siradicalizzano in fretta in nome del suprematismo, trangugiano ideologie, non dirado lasciano degli appelli per invitare altri a seguirli in questi assalti. Video, post sulla rete diventano «testimonianze», percorsi da imitare. Una minaccia in espansione dagli Stati Uniti al resto del mondo occidentale. Purtroppo sottovalutata, nascosta dietro cavilli giuridici per non classificarla come atto di terrorismo. In queste ore sulla rete sta circolando un documento—da verificare—del presunto killerin Texas, identificato come Patrick Crusius. È un manifesto dove sostiene di aver agito in risposta all’invasione ispanicaefa riferimento al massacro di Christchurch, in Nuova Zelanda, dove un neonazista ha preso di mira le moschee. L’assassino addossa la colpa agli immigrati, denuncia la distruzione dell’amato Texas, usa slogan semplici che però fanno presa e non è difficile leggerli ogni giorno sui social, se la prende con democratici e repubblicani. Scrive che l’inazione non è un’opzione, dunque è necessario reagire. L’omicida compatisce«i camerati europei»perché non hanno armi a disposizione e devono assistere alla fine del continente senza fare nulla. Dice anche di essere preparato di recenteein modo sommario, ma non importa perché ciò che conta — come per un seguace dello Stato Islamico—èl’azione stessa. Meticoloso spiega il tipo di arma usato, un WASR 10, la versione romena del Kalashnikov. Il fucile identicoaquello impiegato dal killer di Girloy. Le prossime ore serviranno a capire se è davvero lui lo sparatoreel’eventuale «cornice». Per gli investigatori è spesso complicato decifrare la personalità degli assassini in quanto possono mescolare motivazioni personali e spinte politiche. Ibridi pericolosi, capaci di uccidere, che arrivano silenziosi sui loro bersagli esposti e indifesi.

2 Corinaldo

I baby mostri dello spray

Sette giovanissimi arrestati per il massacro di Corinaldo (Ancona): sotto accusa per 95 rapine nei locali Le intercettazioni: “Sono morti in sei, la gente urlava, che spettacolo!”. Derubati anche i soccorritori

L’apertura di Repubblica

Le risate e i colpi dopo la strage “Ciao assassino, che spettacolo le catenine di quella sera”

Repubbliva pagina 3

Gioventù bruciante La fredda ferocia dei ragazzi che giocano con le vite degli altri

Corinaldo, piazza San Carlo, Manduria Bande che hanno scelto il crimine per fare soldi o per celebrare riti di violenza

Gabriele Romagnoli su Repubblica a pagina 4

Ragazzi che depredano e uccidono (o viceversa) i propri fratelli minori. Questi sono i componenti della banda che nella discoteca di Corinaldo ha provocato sei vittime e duecento feriti per impadronirsi di qualche grammo d’oro, strappato ai vivi e ai morti, ai soccorsi e ai salvati. Gioventù bruciante, che usa lo spray urticante negli assembramenti per confondere chi si accalca cercando di accendere una notte diversa e felice: quella in cui la Juventus gioca e magari vince, Sfera Ebbasta canta e forse ti concede un selfie. Sogni innocenti, la colpa è in quelli dei fratelli maggiori e nel baratto tra incolumità altrui e qualche dose di droga, un capo firmato, una breve vacanza. Concluso con quella che ci si ostina a definire indifferenza, ma è solo la versione fredda della ferocia. Nella ricostruzione degli inquirenti emergono molti aspetti rilevanti, alcuni per originalità, altri proprio perché comuni, troppo comuni. I giovani venivano dalla provincia di Modena, avevano formato una delle numerose bande che, con le stesse modalità, funestano concerti e ritrovi in tutto il Centro Nord. Sarebbe tempo di smetterla di aspettare con una qualche ansia che venga resa nota la provenienza geografica di chi ha commesso un reato. Da ogni parte, comunque la si pensi. Maghrebini o americani, stranieri o italiani: non c’è sollievo possibile, non c’è rivalsa ipotizzabile, non se si è ancora capaci di ragionare. Esiste semmai un unico comune denominatore: il contesto, il luogo in cui le cose accadono, il comportamento deviante che consente o non sa arginare, il modello di vita che propone, ciò che indica come aspirazionale. I giovani criminali in azione a Corinaldo provenivano da famiglie oneste e inconsapevoli. Niente clan: lavoratori, con il mutuo sulle spalle e la pensione a un orizzonte che si allontana. «Normalissimi», li definisce il magistrato, con un termine che ha perso significato e fondamento. Stupiti delle imputazioni dei figli, come sempre succede, da San Prospero a San Francisco, dove cade lo stesso velo sull’improbabilità di un ragazzo che non lavora, o ha il primo stipendio da operaio, ma si compra un orologio di marca o viaggia all’estero nei fine settimana. I furti commessi da questa banda sono stati decine, decine i viaggi dal compro oro, decine gli acquisti conseguenti. Non esattamente «normalissimo». Ancor meno la condotta criminosa. Li accompagnava una «freddezza incendiaria». Il movente era banalmente quello di fare soldi. La modalità quella di strappare i beni a coetanei o minori indifesi. Non c’erano né confine, né limite. A Corinaldo hanno continuato ad agire anche mentre la tragedia era in corso, derubando le vittime e i soccorritori. Dopo Corinaldo hanno proseguito le loro attività, semplicemente rinunciando allo spray che era ormai la loro firma. C’è sempre stata nella gioventù, anche nella nostra, almeno in gran parte di noi, una tendenza a flirtare con il fuoco. In molti hanno sperimentato la tentazione di ardere, nella velocità, nell’idealismo, nella sperimentazione, nell’equivoco di una tensione che si faceva inevitabilmente autodistruttiva. Affascinati da una pira sulle rive del Gange, non dalla vetrina di un negozio nel corso. In quest’altra gioventù si è manifestato soltanto l’istinto di bruciare e saccheggiare le esistenze altrui. Hanno voluto una vita spericolata con modalità da travet del crimine: di sabato notte in sabato notte, di discoteca in discoteca, per ricavare a testa poco più di duemila euro al mese, cinque pezzi grossi da spendere prima di venerdì. I ragazzi che gettavano sassi dai cavalcavia facevano un gioco perverso, in cui le vittime non avevano volto. Quelli di Manduria, che hanno seviziato per mesi, fino a ucciderlo, un anziano disabile, celebravano un rito di violenza, quasi a cercarne il preciso effetto. Questi sciacalli danzanti sono una combinazione, a cui si aggiunge e su tutto grava il movente venale, eppur mortale. L’imputazione per loro è di omicidio preterintenzionale, ma dopo i fatti di piazza San Carlo a Torino era ben chiaro a chiunque che accecare persone in una folla determina una situazione incontrollabile, che può causare una strage. Eppure non hanno desistito, né loro né quelli come loro, bande gemelle, figli di un’Italia che guarda il mare e non sente il crepitio delle fiamme in tinello.

Pericolosi e indifferenti «Se non era peri morti a Sfera facevo la collana» Seisono maggiorenni da poco. «Mi piacciono i soldi e l’adrenalina»

Corriere pagine 2 e 3 e 5

2 due morti nel torrente

Con le corde neltorrente, due morti Sondrio, il gruppo di turisti praticava il «canyoning», l’acqua li ha travolti. «Lisentivamo gridare»

Giù tra le rocce con casco e fune «I pericoli? Sassi e ipotermia»

Corriere pagina 17

Addio a Federica, la pallavolista Ha sfidato ilsuo male con ironia Padova, la 32enne aveva un linfoma. «Ogni tanto misiedo ma non mi arrendo»

Corriere a pagina 19

ECONOMIA

1 Fca Renault

Fca-Renault: le perdite della Nissan accelerano la trattativa

Il risiko dell’auto.Il gruppo francese punta a ridurre la quota nella casa giapponese per rilanciare con Fiat

Il crollo degli utili Nissan ha dato nuovo slancio al tavolo negoziale tra Fca, Renault e i giapponesi per riprendere il filo della trattativa interrotta il giugno scorso. Ne sono una prova le mail tra i dirigenti della casa nipponica e del gruppo francese che puntano a ridiscutere i termini della loro alleanza globale. Passaggio, quest’ultimo, fondamentale per rilanciare il piano di intesa con Fiat Chrysler. Tutto ruota intorno a nuovi equilibri azionari con una riduzione della quota del 43,4% detenuta da Renault in Nissan

Apertura del Sole

Il crollo dei profitti di Nissan accelera la trattativa Fca-Renault I contatti. La determinazione del presidente transalpino Senard e il trimestre nero dei giapponesi alla base dei nuovi colloqui. Al lavoro per cambiare gli incroci azionari tra i due costruttori

Marigia Mangano sul Sole a pagina 3

mento chiave. Il fattore scatenante che, dopo settimane di contatti fugaci, ha dato nuovo slancio al tavolo negoziale tra Fca, Renault e Nissan per riprendere il filo della trattativa bruscamente interrotta il giugno scorso. E le mail, di cui ieri il Wall Street Journal ha dato conto, tra i dirigenti della casa nipponica e del gruppo francese per ridiscutere i termini della loro alleanza globale sono la prova che l’intesa con Fiat Chrysler è ancora l’obiettivo a cui si punta e confermano le anticipazioni del Sole 24 Ore del 16 giugno. La base di partenza, su cui si sarebbe riaperto il dialogo, prevede una revisione dei pesi incrociati nella partnership franco nipponica e un impegno dello Stato francese ad alleggerire progressivamente il peso (e la sua influenza) nel futuro assetto del terzo gruppo mondiale di autovetture. Tutto ruota intorno a nuovi equilibri azionari con una riduzione della quota del 43,4% detenuta da Renault in Nissan, che a sua volta detiene il 15% della casa francese senza diritto di voto. Una modifica delle partecipazioni incrociate, con il via libera del Governo francese, socio di Renault con il 15%, rappresenta il nodo su cui ormai da mesi si stanno concentrando i contatti tra Fca, Renault e Nissan. Il tutto per poter riportare d’attualità e questa volta in forma più allargata il progetto di fusione Fca Renault tramontato agli inizi di giugno a a causa delle pressioni del Governo francese. Al momento ancora non è chiaro in che tempi e in quali termini potrà essere ridefinito il nuovo piano di fusione allo studio. Fonti autorevoli vicine alla trattativa hanno riferito a Il Sole 24 Ore che sarebbero stati due gli eventi che hanno contribuito a ricostruire una base di dialogo tra Torino e Parigi. Il primo risale allo scorso 12 giugno, quando si è tenuta l’assemblea di Renault. E vede come protagonista Dominique Senard, presidente del gruppo transalpino. In quell’occasione il manager, che nel corso dell’avvio dei negoziati con Fca si era fatto garante di due snodi cruciali, ossia dell’appoggio del Governo francese e dell’impossibilità da parte di Nissan di porre alcun veto, con l’aumentare delle pressioni pubbliche e la discesa in campo del partner nipponico, ha voluto mandare un messaggio netto che diversi osservatori hanno interpretato come una sorta di ultimatum a Le Maire e Macron: sfiducia immediata o mandato a dar vita a un progetto che lui stesso ha definito “eccezionale”. Cioè la fusione con Fca, per l’appunto. Il Governo sembra aver così scelto la seconda opzione, dando, con la conferma della fiducia, un evidente mandato a Senard a riaprire il dossier italo americano. Il secondo evento che avrebbe contribuito all’avvio di un tavolo concreto tra John Elkann, presidente di Fca, e lo stesso Senard, risale appunto alla scorsa settimana quando Nissan ha reso noto i risultati del semestre. C’era grande attesa a Parigi cosi come a Torino sui dati che Nissan avrebbe comunicato perché ci si aspettava un quadro non particolarmente incoraggiante. Aspettative che si sono poi puntualmente verificate con un drastico calo degli utili comunicato dalla casa giapponese: un crollo del 95% dei profitti netti nel primo trimestre a 6,4 miliardi di yen (54 milioni di euro), a causa della forte discesa delle vendite soprattutto negli Usa e in Europa. È evidente, raccontano fonti vicine al negoziato, che questo dato ha modificato in modo sensibile la posizione di Nissan, ora più debole rispetto a due mesi fa, insieme a quella del suo ceo Hiroko Saikawa, uno dei protagonisti del fallimento del precedente piano di fusione Fca Renault, e la cui permanenza a capo di Nissan è oggi messa in seria discussione da qualcuno. Che sia un Hiroko Saikawa piu debole o un cambio di interlocutore al vertice del gruppo nipponico, il risultato non cambia: il quadro che si sta delineando sembra giocare improvvisamente a favore del progetto che si sta discutendo ormai da tempo tra Elkann e Senard.

trattative via email fra i dirigenti dei due gruppi Renault e Nissan rinegoziano l’alleanza guardando a Fca Resterebbe comunque da sciogliere il nodo politico Macron non vuole ridimensionare il peso dello Stato

43% la quota di capitale di Renault in Nissan che ha il 15% della Régie ma senza diritti di voto

12500 i posti di lavoro che Nissan ha annunciato di voler tagliare entro il marzo 2023

Stampa p.18

Renault e Nissan trattano L’ipotesi diriaprire con Fca IlsociofranceseridurrebbelasuaquotanelgruppodiTokyo.Ilnodofabbriche

Corriere a pagina 30

2 Landini non va

«Di contiparlocol capodelgoverno IlViminale elude lenostre richieste» Ilsegretario della Cgil: Palazzo Chigi è il luogo giusto, perché il leaderleghista non viene?

Lorenzo Salvia sul Corriere a pagina 9

ROMA Maurizio Landini, domani sarà a Palazzo Chigi per il tavolo sulla manovra convocato da Giuseppe Conte. Martedì invece non sarà a quello del Viminale, con Matteo Salvini. Perché? «SaròaPalazzo Chigi perché è normale che sulla legge di Bilancio il segretario generale della Cgil, come è sempre stato, abbia come interlocutore il presidente del Consiglio e quindi tutto il governo. Quel tavolo del restoèstato attivato dopo mesi di mobilitazione unitaria da parte dei sindacati confederali e introduce una novità importante per ora di metodo perché la manovra dell’anno scorso il governo non l’aveva discussa con nessuno. Non solo con noi, ma nemmeno con il Parlamento che in pratica ha votato la fiducia senza conoscere il testo». D’accordo, ma perché martedì non va da Salvini? «Semmai il problema è perché Salvini non è al tavolo della presidenza del Consiglio, dove c’è tutta la maggioranza. Il tavolo sulla manovra è uno, ed è quello di Palazzo Chigi. Del resto una deve essere anche la manovra. Se poi hanno intenzione di presentarne due diverse, ci avvertano per tempo perché il Paese avrebbe un problema serio. In ogni caso le fibrillazioni interne alla maggioranza non vanno scaricate su di noi, non vanno usate per strumentalizzareisindacati». Ma non è che non va al Viminale perché non vuole incontrare di nuovo Armando Siri, che l’altra volta vi spiegò la flattax? «Non è una questione personale. Ripeto, il tavolo per discutereetrattareicontenuti della manovra è quello alla presidenza del Consiglio. Se poi i singoli ministri convocano incontri la Cgil ci sarà, come sempre, ma conisegretari che hanno la delega perle specifiche materie. È singolare che Salvini voglia parlare di tutto tranne che dei temi che riguardano il suo ministero. Come, per esempio, della situazione delle forze dell’ordine che sono sotto organico, e delle loro condizioni salariali e dilavoro spessononadeguate. O della decisione di chiudere i porti quando sono più i giovani costretti a emigrare all’estero che gli stranieri che arrivano nel nostro Paese». Ma tutti questi incontri servono oppureèsolo una passerella per il governo? «Per ora gli incontri a Palazzo Chigi sono serviti al governo per raccogliere idee e proposte dalle parti sociali. Poi, per settembre, il presidente del Consiglio si è impegnato a presentare alle parti sociali la sua proposta di manovra. Il nostro giudizio finale lo daremo allora, quando capiremo se le nostre proposte sono state accolteese si aprirà un vero confronto. In caso contrario valuteremo con Cisl e Uil le iniziative di mobilitazione da intraprendere». Ma secondo voi cosa ci deve essere nella manovra? «Con Cisl e Uil abbiamo consegnato alla presidenza del Consiglio la piattaforma complessiva, che martedì daremo anche al ministro Salvini. In particolare ci deve essere una vera riforma fiscale che riduca le tasse a lavoratori dipendenti e pensionati, gli unici che le pagano davvero. E che faccia salire le buste paga, in modo da sostenereiconsumi, anche attraverso la defiscalizzazione degli aumenti nei rinnovi dei contratti nazionali di lavoro pubblici e privati. Non la flat tax, che va contro il principio della progressività previsto dalla Costituzione. Ci deve essere poi una lotta vera all’evasione fiscale e alle diseguaglianze sociali, un’agenzia per gli investimenti infrastrutturali e sociali, a partire dal Sud, che servono per unireerilanciare il Paese. Anche per questo siamo contrari alla proposta di autonomia differenziata». Segretario, la Lega parla di flattax, il Movimento5Stelle di taglio del cuneo fiscale. Insomma il governo non pare ascoltare le vostre proposte: si augura che cada il prima possibile? «No. Il punto veroèche il governo superi la logica del contratto fra privati e capisca che bisogna trovare la mediazione con le parti sociali del Paese». © RIPRODUZIONE RISERVATA

Flat tax contro cuneo fiscale Gli alleati e il duello diricette sulla «manovra coraggiosa» Tante le distanze, condiviso solo lo stop all’aumento Iva

Corriere a pagina 8

ROMA Matteo Salvini dice che la prossima manovra deve essere «coraggiosa». Luigi Di Maio ribatte «scriviamola insieme». Siamo ancora in una fase di contrattazione, i due alleati spingono per le loro proposte mentreiconti finali si faranno dopo l’estate. Ma proprio per preparare il terreno in vistadella battagliad’autunno, Lega e M5S stanno scavando fin da ora la loro trincea.

2 Il piano tasse della Lega

Massimo Bitonci. Il sottosegretario all’Economia anticipa il piano che la Lega presenterà alle parti sociali «Taglio Irpef da 10 miliardi e pace fiscale 2.0»

Marco Mobili e Giovanni Parente sul Sole a pagina 2

Dieci miliardi da destinare alla riduzione dell’Irpef pagata da pensionati e dipendenti. Un secco no a qualsiasi intervento sull’Iva, anche di tipo selettivo. L’avvio della pace fiscale 2.0 che questa volta sarà incentrata sulla possibilità per imprese e contribuenti di accordarsi preventivamente con il Fisco, senza versare interessi e sanzioni, nei casi di accertamenti induttivi o presuntivi. Pace fiscale che dovrà viaggiare di pari passo con la riforma della giustizia tributaria destinata a trasformarsi nella quinta magistratura (includendo anche quella militare) e puntare alla piena terzietà del giudizio, a partire dalla mediazione. La cancellazione di due imposte poco amate da cittadini e imprese: la Tasi pagata su tutti gli immobili diversi dall’abitazione principale e l’Irap da trasformare in un’addizionale all’Ires e all’Irpef. Si muove su queste direttrici il piano fiscale della Lega che il leader del Carroccio e vicepremier Matteo Salvini illustrerà nei dettagli alle parti sociali martedì 6 agosto al Viminale (la convocazione è per le ore 10). Come spiega al Sole 24 Ore il sottosegretario all’Economia Massimo Bitonci, uno dei principali artefici del pacchetto fiscale del Carroccio, «vogliamo proseguire nel taglio delle tasse avviato con la flat tax per le partite Iva fino a 65mila euro concentrandosi sulle fasce più deboli e i ceti medi. Puntiamo a una riduzione di 10 miliardi del carico fiscale che oggi grava su pensionati e dipendenti, non certo ai quattro miliardi ipotizzati da Di Maio». Ma in che modo? Applicando l’aliquota del 15% a chi oggi paga il 23 per cento. Aspettiamo le simulazioni del ministero per capire dove potremmo fissare l’asticella, ma l’obiettivo è quello di avviare un percorso di riduzione della pressione fiscale e dovrà approdare all’introduzione di una tassa piatta per tutti i contribuenti. E questo anche se la Corte dei conti ha certificato più volte che oggi il 52,5% dei contribuenti Irpef già paga un’aliquota reale del 14,8%? Noi parliamo di aliquota nominale al 15% che per effetto di detrazioni, deduzioni e no tax area si trasformerà in un prelievo reale ben più basso dell’attuale 14,8%. Un intervento compatibile con le clausole Iva o si lavora anche a una rimodulazione dell’imposta sul valore aggiunto come dice Tria? La Lega dice no a qualsiasi intervento di aumento delle aliquote Iva. Troveremo le risorse per sterilizzare le clausole. Gli studi che abbiamo analizzato in questi mesi testimoniano come ad un aumento delle aliquote Iva su determinati prodotti non corrisponda mai un reale effetto di aumento del gettito. In sostanza se aumento l’aliquota su un determinato prodotto non è detto che il consumatore continui ad acquistare quel prodotto e al contrario si sposti su altri tipi di beni o servizi con un prezzo più basso e un carico Iva minore. Alla riduzione delle tasse volete associare la pace fiscale 2. La stagione dei condoni non finisce mai? Non c’è nessun condono. Con la pace fiscale sulle cartelle e sulle liti possiamo recuperare fino a 25 miliardi di euro nei prossimi 5 anni e possiamo abbattere l’arretrato e liberare cittadini e imprese dall’assillo di vecchi debiti che negli anni non sono riusciti a pagare. È questo il presupposto su cui costruire un nuovo rapporto tra fisco e contribuenti. Perciò stiamo studiando una pace fiscale 2 che viaggerà di pari passo con la stagione delle riforme. Cosa ci sarà nella nuova pace fiscale? Dobbiamo completare il saldo e stralcio estendendolo anche alle imprese. Inoltre stiamo studiando un meccanismo per arrivare ad accordi preventivi sugli accertamenti delle Entrate basati su indizi e presunzioni come ad esempio quelli su prezzi di trasferimento o abuso del diritto. Si tratta di situazioni in cui c’è un elusione e non un’evasione d’imposta, spesso favorita da un’interpretazione non semplice delle norme vigenti. Come funzionerà? Se gli uffici del fisco e i contribuenti riusciranno a raggiungere un accordo, che in gergo tecnico si chiama adesione, l’importo dovuto secondo l’accertamento induttivo o presuntivo, sarà calcolato con criteri forfettari e senza l’applicazione di sanzioni e interessi. Così cercherete di evitare nuovo contenzioso? Sì, è uno degli obiettivi. Ma sul contenzioso abbiamo un progetto di riforma più ampio che punta a una effettiva terzietà del giudice. Come Lega abbiamo già presentato due disegni di legge alla Camera e al Senato messi a punto ascoltando le opinioni degli addetti ai lavori. Allora c’è da chiedersi perché il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, non abbia voluto inserire la nostra proposta nella più ampia riforma della giustizia presentata in Cdm in questi giorni. Non è un problema di chi si intesta il progetto ma l’importante è dare una risposta a imprese e investitori nazionali e internazionali oggi in fuga l’Italia per l’eccessiva durata dei processi e la mancanza di certezza del diritto. Cosa intende per maggiore terzietà? La creazione del giudice tributario professionista. Una nuova magistratura, la quinta se si include anche quella militare, con i nuovi tribunali e corti d’appello tributari. Per le cause fino a 3mila euro ci saranno i giudici onorari, reclutati tra gli attuali giudici tributari e per quelle fino a 30mila ci sarà un giudice monocratico. In questo modo solo le liti più complesse e di maggior valore saranno decise in composizione collegiale. Con una rivoluzione in arrivo anche per la mediazione preventiva che non si svolgerà più davanti agli enti impositori, come ad esempio le Entrate e i Comuni, ma direttamente davanti al giudice assicurando in questo modo una vera terzietà anche nella fase antecedente al contenzioso. Sulle semplificazioni sempre promesse e mai concretamente realizzate cosa prevede il piano della Lega? Abbiamo iniziato un percorso nel decreto crescita. Ora continueremo. Vogliamo eliminare il modello 770 per i sostituti d’imposta. In più puntiamo a eliminare la Tasi lasciando solo l’Imu per evitare doppi pagamenti e doppi calcoli. Così come per l’Irap, che diventando un’addizionale all’Ires e all’Irpef, potrà cancellare di colpo 4 milioni di dichiarazioni. © RIPRODUZIONE RISERVAT

3 Pubblica amministrazione

L’incubo di uffici vuoti e ospedali chiusi Nel pubblico arriva il terremoto Quota 100 Centomila persone in pensione anticipata entro fine 2019. Servizi sociali, scuole e asili nido rischiano la paralisi

Fare i concorsi dopo che molti sono già in pensione impedisce anche un passaggio generazionale delle competenze

Per risolvere questa emergenza bisogna stabilizzare subito i precari utilizzando le graduatorie degli idonei già stilate

La salvezza arriva dai concorsi “Ma tra bandi e intoppi si aspetterà un anno”

Alcune scuole avranno la metà dei docenti Toccherà ai precari tappare i buchi

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GUIDO CASTELLI Il delegato Anci: “Aumenterà anche la burocrazia” “Con queste norme i Comuni più piccoli rischiano il collasso”

Dall’esplosione della crisi il 78% dei tagli è stato fatto nella riduzione del personale

Per fortuna il decreto crescita prevede il superamento definitivo del blocco del turn-over

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Il proiettile vagante di Quota 100, che ora rischia di colpire in pieno la pubblica amministrazione italiana, centrerà quasi certamente gli uffici dell’anagrafe, le scuole e soprattutto gli asili nido, gli uffici tecnici e i servizi sociali. Nel giro di pochi mesi, insomma, le amministrazioni comunali italiane rischiano di trovarsi con migliaia di scrivanie vuote. Alle carenze d’organico attuali, visto che da anni il turn over è ancora rigorosamente bloccato, si aggiungeranno i vuoti già previsti dagli enti locali e dall’Inps. Le domande presentate fino al 31 luglio sono più di 52 mila e nel 19 per cento dei casi è già arrivata l’approvazione.

Il grande piano per l’esodo anticipato di migliaia di lavoratori avrà presto gravi effetti collaterali. Con il rischio concreto di paralizzare i servizi per i cittadini.

E nei paesi, dove molti servizi si reggono sul lavoro di un solo impiegato, l’effetto quasi immediato sarà quello di chiudere gli uffici.

Si salveranno solo i vigili urbani. Anche senza il giubbotto antiproiettile. Perché la loro difesa, negli ultimi anni, è stata assicurata da assunzioni quasi continue. Il proiettile vagante di Quota 100, che ora rischia di colpire in pieno la pubblica amministrazione italiana, centrerà quasi certamente gli uffici dell’anagrafe, le scuole e soprattutto gli asili nido, gli uffici tecnici e i servizi sociali. Nel giro di pochi mesi, insomma, le amministrazioni comunali italiane rischiano di trovarsi con migliaia di scrivanie vuote. Alle carenze d’organico attuali, visto che da anni il turn over è ancora rigorosamente bloccato, si aggiungeranno i vuoti già previsti dagli enti locali e dall’Inps. Le domande presentate fino al 31 luglio sono più di 52 mila e nel 19 per cento dei casi è già arrivata l’approvazione. Nei prossimi mesi, secondo le stime fatte dai sindacati, le richieste si moltiplicheranno e i lavoratori in lizza per lasciare il proprio ufficio saranno più di 100 mila. Forse addirittura 120 mila. L’esodo anticipato Il grande piano per l’esodo anticipato di migliaia di lavoratori avrà presto gravi effetti collaterali. Con il rischio concreto di paralizzare i servizi per i cittadini. Sia nelle grandi città, dove il numero di impiegati pronti a conquistare il traguardo della pensione è ovviamente maggiore, sia nei piccoli centri, dove gli uffici pubblici possono contare su organici risicati. E nei paesi, dove molti servizi si reggono sul lavoro di un solo impiegato, l’effetto quasi immediato sarà quello di chiudere gli uffici. Ma anche alcuni reparti d’ospedale o addirittura qualche pronto soccorso. E a settembre, al riavvio delle lezioni, moltissime scuole si ritroveranno con la metà degli insegnanti e allora toccherà come sempre ai precari lanciare il paracadute. «Ai 100 mila che usufruiranno dei nuovi limiti previsti da Quota 100 – sottolinea Federico Bozzanca, segretario nazionale della Funziona pubblica Cgil – bisognerà sommare tutti quelli che invece hanno già raggiunto i requisiti secondo i parametri della legge Fornero». I concorsi bloccati La salvezza per la pubblica amministrazione con gli uffici sguarniti passerà ovviamente per i concorsi. Ma ci sarà parecchio da attendere. Canonici tempi delle selezioni pubbliche, a cui andranno aggiunti i soliti italici imprevisti: prima i bandi e poi i ricorsi, con gli intoppi burocratici e in qualche caso pure le inchieste. «Nella migliore delle ipotesi – prevede Nicola Foccillo, segretario confederale dalla Uil – passerà al meno un anno». E nel frattempo? Gli impiegati che restano avranno un carico di lavoro doppio e molti servizi dovranno essere ridotti. Oppure chiusi e sospesi. «Non dimentichiamo che il blocco delle assunzioni è ancora in vigore fino a novembre – ricorda Foccillo – Per il momento solo i Comuni e le scuole possono bandire i concorsi». Gli enti in agonia Quel che succederà, appena scatteranno le pensioni anticipate, finirà per aggravare ulteriormente le condizioni degli enti pubblici, quelli locali in particolar modo. «Già da due anni sappiamo che nell’arco del quinquennio in corso ben 500 mila dipendenti pubblici andranno in pensione – ricorda Foccillo – Circa 200 mila hanno già lasciato il lavoro e gli altri andranno via prossimamente. Questa è una previsione legata ai limiti d’età previsti dalla legge precedente, dunque con le soglie previste da Quota 100 la situazione rischia di aggravarsi pesantemente». Nelle sedi centrali degli enti pubblici, dai ministeri fino alle sedi principali delle agenzie, si prevede un terremoto. «Negli uffici romani, da qui alla fine del 2019, circa 45 mila persone raggiungeranno il traguardo della pensione – aggiunge Maurizio Petriccioli, segretario generale Cisl-Fp – Per risolvere questa emergenza bisogna stabilizzare subito i precari della pubblica amministrazione, utilizzando le graduatorie già stilate e chiamando in servizio chi è idoneo». L’età media L’ultima grande ondata di assunzioni nella pubblica amministrazione, ricordano i sindacati, risale agli anni Ottanta e per questo l’età media dei lavoratori comincia a essere piuttosto alta. E per tantissime persone la finestra della pensione comincia a intravedersi con un po’ di nitidezza in più. «Con questo metodo si sta anche creando un vero impoverimento per la macchina della pubblica amministrazione – riflette Bozzanca della Cgil – Il fatto di avviare i concorsi dopo che molti lavoratori hanno già ottenuto la pensione significa che non c’è un passaggio generazionale delle competenze. È vero che tutti i neo assunti hanno un livello di scolarizzazione ben più alto, ma non si può non tenere conto che il patrimonio culturale di chi va in pensione non viene lasciato in eredità a nessuno».

BUROCRAZIA INCHIODATA NEL PASSATO

Di alberto Mingardi

La syyampa p.21

S ono già 50 mila gli impiegati pubblici che hanno fatto domanda per “quota 100” e si stima possano essere 100 mila entro la fine dell’anno. Gli enti locali temono contraccolpi. A Torino gli uffici decentrati dell’anagrafe verranno chiusi, per mancanza di addetti. Di per sé la cosa non è sorprendente. La pubblica amministrazione italiana ha un’età media molto elevata: è anziana, non solo perché assomiglia al Paese ma anche perché, nel corso degli anni, il blocco del turn over è stata una delle poche misure davvero efficaci di controllo della spesa. Per questa ragione, una misura come quota 100 è risultata “naturalmente” gradita agli impiegati dello Stato. Che cosa possiamo attenderci? Sfoltire la burocrazia per l’Italia è una sfida non da oggi. Negli ultimi vent’anni, tutti i governi hanno annunciato battaglia, e tutti hanno presto deposto le armi. Va allora salutata con favore questa riduzione “spontanea” e inattesa degli organici? Oppure c’è da preoccuparsi, per la fornitura di servizi essenziali? È il caso di non dimenticare che il governo gialloverde ha annunciato mezzo milione di nuove assunzioni nella PA. Immaginiamo siano, alla prova dei fatti, un po’ di meno: si tratterà comunque di uno sforzo importante. Non è chiaro, a oggi, se e quanto il reddito di cittadinanza renda meno attraente la prospettiva di un impiego pubblico, soprattutto al Sud. Il problema vero, però, al di là dell’offerta di lavoro è la domanda. L’impressione è che l’intenzione del governo sia quella di riempire, una dopo l’altra, le caselle rimaste vuote. Anziché fare investimenti sui processi, si punta sostanzialmente sulla continuità delle funzioni oggi esistenti. La logica politica è cristallina: investire sui processi, per esempio sulla digitalizzazione, da una parte è costoso, dall’altra richiede azioni di coordinamento e razionalizzazioni. Al contrario, spendere per garantire un lavoro ad alcune persone verosimilmente significa guadagnarne la gratitudine elettorale, perlomeno al prossimo giro. Soprattutto in tempi di populismo, la politica promette, promette, promette. Ma a un certo punto qualche cosa, anche di diverso da ciò che aveva annunciato in campagna elettorale, deve mantenere. Non serve essere un “liberista selvaggio” per capire che quello che lo Stato faceva vent’anni fa non è necessariamente quello che lo Stato dovrebbe fare oggi. Anche immaginando che il perimetro pubblico non arretri di un centimetro, le stesse funzioni possono essere svolte in modo radicalmente diverso. Se chiedete a un imprenditore privato, che seguita a realizzare e vendere lo stesso prodotto che realizzava e vendeva alla fine del secolo scorso, come sono cambiati in quattro lustri le sue fabbriche e i suoi uffici avrete risposte sorprendenti. Qualcosa di simile dovrebbe avvenire pure all’interno della macchina dello Stato. Per non essere ingenerosi, va detto che esistono enti e amministrazioni che sperimentano e ottengono risultati: ma fare crescere di scala certi esperimenti, indipendentemente dal successo che hanno raggiunto, è difficile. Procedure farraginose, e soprattutto la paura di pagare pegno alle elezioni, hanno frenato i ministri più volenterosi. Il risultato però è che senza un progetto anche gli effetti di quota 100 diventano una sorpresa difficile da gestire. E paradossalmente possono trasformarsi in un argomento per chiedere un aumento della spesa, allo scopo di fronteggiare le emergenze. Che è poi il modo in cui, da sempre, lo Stato amplia il raggio delle sue attività. Lasciandoci in eredità debiti e inefficienze. —

4 La televisione del futuro

ANTONIO CAMPO DALL’ORTO Prima intervista dopo l’addio alla Rai del manager dei media: la tv generalista non è ancora morta “Rai e Mediaset insieme per sfidare Netflix Serve una piattaforma di prodotti italiani”

La formula è un progetto guidato dalla tv di stato, magari insieme con La7 e Discovery

Chi ha ambizioni e risorse deve dialogare. Vivendi le ha, ma non ha dato loro forma concreta

Il servizio pubblico deve recitare la sua parte con coraggio, però non vedo molto innovazione

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5 Fondi europei

Fondi Ue, entro fine anno 3,24 miliardi da spendere

A fine giugno l’Italia aveva certificato a Bruxelles spese per 10,5 miliardi su un totale di 53,2 miliardi del programma 2014-2020. Da settembre le verifiche dell’Agenzia per evitare il disimpegno di 2 miliardi

Sul Sole a pagina 10

Entro fine anno l’Italia deve spendere 3 miliardi e 238 milioni di euro dei programmi operativi regionali e nazionali per non perdere la quota di risorse comunitarie (Fondo di sviluppo regionale e Fondo sociale) che a spanne vale circa 2 miliardi di euro. In termini di distanza dall’obiettivo a fine 2019 fissato dalla clausola “N+3” (che prevede il disimpegno automatico delle risorse non spese entro tre anni dall’iscrizione sul bilancio comunitario) è poco meno di un quarto del totale (24,3%).

5 energia

Energia, rallentano gli utili dei big Pesa il crollo del prezzo del gas In Europa, rispetto al trimestre scorso, le quotazioni sono calate del 36 per cento. Ma i valori si sono dimezzati rispetto ai massimi di fine 2018. Le cause: il rallentamento della domanda in Asia e lo shale americano

Luca Pagni su Repubblica a pagina 30

— Non è il tracollo di tre anni fa, quando le società petrolifere toccarono in Borsa i minimi storici da inizio secolo. Allora, fu il crollo del prezzo del greggio, sceso fino a un passo dai 25 dollari al barile, a costringere le “big oil” a fare pulizia nei bilanci dopo una serie di trimestri in rosso. Ora, per quanto i colossi petroliferi siano tornati a macinare utili per i loro azionisti, è suonato un altro campanello di allarme. Lo si è visto man mano che le società — nelle ultime settimane — hanno consegnato al mercato i conti semestrali: c’è stato un vistoso calo degli utili che ha colpito, con varia intensità, tutto il settore. Con due differenze significative, rispetto a tre anni fa: la prima industriale, la seconda geopolitica. Questa volta non sono state le quotazioni del greggio a provocare il rallentamento dei profitti, ma il tracollo del prezzo del gas naturale. Lo ha scritto in modo molto chiaro il gruppo francese Total nella sua nota sui conti dei sei mesi: «Mentre la quotazione del greggio rimane volatile, ma comunque in crescita del 9 per cento rispetto al trimestre precedente, il prezzo del gas naturale ha avuto nello stesso periodo una contrazione del 26 per cento in Asia e addirittura del 36 per cento sul mercato europeo». In realtà, la situazione è ancora più pesante se si allarga l’orizzonte temporale. Nel Vecchio Continente, i prezzi sono in costante decrescita dall’ottobre dell’anno scorso: dopo aver raggiunto i livelli massimi dal 2014, le quotazioni hanno imboccato il piano inclinato fino a perdere il 50 per cento del loro valore. Il prezzo del gas è sceso perché nell’applicazione rigorosa della legge della domanda e dell’offerta, in questo momento c’è abbondanza di materia prima. E successo che la domanda di gas naturale è calata in Asia, dove le principali economie hanno dato segni di rallentamento e gli investimenti in campo energetico sono stati spostati sulle rinnovabili, a partire da Cina e India. Così, molte forniture via nave sono state dirottate nuovamente sul mercato europeo che, improvvisamente, è diventato molto lungo. Un movimento che si è riflesso in modo positivo sulle bollette delle famiglie e delle imprese, vistosamente calate negli ultimi due trimestri, in coincidenza con il calo dei prezzi. Tra l’altro, per gli analisti, un’nversione di tendenza non è prevista a breve, come dimostrano anche i cali ulteriori degli ultimi giorni. E qui entra in gioco la geopolitica. In Europa c’è abbondanza di gas anche perché stanno cominciando ad arrivare con continuità le forniture via nave da oltreatlantico. Gli Stati Uniti, da importatori, sono diventati esportatori netti di materia prima, grazie alle nuove tecnologie che nel decennio hanno consentito lo sfruttamento dei giacimenti che si trovano negli strati rocciosi. Lo stesso vale anche per il petrolio: shale gas e shale oil hanno avuto un impatto economico e politico. Il petrolio ha permesso alle compagnie americane di subire meno contraccolpi in bilancio negli ultimi mesi, mentre il gas ha consentito all’amministrazione Trump di esercitare maggiori pressioni — attraverso le forniture — sull’Europa, perché allenti i contatti commerciali con la Russia. Gazprom, colosso di stato di Mosca, rifornisce l’Unione europea per oltre un terzo del suo fabbisogno, con contratti di medio periodo. Un’ulteriore abbondanza di materia prima che di certo non favorisce la ripresa dei prezzi a breve

5 crescita

RIPORTARE LA CRESCITA AL CENTRO DEL DIBATTITO

di Sergio Fabbrini

Sembra di vivere in un Paese surreale. La politica evoca un “mondo” che non ha relazioni con la realtà sensibile. La realtà è la seguente. L’economia italiana, secondo i dati Istat di pochi giorni fa, è in una condizione di stagnazione. Diminuisce la disoccupazione, grazie però a lavori part-time e a bassa qualificazione. Gli investimenti privati sono in calo e le nostre esportazioni sono fragili, secondo un rapporto appena pubblicato di Andrea Montanino del Centro Studi di Confindustria. Il Mezzogiorno italiano è in una situazione di vero e proprio depauperamento, secondo i dati dello Svimez resi pubblici un paio di giorni fa. Il suo Pil è al di sotto dello zero. Negli ultimi 15 anni, ben 2 milioni di persone hanno abbandonato le regioni del Sud, per cercare lavoro e opportunità nel Nord (dell’Europa oltre che dell’Italia). Almeno un quarto di chi se ne è andato ha una laurea o una istruzione professionale. Invece, la politica è la seguente. I due vicepremier hanno fatto del litigio un vero e proprio mestiere, anche se i parlamentari dei rispettivi partiti convergono regolarmente sulle poche leggi messe ai voti in Parlamento. Le due forze di opposizioni sono divise al loro interno sul grande problema teologico, con quale parte del governo allearsi (per ritornare al governo)? Si capisce perché, come ha mostrato il sondaggio pubblicato da questo giornale venerdì scorso, quasi tre quarti degli italiani vogliono nuove elezioni (che potrebbero produrre esiti contradditori, dato l’attuale sistema elettorale). Come se ne esce? Solamente in un modo: riportando la crescita al centro del dibattito pubblico. Un Paese che non cresce economicamente è destinato ad un declino irreversibile anche culturalmente. Per riportare l’Italia su un sentiero di crescita, occorre però fare i conti con il problema del nostro (enorme) debito pubblico. Quel debito è dovuto a scelte fatte da governi e parlamenti italiani, almeno dagli anni Novanta del secolo scorso. Dietro quel debito c’è l’idea che la spesa pubblica debba servire a garantire consenso elettorale prima ancora che sviluppo economico. —Continua a pagina 6

L’ attuale governo agisce come se fossimo entrati (addirittura) nell’epoca del post-lavoro. La creazione di lavoro non è una priorità, mentre è divenuta una priorità consentire alle persone di non lavorare (anticipando l’età pensionabile oppure distribuendo reddito di cittadinanza). Così, gli investimenti infrastrutturali sono stati bloccati, anche là dove vi erano fondi da tempo stanziati. Il programma di “industria 4.0” è stato chiuso, nonostante gli effetti positivi che aveva avuto sulla modernizzazione degli impianti produttivi. Le risorse destinate alla ricerca e all’istruzioni sono tra le più limitate d’Europa, mentre si parla di una de-fiscalizzazione che metterebbe ancora più in difficoltà le finanze pubbliche, centrali e locali. I pochi provvedimenti approvati hanno sempre un nome ed un cognome, le partite Iva del centro-nord oppure la disoccupazione nascosta nel lavoro nero del centro-sud. Il governo del cambiamento ha smarrito l’idea dell’Italia, ma ha conservato quegli aspetti di politica pubblica che sono la causa del nostro declino. Né un’idea di sviluppo è emersa dalle opposizioni, tanto meno delle proposte concrete. Come si può crescere, senza strategie precise (e condivise) per riportare sotto controllo il debito pubblico? La riduzione del debito pubblico e il rilancio della crescita dipendono da noi, ma non solo da noi. L’Italia è all’interno di un sistema di integrazione monetaria che garantisce la nostra stabilità finanziaria in cambio del rispetto di regole che presiedono al coordinamento tra gli stati membri di quel sistema (l’Eurozona). La natura di quelle regole è influente sulle modalità della crescita degli stati che le condividono. Una maggioranza di italiani non è soddisfatta con il funzionamento dell’Eurozona, una maggioranza ancora più grande di italiani sarebbe insoddisfatta se uscissimo dall’Eurozona. Si tratta di una contraddizione che ha contribuito non poco all’ascesa del populismo antieuropeista che ritiene di governarci dal Papeete Beach o dalla piattaforma Rousseau. Una contraddizione che caratterizza anche altri Paesi dell’area mediterranea. Come la Francia, dove i populisti di destra e di sinistra rappresentano quasi la metà dell’elettorato, come la Spagna dove non si riesce a formare una maggioranza stabile nonostante le continue elezioni, come la Grecia che sta uscendo a fatica da una crisi sociale senza precedenti. Una contraddizione sconosciuta nei Paesi del nord, in quanto la logica di funzionamento dell’Eurozona è coerente con la loro struttura di political economy (che combina modello produttivo e organizzazione degli interessi). Tuttavia, il funzionamento dell’Eurozona non è stato deciso in cielo, ma nelle negoziazioni tra gli stati che ne fanno parte. Però, mentre le leadership governative della Francia e della Spagna hanno elaborato una interpretazione del funzionamento asimmetrico dell’Eurozona (avanzando quindi proposte per un suo riequilibrio), i nostri leader di governo sanno solamente inveire contro l’Europa “tedesca”. Né le opposizioni hanno qualcosa da dire. Eppure, tra poche settimane si avvierà la procedura per la stesura della legge di bilancio 2020, con relativa negoziazione con la nuova Commissione (che sarà di già operativa, anche se formalmente inizierà il 1° novembre). Ad oggi, non sappiamo neppure quale portafoglio avrà l’Italia in quella Commissione, ancora di meno chi sarà il candidato del governo italiano al ruolo di commissario. Come possiamo riportare l’Italia su un percorso di crescita, se non abbiamo una strategia e degli alleati per rendere meno asimmetrico il funzionamento dell’Eurozona? La politica non può stare a lungo dissociata dalla realtà. Se ciò avviene, sono guai. Si pensi all’Argentina, uno dei Paesi più sviluppati negli anni Trenta del secolo scorso, divenuto un Paese sottosviluppato pochi decenni dopo per via dell’incompetenza populista delle sue classi politiche. Certamente, l’Italia di oggi dispone di maggiori anticorpi rispetto all’Argentina di allora (grazie all’Europa). Tuttavia, l’Europa non basta, se le nostre forze economiche, culturali, associative non alzano la voce per riportare la politica alla realtà. Non c’entra la destra o la sinistra. C’entra l’interesse nazionale dell’Italia a ritornare a crescere economicamente e culturalmente.

VENTI DI RECESSIONE, MA IL FMI RACCOMANDA AUSTERITY

di Marcello Minenna

I l 2% del PIL mondiale: circa 1.770 miliardi di dollari in 3-5 anni. Questo è l’ammontare della stretta fiscale che il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) raccomanda nel suo ultimo report di luglio (l’External Sector Report) per i Paesi membri, che rappresentano il 90% del Pil mondiale, al fine di riequilibrare i conti con l’estero. Un suggerimento che appare ignorare il delicato momento di simultaneo rallentamento della crescita in Usa, Asia ed Europa. —Continua a pagina 9

Il Fondo analizza le dinamiche dei conti con l’estero, cercando di identificare le policy fiscali, monetarie e le riforme strutturali necessarie a garantire un equilibrio della bilancia dei pagamenti nel medio termine. Se si riduce il livello di dettaglio e si guardano i dati da una prospettiva globale emerge come in tema di policy fiscale il Fmi stia consigliando un consolidamento fiscale praticamente a tutti i Paesi del mondo, con le notabili eccezioni di Germania e Olanda. Generalmente il Fmi raccomanda una stretta di bilancio quando il saldo delle partite correnti è ritenuto in deficit eccessivo. Ad un 1% del Pil di inasprimento fiscale corrisponde infatti mediamente un miglioramento della bilancia commerciale dello 0,3% per via della riduzione delle importazioni. Tuttavia, nel report 2018 anche Paesi che hanno conti con l’estero in equilibrio (come Italia, Cina, Giappone e Brasile) vengono indirizzati su un percorso di austerity. L’Italia dovrebbe passare dall’attuale 2% di deficit ad un surplus di bilancio (dopo il pagamento degli interessi) del +0,5%, varando manovre restrittive per 42 miliardi di euro. Le ragioni sono molteplici: secondo il Fmi in Cina la crescita del deficit delle partite correnti a causa di politiche fiscali e di stimolo al credito espansive è mascherata dall’impatto negativo di una rete di welfare debole, che riduce la propensione al consumo della classe media. In Giappone sono i bassi investimenti che compensano una politica fiscale eccessivamente lasca; in Italia e Brasile la crescita zero dei prestiti bancari tiene l’economia in stagnazione e impedisce paradossalmente che i conti con l’estero peggiorino, nonostante i deficit di bilancio ritenuti elevati ed evidenti problemi di competitività dei sistemi manifatturieri. In media anche l’Eurozona dovrebbe stringere la cinghia con uno +0,5% di Pil in aumenti di tasse o tagli della spesa pubblica. È evidente l’enfasi del Fondo verso politiche fiscali prudenziali, che però appare non aggiornata con il quadro macro attuale, dove la ripresa sperata per la seconda metà del 2019 sembra allontanarsi e peggiorano gli indicatori sull’attività manifatturiera nelle economie esportatrici. Inoltre questa austerity globale cozza con la prospettiva attuale di una rapida discesa dei tassi di interesse nelle principali aree valutarie – anche a livelli fortemente negativi – per lungo tempo. Come ha evidenziato correttamente l’ex capo economista Fmi Olivier Blanchard, in un contesto dove i tassi di interesse sono previsti a lungo intorno allo 0%, la politica monetaria ha degli spazi di manovra limitati e la politica fiscale deve essere a supporto della crescita. Soprattutto se il costoopportunità connesso all’emissione di nuovo debito – anche per economie fortemente indebitate – si riduce notevolmente. Naturalmente le risorse raccolte dovrebbero essere destinate obbligatoriamente a una robusta ripresa degli investimenti in infrastrutture e beni capitali; un fattore di riequilibrio che possa favorire la ripresa della domanda interna e che continua a mancare proprio nei Paesi a vocazione manifatturiera (Italia, Germania o Giappone), dove gli investimenti stagnano da anni. Stavolta non deve essere l’austerity la risposta alla crisi.

6 tasse

I conti della cgia sul 2018 Tasse, ogni italiano paga al Fisco 552 euro in più della media Ue

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SANDRA RICCIO MILANO Il tema del peso fiscale è sempre più in evidenza nel nostro Paese. In attesa della Manovra 2020, che affronterà anche la materia delle tasse, il focus è su quanto paga oggi ogni contribuente al Fisco italiano. I conti li ha fatti la Cgia che ha anche comparato la pressione fiscale in Italia con quella degli altri 28 Paesi dell’Ue. Dall’analisi è emerso che nel 2018 gli italiani hanno pagato 33,4 miliardi di euro di tasse in più rispetto all’ammontare complessivo medio versato dai cittadini dell’Unione Europea. Secondo lo studio, si tratta di un differenziale che «pesa» quasi 2 punti di Pil. Vuol dire che, in termini pro capite, ogni contribuente italiano ha corrisposto al fisco 552 euro in più rispetto alla media dei cittadini europei. Questo è il dato medio in Europa. Guardando alcuni dei singoli Paesi europei, emergono poi diverse sorprese: se avessimo la pressione fiscale della Germania verseremmo 24,6 miliardi di tasse in meno (407 euro pro capite), dell’Olanda 56,2 (930 euro pro capite), del Regno Unito 114,2 (1.888 euro pro capite) e della Spagna 119,5 (1.975 euro pro capite). C’è anche chi paga più di noi. La lista dei maggiori pagatori è però molto breve. In Europa, secondo i numeri della Cgia, soltanto Francia, Belgio, Danimarca, Svezia, Austria e Finlandia hanno pagato mediamente più tasse di noi nel 2018. Stupisce Parigi: ogni cittadino d’Oltralpe ha versato al fisco 1.830 euro in più rispetto a noi. In termini assoluti il divario fiscale è a noi favorevole e ammonta a 110,7 miliardi di euro. «Il tempo degli slogan e delle promesse è terminato. Con la prossima manovra di Bilancio è necessario uno scossone che nel giro di qualche anno riduca di 3-4 punti percentuali il peso delle tasse», avverte il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo.—

Tasse, ogni italiano paga 552 euro in più della media Ue

Andrea Ducci sul Corriere a pagina 30

Una sequenza di cifre che spiega perché nei sondaggi gli italiani preferiscono una riduzione delle tasse, anche a rischio di mettere in difficoltà la tenuta dei conti pubblici. Rispetto alla media versata dagli altri europei nel 2018 i cittadini italiani hanno, del resto, pagato 33,4 miliardi di euro di tasse in più. In termini di Pil (Prodotto interno lordo) è un valore che si traduce in quasi due punti della ricchezza prodotta ogni anno in Italia. Di fatto vuol dire che ogni italiano corrisponde al fisco 552 euro in più rispetto alla media dei cittadiniresidenti nelresto del Vecchio Continente. I calcoli su quanto le tasse pesino di più in Italia che altroveèstato elaborato dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre, che ha messo a confronto la pressione fiscale dei 28 Paesi dell’Ue. «Il tempo degli slogan e delle promesse è terminato—spiega il coordinatore dell’Ufficio studi di Cgia, Paolo Zabeo —. Con la prossima manovra di Bilancio è necessario uno scossone che riduca nel giro di qualche anno di 3-4 punti percentuali le tasse. Considerata la situazione dei nostri conti pubblici, l’intervento sarà praticabile solo abbassando, di pari importo, la spesa pubblica improduttivaeuna parte dei bonus fiscali». La Cgia non fa mistero che troppo tasse, oltreagravare sulla tenuta delle famiglie e delle imprese, hanno generato circoli viziosi nel sistema economico. Un effetto che si farebbe sentire, per esempio, sulla dinamica della domanda interna e degli investimenti. Nel corso del 2018,ricorda la Cgia, solo Francia, Belgio, Danimarca, Svezia, Austria e Finlandia hanno pagato mediamente più tasse rispetto all’Italia. Vale però ricordare che al fisco italiano sfuggono ogni anno circa 209 miliardi di euro di economia in «nero».

Italiani stangati dal fisco Massacro da 33 miliardi Ogni cittadino paga 552 euro in più rispetto N alla media Ue. La Cgia: «Subito giù le tasse»

Giornale p.5

CONTRIBUENTI BEFFATI Controlli inevitabili se il fisco ti deve dei soldi Il nuovo strumento che sostituisce gli studi di settore continua a sfornare brutte sorprese per le partite Iva. L’ultima novità è che sopra i 50mila euro di crediti Iva si azzera il regime premiale e gli accertamenti scatteranno anche per i più virtuosi

Antonio Castro su Libero a pagina 21

7 fmi

Sempre più complicato il credito peri piccoli: accolta una richiesta su tre IndagineCnasu1.600aziende.«PiùspazioaiConfidi»

Corriere pagina 30

Stretta sul credito per le piccole imprese. Solo il 32% delle richieste di credito sono accolte; le restanti sono rifiutate, del tuttoaparzialmente. A questa stima giunge uno studio condotto da Cna su un campione di 1.680 piccole imprese. Secondo gli artigiani, la causa della stretta non sarebbe da ricercare in un aumento del rischio d’impresa bensì in un cambiamento delle politiche delle banche. Orientate ad applicare alle richieste delle imprese criteri di accoglimento più rigorosi. «Dobbiamo controllare le regole del sistema bancario per evitare che il processo di protezione della stabilità delle banche— la stabilità è sacrosanta — venga pagato solo da una feroce e inarrestabile stretta al credito verso i piccoli», auspica il segretario generale della Cna Sergio Silvestrini. Il centro studi Cna evidenzia come dal 2011 a oggi il volume dei prestiti bancari al sistema produttivo si sia ridotto di un quarto, con una caduta secca di 250 miliardi di euro (995 miliardi nel dicembre 2011 controi746 del maggio 2019). Più colpite le piccole imprese, quelle con meno di 20 addetti, dove la riduzione è arrivata al 36% (sempre facendo un confronto con il 2011) mentre per le attività oltrei20 addetti il calo si è fermato al 23%. Questa realtà indaga il sondaggio. Le imprese intervistate sono piccole e piccolissime. Un terzo (il 33,7%) impiega fino a tre dipendenti, un altro terzo (31,4%) sono aziende individualieinfine l’ultimo terzo abbondante (34,9%) ha oltre tre addetti. La riduzione del credito ai piccoli potrebbe essere facilmente spiegata in due modi: un peggioramento del merito creditizio delle imprese stesse da una parteeuna riduzione della domanda di credito dall’altra. L’indagine Cna smonta questa lettura. «In realtà 7 imprese interpellate su 10 hanno chiesto negli ultimi due anni l’apertura di una nuova linea di credito. Non si può certo dire, quindi, che manchi la domanda di credito, anzi», dicono all’ufficio studi Cna. Il nodo per gli artigiani è che soltanto il 32% delle nuove richieste è stato accoltoafronte del 38,3% che sono state rifiutate. C’è poi un 30% dirichieste (29,7%) che è stato accolto solo parzialmente. Nei casi in cui il creditoèstato negato, le imprese spiegano che nella maggioranza dei casi (40%) la colpaèdi nuove policy bancarie, mentre per il 36% la causa sarebbe un aumento del rischio associato all’impresa stessa. «Perfare fronteaquesta situazione è necessario potenziare i Confidi — indica una strada Silvestrini —. Eliminarli o ridurli alla marginalità, come qualcuno ha in mente, porterà ineluttabilmente nuovi guai a piccole imprese e artigiani». Rita Querzè

 

7 fmi

Fmi, con Georgieva vince internazionale (foto ANSA) il partito anti-austerity

PER POTERSI SEDERE SULLA POLTRONA LASCIATA DA LAGARDE LA BULGARA DOVRÀ PERÒ OTTENERE IL CONSENSO DI TRUMP

Messaffero p.8

7 due streghe

Economia e politica Incertezze ai vertici e necessità di una svolta nelle politichemonetarie per gli istituti di StatiUniti, Giappone e Inghilterra. E alla Bce è in arrivoChristine Lagarde

LEMAGGIORIBANCHECENTRALI DAVANTIADUESTREGHEGEMELLE

Danilo Taino sul Corriere a pagina 28

Christine Lagarde si sta preparando a prendere il posto di Mario Draghi, il 1° novembre, al vertice della Bce. Sta studiando. È un avvocato, ha esperienza politica, è brillante. Difficilmente, però, in tre mesi diventerà un’economista che comanda i meccanismi complicati della seconda banca centrale al mondo per rilevanza. Negli scorsi otto anni, Draghi ha gestito la banca, le conferenze stampa mensili di politica monetaria e in generale la comunicazione ai mercati con capacità straordinaria anche perché ha una comprensione profonda dei meccanismi che muovono la finanza globale. Lagarde ha guidato il Fondo monetario internazionale, istituzione importante dalla quale però non si influenzano su basi quotidiane le decisioni degli investitori. Un mestiere diverso. Nel frattempo, a Washington succede che il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell — anch’egli avvocato di formazione anche se con un’esperienza nell’investment banking — dà l’impressione di muoversi con incertezza. Lo scorso dicembre alzò i tassi d’interesse dello 0,25% — a 2,25-2,50%—efeceintendere che

lo avrebbe fatto altre due volte quest’anno; pochi giorni fa, a fine luglio, ha rovesciato la posizione e ha tagliato il costo del denaro di un quarto di punto: è la prima volta in dieci anni, alla Casa Bianca c’era ancora George Bush, che la Fed riduceitassi, un’inversione di rotta non da poco. Realizzata, tra l’altro, sotto la pressione di Donald Trump che ha più volte criticato con pesantezza la stretta monetaria che era stata effettuata da Powell: la banca centrale americana ribadisce la sua indipendenza; è però chiaro che, tra le pressioni della Casa Biancaele incertezze proprie sulla direzione da tenere, la Federal Reserve oggi non è una solida àncora di stabilità: problema non da poco per tutto il mondo, dato il ruolo globale del dollaro. A Tokyo, la Banca del Giappone continua la sua politicamonetaria di espansione aggressiva—con i tassi d’interesse negativi allo 0,1% e acquisti di titoli pubblici per 80 mila miliardi di yen (675 miliardi di euro)all’anno—eil governatore Haruhiko Kuroda promette di andare oltre se ce ne sarà bisogno. Il guaio è che l’economia nipponica sta sì un po’ recuperando ma dopo una contrazione nei primi nove mesi dell’anno scorso nonostante gli stimoli monetari durino da anni. E l’inflazione, allo 0,7% e in calo,rimane lontana dall’obiettivo del 2%. Per parte sua, la Banca d’Inghilterra non è solo alle prese con la gestione della sterlina e dell’economia britannica di fronte all’uscita dalla Ue: deve anche affrontare il cambio di guida, perché il governatore Mark Carney se ne andrà a fine gennaio 2020 e il governo di Boris Johnson vorrà probabilmente trovare un successore che sia meno contrario alla Brexit di lui. Succede che tutteequattro le principali banche centrali del mondo, quelle che influenzano le maggiori valute di riserva, vivono un passaggio delicato, quando non delicatissimo. E ciò capita mentre si annuncia un vero e proprio cambio di stagione per quel che riguarda le politiche moneta

rie. La fase seguita alla crisi del 2008 — caratterizzata da tassi d’interesse bassissimi e da acquisti di titoli sui mercati per immettere liquidità nelle economie (il famoso Quantitative Easing) — sembra avere dato tutto ciò che poteva. Non solo perché il costo del denaroèalivelli minimi — Stati Uniti esclusi — per i quali scendere ulteriormente non è facile. Ma anche perché i tassi bassi stanno incidendo sempre più negativamente sui bilanci delle banche e delle assicurazioni e suirendimenti dei fondi pensione. In più, altri acquisti di titoli sui mercati non saranno facili, soprattutto in Europa se la Bce deciderà di riprenderli: per farlo, occorrerà cambiare le limitazioni di acquisto perché in alcuni casi, ad esempio dei Bund tedeschi, non c’è abbondanza dititoli da comprare. In un quadro in cui le opposizioni politiche al Quantitative Easing stanno crescendo. Le maggiori banche centrali sono insomma di fronteadue streghe gemelle: incertezze ai vertici e un cambio di passo necessario nelle politiche monetarie. Proprio in una fase nella quale non si vede chi e cosa sia in grado di prendere la leadership economica al loro posto; anzi, conigoverni più impegnati nelle guerre commerciali che nelle politiche per la crescita. L’avvocato Christine Lagarde dovrà studiare, e farsi aiutare, davvero molto. © RIPROD

5 deutch bank e derivati

Deutsche Bank ridimensiona la mina derivati ROMA — Deutsche Bank affronta il problema dei derivati che pesano sul suo bilancio. La banca tedesca avrebbe acantonato oltre un miliardo di euro per far fronte ad eventuali minusvalenze nel suo piano di ristrutturazione da 7,4 miliardi. Il piano prevede tra l’altro la creazione di una “ bad bank” cui sono destinati complessivamente 244 miliardi di attivi di cui la banca tedesca intende liberarsi. Lo scrive sul suo sito web l’agenzia Reuters citando tre fonti che risultano a conoscenza del delicato dossier. Secondo queste fonti, Deutsche Bank ha intenzione di mettere in campo una vera e propria asta per i suoi derivati nel comparto azionario. L’operazione, a quanto è trapelato, avrebbe riscosso interesse da parte di banche europee e statunitensi. Successivamente, Deutsche Bank punterebbe a vendere i derivati, più a lunga scadenza, sui tassi d’interesse e sul credito, meno attraenti perché richiedono maggior capitale a copertura. I vertici della banca si sono detti fiduciosi sulla valutazione che il mercato farà dell’operazione. L’obiettivo finale è quello di avere la possibilità di ridurre l’esposizione a soli 9 miliardi entro il 2022, un obiettivo che tuttavia molti analisti giudicano particolarmente ambizioso.

Repubblica a pagina 30

8 progetto italia

Buia (Ance): «Il Progetto Italia spazzerà via le piccole imprese» Costruttori contro il progetto Salini-Cdp: «Destabilizza il mercato»

Libero a pagina 21

«La spinta dei cantieri peril Pil, ma in Italia c’è troppa burocrazia»

Michele Pizzarotti: obiettivo 2 miliardi di fatturato nel 2021

Corriere pagina 31

9 cinesi in sicilia

Ora i cinesi fanno rotta sulla Sicilia “In un anno raddoppiamo i turisti” Dopo la visita di Xi Jinping, siglata l’intesa con Ctrip, l’agenzia viaggi online più grande al mondo

Il sottosegretario Geraci: “Ecco i primi frutti dell’intesa siglata con Pechino”

Aperto un dossier infrastrutture. Interesse per porti e aeroporti dell’Isola

XStampa p.15

L a breve visita di fine marzo a Palermo di Xi Jinping, per ricambiare la cortesia istituzionale fatta da Mattarella visitando la sua città natale, in questi mesi ha acceso l’interesse dei cinesi per la Sicilia. Doveva essere una visita privata, per fare del turismo in maniera discreta dopo il summit di Roma, ma in realtà è servita a porre le basi per nuovi business. Tant’è che ora una delegazione cinese torna in Sicilia per siglare un primo accordo. «Si parte col turismo, che da subito si è rivelato il terreno più fertile, come dimostra il considerevole aumento dei voli diretti tra Roma e la Cina che si è avuto subito dopo la firma del memorandum d’intesa passando da 47 a 56 collegamenti la settimana con la prospettiva di arrivare presto a 100», spiega il sottosegretario al Commercio estero Michele Geraci, il “padre” dell’intesa col governo di Pechino sulla via della Seta . Martedì Geraci accompagnerà a Palermo i rappresentanti di Ctrip. Si tratta della più grande agenzia di viaggi online dell’Asia, un vero e proprio gigante del settore, con 40 mila dipendenti sparsi tra Shangai e le altre 13 sedi, un fatturato di 88 miliardi di dollari e 300 milioni di utenti registrati. Martedì la firma a Palermo Nella sede dell’assessorato al Turismo e con la benedizione della Regione, che sarà presente con l’assessore Manlio Messina, il responsabile del marketing di Ctrip Bo Sun firmerà un accordo quadro con Alessandro Albanese, presidente vicario di Sicindustria. Che spiega: «Quello con Ctrip è un accordo strategico per tutto il tessuto economico e produttivo siciliano. Il link tra la Sicilia e un mercato potenziale effettivo come quello del turismo cinese apre le porte a uno sviluppo che sarà prima di tutto a trazione turistica, ma che coinvolgerà a catena tutte le filiere produttive e industriali siciliane». «Sono sempre benvenute tutte le iniziative utili a intensificare i rapporti tra le imprese – aggiunge a sua volta Messina – soprattutto ovviamente in campo turistico, con l’obiettivo di offrire supporto alle imprese regionali nella commercializzazione dei prodotti turistici locali». Obiettivo dichiarato dell’intesa, che andrà poi tradotta in pratica da una serie di accordi più specifici, è quello di raddoppiare nel giro di un anno il numero dei turisti cinesi che visitano l’Isola e che ora intercetta appena il 2% del flusso di turisti cinese. Troppo pochi rispetto al suo potenziale turistico legato a bellezze naturali, storia e cultura millenarie. «L’anno scorso dalla Cina sono arrivati in Italia 3,5 milioni di turisti, con 5 milioni di pernottamenti, e questo ha fatto del nostro Paese la prima destinazione europea per i loro viaggi – spiega Geraci -. Ora vogliamo aumentare il numero dei turisti cinesi in arrivo e la durata dei loro soggiorni facendo conoscere loro altre località oltre alle classiche Roma, Firenze e Venezia». Oltre a promuovere il «prodotto Sicilia» su tutti i social del gruppo, CTrip non esclude la possibilità di suggerire a breve di istituire un nuovo collegamento Pechino-Palermo, visto che «l’apertura di nuovi voli diretti è la priorità dell’Anno Italia-Cina turismo e cultura».I cinesi potrebbero investire in nuove strutture turistiche ma il loro sguardo potrebbe andare anche oltre. Una delegazione tecnica che nei mesi corsi ha preceduto il viaggio di Xi Jinping a Palermo ha raccolto diversi dossier che serviranno a focalizzare meglio gli obiettivi su cui concentrare i possibili investimenti. In cima alla lista ci sono i porti di Palermo e Porto Empedocle, gli aeroporti di Palermo e Catania ed una serie di siti nei quali realizzare resort adeguati agli standard del turismo cinese di fascia alta. Focus sulle infrastrutture I cinesi, che sono alla ricerca di un hub nel cuore del Mediterraneo, guardano con interesse innanzitutto al nuovo terminal crociere del porto di Palermo ed al progetto del nuovo terminal merci. Per superare i nostri tradizionali problemi burocratici stanno concentrando il loro interesse innanzitutto su strutture già esistenti, eventualmente da adeguare realizzando fondali più profondi, in modo da poter ospitare non solo le grandi navi da crociera ma anche le portacontainer. Ed offrire così una alternativa al porto greco del Pireo e da qui alimentare Genova e Trieste che dovrebbero a loro volta diventare i terminali marittimi della futura via della Seta per tutta l’Europa. — cBY NC ND ALCUNI DIRITTI RISER

10 onu sul clima

Svolta dell’Onu sul clima: «Economia verde contro la povertà del pianeta»

Allarme riscaldamento globale

Il segretario generale delle Nazioni Unite, Guterres, chiede ai governi «un impegno concreto contro inquinamento e gas serra». Esperti riuniti a Ginevra in vista del grande vertice di settembre al Palazzo di Vetro

Dall’economia circolare al riciclo, alle nuove fonti rinnovabili: la crisi climatica trasforma il mondo produttivo e della finanza – Il ruolo dei fondi europei Secondo l’ad di Enel Francesco Starace molte aziende italiane sono abili nel fare efficienza energetica. Possono esportare pratiche virtuose all’estero

Gianluca Di Donfrancesco sul Sole a pagina 4

Il check-up del pianeta, nell’anno dei picchi-record di temperatura nel Nord Europa, dell’ascesa dei Verdi in Germania e del fenomeno Greta Thunberg. Più di 100 scienziati di 52 Paesi sono riuniti da ieri a Ginevra, nel quartier generale del Comitato intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), per esaminare il «Rapporto speciale sui cambiamenti climatici e sul suolo». Aumento delle temperature, desertificazione, gestione sostenibile delle risorse, sicurezza alimentare, gas serra: gli esperti dell’ambiente discuteranno fino al 6 agosto le contromisure. L’8 agosto il rapporto sarà presentato al pubblico: ribadirà la necessità di fermare la deforestazione e rendere più sostenibile la produzione alimentare se si vorrà davvero contenere l’innalzamento della temperatura globale sotto 1,5 gradi, come stabilito dall’Accordo di Parigi del 2015. Minaccia per salute ed economia La conferenza in corso di Ginevra è uno dei più importanti passi di avvicinamento al vertice Onu sull’ambiente, in programma il 23 settembre a New York. A questo appuntamento, gli Stati dovranno presentarsi con proposte in linea con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 45% nel prossimo decennio e di azzerarle entro il 2050. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, ogni anno l’inquinamento atmosferico causa 7 milioni di morti premature (600mila bambini). Per la Banca Mondiale, l’inquinamento atmosferico costa all’economia globale circa 5.110 miliardi di dollari ogni anno. Nei 15 Paesi con le più alte emissioni di gas serra, le conseguenze sulla salute sono stimate in oltre il 4% del Pil. Il global warming o climate change, eufemismi per indicare gli incendi in Siberia o la trasformazione del ghiacciaio islandese Okjökull in un vulcano, è per l’Fmi una minaccia per la salute e per la crescita globale, che si scarica in particolare sulle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, vittime di un «Apartheid climatico», come lo ha definito l’Onu: disastri naturali e carestie, prima ancora delle guerre, ogni anno scacciano milioni di persone dalle proprie case e le ammassa alle frontiere sempre più insofferenti del Nord del mondo. L’appello di Guterres Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha messo tra le priorità globali «l’azione sul clima, che deve essere promossa in modo da ridurre la disuguaglianza, passando a un’economia più verde che potrebbe creare 24 milioni di posti di lavoro entro il 2030, salvaguardando gli 1,2 miliardi di posti che dipendono da un ambiente stabile e salubre». Venerdì, Guterres ha rinnovato l’appello ai capi di Stato a impegnarsi per ridurre i gas serra. L’isolamento degli Usa Rispettare l’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, firmato nel 2015, potrebbe salvare oltre un milione di vite all’anno entro il 2050, sostiene l’Onu, che stima in 54.100 miliardi di dollari, solo attraverso la riduzione dell’inquinamento atmosferico, i vantaggi economici. Al G20 di Osaka di fine giugno, tutti i Grandi hanno ribadito «l’irrevocabilità» e la «completa applicazione» degli impegni presi sul clima, con l’eccezione degli Stati Uniti: nel 2017 il presidente Donald Trump aveva annunciato l’uscita dall’accordo, ma a maggio la Camera dei rappresentanti ha votato una legge che chiede alla Casa Bianca di fare marcia indietro. Il Green Deal per l’Europa La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha citato l’ambiente come primo punto del suo discorso di insediamento, confermando l’obiettivo di fare della Ue un continente a «emissioni zero». Nell’Agenda per l’Europa, von der Leyen ha proposto un Green Deal che prevede, tra l’altro, la trasformazione di parte della Banca europea degli investimenti in una Banca europea per il clima, in modo che promuova investimenti nell’ambiente per mille miliardi di euro in 10 anni, coinvolgendo anche i privati; la revisione degli obiettivi di riduzione delle emissioni entro il 2030, portandoli almeno al 50 e possibilmente al 55%, dal 40% attualmente previsto; l’introduzione di un’imposta sul carbonio alle frontiere europee (Carbon Border Tax), per evitare la delocalizzazione dei gas serra. Italia tra virtù e fragilità Come ribadisce un recente rapporto Istat: «I cambiamenti climatici concorrono all’inasprimento di alcune calamità di natura idro-metereologica che accrescono la vulnerabilità del territorio e delle popolazioni e aggravano le criticità legate alla disponibilità di acqua». Sempre secondo l’Istat, il 17% dei consumi è coperto da rinnovabili, al di sopra della media Ue, e nel 2017 l’Italia ha toccato il minimo storico nella produzione di anidride carbonica. Alla conferenza Onu di settembre, l’Italia porterà la sua proposta (già annunciata ad Abu Dhabi) di «transizione energetica»: realizzare infrastrutture energetiche intelligenti e digitalizzate nei Paesi in via di sviluppo. Alla conferenza sulla desertificazione, in programma a New Dehli dal 2 al 13 settembre, Roma presenterà invece un progetto di contrasto alla desertificazione in Burkina Faso, Ghana e Niger. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Groenlandia L’isola siscioglie sempre di più peril caldo record:10miliardi ditonnellate fusi in un solo giorno

Francesco Giambertone sul Corriere a pagina 13

Sul calendario dell’Istituto meteorologico danese c’è una data cerchiata di rosso: mercoledì 31 luglio 2019. Gli scienziati che monitorano i ghiacci dellaGroenlandia non dimenticheranno facilmente questa data: soltanto in quel giorno della settimana scorsa, l’isola tra l’Atlanticoel’Artico ha perso oltre 10 miliardi ditonnellate di ghiaccio, squagliate dall’ondata di caldo nordafricano che ha travolto l’Europa continentale e ora flagella i territori del Nord. Il Continente scotta, la Siberia va a fuocoela Groenlandia si scioglie. Ma non bastano i dati di una stagione a gettare i ricercatori nel panico: il luglio in cui le temperature hanno toccato picchi mai registrati prima in Belgio, Germania, Lussemburgo, Olanda e Gran Bretagna, non è il più caldo di sempre in Groenlandia, nonostantei13 gradi in più della mediadel periodo.Il 2019 insidia il primato del torrido 2012, quando il fenomeno dello scioglimento di almeno un millimetro di superficie (consueto d’estate, soprattutto nelle zone più vicine al mare) arrivòacoinvolgere il 97% dei ghiacci della calotta, trasformati in 290 miliardi di tonnellate d’acqua. Quest’anno siamo già a quota 240 miliardi, e manca ancora tutto agosto: in alcune parti della Groenlandia il ritmo di scioglimento—ha spiegato il climatologo Jason Box—è1,2 volte superiore a sette anni fa; ci si aspetta un innalzamento dei mari di 0,5 millimetri. Certo, le immagini di questi giorni, spettacolari e inquietanti, dei fiumi in piena scroscianti di acqua ghiacciata fino ai fiordi groenlandesi, non lasciano tranquilli (soprattutto i profani): in realtà, una gran parte di quell’acqua il prossimo inverno si ghiaccerà di nuovo, anche se i dati raccolti negli ultimi mesi suscitano un po’ di preoccupazione. «Le previsioni a lungo termine — racconta all’Ap Ruth Mottram, scienziata del clima — dicono che il tempo soleggiatoecaldo andrà avanti, e il ghiaccio continuerà a sciogliersi». Per Mike Sparrow, portavoce dell’agenzia meteorologica dell’Onu, «queste ondate di calore ci sono sempre state, ma ora accadono almeno 10 volte più spesso di un secolo fa». La colpa, ha confermato una ricerca di un team di studiosi europei pubblicata venerdì, è dell’uomo. Che può ancora fare qualcosa, prima che la Groenlandia si sciolga per sempre: il livello dei mari si alzerebbe di 7 metri. E il panico sarebbe giustificato. Francesco Giambertone © RIPRODUZIONE RISERVATA

«Ghiacci addio E conseguenze imprevedibili»

Giovanni Caprara sul Corriere a pagina 13

Dieci miliardi di tonnellate di ghiaccio fuse in un solo giorno in Groenlandia. Che significato ha il drammatico dato diffuso dall’Istituto meteorologico dellaDanimarca? «La situazione in Groenlandia sta peggiorando di anno in anno — risponde Leonardo Langone, direttore dell’Istituto Polare del Cnr a Venezia — ad un ritmo preoccupante perle conseguenze possibili sul nostro pianeta. Dal 1972 al 2018 il bilancio dei 260 ghiacciai distribuiti sulla grande isola rivela che fino al 1980 questi erano in crescita ma da allora hanno incominciatoaperdere ghiaccio in maniera sempre più consistente». Da quando la situazione sta precipitando in modo serio? «Dal 2000 al 2010 le perdite salivano a 187 miliardi di tonnellate ogni anno e nel decennio successivo si è arrivati a 286. I ghiacci più sensibili nelle perdite sono nel settentrione». Con quali conseguenze ? «Un innalzamento delle acque dei mari: in 46 anni il livello è aumentato di 13,7 millimetri. Ciò che preoccupa è l’accelerazione del fenomeno con un trend sempre in crescita. Ma assieme si verifica anche una fusione del ghiaccio marino. Già il 14 luglio siamo arrivati ad una perdita significativa che ha ridotto l’estensione a 7,9 milioni di chilometri quadrati; un valore uguale a quello della stessa data nel 2012 che rimane un terribile anno record. Alla fine della stagione a settembre l’estensione era arrivata a 3,4 milioni di chilometri quadrati. E quest’anno potremmo scendere ancora più in basso. Ciò significa che ci avviciniamo in fretta alla soglia di un milione di chilometri quadrati, un valore sotto il quale i ghiacci del Polo Nord si considerano scomparsi. Con conseguenze imprevedibili». © RIP

Scioglimento record della calotta polare con gli incendi artici In un solo giorno, il 31 luglio, sciolti 10 miliardi di tonnellate d’acqua e il 56% dei ghiacci della Groenlandia si è assottigliato di 1 millimetro

RACHELE GONNELLI sul Mamifesto a pagina 8

Sono i colori che proprio non tornano anche ad un occhio non esperto, quasi come se fosse sbarcato in Groenlandia un artista alla Michel Gueranger che negli anni Settanta pitturava di rosa shocking i ghiacciai del Monte Bianco. Le immagini riprese in questi giorni dal documentarista Caspar Haarløv tra i ghiacci di Kangerlussuaq, oltre il Circolo polare artico, mostrano al posto di paesaggio dominato dal bianco, impetuosi torrenti turchesi e ghiacciai grigi a perdita d’occhio, oppure cascate di acque marroni ancorate a rive di un marrone più cupo, terroso. Il suo video Into the Ice è la documentazione di ciò che sta tragicamente avvenendo nella Groenlandia occidentale: uno scioglimento epocale della banchisa polare con il caldo torrido di questa estate. IL 31 LUGLIO SCORSO – le immagini di Caspar Haarløv sono del giorno successivo – l’Istituto metereologico danese ha registrato un’enorme massa di acqua che si è riversata nell’oceano, pari a 10 miliardi di tonnellate, in un solo giorno. In tutto il mese di luglio, con temperature che in alcuni punti della Groenlandia hanno superato i 22 gradi centigradi, segnando il record del luglio più caldo dal 2012, si sarebbero riversate nell’Atlantico 197 miliardi di tonnellate d’ acqua (60 miliardi sarebbe la normalità stagionale). C’è da dire che proprio il 1° agosto, nel quarantesimo compleanno del primo modello di misurazione meteorologica globale dell’Ecmwf (l’European Centre for Medium-Range Weather Forecasts, ente di ricerca che raggruppa scienziati di 34 Paesi tra cui quelli dell’Istituto danese) è stato lanciato il nuovo modello di misurazioni a medio raggio, cioè stagionali, molto più accurate e integrate e che si avvalgono anche di strumenti di Intelligenza artificiale e algoritmi previsionali. «Abbiamo fatto grossi passi in avanti ma ci sono ancora molti dati da decifrare meglio, in modo integrato», afferma Roberto Buizza, fisico dell’atmosfera e climatologo che dall’Ecmwf di Londra è approdato alla Scuola Normale Superiore Sant’Anna di Pisa e da lì ha recentemente inviato una lettera aperta al presidente della Repubblica Mattarella firmata da oltre 300 scienziati perché anche in Italia si attui una politica seria per contrastare il riscaldamento climatico. «Ciò che è certo – continua Buizza – è che i cambiamenti climatici sono più rapidi nell’Artico rispetto a qualsiasi altra regione sul pianeta Terra e le temperature medie annuali stanno aumentando lì di oltre il doppio rispetto alla media globale. Di conseguenza la copertura del ghiaccio marino sta diminuendo, il ghiaccio si sta assottigliando in modo molto più rapido rispetto a quello che avevamo previsto». CI SONO DIVERSE IPOTESI sul perché di questa inattesa vertiginosa accelerazione che viene definita «amplificazione artica» e che gli scienziati tendono ad attribuire al coefficiente chiamato «effetto albedo», che dipende dalla rifrazione della luce sulla superficie bianca del ghiaccio ma anche dalle nuvole basse che lo sovrastano e sono in grado di aumentare o diminuire,l’irradiazione di onde corte in onde lunghe, più capaci di raffreddare l’aria. Lo sbilanciamento dell’albedo sarebbe dunque un moltiplicatore del riscaldamento dell’Artico, la centrale di regolazione climatica della Terra. TORNANDO AI COLORI stravaganti, il turchese intenso dei fiumi e degli stagni immortalati in Groenlandia sono tipici della fusione fresca di ghiaccio di banchisa. A tingere di nero i ghiacciai perenni potrebbero aver contribuito le ceneri sospese dei grandi incendi che stanno divampando non soltanto in Siberia e Yakuzia, ma anche in Groenlandia, Alaska e Canada: il satellite Sentinel ne ha censiti oltre cento, di vaste proporzioni in tutto il circolo polare artico. Questa fuliggine chiamata black carbon depositandosi sulla banchisa potrebbe interferire sull’albedo. Nell’ultimo bollettino dell’Ecmwf , che si riferisce all’estate dell’anno scorso – il quarto anno più caldo dall’inizio delle misurazioni storiche nel 1880 – è riportata una ricerca che si è avvalsa delle rilevazioni fatte dalla spedizione a bordo del rompighiaccio svedese Oden. Già nell’agosto 2018 a largo delle isole Svalbard l’Oden aveva dato l’allarme sulla quantità di stagni turchesi al posto dei ghiacciai. Ma i colori erano ancora bianco e blu.

Tra i discepoli di Greta

Al raduno tedesco dei ninja del clima Tutti in fila per lavare i piatti “Ma poco sapone”

Il congresso nello storico parco di Dortmund, la vecchia città delle miniere Niente plastica, l’acqua soltanto dalle fontanelle, bandito l’alcol. Ma per nessuno è un sacrificio

Tonia Mastrobuoni su Repubblica a pagina 18 e 19

DORTMUND — Il “chili senza carne” sa di niente e di futuro. E la fila per il pranzo è lunga, si snoda dal tendone bianco al grande prato strapazzato dal caldo. Accanto, c’è un’altra fila, quella per lavare i piatti. Una cinquantina di ragazzi aspettano pazienti il loro turno per infilare le stoviglie sporche nelle vaschette. Puliscono piatti e bicchieri con le stesse tre spugnette, li sciacquano, li mettono ad asciugare. Quando aggiungiamo un po’ di sapone, un ragazzino che avrà sì e no dieci anni ci fulmina con lo sguardo: «Hey, vacci piano», ci rimprovera, un po’ stridulo: «Il sapone è veleno». Vero. E l’ambientalismo una rivoluzione che comincia da te. Ovunque, nel mega campo all’aria aperta organizzato dai “Fridays for future”, valgono le stesse regole: niente plastica, niente che non sia riutilizzabile, bandite sigarette, vietato l’alcol. Per l’acqua, ci sono le fontanelle pubbliche. Ma nessuno sembra considerare questi dettagli un sacrificio. E non solo perché i tedeschi sono noti per la loro frugalità. Leonie Bremer e Anna Kopal sembrano due ninja: maglietta identica con il logo del movimento, benda verde in testa, sguardo deciso. Le due ventunenni vengono da Colonia, dove studiano “Ambiente ed energia”. Leonie annuisce, quando chiediamo com’è cambiata la loro vita da quando hanno aderito alle proteste del venerdì per fermare i cambiamenti climatici. «Non andiamo in macchina, mai, e siamo entrambe vegane. Quando i miei mi hanno detto di raggiungerli quest’estate in Irlanda, ho detto di no. Col treno ci avrei messo troppo, l’aereo non lo prenderò mai più». Per il loro primo, grande congresso in Germania, i discepoli secchioni di Greta Thunberg hanno scelto un parco storico di Dortmund. Nella vecchia città delle acciaierie e delle miniere, il Comune aveva costruito negli anni Settanta un polmone verde per attutire l’effetto del cielo avvelenato. Ora che le acciaierie sono chiuse, questi ragazzi accampati tra gli alberi che si battono per un futuro più verde sembrano una piccola nemesi, per questa regione che una volta era il polmone nero della Germania. Nel parco sono arrivati 1.700 partecipanti, molti dei quali accampati tra gli alberi. Pagano 100 euro per una settimana di seminari e di piazza, di pranzi gratis, di studio e di rivolta. Dietro ai tendoni della mensa, seduti sul prato, gli attivisti si preparano alla grande manifestazione prevista in città per il giorno dopo. Sono

divisi per gruppi, a seconda delle azioni di disturbo – loro li chiamano “tentacoli della ribellione”. Tom Patzelt ha vent’anni e si è costruito un cartello rosso con la scritta “Crime scene”. Non ci vuole rivelare che tipo di azione sta preparando con il suo gruppetto, ma ci anticipa che “prenderemo di mira Deutsche Bank, Commerz e Sparkasse”. Sarà un’azione goliardica, “rigorosamente pacifica” per criticare “le banche che finanziano armi ed energia sporca e fanno politiche troppo poco orientate al futuro”. Ma soprattutto si tratta di convincere i bancari a scioperare con loro: il 20 settembre i Fridays for future tedeschi vogliono organizzare uno sciopero generale, in concomitanza con la discussione governativa sugli obiettivi anti cambiamenti climatici annunciata da Angela Merkel. Lo sciopero generale per motivi politici è vietato, in Germania; dunque si tratta “di convincere i lavoratori tedeschi uno a uno”, sorride Tom, accarezzandosi la barba bionda. I “tentacoli” prenderanno di mira supermercati come Rewe, aziende elettriche come E.On, librerie e catene di abbigliamento. Uno spezzone in particolare si staccherà dal corteo per organizzare un blocco stradale con barricate fiori secchi e terra. Una ragazza puntualizza al megafono che «tranquilli, sarà tutta terra bio e i fiori sono tutti già morti e da buttare», ma la discussione si concentra sulla resistenza o meno alla polizia. L’idea generale è di sciogliersi subito, se gli agenti glielo chiedono. Un partecipante che si presenta come Ingo e ha disciplinatamente alzato la mano prima di parlare, ragiona diversamente: «Secondo me dovremmo resistere; se la polizia ci carica o ci butta i lacrimogeni, l’opinione pubblica simpatizzerà con noi. Non è come quando attaccano quelli di sinistra e i black bloc, di noi sanno benissimo che siamo pacifisti». Che pragmatismo. È una generazione visibilmente abituata a governare con destrezza i social media e a trattare la stampa come un’alleata. Lo dimostra anche il loro ufficio stampa efficientissimo. Uno di loro è Lucas Pohl, ventunenne di Kiehl, maglietta bianca di solidarietà con i profughi. E l’instagram manager del movimento tedesco e ci tiene a spiegare che «Twitter, in Germania, è poco usato; Facebook ormai una roba per i ventenni in su. Ma siccome il movimento è per lo più fatto di studenti che vanno ancora a scuola, i mezzi più adatti in assoluto sono Instagram, Snapchat. E tra di noi comunichiamo via Whatsapp». Tra i capannelli che costruiscono fantocci di cartapesta per la manifestazione si aggira anche Luisa Neubauer, la star del movimento, la Greta tedesca. Non vuole parlare con noi, né con gli altri giornalisti che le gironzolano intorno in attesa di udienza. «Fa meno interviste, è una decisione condivisa un po’ da tutti – ci spiega Pohl – perché siamo un movimento orizzontale e vogliamo rimanerlo». L’unica star ammessa, insomma, è Greta, la studentessa che per mesi ha scioperato da sola, davanti al Parlamento svedese, prima di essere scoperta da una generazione globale in cerca di riscatto. Mentre ci incamminiamo per andare a uno dei numerosissimi seminari su ambiente e politica organizzati dal congresso, qualche maestro del coro improvvisato sta allenando i ragazzi per gli slogan: «What do we want?», cosa vogliamo, grida. E i ragazzi gli rispondono, urlando a squarciagola «climate justice», giustizia per l’ambiente. «When do we want it?», “quando la vogliamo? «Now!”», replicano, la vogliamo adesso. Avviciniamo una ragazza bionda: Christine ha 14 anni, è venuta da Berlino e ci spiega che «quell’“adesso” va preso sul serio: ci restano otto anni per fermare la catastrofe. E non possiamo farlo da soli: i colpevoli siete voi adulti ed è arrivato il momento che che facciate qualcosa».

10 privacy

DOVE FISSARE I LIMITI DELLA SORVEGLIANZA SULLE PERSONE

di Luca De Biase

Colpirne uno per educarne dieci milioni. Non è il piano di un’organizzazione terroristica: si direbbe che sia piuttosto il progetto della polizia di Romford, Londra. Le forze dell’ordine stanno sperimentando una nuova tecnologia che serve a riconoscere i criminali inquadrandoli con una telecamera connessa a un’intelligenza artificiale che opera sul gigantesco insieme di dati costruito nel tempo nella megalopoli britannica, vice campione del mondo, dopo Pechino, nella sorveglianza con telecamere: i criminali eventualmente individuati sarebbero arrestati seduta stante. Un passante rifiuta di collaborare, si copre il viso con la visiera del cappello e tenta di andarsene. Viene fermato. Segue un alterco e una multa. L’uomo non aveva precedenti. Tutto è filmato da giornalisti. La polizia si giustifica: «Il fatto che quel signore si copra il volto per evitare la nostra telecamera è un buon motivo per fermarlo». È l’attacco cruciale di un’inchiesta del Financial Times. Una tecnologia che registra il volto di tutti i cittadini e lo confronta con un database di persone ritenute pericolose genera come unico vero automatismo il sospetto nei confronti di chiunque non si adatti al sistema. Da notare che, come riportato da Forbes, alcuni ricercatori dell’università dell’Essex avevano appena pubblicato un paper che mostrava come la polizia di Londra con i suoi sistemi di sorveglianza veda falsi positivi nell’80% dei casi. Può darsi che la tecnologia migliori: ma è accettabile in una democrazia che la polizia arresti anche una singola persona innocente esclusivamente in base al responso di un sistema automatico? Un fatto è certo. Gli errori, con questi sistemi, sono fisiologici. Si tratta di machine learning che funziona facendo uso di varie tecniche statistiche a base di calcolo delle probabilità per le quali una certa quota di errori è minimizzata ma mai abolita. Inoltre, queste tecnologie si basano su insiemi di dati organizzati da umani secondo logiche varie. Il recentissimo, magnifico libro di Luca Rosati, «Sense-making» (UxUniversity 2019) non si occupa di intelligenza artificiale ma di organizzazione dell’informazione: ed è una guida raffinatissima alle problematiche che si incontrano nella classificazione dei dati. Dimostra che l’interpretazione umana è parte integrante di ogni organizzazione dell’informazione e che non esiste una classificazione oggettiva dell’informazione. Sicché una lettura di questo testo aiuta anche a immaginare quello che non si deve fare con un sistema per il riconoscimento facciale, che evidentemente produce classificazioni macinando dati a loro volta classificati. Con queste macchine non si può decidere automaticamente un arresto. Non si può interpretare una persona che rifiuti questa tecnologia come un potenziale criminale. E non si può registrare impunemente qualunque cosa faccia qualunque cittadino in attesa che i dati archiviati possano servire. Il caso Ed Bridges è destinato a lasciare il segno: il cittadino gallese combatte in tribunale contro la polizia che gli ha registrato il volto durante una manifestazione di protesta contro le armi. Sostiene che se la polizia potesse sorvegliare sistematicamente tutti, le persone non potrebbero più sentirsi libere di manifestare. Alcuni diritti umani fondamentali sono in gioco. Il progresso non si ferma. Ma l’umanità può decidere che cosa sia, il progresso. © RIPRODUZIONE RISERVATA

POLITICA

1 decreto sicurezza

Dl sicurezza e Tav, in tre giorni il governo si gioca tutto

Manifesto a pagina 4

Sicurezza bis, servirà l’aiutino di Fdi e Forza Italia Una decina di grillini potrebbero non partecipare al voto domani a Palazzo Madama. A votare no Pd, Leu e dei senatori a vita. Mantero (M5S): “Contesto la natura del decreto, e se c’è la fiducia uscirò dall’Aula”

Da autonomisti e gruppo misto in arrivo altri sì al provvedimento

Repubblica pagina 6

Toti “La legge è giusta Dopo la manovra al voto col nuovo centrodestra”

No alla fiducia, ma ci asterremo. Il mio movimento si chiamerà “Cambiamo!”. Io e Salvini su due spiagge diverse ma parallele

Repubblica pagina 6

L’intervista a Toti

GENOVA «Non ci opponiamo ai provvedimenti giusti, come il decreto sicurezza. Ma se viene posta la fiducia, allora ci asterremo. Forse lasceremo l’aula. Ma non voteremo contro». Giovanni Toti parla all’ombra della sua casa a Bocca di Magra, ai suoi piedi ci sono i quotidiani, sopra i quotidiani c’è il gatto Spread, arancione, come il movimento che ha appena fondato, “Cambiamo!”. In tre giorni, il governatore della Liguria è passato da coordinatore azzurro e consigliere politico di Berlusconi a fuoriuscito di Forza Italia e fondatore di un nuovo soggetto politico di centrodestra. Toti, come voteranno in Senato, i suoi, il decreto sicurezza? «Sceglieremo l’astensione o il non voto, se sarà posta la fiducia. È difficile votare la fiducia a questo governo, ma è altrettanto difficile vedere la bava alla bocca di Forza Italia che bada più a fare un dispetto a Salvini, che il bene del Paese. Il decreto è un provvedimento utile». Se c’è un uomo in mare, è utile che diventi un reato salvarlo? «Va salvato, ma una cosa è salvare un uomo, un’altra è portarli tutti in Italia. Se trovi naufrago, e non lo salvi, non sei un essere umano, ma trasportare signori, da una spiaggia all’altra, è diverso». Quanti saranno i “suoi” parlamentari? «Non cerco né un deputato né un senatore. Chi ritiene che ci sia bisogno di cambiare è il benvenuto, chi vuole restare nella palude, ci stia. Partiamo dall’opposto. Diamo voce ad amministratori, sindaci, consiglieri, alle persone che sono state soffocate e compresse dall’apparato nazionale, finora. Mi interessano le molte migliaia di nuovi follower sui miei social, le migliaia di messaggi che sto ricevendo. E mi fa pensare che, per la prima volta, Berlusconi stia ricevendo critiche pesanti, come non era mai successo». Staccherebbe la spina a questo governo? «È un governo di compromesso, logorato da un anno di attività. Dico alle forze politiche di farsi un esame di coscienza, se sono utili al Paese vadano avanti. In franchezza, una riflessione la farei, dopo un anno mezzo così. Di questo governo va superata la divisione del Paese tra buoni e cattivi, tra Nord e Sud, tra banchieri truffaldini contro i risparmiatori truffati, tra grandi opere contro piccole: la visione manichea dei grillini. Il mio auspicio è che approvino la legge di Stabilità e poi si vada alle urne». Ha scelto il nome per il suo movimento? «Sarà “Cambiamo!”. Si declina bene con tutto quello che vogliamo fare: cambiare il centrodestra, l’Italia, le regole della politica, della partecipazione. È al plurale, perché nessuno viene prima, tutti collaborano. Il 2 settembre, da Matera, partirà il tour in 13 regioni. Poi faremo le primarie. I nostri alleati saranno la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia della Meloni. Sono i miei alleati di governo in Liguria. La divisione non è più tra destra e sinistra, ma tra chi difende i propri interessi nazionali e chi ha una visione più lassista. Io credo che si possa fare un riformismo liberale popolare di massa che difende gli interessi nazionali». Swg la stima tra il 4 e il 7%. «Si tratta di un sondaggio del 24 luglio, ben prima che “Cambiamo!” nascesse. Riteniamo, dai diversi e continui riscontri, di essere cresciuti rispetto a quella soglia minima». Le ha telefonato Matteo Salvini, dopo lo strappo con Berlusconi? «Salvini mi pare molto impegnato nella gazzarra con i 5 stelle. È a Milano Marittima, io in Liguria. Diciamo che siamo su due spiagge diverse. Ma parallele». Lei è anche giornalista: che ne pensa della moto d’acqua di Salvini? «Una debolezza da papà, non sono scandalizzato. Io non sarei salito sulla moto, ma io non faccio neanche gli sport più sedentari. Chi vuole criticare Salvini, però, credo possa trovare altri argomenti. Certo Matteo farebbe bene a non maltrattare i giornalisti. Per citare un Cavaliere d’antan, gli direi: si contenga». Ha più sentito Berlusconi? E Carfagna? «Non ci siamo più parlati, con Silvio. Lui si vede in Forza Italia come l’alfa e l’omega, io volevo costruire una piattaforma per il futuro. Con Mara ci sentiamo, ha fatto una scelta molto coraggiosa e anche lei condivide la necessità di un cambiamento. La considero un interlocutore». Ha già scelto il suo delfino? «Nessun delfino, in “Cambiamo!” siamo salmoni, siamo pesci di branco. E talvolta andiamo controcorrente».

Decreto sicurezza, governo alla conta sulla fiducia in Aula Di Maio: “Passerà” Almeno 10 senatori grillini contrari alle norme leghiste Salvini riconvoca i sindacati per spiegare la flat tax

Stampa p.4

Non mancheranno però le sceneggiate agostane. Se i sì saranno molto meno della maggioranza, che oggi sulla carta sono 167, inclusi due senatori del gruppo misto, allora l’opposizione potrà gridare che il governo guidato da Giuseppe Conte non ha più i numeri per andare avanti. Lo stesso Matteo Salvini avrà modo di fare un po’ la faccia cattiva, evidenziare che Luigi Di Maio non è in grado di tenere saldo il suo gruppo parlamentare mentre il suo è granito.

Chi sa fare i conti spiega che non ci sarà alcun rischio che la fiducia al Senato sul decreto sicurezza bis non passi. Fonti della Lega che seguono la vicenda a Palazzo Madama sostengono che non sarà necessaria la maggioranza assoluta di 161 voti: basta invece un voto in più di chi voterà contro, cioè una maggioranza semplice. Certo, può succedere di tutto, che i grillini che votino contro siano più del previsto, che i senatori di Fratelli d’Italia e Forza Italia siano tutti presenti alla votazione alzando il quorum, cosa improbabile. Ma Luigi Di Maio ha dato ampie garanzie a Matteo Salvini che non ci saranno problemi e il ministro dell’Interno non ha motivo di essere troppo preoccupato. «Anche perché – avvertono i leghisti – se dovesse succedere che il provvedimento non passa, la maggior parte dei 5 Stelle, con nuove elezioni, non torneranno più in Parlamento e non verrebbero eletti nemmeno nei loro consigli comunali». Sicuramente mancheranno all’appello una decina di grillini. Tra questi Elena Fattori, Matteo Montero, Virginia La Mura, Lello Ciampolillo. Forse anche il voto di Alberto Airola, arrabbiato per il sì alla Tav da parte del premier Conte, verrà meno. Alcuni non si presenteranno in aula e non si faranno vedere nemmeno a Palazzo Madama. Non mancheranno però le sceneggiate agostane. Se i sì saranno molto meno della maggioranza, che oggi sulla carta sono 167, inclusi due senatori del gruppo misto, allora l’opposizione potrà gridare che il governo guidato da Giuseppe Conte non ha più i numeri per andare avanti. Lo stesso Matteo Salvini avrà modo di fare un po’ la faccia cattiva, evidenziare che Luigi Di Maio non è in grado di tenere saldo il suo gruppo parlamentare mentre il suo è granito. Ma soprattutto potrebbe essere l’occasione per il leader della Lega di ricordare ai naviganti 5 Stelle che a settembre si farà sul serio: si comincerà mettere mano alla flat tax. «Dovranno mettersi il cuore in pace – precisano nel Carroccio – perché i soldi dovranno essere trovati. E non sarà la presenza di un commissario europeo indicato dalla Lega a impedirlo». Martedì Salvini ha convocato di nuovo le parti sociali (assente la Cgil) e sarà l’occasione per ritornare sulla manovra economica e sostenere che al momento opportuno sul tavolo del governo verranno calate le carte della tassa piatta, anche sulle coperture. Di Maio dice che per il momento è una sorta di oggetto misterioso, innanzitutto per quanto riguarda la parte sulle coperture. Ma l’alleato ostenta sicurezza: ci vorranno circa 12 miliardi e verrà spiegato al ministro dell’Economia Giovanni Tria come e dove. C’è nel Carroccio una sicurezza ostentata, a dispetto dei numeri e in contrasto con le altre richieste avanzate dai 5 Stelle che chiedono il taglio del cuneo fiscale. Oltre alla necessità di trovare 23 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva. Ma Salvini per il momento non se ne cura e si gode le ultime ore di vacanza a Milano marittima dove ieri è tornato in consolle al Papeete beach, a torso nudo, in costume da bagno e infradito. La cosa paradossale sarebbe, tra l’altro, se alla fine sarà veramente il viceministro leghista Massimo Garavaglia ad andare a rappresentare l’Italia nella Commissione Ue, lo stesso leghista che insieme ad Armando Siri ha in mano il dossier flat tax. Forse a Bruxelles, sempre che ci vada, Garavaglia avrà modo di spiegarla direttamente al suo futuro collega che avrà il portafoglio dell’Economia.

Tav e sicurezza, falsa tensione Al Senato passerà tutto liscio Frondisti 5s fuori dall’Aula: così scende il quorum per la fiducia. E sull’Alta velocità Di Maio cerca solo visibilità

Giornale p.3

Nonostante i media alimentino la tensione annunciando un giorno sì e l’altro pure una imminente crisi di governo. Che non ci sarà neppure stavolta

Nell’ultima settimana prima delle vacanze (per chi ancora ci deve andare e non è già da tempo in panciolle sotto l’ombrellone, tra Costa Smeralda e Milano Marittima), la schizofrenica maggioranza grillo-leghista si esibirà nell’ennesima serie di salti (poco) mortali. Tavoli contrapposti con le parti sociali (uno a Palazzo Chigi, l’altro al Viminale) sulla manovra d’autunno, mozioni Tav e No Tav, fiducia sul decreto Sicurezza bis: una raffica di appuntamenti parlamentari cui i partiti azionisti del governo Conte si presentano talmente divisi, confusi e su posizioni diametralmente opposte che in qualsiasi paese normale sarebbero ineluttabilmente destinati a separarsi. Non in Italia, però, nonostante i media alimentino la tensione annunciando un giorno sì e l’altro pure una imminente crisi di governo. Che non ci sarà neppure stavolta, anche perché grillini e leghisti non vedono l’ora di andarsi a godere le meritate vacanze. Domani si inizia con il voto del secondo decreto-bandiera sulla Sicurezza, voluto da Salvini. Nel partito dei Cinque Stelle si è manifestata una fronda numericamente significativa: in diciassette non hanno votato la fiducia alla Camera, e il presidente Roberto Fico, impavido custode dell’anima sinistra dei Cinque Stelle, è rumorosamente uscito dall’aula (commessi in guanti bianchi al seguito) per segnalare il proprio turbamento. Ovviamente a costo zero: visti i numeri della maggioranza alla Camera, i diciassette eroici dissidenti più Fico erano matematicamente certi che la fiducia sarebbe passata, che il governo sarebbe sopravvissuto e con lui il loro scranno. Al Senato, notoriamente, il margine della maggioranza è più esiguo. Ma le probabilità di un «incidente» con relativa crisi sono le stesse: i cosiddetti «dissidenti» grillini, calcolati in cinque o sei, hanno già studiato il modo migliore per fare il loro show, ma senza correre il minimo rischio di restare tragicamente disoccupati. «Ci limiteremo a non partecipare al voto, a non entrare in Aula», confida il prode Matteo Mantero, fiero oppositore dell’alleanza con i leghisti. Oppositore sì, ma a patto che l’alleanza non salti. «Ma veramente pensavate che qualcuno di noi potesse votare un provvedimento su cui il governo pone la fiducia, col rischio di mandare sotto la maggioranza?», chiede candida Elisa Pirro, atterrita dall’idea di dover tornare a fare la No Tav in Val Susa. La fiducia non richiede alcun quorum, dunque l’uscita dall’aula di qualche grillino cambierà poco o niente. E peraltro tra Svp, Fratelli d’Italia, gruppo Misto ci sono senatori dispostissimi ad assentarsi nell’improbabile caso di rischio per la maggioranza. Dunque il decreto Sicurezza passerà. Martedì e mercoledì, poi, ci sarà l’altro show sulla Tav. Necessario ai grillini per gettare un po’ di fumo negli occhi ai propri elettori, quando è diventato evidente che le contorsioni per prendere tempo e non ufficializzare il via libera del governo all’opera non erano più ammissibili. Si tratta solo di mozioni parlamentari, che quindi non comportano rischi per il governo. Lega e Cinque Stelle si divideranno platealmente in aula, con i primi che voteranno contro il testo No Tav dei secondi e che probabilmente voteranno a favore di quelle pro-Tav delle opposizioni. I grillini faranno una gran sceneggiata per ricordare che a loro la Tav fa orrore ma che sono costretti a rassegnarsi, Toninelli incluso, e poi chiusa la pratica, tutti al mare.

Salvini avverte ancora il M5S: dateci una mano o faremo da soli «Zingaraccia?Ribadisco».Il comizio a Cerviamentre nel partito sale la spinta perle elezioni

Corriere a pagina 7

Senatori, fermate il Decreto sicurezza

Luigi Ciotti su Repubblica a pagina 35

C aro direttore, è una normativa perfino peggiore della precedente, questo “decreto sicurezza bis” in procinto di passare al vaglio del Senato. Finalità e scopi restano però gli stessi: restringere sempre più l’area dei diritti e dunque della civiltà. Il metodo è ormai evidente: estendere il già enorme potere del ministero dell’Interno in materia d’immigrazione, estensione che non si può più definire solo interferenza, evidenziandosi ormai come vera e propria invasione di campo, appropriazione indebita di ruoli e competenze altrui. Ennesimo segno di un’ambizione sfrenata e totalitaria, indifferente alla divisione dei poteri su cui si basa una vera democrazia. Tutto ciò, inoltre, nel più totale disprezzo di trattati internazionali che hanno ratificato per il nostro Paese l’obbligo di prestare soccorso a naufraghi e persone in difficoltà. Figli, quei trattati, di capisaldi della civiltà occidentale, carte che hanno inaugurato la stagione della pace, della democrazia e dei diritti come la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e l’articolo 10 della nostra Costituzione sul diritto di asilo da garantire allo straniero. Carte in cui ho ritrovato l’anima e lo spirito del Vangelo, la sua etica esigente e intransigente: accogliere gli oppressi e i discriminati, denunciare le ingiustizie, costruire una società più umana già a partire da questo mondo. Nessuno nega la difficoltà e la necessità di governare il fenomeno migratorio in tutti i suoi risvolti e implicazioni, ma il governo deve essere ispirato dall’intelligenza, dalla lungimiranza, dalla conoscenza della Storia e dal rispetto di quei principi che ci rendono degni della qualifica di “esseri umani”. Ebbene, questo non è governo, è gestione cinica del potere tramite mezzi di cui la storia del ’900 ci ha fatto conoscere gli esiti tragici: la propaganda ossessiva, la sistematica manipolazione della realtà, la rappresentazione della vittima e del debole come nemico, invasore, capro espiatorio. Mi auguro che i senatori sentano la responsabilità non solo politica ma anche etica di questo voto. Bocciare questo decreto significa riaprire nel nostro Paese un varco alla speranza, ricongiungere la nostra Italia alla parte migliore della sua Storia: quella costruita da tante persone oneste, ospitali e solidali, ribelli alle parole e agli atti dei demagoghi e dei prepotenti. Luigi Ciotti è il fondatore e presidente dell’associazione Libera, impegnata nella lotta contro la criminalità organizzata

1 ribelli cinque stelle

I senatoriribelli dei 5 Stelle: potremmo dire no alla fiducia Tormenti peril voto sulla sicurezza. Fattori ha già deciso, gli altri ciriflettono

Corriere a pagina 8

Ira di Di Battista contro la Lega Ma poi «salva» l’esecutivo: non si può andare ora alle urne «Nonostante i tradimenti, il prezzo sarebbe troppo alto»

Corriere pagina 8

2 commissario

Impasse italiana sul commissario Ue Lo sconcerto di von der Leyen La Lega non si fida: bocceranno il nome

Marco Cremonesi e Monica Gurzoni sul Corriere a pagina 6

La colazione di lavoro con la presidente della Commissione europea ha lasciatoaGiuseppe Conte l’impressione che, al primo faccia a faccia, sia scattata la scintilla di un «ottimo feeling personale». Ma la soddisfazione di Palazzo Chigi per un incontro definito «molto positivo», poco si intona con la delusione che Ursula von der Leyen ha messo in valigia prima di fare rientro a Bruxelles. Al vertice della presidenza Ue c’è preoccupazione e sconcerto per l’impasse dell’Italia sulla scelta del commissario, che spetta al nostro Paese nel nuovo esecutivo comunitario. La ex ministra tedesca sperava in un nome secco, mentre il professore pugliese, in imbarazzo e con le mani legate, si è limitato a tratteggiare il profilo di «una figura autorevole e fortemente politica». Un po’ poco, per la numero uno dell’Unione Europea, che ha fretta di comporre il delicatissimo puzzle del governo e che ha tutto l’interesse di trovare una solida intesa con un grande Paese fondatore. Se Conte si è preso due settimane ditempo, è perché l’accordoèlontano. Matteo Salvini, che a suon di voti si è conquistatoil diritto di indicare il candidato, non ha deciso quale strategia adottare e procede su un doppio binario. Da una parte cerca la personalità giusta per «pesare» in Europa, dall’altra medita di sfidareivertici Ue con proposte irricevibili. Un atteggiamento che impedisceaConte di corrispondere, come vorrebbe, alle aspettative di von der Leyden. Per scongiurare un clamoroso flop, che relegherebbe l’Italia in un ruolo di secondo piano per cinque anni, il premier haprovatoamettere Salvini alle corde. Gli ha fatto sapere che sarebbe stato «molto felice» di indicare un leghista del calibro di Giancarlo Giorgetti. E quando il sottosegretario, fiutata l’ariaccia che tira a Bruxelles verso il Carroccio, si è tirato fuori dal sudoku, Conte ha intensificato il pressing sul vicepremier. «Se perdiamo altro tempo e non indichiamo un nome forte—lo ha ammonito il capo del governo — rischiamodiperdereil commissario alla Concorrenza». Il fattoèche Salvini proprio non condivide l’ottimismo di Conteeha interesse a portare avanti il gioco del cerino con Palazzo Chigi. Se il premier mostra di credereavon der Leyen, cheha promesso all’Italia un importante portafoglio economicoegarantito che non farà «sgambetti», il segretario della Lega non si fida. Il ministro Lorenzo Fontana si è convinto che «al massimo Roma potrà ottenere l’Industria». E il leader si mostra altrettanto scettico: «A Bruxelles parlano di cordone sanitario contro di noi, figuriamoci se ci danno la Concorrenza!». Questo ostentato pessimismo sembra preludere alla «mossa del kamikaze», che i leghisti spiegano con nome e cognome: «Proponiamo Centinaio e ce lo facciamo bocciare». A microfoni e telecamere accesi, Salvini spiega che non svelerà la scelta definitiva finché non saprà quale commissario verrà individuato per l’Italia. Ma la prassi consolidata vuole che le competenze dell’esecutivo europeo siano disegnate attorno a chi dovrà ricoprire il ruolo. Per dirla con un parlamentare del M5S, «Salvini gioca all’uovo e alla gallina». Il segretario leghista scalpita e pregusta la sfida. Ma poiché non si è ancora convinto che il «tanto peggio, tanto meglio» sia la giusta strategia, aggiunge petali alla «rosa» che, obtorto collo, ha suggerito a Conte. OltreaGaravaglia, Bongiorno e Lorenzo Fontana, gira il curriculum di Silvia Covolo, componente della commissione Finanze della Camera. Intanto l’Europa aspetta. E spera nel ripescaggio di un leghista di rango come Giorgetti, o di una figura più neutrale come Enzo Moavero Milanesi, rilanciato dal quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung. © RIPRODUZIONE RISERVA

La nuova presidente ha rassicurato Conte sul ruolo di peso dell’Italia nella Commissione Ma al vicepremier leghista interessa continuare a sfidare Bruxelles: in pole torna Centinaio “Niente sgambetti a Roma” L’impegno di Von der Leyen

Il piano di via Bellerio per ottener e il portafoglio all’Agricoltura

La strategia di Conte per integrare l’Italia e anche i leghisti nella governance Ue

Stampa p.5

LORENZO FONTANA Il nuovo ministro degli Affari europei: “Noi per il dialogo, ma l’Ue lo vuole? E sulla partita delle nomine: “Preferirei avessimo la Concorrenza per tassare i colossi del Web” “Non devono isolare il Carroccio Se non cambia, l’Europa morirà”

Bene l’apertura sui migranti: ma gli altri Paesi accolgano pure quelli economici

Conte tratta a nome dell’Italia però deve farlo tenendo conto del ruolo dei leghisti

Stampa p.5

Ue, Conte insiste sulla Concorrenza: ipotesi Garavaglia Gian Marco Centinaio Ursula von der Leyen a palazzo Chigi (foto MISTRULLI) `Pressing del premier perché Salvini dia un nome “alto” per la Commissione

La Lega però fa girare quello di Centinaio in chiave anti-Bruxelles

Messaggero p.8

Commissione Ue l’Italia acceleri per evitare i saldi di fine stagione

Romano Prodi sul Mressaggero in prima

 

Speravo proprio che il lungo e cordiale colloquio fra Conte e Ursula von der Leyen, dopo aver toccato i temi più generali riguardanti i futuri rapporti fra l’Italia e l’Unione Europea, avrebbe affrontato in modo concreto la proposta di nomina del Commissario italiano. Lo speravo prima di tutto perché la mia passata esperienza mi ha reso evidente che, nel processo di nomina dei commissari europei, chi tardi arriva male alloggia. Quando le caselle sono infatti prenotate, anche solo da accordi informali, diventa molto difficile inserirsi in un quadro nel quale il complesso intreccio degli interessi nazionali ha già trovato concrete ipotesi di intesa. Lo speravo anche perché pensavo che si sarebbe dovuto arrivare alla concordata proposta di un nome e di un ruolo che avrebbero più facilmente potuto ottenere la necessaria approvazione del Parlamento Europeo. Obiettivo non semplice dopo la decisione italiana che la designazione del candidato spetti alla Lega, cioè ad un partito sovranista che si oppone alla maggioranza in carica e che ha addirittura votato contro la candidatura della stessa von der Leyen. Sembra che sia invece arrivata a Conte una serie di nomi numerosa e non specificamente finalizzata al ruolo a cui l’Italia sembra ambire. L’unico obiettivo che si sente ripetere è quello di aspirare ad un importante dicastero economico.

Data l’improponibilità di ottenere il portafoglio degli Affari Economici e Monetari, che avrebbe il compito di giudicare sulla sostenibilità del nostro debito, l’attenzione sembra concentrarsi verso il commissariato alla Concorrenza. La sua competenza consiste soprattutto nel controllare i cartelli, gli abusi di posizioni dominanti, le combinazioni antitrust e gli aiuti di Stato. Riguarda cioè soprattutto i comportamenti collusivi tra le grandi imprese, riguardo ai quali l’interesse italiano, dato che non abbiamo più grandi imprese, è oggi divenuto purtroppo marginale. Fa solo eccezione il caso degli aiutidi Stato,che tocca direttamente l’Alitaliamachemi sembraun capitolo giàchiuso. Resta inoltre da sottolineareche il portafogliodellaConcorrenza è divenuto progressivamentemenopolitico e più tecnocratico.Esso è inquadrato da regole semprepiù strette, tanto che è stato addirittura propostodicancellarlo, per affidarne i compiti adun’autorità indipendente. InoltreMarghrete Vestager,candidata incarica,ha forti probabilitàdi essereconfermata, pur essendo statacontestatada Francia eGermania per essersiopposta alla fusione delsettore ferroviariodi Siemens eAlsthom.Tuttociò rende estremamente difficile la vittoria diuna battaglia fondamentalmente inutile. Se siha come guida ilperseguimento degli interessi italiani (che purenon dovrebbe essere prioritarionell’ambito europeomache è così preminenteper laLega)mi sembra più appropriatoriservare un’attenzione particolare ad altri settoricome l’agricoltura e l’industria. Sull’industrianon ènecessario spendere molteparole perché, pur avendo perduta la nostrapresenzanelsettore delle grandi aziende,siamo pure il secondoPaese manifatturierodiun’Europachehabisogno di lanciareuna nuova imprenditorialità e rafforzare lacrescita e l’internazionalizzazione dellepiccole emedie imprese. Si tratta diun portafogliochenonha ancora ledimensioni e il ruoloche dovrebbe ricopriremache sta attirandouna forte attenzione da parte diun crescentenumero diPaesi. Gigantesco è invece ilbilancio dell’Agricoltura,che da un lato deve ancora gestire la difesa diun settore sempre più aperto allaconcorrenza internazionalemache, proprio inconseguenza di questo,ha l’obbligo dirafforzare sempre di più le specializzazioni europee,nelle quali l’Italia è tra i leader indiscussi.Alla difesa della qualità e dei prodotti tipici si aggiunge inoltre l’obbligo di rafforzare la presenzanell’organizzazionedei mercati e degli aiuti diretti agli agricoltori: un portafogliopiùcorposo e importante di quanto lacomune opinionenon pensi. Non voglio a questopunto fornire la lista esaurientedi quali siano gli interessi italianinel campodelcommercio, dell’energia odella digitalizzazione, anche perché dipendono dalla capacitàdel futuroCommissariodi rafforzarne l’importanzaconconcrete strategie,nutrite da adeguati aumenti delbilancio deldicastero.E, datoche il nostro governoha sempre insistito suun dicastero economico, trascuro del tuttodi sottolinearequanto sarebbe positivo avere competenza sui grandi problemidelle migrazioni.Mi limito, alla fine diquesta troppo rapida analisi, a ricordare quanto potrebbe essere economicamente epoliticamente rilevante assumere la responsabilitàdello Sviluppo e dellaCooperazione economica. Questoportafoglio (anche per l’impulso del direttore italiano StefanoManservisi) sta raggiungendo ilbilanciodi 10miliardi all’anno ecostituisceun pontecon l’Africa e il Mediterraneodi importanzaunica e,non ultimo,unaconcreta possibilitàdi presenza dellenostre imprese. Di fronte a questo quadrocosìcomplesso non abbiamo finora avutonessuna discussione nell’ambitodel governo e, ovviamente,nessun dibattitoparlamentare.Diconseguenza il PresidentedelConsiglio si è dovuto limitare a ricevere indefinite istruzionibalnearida parte dellaLega enonha potutochiudere alcun discorsocon laPresidentedellaCommissione. Nel frattempo tutti imigliori alloggi stanno per essereoccupati.

Quando in Europa contavamo

Mario Monti su Repubblica a pagina 34

C aro direttore, su Repubblica di ieri Stefano Folli opportunamente ricorda un caso in cui “i commissari italiani nell’Unione europea furono scelti in un quadro almeno parzialmente condiviso con l’opposizione”. Era il 1994, primo governo Berlusconi, formazione della Commissione presieduta da Jacques Santer. Allora, ognuno degli Stati membri maggiori aveva diritto a designare due commissari. Il presidente del Consiglio Berlusconi designò per tempo il sottoscritto e, dopo aver esitato a lungo tra Giorgio Napolitano ed Emma Bonino, proprio allo scadere del termine optò per la seconda. Nella linea di argomentazione di Stefano Folli, vorrei aggiungere che per la verità quella del 1994 non fu l’ultima volta in cui si ebbe una condivisione tra governo e opposizione. Nel 1999 il Consiglio europeo nominò Romano Prodi presidente della Commissione. Presidente del Consiglio italiano era Massimo D’Alema. Il Trattato era stato nel frattempo modificato. Pur mantenendo temporaneamente i due commissari per i maggiori Stati (oggi, come è noto, vi è un commissario per Stato, grande o piccolo che sia), si introduceva la regola, in vigore anche oggi, che la scelta di ogni commissario sia fatta di comune accordo tra il presidente designato della Commissione e il governo del relativo Stato membro. Un posto dei due riservati all’Italia veniva naturalmente attribuito a Prodi. Per l’altro, entrambi gli italiani uscenti dalla Commissione Santer, Bonino e il sottoscritto, erano disponibili e interessati alla conferma. Alla fine, D’Alema e Prodi decisero di designare il sottoscritto. In seguito il presidente della Commissione Prodi, nella sua autonomia e – immagino – tenuto anche conto dell’esperienza fatta per cinque anni come commissario al mercato unico, servizi finanziari e fiscalità, con grande atto di fiducia mi nominò alla Concorrenza. Rispetto al punto sollevato da Stefano Folli, la condivisione governo-opposizione sulla nomina a commissario, io ne beneficiai due volte. Prima nel 1994, quando venni nominato da Berlusconi ma anche l’opposizione di centro-sinistra manifestò apprezzamento per la nomina. E poi nel 1999, quando fui nominato da D’Alema e Prodi ma con analogo apprezzamento espresso dall’opposizione di centro-destra. Per la credibilità del mio lavoro nel “governo” dell’Europa, tanto più in anni di bipolarismo assai conflittuale in Italia, quelle designazioni sostanzialmente bipartisan rappresentavano un punto di forza per la mia legittimazione e per il modo in cui venivo percepito in Europa e ancor più in America. Quando si è trattato di porre fine alle garanzie statali alle banche tedesche, di eliminare i privilegi di Électricité de France distorsivi della concorrenza o di vietare la fusione tra due multinazionali americane già autorizzata a Washington, le parti “lese” potevano certo criticare le mie decisioni, ma non si sono mai permesse di dire, o di far scrivere, che esse erano prese in modo incompetente da “un uomo di Berlusconi” o da “un uomo vicino al former Communist Party”, come spesso dicono negli Stati Uniti un po’ sbrigativamente. Certo, in quegli anni la battaglia politica in Italia era senza quartiere. Ma Berlusconi, Prodi, D’Alema vedevano un interesse nazionale nell’affermare l’Italia a livello europeo. Se invece un leader politico considera l’insulto all’Europa come facile strumento di consenso, auspica in cuor suo sconfitte del proprio Paese in Europa come prezioso combustibile di rivolte da cavalcare, provoca così al Paese una sconfitta dopo l’altra e un gelido isolamento, quel leader vedrà anche nella nomina del commissario un’occasione per perseguire il suo inqualificabile disegno.

10 salvini e di maio siamo stufi

CRISI PERMANENTE Salvini e Di Maio: siamo stufi MA NOI PIU DI LORO I due litigano sempre e gli italiani sono senza governo

Giornale in prima

Salvini e Di Maio sono una coppia in crisi che nessuna terapia matrimoniale può curare.

Non sono Sandra e Raimondo, sono gli azionisti di maggioranza del governo. Si punzecchiano, s’insultano, ma poi – attratti dal magnetismo che le poltrone esercitano sulle loro terga – si ritrovano a Palazzo. A stilare riforme abborracciate e leggi zoppe, che non soddisfano né gli uni né gli altri. Perché l’armonia iniziale è finita, la fiducia è scomparsa, i pesi reciproci sono cambiati e la coppia non sta più insieme neppure con la colla. Loro sono stufi e noi siamo arcistufi. Ma li prendiamo comunque in parola e chiediamo aiuto al dizionario. Stufo, secondo la Treccani, significa: «Stanco, annoiato, senza più voglia di continuare o forza di resistere». A volte un buon vocabolario dirime più problemi che un trattato di scienza politica. Ne prendano atto, basta accanimento terapeutico, smettano di resistere e riportino il Paese alle elezioni. Perché quelli veramente stufi sono gli italiani.

Stufi. Sono stufi. Di Maio e Salvini, ieri, in due interviste rispettivamente al Corriere e alla Stampa, hanno usato lo stesso termine. «Sono stufo di litigare», ha confessato, esausto, il vicepremier grillino al cronista. Ma, nel frattempo, anche il suo omologo leghista dava sfogo alla sua frustrazione: «Beghe, polemiche e attacchi da parte di tutti, Toninelli, Bonafede, Di Battista, Di Maio, la Lezzi. Io sono stufo, e vabbè, ma inizia a stufarsi anche la gente». Fuochino. Salvini è già andato più vicino al problema rispetto al suo collega. Se sono stufi loro, spiaggiati a Milano Marittima o a sbocciare bottiglie in Costa Smeralda, figuriamoci gli italiani. Il governo del cambiamento è diventato il governo degli stufi. E noi siamo stufi di vederli stufi. Di vederli bighellonare e poi azzuffarsi in continuazione. Di assistere a questa patetica commedia. Dovevano ribaltare tutto, aprire il Parlamento come una scatola di tonno e invece sono lì, a incartarsi sui cavilli e a farsi guerre sotterranee, che in confronto la Prima Repubblica era un convento di orsoline. Salvini e Di Maio sono una coppia in crisi che nessuna terapia matrimoniale può curare. Il problema è che dal loro sbilenco matrimonio dipendono le sorti del nostro malandato Paese, non l’economia domestica di una famiglia. Sembra una questione da tinello, ma in realtà è una questione di Stato. Non sono Sandra e Raimondo, sono gli azionisti di maggioranza del governo. E mentre il Pil scende, l’industria arranca, le tasse aumentano e gli sbarchi continuano, loro cosa fanno? Litigano. Litigano sulle pagine dei giornali, sui loro profili Facebook, su Twitter, su Instagram, in televisione, persino in spiaggia. Come storditi da un colpo di sole agostano dicono tutto e il contrario di tutto. Sì Tav, No Tav, Ni Tav. E poi si dividono sulla sicurezza, sull’autonomia, sui trasporti, sui mancati rimpatri e sulla flat tax. Praticamente su ogni cosa. Si punzecchiano, s’insultano, ma poi – attratti dal magnetismo (…)

(…) che le poltrone esercitano sulle loro terga – si ritrovano a Palazzo. A stilare riforme abborracciate e leggi zoppe, che non soddisfano né gli uni né gli altri. Perché l’armonia iniziale è finita, la fiducia è scomparsa, i pesi reciproci sono cambiati e la coppia non sta più insieme neppure con la colla. Loro sono stufi e noi siamo arcistufi. Ma li prendiamo comunque in parola e chiediamo aiuto al dizionario. Stufo, secondo la Treccani, significa: «Stanco, annoiato, senza più voglia di continuare o forza di resistere». A volte un buon vocabolario dirime più problemi che un trattato di scienza politica. Ne prendano atto, basta accanimento terapeutico, smettano di resistere e riportino il Paese alle elezioni. Perché quelli veramente stufi sono gli italiani. Francesco Maria Del Vigo

10 crisi d’agosto

Ma la crisi d’agosto è archiviata lo scontro si sposta sulla manovra Giuseppe Conte con Luigi Di Maio (foto LAPRESSE) `Salvini non concede nulla al Movimento per adesso però non pensa ad una rottura `Dopo l’ok al taglio dei parlamentari il voto si allontanerà ulteriormente

Messaggero p.5

ROMA Ultima settimana di wrestling, a Camere aperte, tra Di Maio e Salvini. Ma non c’è da attendersi tregue ferragostane perché in riva al mare o sopra una montagna, meglio se esposti al sole, l’imminenza di una crisi di governo («roba di ore»), si annuncia o si denuncia più facilmente. Il problema, per Salvini, è come passare dalle parole ai fatti e per Di Maio sapere come si fa ad uscire dall’incubo di una relazione senza futuro. Forse. LA SCENA Martedì Salvini otterrà il via libera al Senato al secondo decreto sicurezza. Poichè la stagione del pallottoliere è tramontata, così come quella di Turigliatto e Pallaro, a palazzo Madama non ci si attende sorprese se non quelle offerte dal Pd che – dopo aver mancato l’appuntamento con la mozione di sfiducia – è riuscito a spaccarsi su qual è la petizione più bella e che fa più paura a Salvini. Ovviamente dalla spiaggia di Milano Marittima il ministro dell’Interno si gusta la scena offerta dal principale partito di opposizione e da un movimento alleato che tira un sospiro di sollievo dopo aver temuto, sino a qualche settimana fa, che Matteo avrebbe mandato in aria a tutti le vacanze. Invece, colui che per mesi è stato additato come il sicuro responsabile della fine estiva della legislatura e che avrebbe costretto le Camere a rimanere aperte stravolgendo i palinsesti, ha battuto tutti ed è in spiaggia da giorni. Lui a torso nudo, mentre Conte in giacca, cravatta e fazzoletto nel taschino, tiene aperto il portone di palazzo Chigi e cerca di offrire ai suoi ospiti – specie se stranieri – un’immagine meno devastata possibile del governo che presiede. Abituati per anni al rassicurante e solitario messaggio di Ferragosto del responsabile del Viminale, un ministro dell’Interno che mette l’infradito prima di tutti e balla con le cubiste, è una novità. Ma poichè Salvini è anche – forse soprattutto – leader della Lega, prima di andare al mare si è curato di bucare i canotti dell’alleato. E così, dopo il Tap, l’Ilva e la Tav, l’ultimo sfregio è di qualche giorno fa e ha sgonfiato la riforma della giustizia che molto difficilmente, potrà essere licenziata nell’ultimo consiglio dei ministri di giovedì prossimo. Il tenace Guardasigilli, Alfonso Bonafede, tornerà certamente alla carica a settembre, ma alla ripresa gli appuntamenti in agenda sono tanti. A cominciare dalla legge di Bilancio, passando per la riforma costituzionale che “sforbicia” il numero dei parlamentari senza migliorare il sistema. I due appuntamenti si intrecciano con quelli in sospeso. Alcuni temi della manovra – aumento dell’iva, flat tax, salario minimo – sono stati già oggetto di scontro tra i due pariti di maggioranza e torneranno in primo piano. Il taglio lineare dei parlamentari, arrivato ormai all’ultimo voto, invece non appassiona più, anche se per il M5S rappresenta la polizza per spostare in là le elezioni anticipate. Tra possibile referendum e sistemazione dei collegi ex legge 51, si rischia – in caso di crisi di governo e fine anticipata della legislatura – di poter votare non prima di giugno. Una iattura per molti colonnelli della Lega che vorrebbero far saltare il banco, ma un’opportunità per il ministro dell’Interno, inventore di una formula che rappresenta una vera novità per la scienza politica: governare, in una stagione economicamente molto difficile, e aumentare i consensi a danno dell’alleato con il quale si vota in Parlamento. Poichè la formula continua a funzionare da un anno e mezzo, il “vincolo esterno”, rappresentato dalla riforma costituzionale, fornisce a Salvini un argomento non da poco per mostrarsi con le mani legate ma voglioso di andare a palazzo Chigi. Sino a quando renderà il “gioco” di governare guadagnando consensi, come un qualsiasi partito d’opposizione, difficilmente Salvini staccherà la spina all’attuale esecutivo. Sinora la formula ha funzionato e non è detto che non possa superare anche lo scoglio della manovra di bilancio. Marco Conti

«Precaria tranquillità» al Colle: pochi spazi per tornare al voto Se a settembre dovesse passare anche il taglio dei parlamentari i tempi per le urne si allungherebbero

Giornale p.3

Se infatti l’esecutivo sopravviverà domani al voto di fiducia al Senato sul decreto sicurezza bis, se mercoledì, sempre a Palazzo Madama, scamperà alla mozione grillina anti Tav, allora il gabinetto Conte sarà «obbligato» a durare a lungo. Almeno fino a metà primavera. L’otto settembre la Camera dovrebbe varare il taglio dei parlamentari e in questo caso, tra l’attesa per eventuali richieste di referendum e l’applicazione della riforma, la finestra elettorale si richiuderà per diversi mesi. C’è di più. Se nel frattempo Salvini e Di Maio romperanno davvero, il Quirinale non scioglierà ma dovrà comunque mettere in piedi un altro governo. «Qualunque cosa accada», il presidente non può far «aggirare una volontà espressa» dalle Camere.

Mattarella non sta brigando per allungare il brodo e non ha avuto contatti con le forze politiche su questo argomento. Si tratta insomma, di una constatazione oggettiva della situazione politica, di una presa d’atto logica: se ci sarà il taglio di deputati e senatori – una riduzione per altro sostanziosa, da 945 a 600 – non si potrà far finta che non sia successo nulla. L’opposizione potrebbe chiedere lo svolgimento di un referendum confermativo: bastano un quinto dei parlamentari di una Camera, o mezzo milione di firme, o cinque consigli regionali. La Costituzione prevede tre mesi di tempo per domandarlo e altri 90 giorni per fissare la data della consultazione. Prima di un annetto sarebbe impossibile rimandare il Paese alle urne. Senza contare che potrebbero essere i Cinque stelle a volere il referendum. «Incasseremmo il risultato politico e allungheremmo la durata della legislatura». Un doppio vantaggio. E se nel frattempo ci sarà una crisi, il capo dello Stato dovrà cercare un’altra maggioranza. Matteo Salvini ha quindi due strade davanti. La prima è fare il duro e andare allo scontro su sicurezza e Tav. La seconda, a Montecitorio considerata più probabile, è fare buon viso e aspettare l’8 settembre e la riforma, mantenendo però una forte pressione mediatico-politica sui 5s.

Roma Un salto a Rimini, per il concerto di Riccardo Muti, poi le ultime udienze romane e tra qualche giorno anche il capo dello Stato farà i bagagli per le vacanze, destinazione Maddalena. Sergio Mattarella vive con una «tranquillità precaria» l’attesa dell’ennesima settimana decisiva del governo, il milionesimo scontro da dentro o fuori della maggioranza gialloverde. Se infatti l’esecutivo sopravviverà domani al voto di fiducia al Senato sul decreto sicurezza bis, se mercoledì, sempre a Palazzo Madama, scamperà alla mozione grillina anti Tav, allora il gabinetto Conte sarà «obbligato» a durare a lungo. Almeno fino a metà primavera. L’otto settembre la Camera dovrebbe varare il taglio dei parlamentari e in questo caso, tra l’attesa per eventuali richieste di referendum e l’applicazione della riforma, la finestra elettorale si richiuderà per diversi mesi. C’è di più. Se nel frattempo Salvini e Di Maio romperanno davvero, il Quirinale non scioglierà ma dovrà comunque mettere in piedi un altro governo. «Qualunque cosa accada», il presidente non può far «aggirare una volontà espressa» dalle Camere. Niente zampine e nemmeno Zampetti, fanno sapere dal Colle. Mattarella non sta brigando per allungare il brodo e non ha avuto contatti con le forze politiche su questo argomento. Si tratta insomma, di una constatazione oggettiva della situazione politica, di una presa d’atto logica: se ci sarà il taglio di deputati e senatori – una riduzione per altro sostanziosa, da 945 a 600 – non si potrà far finta che non sia successo nulla. L’opposizione potrebbe chiedere lo svolgimento di un referendum confermativo: bastano un quinto dei parlamentari di una Camera, o mezzo milione di firme, o cinque consigli regionali. La Costituzione prevede tre mesi di tempo per domandarlo e altri 90 giorni per fissare la data della consultazione. Prima di un annetto sarebbe impossibile rimandare il Paese alle urne. Senza contare che potrebbero essere i Cinque stelle a volere il referendum. «Incasseremmo il risultato politico e allungheremmo la durata della legislatura». Un doppio vantaggio. E se nel frattempo ci sarà una crisi, il capo dello Stato dovrà cercare un’altra maggioranza. Matteo Salvini ha quindi due strade davanti. La prima è fare il duro e andare allo scontro su sicurezza e Tav. La seconda, a Montecitorio considerata più probabile, è fare buon viso e aspettare l’8 settembre e la riforma, mantenendo però una forte pressione mediatico-politica sui 5s. Magari il leader del Carroccio si accontenterà di un rimpasto autunnale per far fuori ministri scomodi e dare una maggiore impronta leghista alla squadra. Di Maio ha fatto capire di essere disposto a sacrificare Danilo Toninelli. Pure i grillini hanno però i loro problemi interni. Dieci senatori Cinque stelle sono orientati a non votare la fiducia sul decreto sicurezza bis. I numeri a Palazzo Madama ballano parecchio, anche se potrebbe arrivare in soccorso Fdi. Il gruppo della Meloni potrebbe uscire dall’aula prima del conteggio, abbassando così il quorum. Ma la questione si ripresenterà due giorni dopo a parti invertite. La Lega si troverà a votare con Pd e Forza Italia contro la mozione degli alleati: quale miccia migliore per aprire la crisi e evitare una Finanziaria di molti tagli e poche spese?

3 toti

Toti in soccorso a Salvini Ma i suoi ora tentennano

Tra fiducia al governo gialloverde e Torino-Lione, numeri sul filo al Senato. L’incognita dei dissidenti 5S e degli ex forzisti

Forza Italia pensa di uscire dall’Aula per non far contare gli scissionisti

Fatto p.2

4 sarzanini

Salvini dj, inno e cubiste la festa d’addio al Papeete

In consolle a petto nudo mentre a Milano Marittima sfila tutto il nuovo potere leghista (Giorgetti escluso) Poi comizio a Cervia e ultimatum al M5S

Repubblica pagina 7

Adesso diventa «dj» Matteo Va in consolle tra le cubiste (con Mameli disottofondo) In spiaggia incontra Sacchi, «gaffe» sul Milan dell’89

Corriere pagina 7

Ma ilViminale non è in spiaggia

Fiorenza Sarzanini sul Corrire in prima e a pagina 7

Un ministro dell’Interno che a torso nudo fa il dj sulla spiaggia di Milano Marittima, mentre cubiste coperte solo da un ridotto costume maculato ballano alritmo dell’inno di Mameli, è uno spettacolo che non si era mai visto.

Se Matteo Salvini fosse soltanto il leader della Lega potrebbe decidere come e dove organizzare le feste del suo partito. E invece lui è anche e soprattutto il titolare del Viminale, dunque l’esponente di governo che ricopre un ruolo strategico. Nell’ultima settimana abbiamo visto poliziotti costretti a scarrozzare il giovane figlio del ministro sulla moto d’acqua, cercando di vietare i filmati. Abbiamo assistito alla conferenza stampa sulla riforma della giustizia convocata tra gli ombrelloni e terminata con insulti al cronista. Sembrava già troppo. E invece ieri si è andati ben oltre. Il momento di tornare indietroèarrivato. È urgenteeopportuno che il ministro rientri al Viminale. Gli italiani non sono soltanto quei bagnanti presenti alle sue performance vacanziere. Ci sono problemi da affrontare, emergenze da coordinare. C’è soprattutto un Paese da governare. Salvini torni a Roma e poi opti per un periodo di ferie tra le valli bergamasche. La succursale del Palazzo non può essere il Papeete Beach. Fiorenza Sarzanini © RIPRODUZIONE RISERVATA

La repubblica del Papeete

L’affermarsi di un totalitarismo pop con l’astuta necessità di distrarre la gente dai tanti guai italiani buttandola in caciara

Filippo Ceccarelli su Repubblica a pagina 34

C he si fa? Si ride o si piange, ci si vergogna, si fa finta di niente, ci si stracciano le vesti o magari, tanto per cambiare, ci si indigna dinanzi alla visione di Salvini, Re e Sacerdote del Papeete Beach, che a torso nudo, nello spazio sacro del dj, officia al rito del divertimento con musiche, cubiste e una folla che si agita in costume da bagno? Sono due video d’intensa euforia meridiana. Nel primo, collana al collo e bicchierone con cannuccia in mano, il titolare del Viminale appare lieto e disinvolto dietro ballerine in costumino leopardato e tatuaggi che si muovono flessuose al ritmo frastornante di “Settimana bianca”: “Na-na-na-na-na-na-na/ ostriche e champagne, viene giù una valanga,/ striscio lo ski pass, settimana bianca,/ faccio il pieno al Suv, scende il mio conto in banca…”. Sembra un po’ una scena del primo Loro di Sorrentino, ma è una citazione imprecisa perché lì, dalle parti di Berlusconi, quello stato di effervescenza e quel trionfo di carne avveniva in una villa privata, su cui era stato addirittura posto il Segreto di Stato, mentre qui è tutto più aperto e “democratico” – per quanto l’aggettivo si sia logorato e perso in una dimensione di misterioso sconforto. Nel secondo video Salvini sembra all’inizio un po’ meno a suo agio perché l’animatore, una specie di paggio con occhiali da sole e calzoncini dorati, le graziose cubiste maculate e la moltitudine di bagnanti continuano a danzare al suono dell’inno di Mameli, i più scatenati anche con la mano sul cuore, come hanno visto fare in tv. Ma poi la cosa gli appare normale e recupera la consueta disinvoltura. D’altra parte, solo a sentire il “parapà” iniziale, il suo maestro Bossi si voltava di spalle e al verso “ché schiava di Roma” si prodigava in gestacci, corna, dito medio, ombrello – riservando semmai la mano sul cuore al “Va pensiero”. Più o meno negli stessi anni Berlusconi, dal canto suo, non poteva sentire “siam pronti alla morte” senza fare boccacce e scongiuri. Per cui, già prima dei riti del salvinismo balneare, l’Italia era una nazione tutta farsa e parodia. Ma dagli e dagli, oltre a logorarla rendendola anche più nevrotica e cattiva, quest’accentuata attitudine impone, se non un atteggiamento emotivo o un giudizio più o meno sommario, almeno una valutazione, che la gravità della situazione rende necessariamente problematica. Perché l’ideale sarebbe capire, ma che cosa? Il crollo della parola politica e la fine del contegno dei capi, d’accordo; poi l’evidente affermarsi di un totalitarismo pop; quindi l’astuta necessità di conquistare attenzione e distrarre la gente – e i giornali – dai tanti guai italiani buttandola in abbagliante caciara; e magari perfino un tentativo di trasfigurare quel (poco) che resta del sacro all’insegna di un sovranismo spensierato e ballabile, stati alterati, momenti fusionali, corpi nudi che si muovono, cosce, chiappe, frastuono, gioventù, popolo, po-po-lo… Oh, mamma mia, che pensieroni complicati! Eppure, col suo cocktail verde nel bicchierozzo e le agognate cuffie dietro la consolle, Salvini ieri appariva all’apice dell’estate e della popolarità, ma anche della contraddizione. La sua patria è una tribu estiva: un mese appena, forse meno, e l’Italia si mostrerà assai più complicata e infida del Papeete Beach.

4 salvini bullo

I dittatori e il popolo

L’editoriale di Eugenio Scalfari su Repubblica in prima e a pagina 35

Inaccettabili gli insulti di Salvini al lavoro giornalistico di Valerio Lo Muzio, che ha documentato gli abusi della scorta del ministro

In realtà molti sistemi democratici sono guidati in ambito territoriale da personalità che hanno un fascino e quindi guidano le pubbliche opinioni. In Italia la presenza di questo tipo di leader, con caratteristiche diverse, è particolarmente notevole in alcuni Comuni o Regioni: ad esempio a Palermo, a Napoli e in Campania, a Milano, in Veneto. Questo è il panorama ma non è certo limitato al mondo moderno: fu così anche nell’antica Grecia e nella civiltà chiamata democratica da lei diffusa in tutto il Mediterraneo: i pochi in realtà hanno sempre condotto i molti. I molti a loro volta, quando non ne potevano più, facevano la rivoluzione. Ne vedemmo il punto massimo in quella francese e più di un secolo dopo in quella russa e questa, più o meno, è la storia del mondo che si ripete con modalità diverse ma con il contenuto che è sempre il medesimo. *** Nell’Italia odierna la personalità che ha condensato nelle sue mani una elevata dose di potere è Matteo Salvini. La sua Lega che un tempo era stata creata da Umberto Bossi nei piccoli paesi rurali soprattutto nelle zone del Piemonte, in Lombardia e nel Veneto si è estesa a tutto il nostro Paese dando a Salvini una dose di potere politico che si colloca intorno al 35-37 per cento e arriva intorno al 45 per cento con le alleanze della Meloni e di Berlusconi. Poi ci sono i Cinque Stelle di Luigi Di Maio, la cui storia rimonta a Beppe Grillo. La loro origine è populista, cioè una massa di persone che ha soprattutto ideali negativi: la distruzione delle classi dirigenti, siano di sinistra e siano di destra. «Gli alberi vanno tagliati e deve restare solo il prato per noi» diceva Beppe Grillo nella sua predicazione durata dieci anni e terminata solo un paio di anni fa con il lascito a Di Maio e al suo gruppetto dirigente. Questa è l’Italia di oggi nella quale tuttavia la Sinistra non è affatto scomparsa come sembrava. Sta riprendendo con un gruppo dirigente di notevole qualità, tant’è che nelle ultime occasioni elettorali la Sinistra si è collocata al 23-24 per cento ed è la seconda subito dopo il 34 per cento di Salvini. La strada che la sinistra cerca di intraprendere è quella di un Movimento che non si iscrive al partito ma lo affianca e lo affiancherà nelle future occasioni elettorali. Questa è la situazione. Aggiungo che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha genericamente indicato un limite temporale che sarebbe quello dell’8 settembre prossimo. Se Salvini non avesse per quella data mandato all’aria il governo e provocato le elezioni, questa ipotesi diventerebbe inattuabile per ragioni costituzionali. È evidente che la palla da gioco a questo punto passerebbe da Salvini a Giuseppe Conte, presidente del Consiglio e quindi capo del governo. Conte ha già intuito questa situazione e si sta comportando, come abbiamo notato da oltre un mese, in conformità. Conte governa, anche se non piace affatto a Salvini e piace poco anche a Di Maio, dal cui movimento Conte è stato designato. Nel caso in cui per ragioni costituzionali le elezioni non dovessero farsi, è evidente che il potere del premier aumenterà ancora di più. Qual è la sua mira? Conte ipotizza un Paese democratico dove si contrappongono una destra conservatrice e una sinistra progressista. Questo è il Paese moderno come volevano i fratelli Rosselli e come volevano anche Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi con il loro Manifesto redatto a Ventotene settantotto fa. Quel gruppo puntava sull’Europa e naturalmente sull’Italia, ma l’Europa era indispensabile e avrebbe dovuto assumere la forma d’una Federazione con moneta unica e una politica progressista e sociale. Tutto ciò non avvenne, ma non si può escludere che Giuseppe Conte a questo pensi. Lo vedremo. Sarebbe un risultato del massimo interesse per l’Italia e per l’Europa. Ps. Il collega Valerio Lo Muzio da collaboratore del nostro giornale ha raccontato e documentato il comportamento scorretto della scorta di Matteo Salvini, che ha accompagnato il figlio del ministro su una moto d’acqua della Polizia di Stato e ha minacciato il giornalista. Salvini ha poi insultato in modo inaccettabile il lavoro giornalistico del nostro Lo Muzio. Questo atteggiamento è stato ritenuto indecente da una quantità di giornali sia in Italia che all’estero, a cominciare da Le Monde di Parigi e per quanto ci riguarda dal Corriere della Sera e da La Stampa. Anche il nostro giornale ovviamente ha fatto quel che doveva ed io faccio qui altrettanto in quanto Fondatore del medesimo.

 

La direttrice di Stern “Il populismo non tollera i giornalisti che domandano”

In Germania Carola Rackete è diventata un vero caso quando è stata insultata dal ministro dell’Interno, è stato un autogol

Tonia Mastrobuoni su Repubblica a pagina 8

DORTMUND-Anna-Beeke Gretemeier, 32 anni, dal 2017 è direttore di uno dei più importanti settimanali tedeschi, Stern. Sugli attacchi di Matteo Salvini alla stampa italiana e in particolare a Repubblica, ha le idee chiare. Direttore, Matteo Salvini ha attaccato i giornalisti di Repubblica che tentavano di chiedergli conto del figlio ospitato sulla moto d’acqua della polizia e di Moscopoli. Lei che ne pensa? «La strategia dei populisti è quella di considerare nemici i giornalisti che tentano di fare il loro mestiere. E il loro mestiere consiste nell’essere critici, nel fare i cani da guardia contro gli abusi di potere. Gli attacchi alla stampa libera – ma anche i tagli dei fondi a certi media – sono fatti profondamente antidemocratici. E ciò vale per entrambi i partiti attualmente al governo, Lega e 5Stelle». Perché accade, secondo lei? «Politici come Salvini non vogliono lasciarsi controllare. A loro non interessano il Paese o i cittadini, sono interessati solo a se stessi. Vogliono intimidire la stampa per non essere più criticati. Perciò Stern non può che esprimere tutta la sua solidarietà ai colleghi che in Italia, in Austria e negli Usa prendono sul serio il loro mestiere, che è quello dell’informazione critica e dell’inchiesta. Stiamo parlando di elementi essenziali di ogni società democratica. Ed è preoccupante che in Europa non si possano più dare per scontati». Alcuni giornalisti, nella conferenza stampa degli insulti, hanno attaccato i colleghi che facevano domande. «Anche questo è tipico della politica populista: dividere i media in amici e nemici. Ma un giornalista che prenda sul serio il proprio mestiere non può essere amico del potere. È un’idea totalmente sbagliata dal nostro compito». A qualcuno i metodi di Salvini cominciano a ricordare quelli di Trump. «L’insulto e la denigrazione dei giornalisti ricorda ovviamente Trump, che usa anche il termine ‘fake news’ per intimidirli. Quando è lui stesso a mentire». Cosa fare contro la delegittimazione continua? «Continuare a scrivere. Degli insulti, del comportamento di Salvini. I lettori devono sapere. Se si rinuncia, si lascia il campo libero a chi vuole lisciargli il pelo». In un’epoca di destra populista sempre più aggressiva qualcuno fa paragoni con la Repubblica di Weimar. Troppo? «Ci sono somiglianze, anche nella radicalizzazione di fette di popolazione: ma la grande differenza è che allora i cittadini non avevano molta esperienza di democrazia. I cittadini tedeschi e italiani di oggi vengono da decenni di democrazia. È perciò che la stampa è fondamentale. Ed è per questo che, nonostante tutto, per i populisti è ancora difficile vincere un’elezione. Credo che la maggioranza dei cittadini in Europa si riconosca ancora nei principi fondanti della democrazia». Di recente Salvini ha anche insultato una rom, l’ha chiamata ‘zingaraccia’. Può un ministro dell’Interno, preposto alla sicurezza di tutti i cittadini, esprimersi in questo modo? “La decenza imporrebbe di no. Non è solo un cittadino, è un ministro della Repubblica che non dovrebbe mai discriminare, né mai legittimare chi tenti di farlo. In tutte le democrazie, dagli Usa all’Europa, i populisti tentano di mettere alla prova le regole della decenza e di spostare le linee rosse sempre più in là. Ma è la società che deve decidere se consentirglielo o meno». Salvini ha definito Carola Rackete una “zecca tedesca”. Lei che ne pensa? «Il termine ‘zecca’ viene usato qui in Germania soltanto dai neonazisti per screditare qualsiasi persona considerata di sinistra. Si tratta di umiliare chi la pensa diversamente. Anche in Germania c’è stata una discussione sulle Ong che salvano vite in mare. Ma l’odio cieco contro di loro ha scatenato qui un’ondata di solidarietà. Noi di Stern ci siamo sicuramente occupati molto più del caso Carola quando è stata arrestata e insultata da Salvini. E per questo motivo è stata molto più ascoltata e ha ricevuto molta più attenzione che se non fosse successo nulla». Un autogol, insomma. «Esatto». E tra la Lega e gli ‘amici’ della destra tedesca dell’Afd che somiglianze vede? «L’Afd cavalca sempre lo stesso tema: la paura dell’altro, del profugo, ad esempio. Ma per molti problemi del nostro tempo – la scuola, la pensione, la rivoluzione digitale – in realtà non hanno risposte. Non ne parlano mai, sono un partito monotematico. Ma il populismo funziona anche finché tutti cadono nella trappola di occuparsi solo dei loro temi».

Pansa: Panorama mi caccia, criticavo Salvini

La replica di Belpietro “L’hanno licenziato i lettori, sono pieno di lettere di protesta”

Su Repubblica a pagina 8

4 cinque stelle bugani

“Di Maio non mi ha perdonato qu e l l’intervista: mi dimetto” Max Bugani Il socio Rousseau lascia l’incarico nella segreteria del vicepremier “Mi volevano dimezzare lo stipendio, ma io non sono attaccato alle poltrone”

Fatto p.2

N e sono successe tante, forse troppe. E lo strappo con il capo, con Luigi Di Maio, si è dilatato, diventando una voragine. Così Massimo Bugani, bolognese di 41 anni, veterano del M5S, ha deciso che è ora di uscire da quella porta. “Mi dimetto da vice-caposegreteria di Luigi Di Maio a Palazzo Chigi, e lascerò anche i ruoli di referente del Movimento in Emilia Romagna e dei sindaci”. RIMARRÀ CONSIGLIERE c omunale a Bologna, l’amico di vecchissima data di Beppe Grillo e dei Casaleggio, “per – ché sono convinto di aver svolto un grande lavoro in Comune”. Ma è pronto anche a un altro addio: “Se dovessi rendermi conto che la mia permanenza nell’ass ociazione Rousseau può diventare un problema per Davide Casaleggio, non avrò problemi a farmi da parte. Voglio troppo bene ai miei soci e all’a ss o c i a z i o n e ”. Bugani spiega, precisa, e lo ripete più volte: “Non sono attaccato alle poltrone”. E la voce a tratti s’incrina. Perché racconta la rottura con il capo politico del Movimento, con Di Maio, politica e in parte umana. “Certe coppie che stanno assieme da anni poi iniziano a convivere, ma dopo pochi mesi capiscono di far fatica a stare vicini”prova a scherzare. Ma la sostanza dei fatti è cruda, dritta: “È iniziato tutto dopo la mia intervista al Fattodel 19 giugno, in cui auspicavo unità nel Movimento e sostenevo che Di Maio e Di Battista non sono alternativi ma complementari. Poche ore dopo mi chiesero di non rilasciare più interviste. E non capisco perché, visto che io non volevo certo mettere in difficoltà Luigi. Ritenevo doveroso richiamare alla compattezza in un momento difficile, e invitare a non puntare il dito contro Di Battista o altri, perché le diverse anime del M5S vanno tenute assieme”. Ma il leader l’ha presa malissimo. “In quella circostanza ho capito che il mio ruolo veniva messo in discussione e che non c’era più fiducia in me. E nel giro di qualche giorno mi hanno fatto sapere che il mio stipendio da vice-caposegreteria sarebbe stato dimezzato per contenere le spese”. Da lì inizia il grande freddo tra Bugani e Di Maio. Ma tutto si spezza un paio di settimane fa, quando il socio di Rousseau attacca a muso duro il ministro dei Trasporti Toninelli e il sottosegretario Dell’Or – co, invocandone la cacciata per il sì al Passante di Bologna. “Lo ridirei mille volte, ho dato 14 anni di vita al Movimento e alle sue battaglie per la tutela dell’amb ient e, contro opere inutili e costose come l’allargamento di u n’au to st ra d a” ri ve nd ic a Bugani. PERÒ AI PIANI ALTI s’infuria – no, e un paio di giorni fa gli è

arrivato il conto: “Il suo caposegreteria Dario De Falco, persona per bene, mi ha invitato a dimettermi e io ho replicato che Luigi poteva rimuovermi. Poche ore dopo mi hanno mandato un provvedimento con cui riducono il mio stipendio da 3800 a 1600 euro. Io non sono aggrappato ai contratti, e allora ritengo doveroso dare le dimissioni. Anche per il bene che voglio a Di Maio, nonostante in questi mesi non abbia condiviso molte sue scelte”. Nessun contatto con il vicepremier? “Non ultimamente”. Il filo per ora si è spezzato. “Ho informato delle mie dimissioni Grillo, Casaleggio, Di Battista e ad altri amici – continua Bugani – Ma quello che ci siamo detti rimarrà tra di noi”. Però il consigliere comunale tiene a dirlo: “Quella di lasciare è una mia decisione totalmente autonoma, e voglio anche precisare che non ho alcuna intenzione di candidarmi alle prossime Regionali in Emilia Romagna”. Ma ora come sta il Movimento? Bugani riflette, poi lo dice: “Ora nei sondaggi siamo al 14 per cento, è il momento più difficile per il M5S, e sinceramente non credo di essere io il problema ”. E perché va male, perché Di Maio sta sbagliando rotta? P ICCOL A pa u sa , poi arriva la metafora: “Parafra – sando quel film Ogni maledetta d om en ic a, potrei dire che in politica se cedi un centimetro alla volta, poi ti ritrovi nei guai”. E quei centimetri sono (o sarebbero) stati tutti ceduti all’avversa – rio che non vuole citare, alla Lega. “Io ho una storia, e la voglio preservare” conclude Bugani. Dopo aver chiuso quella porta. Twitter: @

5 tav

“La Lega ci ripensi Votando sì al Tav viola il contrattto”

Il capogruppo M5S in Senato: “Gli eletti piemontesi ci aiutino”

Conte ha dato il via libera al progetto? Ha detto anche che il Parlamento è sovrano e quindi avrà l’ultima parola

Fatto p.3

6 renzi querela

Renzi minaccia querele e fa compagnia a Salvini

È offeso col Fatto Quotidiano che lo accosta al “Papeete M a n”. Ecco i suoi insulti ai (pochi) giornalisti sgraditi Compreso “ti spacco le gambe”

Dal Corriere a Sallusti fino a noi: anche all’ex segretario dem non piace chi indaga

Fattp p.4

LO BATTERÒ E DARÒ I SOLDI AI TRUFFATI DI ETRURIA&C. » ANTONIO PADELLARO P robabilmente depresso dal fatto che i giornali non si occupano più di lui, Matteo Renzi si occupa dei giornalisti per strappare una breve in cronaca. In ogni caso plaudo alla querela che l’ex premier ha annunciato contro di me dopo il mio intervento alla trasmissione In Onda Es ta te di giovedì scorso, anche se egli non spiega affatto quali sarebbero gli estremi della mia presunta diffamazione. Impaziente di vederlo finalmente in un’“aula di tribunale”, gli darò una mano reiterando il reato che non c’è. Ho infatti detto che l’arroganza di Matteo Salvini verso i giornalisti che fanno il loro mestiere ha dei precedenti. E ho citato il collega del Corriere della SeraMarco Galluzzo che qualche estate fa in Versilia la scorta dell’ex statista di Rignano tentò di intimidire solo perché s’i nf or ma va sulle tariffe di un lussuoso hotel della zona. Presso il quale Renzi e i suoi cari avevano ottenuto affettuosa ospitalità. Trattamento subìto da Galluzzo che tutti in studio ricordavano e che il direttore del Corriere, Luciano Fontana, in collegamento, non ha certo smentito. Ho accennato anche all’amichevole telefonata subita dal direttore del Gio rnal e, Alessandro Sallusti (“ti spacco le gambe”) da parte di un tipo che sosteneva di essere il presidente del Consiglio. Dunque grazie di cuore allo spericolato querelante perché, con la sfilata di testimoni e testimonianze che intendiamo richiedere, forse per la prima volta un personaggio politico risponderà dei suoi comportamenti con la stampa. S’intende che, nel caso il Renzi fosse condannato a versare un risarcimento per la sua lite temeraria, m’impegno a devolvere la relativa somma ai risparmiatori truffati di Banca Etruria e ai dipendenti lasciati sul lastrico dall’intraprendente Babbo.

7 moscopoli

IL RUSSIAGATE E PIENO DI SORPRESE È stato consegnato pure alla Rai l’audio per intrappolare Salvini «Report lavora all’incontro di Mosca da mesi. Ranucci: C’è stata una strana accelerazione. Noi stiamo verificando tutto. L’espresso ha altri metodi. Cosi nasce il blitz al Metropol. Che non trova riscontri.

PER GLI ABUSI DI RENZI REPUBBLICA NON HAVOCE

di MAURIZIO RELPIETRO Siccome la faccenda del petrolio di Mosca si è rivelata un flop, anzi un boomerang perchè ogni giorno che passa si capisce che il grande intrigo dei soldi russi in realtà era solo un grande trappolone, a Repubblica hanno allestito un nuovo scandalo contro Matteo Salvini. Questa volta non ci sono di mezzo i rubli. Vladimir Putin e i servizi segreti del Cremlino o della Casa Bianca, ma più semplicemente una moto l…)

Maurizio Belpietro sulla Verità in prima e a pagina 2

(…} d’acqua. Complici le vacanze e il caldo. la questione che appassiona i cronisti del quotidiano radical chic è la gitarella del figlio minorenne del ministro su un mezzo della polizia. Sappiamo come vanno certe cose. soprattutto quando si ha a che fare con un personaggio noto. Due agenti in servizio di pattugliamento della costa si fermano sulla spiaggia dove soggiorna il capo della Lega. Salutano il numero uno del Viminale e forse si scattano pure qualche selfie in sua compagnia. mentre il ragazzino guarda con curiosita le moto con cui sono approdati. Uno dei due poliziotti. a questo punto. gli offre di fare un giro e il giovane. ignaro delle ricadute della gita acquatica sull’immagine pubblica del padre. accetta. Certo. si tratta di uno strappo alle regole. che riguarda più il poliziotto che il figlio di un ministro. perche la pattuglia non e li per fare acrobazie in mare. ma per garantire la sicurezza dei bagnanti. Potrebbe finire qui. con una banale contestazione per un uomo delle forze dell*ordine. ma nei paraggi c`e un videomaker di Repubblica che riprende la scena. Ci manca poi che la scorta del ministro SUI MONTI Matteo Renzi in Alto Adige cerchi di evitare che il collaboratore del quotidiano di De Benedetti filmi il ragazzino mentre sale sulla mot.o d*acqua. Forse ci scappa addirittura una minaccia: sappiamo dove abiti. Beh. insomma. gli ingredienti ci sono tutti per montare un caso di abuso di potere che tracima sulle pagine del giornale. fino a conquistarne il titolo principale. Alla conferenza stampa in spiaggia il cronista insiste. chiede conto e a Salvini scappa una battuta: vada a filmare i bambini in spiaggia. visto che le piace tanto. Il giornalista e offeso a morte (soprattutto perchei colleghi non gli danno man forte. ma anzi sembrano disinteressati e infastiditi dalle domande sul presunto scandalo) e Repubblica il giorno dopo tuona. con tanto di editoriale in prima pagina del suo direttore. A questo punto Fargomento non è più la gita con la moto d’acqua. ma la minaccia alla libertà di stampa. ossia il tentativo di impedire di riprendere la scena e gli insulti al collega [evade a filmare i bambini in spiaggia. visto che le piacesl che sembrano dargli del pedofilo. Si mobilita l”Internazionale dei giornalisti democratici e Repubblica schiera addirittura il direttore di Le Monde. il quale ovviamente usa la questione per attaccare i sovranisti. passando da Salvini a Trump. Da banale che era – una gita di pochi minuti su una moto d’acqua della polizia – il caso è diventato mondiale. esempio evidente dell`abuso di potere di un ministro di cui Repubblica non sopporta il potere. Peccato che quei giornalisti che oggi si indignano a gridano allo scandalo siano gli stessi che non avevano nulla da eccepire quando Matteo Renzi portava in vacanza a Courmayeur la famiglia con l”elicottero di Stato. E siano anche gli stessi che non fecero un plissé davanti al racconto di Alessandro Sallnsti. il quale in un editoriale scrisse di essere stato «avvertito» direttamente dall’allora presidente del Consiglio. che in una telefonata minaccio di spezzargli le gambe. Che da Palazzo Chigi chiamassero il direttore di un giornale d`opposizione promettendogli una gambizzazione non desto alcun allarme. Cosi come non provoco alcuna reazione il resoconto. confermato poi da Ferruccio deBortoli.. della minaccia da parte del capo scorta di Renzi a un giornalista del Corriere della Sera che aveva osato prendere una stanza nello stesso hotel in cui soggiornava. in vacanza con la famiglia. l”e:›-: Iiottamatore. Gia. ma allora erano altri tempi. Renzi era potente e in questi casi a Repubblica non ravvisarono alcun abuso di potere. Le cronache adoranti descrivevano anzi il rinnovamento democratico del Paese. Erano i tempi in cui ogni mese Carlo De Benedetti. il padrone di Repubblica. faceva colazione a Palazzo Chigi e. dopo un caffe e una brioche. usciva e telefonava al suo agente di cambio per informarlo che la riforma delle Popolari si sarebbe fatta. In questo caso nessun abuso. Solo esercizio del potere.

7 pd

FIRME CONTRO SALVINI Renzi ritira la sua raccolta ma ormai ci sono due Pd

Daniela Preziosi sul Manifesto a pagina 4

Alla fine, dopo due giorni di polemica interna, Matteo Renzi ritira la sua «personale» (parole sue) raccolta di firme a sostegno della mozione di sfiducia contro Salvini. L’iniziativa era uguale e parallela – e cioè concorrente – a quella lanciata dal segretario più o meno contemporaneamente (le opposte fazioni litigano per la primogenitura dell’iniziativa, le ricostruzioni assegnano il premio ai renziani). I militanti dell’uno e dell’altro per due giorni si lanciano accuse di plagio. Ieri Carlo Calenda prova a unificare le due petizioni – quella renziana si svolgeva online, quella del Pd ai tradizionali banchetti delle feste dell’Unità. Ma anche Calenda deve ritirarsi con le pive nel sacco: i renziani non l’hanno presa bene. «Mi pare chiaro che la priorità non è sfiduciare Salvini ma sfiduciare chiunque non sia Renzi», la sua conclusione. Nel pomeriggio però l’ex segretario ritira l’iniziativa: «Abbiamo raccolto in due giorni più di 30mila firme. Oggi ci viene detto che la raccolta firme va bloccata, sostituita o unita a quella improvvisamente annunciata dalla segreteria del Pd», «Noi blocchiamo la nostra raccolta di firme, spero che altri blocchino le loro ossessioni ad personam». Il riferimento è a un post di Camilla Sgambato, membro non notissimo della segreteria che aveva chiesto di stoppare la gara fratricida e raccogliere tutte le firme «con il modulo del Pd». Renzi dunque ferma polemicamente le macchine. Ma la vicesegretaria De Micheli puntualizza: «Nessuno impedisce o ha impedito nulla a nessuno. Gli avversari sono fuori di noi». Risparmiamo al lettore altri dettagli del vaudeville. La verità però è poco allegra: quello che succede ai dem è grave ma non serio. Anche perché nel frattempo Salvini scala i consensi a colpi di insulti, decreti illiberali e balletti patriottici sulla spiaggia. Al confronto le liti Pd sono una realtà parallela, pura fantascienza. Renzi nega l’intenzione di fare una scissione, ma nel Pd ci sono ormai due partiti. Da quando è sfumato il ritorno al voto imminente, ha ripreso in pieno l’iniziativa politica con i suoi comitati civici, che nega essere una corrente. Ma la coincidenza fra i suoi slanci e quelli del segretario autorizza il Nazareno sospettare la sistematica controprogrammazione. Al fine di oscurare le iniziative – di per sé non luminosissime, va detto – del segretario. Tutto nasce dalla mozione di sfiducia contro Salvini sul caso «rubli». Renzi la propone a tamburo battente, Zingaretti rallenta per allungare i tempi del litigio fra M5S e Lega. Quando il premer Conte va al senato per la sua informativa, Renzi fa sapere che sarà lui a parlare in aula. Dopo qualche timido malumore dei suoi colleghi senatori rinuncia. Ma svolge l’intervento su facebook, non senza qualche polemica velenosa sul segretario – accusato di intelligenza con il nemico grillino. La mozione finirà poi in un buco nell’acqua: la camera l’ha rimandata a settembre. Alla successiva direzione Renzi non va, ma posta una enews a riunione appena iniziata. A settembre ‘capiterà’ una nuova coincidenza. Il Pd inaugura il 23 agosto la festa nazionale a Ravenna. Per quegli stessi giorni Renzi ha fissato nel lucchese la sua scuola quadri per under 30.

Un Pd e due petizioni per sfiduciare Salvini Renzi ferma la sua Lite per la doppia raccolta di firme. L’ex premier: “Ossessionati da me” Per la vicesegretaria De Micheli “discussione ridicola”. Torna lo spettro scissione

Rosato: “Zingaretti ci insegue su tutto” Ma dal Nazareno si sostiene il contrario

Repubblica pagina 10

Oltre il ridicolo: il Pd litiga anche sui no al leghista L’ex premier stoppa la raccolta firme per cacciare il ministro. Che si diverte su Twitter: “Geniali”

Fatto p.5

BATTI E RIBATTI VIA TWITTER E il Pd litiga pure sulle raccolte firme anti Matteo Calenda propone (ironico) di riunirle. Renzi blocca la sua ma scatena la polemica interna

Giornale p.2

Nel Pd convivono già due partiti. Che litigano anche sulla mozione di sfiducia contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Da un lato i renziani, riuniti nei comitati civici; dall’altro, la nuova dirigenza dem guidata da Nicola Zingaretti. Nel mezzo, l’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, passato da organizzatore di cene a mediatore tra le varie correnti del Partito democratico. Anche ieri, Calenda ha provato a rimettere insieme renziani e zingarettiani. Dopo lo scontro sulla mozione sfiducia al titolare del Viminale. Il Pd ha lanciato due petizioni, con lo stesso simbolo, per chiedere le dimissioni del ministro dell’Interno. La prima, lanciata da Matteo Renzi e dai suoi comitati; l’altra dal segretario dem Zingaretti. Insomma,un derby in casa dem per fare opposizione al governo Lega-Cinque stelle. E il ministro dell’Interno se la ride: «Il Pd, dopo anni di disastri, pretenderebbe di cacciare la Lega con una raccolta firme (e litigano pure). Geniali, no?» La polemica va avanti già da giorni. Ieri però è esplosa con un durissimo botta e risposta tra renziani e zingarettiani. Quando Calenda è intervenuto (via Twitter) per riportare la pace. E unire le due petizioni. «Ecco qui. Con 15 minuti di duro lavoro ho fuso le due petizioni per le dimissioni di Salvini. Che ne dite Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Nicola Zingaretti, facciamo questo sforzo di unità? Daje», scrive l’ex ministro allegando il testo della petizione «unitaria». L’intervento di Calenda, inizialmente, scatena la dura reazione dei renziani. Anna Ascani risponde piccata: «Carlo, basta. Non fa neanche più ridere. Renzi ha lanciato una mobilitazione riprendendo la nostra richiesta di mozione di sfiducia che tu ed altri avete ridicolizzato sostenendo che avrebbe ricompattato la maggioranza. Cambiato idea? Vuoi firmare? Bene». A stoppare le polemiche che rischiavano di far naufragare l’attacco contro il ministro dell’Interno è Matteo Renzi che annuncia il ritiro della sua petizione. Ma non senza lanciare frecciatine al gruppo dirigente. «Continuano ad attaccare il Matteo sbagliato. Ma io non voglio polemica. Ecco perché stoppiamo la raccolta firme», cinguetta Renzi. Che Poi affonda il colpo, ricostruendo i fatti dal suo punto di vista: «Ho promesso di non parlare delle discussioni interne al Pd perché litigare tra noi in presenza di un Governo come questo è allucinante. Purtroppo anche oggi ci sono polemiche inspiegabili sul fatto che i bravissimi comitati di Azione Civile hanno presentato una raccolta firme per la mozione di sfiducia a Salvini». Per l’ex presidente del Consiglio l’obiettivo della sua petizione era quella di tenere alta l’attenzione contro il leader della Lega. E punta a chiudere in fretta le polemiche anche il vicesegretario dei Dem Paola De Micheli: «Basta con queste discussioni ridicole sulle firme. Più siamo meglio è, più firme ci sono meglio è, più si dice la verità meglio è. Nessuno impedisce o ha impedito nulla a nessuno. Gli avversari sono fuori di noi. Occupiamoci delle persone, dei lavoratori, degli studenti, dei pensionati, delle imprese. Questo si aspettano da noi».

7 Berlusconi

Cavaliere, lei e nella storia Perché passare alla farsa?

di MARCELLO VENEZIANI

Maestà Silvio I, perché inventarsi un’Altra Italia dopo che l’Italia reale le ha voltato le spalle? Perchè non prendere atto che il suo tempo è scaduto e accettare il ruolo di emerito come già accade a Papi e capi dello Stato? La sua Altra Italia ricorda una celebre battuta di Bertolt Brecht: «Se il popolo non è d’accordo con me allora nomino un nuovo popolo». Cosi ha fatto lei: visto che l’Italia non e più con lei, allora s’inventa d’insana pianta un’altra Italia immaginaria, si costruisce una protesi d`Italia. un plastico d`Italia. siliconata. littata. col riporto. fatta su misura perla suacorona.Italiadue come Milano due. dopo Italia uno. E se quelfltalia e troppo corta. ci mettogli alzatacchi allo stivale. iL`altra Italia. in verità. la fondammo ad Ascoli Piceno il sindaco Guido Castelli ed io. ma era un ciclo d`incontri culturali. non un piano per clonare l”ltalial. Se la realtà nazionale mi volta le spalle. avrà pensato il Re. se persino il «partitino» di Giorgia Meloni su cui tanto ironizzavo fino a poco tempo fa. mi scavalca neisondaggi. allora. cribbio. mi produco una fiction. fondo il mio cartoon la mia Italia in cartongesso su cui proseguire il mio reame virtualee cacciareo ripescare chi voglio io. Una specie di Villa Italia di Re Umberto in esilio a Cascais. una sorta di Little Italy come quella degli emigrati. insomma pn`altra Italia in miniatura. E la sindrome del Monza dopo il Milan. Perche scendere dalla propriastatua a cavallo e andare in caduta libera nell`indecente mercatino dei partitini nuovi. usati. riciclati? Nel bene e nel male lei e passato alla storia. perché passare alla farsa? Lei à considerato il precursore di Donald Trump. l”amico di Vladimir Putin. non pub ridursi ora a fare il Gabibbo in questi giochi di simulazione. Lasci almeno quel ricordo. seppur controverso. Perche ridurre Fia una bad conipany su cui scaricare negatività eseguaci da annegare e concludere una parabola il -_ NUMERO UNO Silvio Berlusconi con la maglia del Monza [Ansa] politica che fu anche esaltante e popolare con una patetica parodia dei regni perduti? Intendiamoci. non e folle immaginare che esista un target cent.rista. liberale. cattolico popolare. moderato. distinto dai populisti come dalla sinistra. attualmente non rappresentato: non e il mio mondo. malo capisco. Pero non pub rappresentarlo lei che e il Padre ditutti ipopulismi.da Matteo Renzi a Beppe Grillo. da Matteo Salvini alla Meloni; lei cheestato il più estremista dei moderati. il più sovranista dei liberali. E non puo inventare lei quel soggetto politico fondato sulla sobrietà e il pluralismo. lei che e stato un Vistoso Monarca Bgocentrico. tutt`alt.ro che defilato e collegiale. lei che si reputa tuttora lnsostituibile e Perpetuo e non riconosce a nessuno il ruolo di erede o di successore. Non puo esserelei ilfondatore di una nuova fase della politica. perche e percepito come il Passato. il protagonista di una stagione ormai irrimediabilmente trascorsa; ed effettivamente ha B3 anni. ne ha passate tante. si av

verte su di lei tutto il peso degli anni e dei t.ravagli. ha perdut.o i tre quarti dei suoi eletti e anche più dei suoi elettori. La mia convinzione – che ho espresso nel corso di questi anni. e non a caso dovetti lasciare Il Giornale – e che il suo ruolo politico sia finito sette anni fa. dopo che fu silurat.o con un mezzo golpe da un asse franco-tedesco-napoletano. Fini una stagione politica. la sua. di Umberto Bossi e di Gianfranco Fini; motivi divergenti ma destini convergenti. Pur non essendo mai stato berlusconiano. le ho sempre riconosciuto la leadership indiscussa e trainante. Ma da quando tu privato del governo ha perso lucidità. ha perso empatia con gli italiani. ha sostenuto tutto e il contrario di tutto. à rimbalzato da un Matteo all”altro. e stat.o alleato. socio e nemico di tutti. a turno. a volte con doppi turni giornalieri: ha nominato e trombato una marea di delfini e candidati premier. ha ucciso col suo abbraccio mortale tutti coloro che le facevano ombra. L`ultima con Giovanni Toti e Mara Carfagna e da manuale. Ma di cabaret. Provo alietto e solidarietà non solo nei loro confronti ma anche verso coloro che le sono rimasti fedeli e sono costretti a incensarla da mane a sera. a dire che vedono quel che leivede. anche le allucinazioni. e a ripetere che Berlusconi non ha successori. si autorigenera e loro sono solo il contorno. la claque. i suoi droni. E una gara di resistenza. anche perche a lei debbono quasi tutto. incluso ilnaufragio. Finora la gara la capeggia Antonio Tajani. che partito nelruolo di Falcone Lucifero. Ministro della Real Casa. ha accettato di trasformarsi in Sancho Panza e vede mostri al posto di mulini a vento per assecondare il Cavaliere Visionario. La trasformazione avvenne da quando lei si presento in tv con un foglio piegato tra le mani. come una specie di bacchetta magica o di lampada d”Aladino da cui estrarre improbabili dat.i su ogni argomento. Da allora non l`ha più mollato. come un agente che vuol farti firmare la polizza. E riuscito perfino a far rimpiangere la fase giudiziaria e pomiciona di un tempo. i bei processi e i bunga bunga. Avolte. per salvarla dalla caricatura di se stesso. mi illudo che leifinga di aver perso il senno. sia entrat.o in una fase dadaista e stia giocando con la realtà e con la ragione. divertendosi a spiazzare e a coglionare tutti. E come un pittore che ha perduto la vena ligurativa e si sia dato al surrealismo: e lo eserciti con spirito ironico e autoironico. mettendo i baffi alla Gioconda e sostituendo le dame con i pisciatoi. Ci dica che e cosi. la prego.

BERLUSCONI È IN GRANDE CRISI Sfruttato Sfruttato e abbandonato e abbandonato Quando Forza Italia era florida, Silvio era pieno Quando Forza Italia era florida, Silvio era pieno di leccaculi, ora è stato tradito da chiunque di leccaculi, ora è stato tradito da chiunque Cavaliere, non se la prenda con Salvini ma con Cavaliere, non se la prenda con Salvini ma con i suoi ex fedelissimi, ominicchi e donnicciole

Libero in prima

FEDELI TRADITORI Quante coltellate. Al momento giusto La carriera di Silvio è costellata di trionfi e adulatori, sempre pronti a fuggire non appena il vento mutava Da Montanelli al Giornale, ai tanti miracolati della televisione e della politica. Fino all’addio della moglie

Di Renato Farina su Libero a pagina 3

È sempre stato un toro, in tutti i sensi, dove vedeva rosso caricava, creava il vuoto intorno, seminando il panico tra i matador. Quanti ne ha incornati Silvio Berlusconi di concorrenti e avversari nel mercato televisivo prima e in quello politico dopo, e in quello giudiziario pure? Una moltitudine. Nomi? Non è questo l’articolo giusto per ricordarli. Quelli meritano fiori. È la giravolta dei cicisbei a disgustare. Ora che il Toro è seduto e persino sedato,assistiamoinfattiall’abbandono difiglioliefigliole dalui prediletti. Quando li ha fatti salire in ascensore con lui, erano festevoli. Ora che scende, anzi precipita, saltano fuori e gli fanno marameo. Nell’animo, nell’intelligenza e nella volontà resta lo stesso fenomeno mitologico, ma ora che gli pulsa la giugulare e ha reclinato un pocoil capo,farfalline e farfalloni sono volati via. L’età del Cavaliere, 82 tondi, è quella che è, ma non è questo il punto. Si vedano Napolitano, Scalfaro, Pertini: a 85 anni erano riveriti e portati sulle spalle dal popolo e dai compagni più giovani, devoti nonostante le loro contraddizioni e procedettero di gloria in gloria fino ai 90 e passa. Una ragione c’è. Leader di partito e di governo non lo eranomai stati, non avevano trascinatoversoil potereeil successo nessuno. Furonoe sono calibrimedi, spediti su un missile tra le stelle dai casi fortunati e dall’astuzia. Per Berlusconi sta accadendo come capitò nel secolo scorso ad uno che comincia per M, a un altro di nome De Gasperi, al terzo il cui cognome fa Craxi (più fortunati, quanto ad amicifedeli sono statiAndreottieCossiga). Per Berlusconi il festival del si salvi chi può è accentuato perché è stata sconsiderata la sua generosità e forse perché ha premiato costantemente i peggiori. Gli restano accanto di sicuro quelli che sono coetanei, e che anche senza di lui avrebbero primeggiato: FedeleConfalonieri e Gianni Letta. Gli sarebbero vicini, magari tirandogli le grande orecchie, anche Giampiero Cantoni, se non fosse precocemente deceduto e ricchissimo di suo, e Marcello Dell’Utri, consegnato però ai domiciliari. TRIONFI E SOLITUDINE Sindal principioin tanti e tante hanno sfruttato la forza della natura di questo signore che liberava il terreno politico e commerciale per regalarne l’usufruttoa personaggi senza qualità, a parteil blazer ole belle gambe. Posizioni prestigiose inventate per chi era poca cosa nel mercato della vita. Quanti (e quante) hanno approfittato molto volentieri dei suoi servizi taurini, e quando hanno scoperto che, come il vecchio capo apache, era vivo sì ma ferito e bisognoso di sentire il fiato amico di principini e principine da lui incoronati, si è ritrovato lì come un pirla. La storia di Berlusconiè sempre stata caratterizzata da questo andamento per metà trionfale e per l’altra metà di solitudine. A parte casi seri, e separazioni consensuali, la più parte dopo averlo implorato e per tre minuti ringraziato, una voltafattoil pieno e spremutoil succo dall’ubertoso brianzolo, lo ha mollato, spietatamente rinfacciandogli che la cuccagna non abitavapiù adArcore. Quello che sta succedendo in questi giorni è in realtà una ripetizione triste della stessa scena.Resa più drammatica dall’esplosione di un partito che lui aveva fatto crescere fino al 38%. Per trent’anni ha ricevuto palle di cannone giudiziarieemediatiche, certo incoraggiate da errori e debolezze anch’esse perlopiù taurine. Chi gli stava intorno non ha mai eccepito. Adesso che è stanco gli tagliano i tendini. Gli ultimi casi sono quelli di Giovanni Toti e, sia pure con motivazioni più angelicamente espresse, di Mara Carfagna. I quali hanno le loro ragioni, ma non quelle del cuore, come direbbe Pascal. Il partito va male. D’accordo. Che bisogno c’è di ferire il benefattore? Berlusconi sembra re Lear alla fine della sua parabola, assiso su un trono assai gramo, magari circondato da ancelleefamigli dilevatura non straordinaria, però conilmerito della fedeltà, si spera non pelosa. LA LUNGA FILA Chi si sente non più prescelto, usa questa scusa del cerchio magico per abbandonarlo e abbindolarlo, senza restituirela dote che Berlusconi aveva loro concesso, ma anzi sfruttandola per relegarlo ai margini della scena italica. Magari anche bendandolo a parola come una sacra mummia da onorarecon un giro di turibolo dichiarandolo però defunto, come Lazzaro, ma senza più speranze di risurrezione. Possiamo cominciare dai primi tempi? A mollarlo senza un grazie fu nientepopodimeno che il grandissimo Indro Montanelli, che non osiamo includere nella categoria dei perdenti di successo, ci mancherebbe. Esiste l’esercizio della libertà e del ripudio, ma c’è modo e modo. Berlusconi aveva salvato, mettendoci un sacco di soldi, il Giornale nuovo (si chiamava così), il coraggioso naviglio pirata di Indro che aveva radunato unamagnifica ciurma di ribellial conformismo progressista del Corriere della Sera,la cui proprietaria simpatizzava per Mario Capanna e dintorni, consentendo che il glorioso quotidiano della borghesia milanese esponesse il vessillo comunista, custodito con paracula benevolenza da Piero Ottone. Il quotidiano, che elargiva fior di stipendi ai giornalisti azionisti, perdeva montagne di quattrini. Berlusconi comprò le azioni arricchendo i profughi di via Solferino, e da quelmomento fu il padrone del Giornale specialmente nel senso che ne ripianava i debiti. Quando la famosa rivoluzione italiana mandò in tribunale, in galera, in esilio i leader del pentapartito, dando libero campo agli ex comunisti, Berlusconi pensò che l’unica speranza fossefondare un suo partito e sfidare Occhetto. Chiese unamano aMontanelli e ai suoi fidi, e quelli lo abbandonarono, come eraloro diritto.Ma, e questo forse non era proprio un dovere, conifondi raccolti daun bravofaccendiere comunista, aprirono laVoce per affondare l’avventura del loro mecenate. Non ci riuscirono. Un anno e si inabissarono. Nella Voce militavano tra gli altri ex salariati del Cavaliere che non gli perdonarono mai di essere finiti sul suo libro paga. Un paio di nomi: Marco Travaglio e Peter Gomez. Camparono con lui e campano contro dilui. Anche quellifiniti alCorriere della sera, come Beppe Severgnini. Nella sua “discesain campo”,Berlusconi era riuscito nel capolavoro di mettere insieme, ascoltando Vittorio Feltri,Gianfranco Fini e Umberto Bossi. Sdoganò l’Msi sin dalle elezioni comunali di Roma del dicembre 1993. Poi portò Fini al governo con tutta la sua truppafascista,che nonè uninsulto, per carità. Così come fece con Bossi, il quale pensò bene, dopo sei mesi, di ribaltareil governo di colui che allora chiamavano Sua Emittenza, ingannato da Oscar Luigi Scalfaro. Bossi peraltro è l’unico che dopo averlo tradito al grido di «Berluscaz!» ha compreso l’errore e dal 2001 è diventato il suo amico personale e politico più fidato. VOLTAFACCIA IN VIDEO In quella tornata magica datata 1994, Carlo Freccerofu innalzato a direttore in Rai, avendo costruito il suo curriculuma Fininvest.Ottimo professionista. Ma non gli ha perdonato la regalia al suo mentore, ed è finito tra i fan di Daniele Luttazzi, che dopo aver lavorato nelle televisioni del Berlusca, ha chiamato in Rai Travaglio per dargli del mafioso. La parabola di Fini è troppo nota per rievocarla di nuovo. Altri casi clamorosi? Vittorio Dotti, avvocato di Berlusconi, e poi accusatore insieme alla sua compagna Ariosto. Il duo Casini-Mastella, cui si perdonano molte cose per la simpatia e la guasconaggine. Da lui salvati quando il loro partito valeva lo 0,8% e messi in lista in Forza Italia, fatti ministri e presidenti della Camera, e sbarcati poi con nonchalance come Guardasigilli con Prodi o senatori con Renzi e Zingaretti. Siamo ancora in politica: al capitolo delfini. Berlusconi ne ha scelti parecchi. Ed è brutto quando seiinnalzato e poi, viste le scadenti evoluzioni, scaricato nell’acquario dei tonni. Ricordiamo Antonione, Scaiola, Bondi, persino apparve con rango simile la Daniela Santanchè. Noi guardiamo sempre le loro storie a partire dalla loro delusione. Ma dal punto di vista di Berlusconi, dove sta l’errore? Nell’averli scelti, e poi, avendo capito che non reggevano il compito, averli alla fine destinati alle seconde file? Buona la prima. Hanno giocato male, si perde. Alfano è un caso a sé, non ha detto mai una sola parola contro il capo, e ha dimostrato mollando tutto di saper reggere la concorrenza nella vita civile. Lo stesso dicasi per Verdini.Ma andarsene, se ne sono andati. Fuori della politica? Qui siamo al privato di nome Veronica.Bastala parola, lasciamo perdere. E il calcio? Silvio ha portatoilMilanin cima almondo. Egli ultrà si sonomessiadinsultarlo, ainvocarnela cacciata. Berlusconi, con Galliani, si è rifugiato nel Monza, vicino a casa, discute di terzini e forse di ballerine conilfratello Paolo. Quanta gente ad Arcore faceva la fila. Ne ricordo tanti. Personalmente, porto volentieri il suo orologio al polso. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Povero Berlusconi sfruttato e abbandonato

L’editoriale di Vittorio Feltri.

Caro Silvio Berlusconi, tardivamente le do un consiglio: non faccia mai del bene ad alcuno se non è sicuro di poterne sopportarel’ingratitudine. Me lo ripeteva sempre la mia mamma. E lei ha fatto del bene a tanta gente, alla quale ha regalato posti importanti nel partito e nelle sue aziende, gente che ora le voltale spalle,fuggealla ricerca di nuovi protettori e benefattori inesistenti. Quando Forza Italia eraflorida e mieteva consensi alla grande, lei aveva un codazzo di leccaculi impressionante. Tuttilì afarlefesta, a chiederle favori, occupazioni, denaro, raccomandazioni.Ho assistitoa scene pietoseindimenticabili: «Silvio qui, Silvio là, tu sei immenso, io ti stimo, ti adoro, ma ti prego, fammi questofavore e io ti sarò eternamente riconoscente». Ovvio, aveva un potere notevole, governava, era visto come un padreterno in grado di dispensare a sua volontà onori e poltrone. Nella massa dei postulanti abbondavano gli arraffonie specialmenteicretini, i più difficili da addomesticare, buoni a nulla e capaci di tutto. Poi, sintetizzando, la sorte, caro presidente, si è voltata e lei è rimasto con il cerino in mano. Ricorda quando sdoganò Gianfranco Fini in occasione delle elezioni del sindaco di Roma? Fu unamossaeleganteeintelligente.Malui,essendosi montato la testa come tutti coloro che non ce l’hanno, poi ha lasciato il Pdl nel tentativo di sfasciarleil governo. Il quale poi si sfasciò da solo, e da quel momento è stato uno sfacelo. Io sono stato perseguitato e bollato in modoingiurioso per aver utilizzato il cosiddetto metodo Boffo. Costui è scomparso e io sono ancora qui a rompere le balle. A lei Cavaliere le cose sono andate peggio: l’hanno distrutta grazie al metodo Berlusconi, una condanna per un reato mai commesso, visto che Mediaset non era più nelle sue mani. Poi la faccenda delle donne, come se uno non potesse scoparsi quelle che gliela danno volentieri. Non è finita. (…) segue ➔

(…) Allorché le fortune politiche sono scemate, i succitati lacchè si sono diradati fino a scomparire lentamente. E ora sono impegnati a ripararsi – illusi – sotto altri tetti ospitali. Silvio, ora ti do del tu, sei stato tradito dachiunque.Non devi prendertela con Salvini, un tuo concorrente, ma con i tuoi fedelissimi che si sono rivelati infedelissimi.Ominicchie donnicciole, profittatori e profittatrici.Andreotti una voltami disse: ho più fiducia in lei che è un nemico sincero che non in certi amici i quali, mentre ti lodano e ti sbrodano, affilano il coltello. Questo concetto vale pure per te. Ti sei contornato negli anni da un folto gruppo di traditori che adesso, nella bufera, smammano dimentichi di quanto, troppo, hanno ricevuto per servirti malamente. Non perdo tempo a fare dei nomi, li conoscono tutti, ma consentimi di menzionare almeno un cognome: Toti. Rammenti quando ti fotografarono accanto a lui, festante, perché promosso tuo consigliere principe? Ti ha compensato con una pugnalata nella schiena. E Forza Italia, a furia di scossoni, è andata a puttane. Stendo un velo pietoso sulla Ravetto nonché su vari deputati vicini alla Gelmini, un esodo disgustoso. Berlusconi è stato sfruttato ed abbandonato. Non si trattano così neanchei cavalli. E neppure gli asini.

Messaggini Whatsapp Chi è l’autore segreto della chat anti-Matteo?

Libero a pagina 2

La guerra, si sa, si combatte e si vince anche nelle retrovie. Guerra di propaganda, di notizie e retroscena sull’avversario di turno, chiacchiericci e gossip mirati a indebolire il nemico… Tutto un arsenale che non sta mancando nella guerricciola tra salviniani e berlusconiani, totiani e forzisti duri e puri. Le ultime raffiche partite in questa direzione consistono in alcune immagini e messaggi che negli ultimi giorni stanno passando da un cellulare all’altro di deputati e senatori leghisti a testimonianza dell’odio che dalle parti di Arcore si alimenta nei confronti del Capitano di via Bellerio. Una di queste immagini mostra un cartellone che ritrae la «Madonna di Montevergine», chiamata la protettrice dei «femminielli», che, vestita coi colori dell’arcobaleno, schiaccia col piede la testa del leader della Lega, Matteo Salvini. Sotto una scritta che non lascia spazio alle interpretazioni: «Resistenza». E non sarebbe l’unica forma di resistenza azzurra nei confronti dello scomodo alleato leghista che si sta divorando l’intera dispensa dei consensi moderati. Altre due immagini pescano nella mitologia partigiana contro il nuovo leader liberticida. La prima reca una scritta, buona per tutte le stagioni: «Oggi e sempre resistenza». La seconda aggiunge una connotazione di genere che molto fa discutere nelle chat leghiste: «La resistenza è donna», recita il motto. E, naturalmente, il quesito ricorrente riguarda chi sia l’autore di questi «stati di Whatsapp». Chiunque sia, di sicuro, non apprezza molto il ministro dell’Interno come si arguisce dal fatto che questi viene definito «ministro dell’inferno» in una didascalia che commenta una campagna di qualche mese fa della rivista Rolling Stone intitolata proprio «Noi non stiamo con Salvini». Chi è l’autore che si accanisce tanto su Salvini?, si chiedono i leghisti. Domanda anche più piccante visto che si dice che l’autore (o autrice) sia persona assai vicina al Cavaliere. © RIPRODUZIONE RIS

7 zingaraccia

L’ANTI-SALVINIANA Parla la “zingaraccia”: «Io e mio marito rubiamo tutto quello che ci capita» La signora ribadisce le minacce di morte al ministro. Il consorte chiede il condono per la villa abusiva costruita coi proventi di furti e truffe. Il leader del Carroccio: «Bella famiglia… Arriva la ruspa!»

Lorenzo Mottola su Libero in prima e a pagina 4

Il campo di via Monte Bisbino è una specie di Beverly Hills dei rom costruita alla periferia nord di Milano. Parliamo di decine di ville in muratura su due o più piani realizzate su terreni agricoli ovviamente non edificabili. (…)

(…) In pratica,i nomadi si sono comprati annifa dei campi e ci hanno fatto una città abusiva,dove risiede uncampionario umano degno del’Inferno di Dante, ma con una varietà di peccati anche superiore. Si segnalano perfino poligami: uno dei residenti aveva quattro mogli e diciassette figli. Qui abita la signora che per alcune strane coincidenze è riuscita a diventare la nuova star dell’informazione in Italia. Il tutto per aver minacciato di morte di frontealle telecamereMatteo Salvini,il qualeha replicato dandole della “zingaraccia”. Sul termine adottato dal ministro degli Interni Libero si è giàespresso e evitiamo di tornare sul tema, però può essere interessante raccontare chi è la nuova antagonista del politico più popolare d’Italia. A RUBARE «Rubavo tutto quello che mi capitava», ha raccontato la damina in un’illuminante intervista andata in onda a Stasera Italia «Portafogli, tutto. Sono sette anni ai domiciliari e ho combattuto per tutta la vita affinché i miei figli nonfaccianolamia stessa vita».Equindi aprele porte della sua umile dimora. All’ingresso troviamo un colonnatomodello tempiogreco, sormontatoda una tettoia di plexiglass (tanto per ricordare a tutti che comunque ci troviamoin un campo rom). All’interno domina il colore bianco, conarredamenti stile-Gomorra, candelabri di cristallo, divani angolari in pelle da una quindicina di persone e così via. Tutto ottenuto, conferma il marito, “truffando e rubando,ma mica agli italiani, solo agli svizzeri”. Un’uscita che haaperto unfronteanche con il governo elvetico: i cronisti del Corriere del Ticino da ieri si stanno occupando della faccenda. Tornando a Salvini, qualche benpensante ritiene che questoinsediamento dovrebbe essere spianato dalle ruspe quanto prima. Tra questi, perfino qualcheesponente di centrosinistra, come il sindaco di Milano Giuseppe Sala. Gli abitanti della favela a cinque stelle, tuttavia, non intendono mollare, per questo la “zingaraccia” s’è messa a minacciare il vicepremier. Senza pentirsene. «Certo che confermo, servirebbe una pallottola”, ha ribadito sempre di fronte alle telecamere di Rete Quattro la Signora « io penso che ce l’abbia con il nostro popolo, ci vuole sterminare». Teoria curiosa: sospettiamo che Salvini se la sarebbe presa per gli avvertimenti mafiosi anche sefosseroarrivate da una guida alpina. Ma il marito sembra non considerare importante la cosa e insiste: «Un condono, serve un condono». Ma il leader leghista non sembra ben disposto: «Che bella famigliola», ha commentato ieri sera su Twitter, «E c’è che li difende… Serve una democratica ruspa!». AI CONFINI DELLA REALTÀ Però qui da condonare c’è parecchia roba: allacci alla corrente elettrica abusivi, fogne abusive, tubature abusive. Nel campofino a qualche tempo fa c’era perfino una piccola stalla abusiva e un maneggio. Ci troviamo letteralmenteai confini della realtà, tra depositi dimerce rubatae nullatenenti che sfrecciano su Mercedes da 40mila euro. Quando arriva la polizia in questa zona spunta semprefuori qualcosa di bizzarro, dalle Jacuzzi ai camper spariti nel nulla a Napoli e trasportati in Lombardia. Qualche mese fa qui è stato rinvenuto perfino un chihuahua, sottratto alla sua padrona tre anni fa e oggi riconsegnato. La famiglia pensava che l’animale fosse morto. Pernon parlare dell’uomoarrestatoinloco per aver partecipato a una rapina a Roma nella quale è stata uccisa una signora di 89 anni. Meglio non girare la sera tra questi giardini, insomma. A meno che non si arrivi muniti di una ruspa, ovviamente. © RIPRODUZIONE RISERV

7 Travaglio

Travaglio

Mi scuso con i lettori per la nostra scelta eccentrica di aprire anche ieri la prima pagina con una notizia, anziché con l’ultima minchiata espettorata da Salvini spiaggiato con la bavetta agli angoli della bocca, l’ascella pezzata e la panza di fuori sul bagnasciuga del Papeete Beach. Noi, com’è noto, siamo strani e lo facciamo strano, il giornalismo: cioè con i fatti anziché con le parole. Certo, ci fa ribrezzo un vicepremier nonché ministro dell’Interno che insulta i giornalisti che gli fanno le pulci e dà della “zingaraccia” a una rom che gli ha augurato un proiettile in capo. Ne preferiremmo uno che: non usi i poliziotti per gli svaghi del pupo e le minacce a cronisti e contestatori; risponda anche alle domande che non gli piacciono; se una persona lo minaccia di morte, la quereli e, se proprio vuole dirle qualcosa, non usi riferimenti spregiativi alla sua etnia, ma aggettivi più appropriati e universali. Tipo “stronza”. Dopodichè, appena insigni colleghi si stracciano le vesti per le minacce “mai viste” alla “libera stampa” (mai vista pure quella), capiamo subito perchè un simile cazzaro veleggi nei sondaggi verso il 40%: perchè avevano fatto ben di peggio altri due cazzari prima di lui, B. e Renzi. Solo che ai tempi di B. era come oggi: si indignavano soltanto quelli di sinistra. E ai tempi di Renzi non si indignava nessuno, perché destra, centro e sinistra erano sdraiati ai suoi piedi (lo ricorda a pag.4 Antonio Padellaro, che l’altra sera in tv ha osato rammentare le intemerate del bulletto ai pochi che osavano contestarlo, e s’è subito beccato una minaccia di querela). Ormai Salvini conosce bene i suoi polli, e li usa a suo piacimento sparandone una al giorno, nella certezza che l’indomani finirà su tutte le prime pagine e il giorno appresso tutti lo intervisteranno per sapere se sia pentito della vaccata del giorno prima. Sempre meglio che lavorare, attività ormai vivamente sconsigliata ai politici di successo: infatti, nel governo giallo-verde, chi lavora perde voti, punti e copertine, mentre chi cazzeggia stravince. Ma noi siamo strani e, anziché inseguire Salvini col suo Trota sull’acquascooter, preferiamo inseguirlo sui fatti. Tipo quello che abbiamo scoperto ieri a proposito del Tav Torino-Lione. Che, per inciso, non è un Tav: dagli anni 90 il treno ad alta velocità per i passeggeri è stato riconvertito, per mancanza di passeggeri, in un treno ad alta capacità per le merci, peraltro anch’esse scarsine. E non è neanche un Torino-Lione, visto che non è previsto alcun collegamento fra le due uscite del buco da 57,5 km. nelle Alpi, quelle di Bussoleno e di Saint Jean de Maurienne, e rispettivamente Torino e Lione. SEGUE

M a questo era già noto, almeno a chi legge il Fatto. La novità è che il non Tav non Torino-Lione costerà all’Italia circa 3 miliardi in più di quel che ci avevano raccontato. Cosa che, se l’avessero saputa i tecnici incaricati dal Ministero dei Trasporti dell’analisi costi-benefici sull’opera, avrebbe portato il loro esito negativo non più a 7 miliardi, ma a 10. E, calcolando solo i costi per l’Italia, escludendo quelli per Francia e Ue, non più a 3, ma a 6 miliardi. Cioè: se l’avesse saputo il premier Conte, quando ha annunciato che il Tav si deve fare, salvo un voto del Parlamento italiano che disdetti unilateralmente il trattato italo-francese, non si sarebbe azzardato a dire che ormai fermare le gare di appalto costerebbe più che vararli alla luce di un presunto cofinanziamento europeo al tratto ferroviario italiano “che costa 1,9 miliardi”. Vediamo perché. Ancora l’a l tr o giorno l’ex ministro dei Trasporti Pd Graziano Delrio, che è un po’ il Lunardi di Renzi, raccontava a Repubblica che “l’opera, così come finanziata dai governi di centrosinistra, ha visto una forte riduzione dei costi che sono passati nella tratta in Val di Susa da 4 miliardi (in realtà 4,6, ndr) a 1,9. Quindi abbiamo fatto quello che era utile per evitare sprechi, utilizzando nel progetto in gran parte la linea storica, non come volevano Berlusconi e la Lega”. Peccato che sia falso. Al Cipe, cioè al Comitato interministeriale programmazione economica, del project review di Delrio (governo Gentiloni) esiste solo un’ “informa – tiva”: un foglio di carta, mai dettagliato né approvato né deliberato come progetto definitivo. Un pour parler. Una supercazzola. Dunque, per il Cipe, cioè per il governo, la tratta italiana di collegamento al tunnel di base resta quella vecchia di B.&Lega, col potenziamento della B us s ol e n o- A vi g li a na – O rb a ss ano e la Gronda di Settimo Torinese che bypasserebbe il capoluogo e confluirebbe sulla linea Tav Torino-Milano. Costo: 4,6 miliardi: quasi 3 in più di quel che si pensava dando per fatto il progetto “low cost!” di Delrio, che tagliava la Gronda fermando i lavori a Orbassano. Non solo, ma risultano stanziati solo 146 milioni: il 3,1% del totale. Ora come farà il governo ad autorizzare Telt, la stazione appaltante italo-francese, a lanciare i bandi di gara senza soldi e con la prospettiva di dover spendere 3 miliardi in più del previsto? Boh. E su cosa voteranno mercoledì 7 al Senato i partiti pro e anti Tav? Ri-boh. Si attendono lumi dal ministro competente (si fa per dire) Toninelli, da Conte, ma soprattutto dagli ultimi convertiti al dogma dell’Immacolata Costruzione: i leghisti. Siccome già faticano a indicare le coperture per la Flat Tax, che richiederebbe 15 miliardi sull’unghia in aggiunta ai 23 necessari a scongiurare l’aumento dell’Iva, li vorremmo tanto vedere alle prese con la ricerca di altri 4,5 miliardi (4,6 meno i 146 milioni già stanziati) per la linea nazionale del Tav. Che dice il Salvini spiaggiato? Rinuncia a un’o p era inutile e dannosa che, ancor prima di partire con 30 anni di ritardo, si sta già rivelando un pozzo senza fondo? Oppure taglia la Flat Tax da 15 a 10 miliardi? Nel caso, potrebbe chiamarla Flat Tav.

8 Salvini basra dire no

Salvini: basta dire no dalla Tav alle trivelle o parola agli italiani

Dalla Romagna parte la sfida a M5S e all’Europa: tasse giù, piaccia o meno

«Grazie a spiagge sicure i vu’ cumpra’ ora non rompono più»

Messaggero p.4

9 Corinaldo

La banda dello spray non si fermò dopo la strage in discoteca “Ci ha preso la mano” Arrestati 6 ragazzi tra i 19 e 22 anni, tutti del Modenese Indagini su 60 rapine: fruttavano 15 mila euro al mese

I dettagli svelati al telefono: le tecniche, la concorrenza con le altre bande

FRANCESCO MESSINA Direttore centrale dell’anticrimine della Polizia “Dopo Piazza San Carlo, molte organizzazioni simili anche all’estero” “Dalle indagini di Torino siamo arrivati ad altre gang I colpi finivano sui social”

Due bande specializzate nei “furti con strappo” I baby ladri tra droga, trap e abiti firmati

Stampa p.8

La Banda del sabato sera. Una «baby gang» seriale dietro la strage alla discoteca di Corinaldo. Arrestati sei ventenni di Modena. Agivano nei fine settimana nel centro nord e anche all’estero. Lo spray al peperoncino come arma per rapinare giovani

L’apertura del Manifesto

DAL SOTTOBOSCO DELLO SPACCIO ALLA RIVALSA SOCIALE Una galassia criminale che cresce nel ricco nord

Gianfranco Bettin sul Manifesto a pagina 3

Arrestati i 6 killer dello spray «Banda di rapinatori seriali» Scatenarono il panico nel locale per derubare i clienti A segno altri 37 colpi (uno persino a Disneyland)

LE INTERCETTAZIONI CHOC «Mamma mia fra’, ci aveva preso la mano Gas, gas, gas». «Gli sbirri sono dei figli di p…» Delirio di onnipotenza tra i membri della banda che si facevano beffe del terrore dei ragazzi: «Tossivano tutti, sono saltato sui corpi di tre persone»

«Sono finiti in galera. Era ora» E il trapper torna sotto accusa I parenti delle vittime: «Bene così, ma in carcere devono andare pure gli organizzatori di quel concerto-truffa»

Giornale p.12

10 migranti

Migranti, mobilitazione di Ong verso la Libia Stop a Lampedusa, Alan Kurdi punta Malta

PER LA SPAGNOLA OPEN ARMS CHE HA A BORDO 123 PERSONE SEMBRA PROFILARSI UNO SBARCO A VALENCIA

Messaggero p.6

Sulla rotta balcanica trucchi delle Ong slovene (finanziate dal governo) Ieri altri 46 arrivi a Trieste. Migranti aiutati dai «passeur» sponsorizzati dall’esecutivo

Giornale p.8

Minniti “Sui migranti non si gioca a battaglia navale Ora è emergenza umanitaria”

In Libia la situazione è fuori controllo, non è più un porto sicuro Serve un’azione Onu dopo la chiusura dei campi di Tripoli Con l’interdizione alle Ong si è lasciato un gigantesco buco nel Mediterraneo rischioso anche per la sicurezza italiana

Il decreto sicurezza bis è una aberrazione giuridica. L’obiettivo è sfiduciare Salvini, non dividiamoci su chi raccoglie le firme

Giovanna Casadio su repubblica a pagina 11

«L’Italia non giochi a battaglia navale davanti alla Libia, siamo a un passo dall’emergenza umanitaria, mentre Salvini discute come se fosse sempre al Papeete Beach. Il mondo è un po’ più grande del Papeete». Marco Minniti, l’ex ministro dell’Interno del Pd, giudica «inaccettabile» il comportamento del suo successore al Viminale. Minniti, lei è stato il ministro degli accordi con la Libia per limitare gli sbarchi. Oggi ritiene che i migranti soccorsi vadano rimandati in quel porto? «La Libia non è un porto sicuro. In questo momento poi, c’è una guerra civile: non possono essere rimandati là. Né del resto il centrosinistra ha mai fatto operazioni di respingimento. Fino a luglio scorso nel Mediterraneo centrale c’era un sistema di salvataggio che coinvolgeva la Guardia costiera italiana, le Ong e le missioni navali Thesis di Frontex e Sophia. Adesso quel dispositivo è stato smontato. Il governo italiano non si occupa più del Mediterraneo centrale. Le Ong sono oggetto di una drammatica interdizione. Con questa logica spietata e brutale si è lasciato un gigantesco buco nero nel Mediterraneo, rischioso anche per la sicurezza italiana». Tuttavia per il suo successore al ministero dell’Interno, il bilancio sull’immigrazione è positivo. «Il presupposto su cui questo governo e il ministro dell’Interno avevano costruito l’approccio sull’immigrazione sta venendo meno. Non solo l’immigrazione non si cancella, perché non può essere cancellata. Ma c’è un dato preoccupante: sono aumentati in Italia gli sbarchi gestiti da scafisti. Solo l’8% degli arrivi è frutto delle azioni di ricerca e salvataggio in mare delle Ong. Le immagini di questi mesi sono quelle della Sea Watch 3 bloccata per 19 giorni in mare. O la nave Gregoretti che, a un anno di distanza dalla Diciotti, si ritrova a vivere lo stesso copione: sequestrati i migranti in una nave militare italiana, ostaggio gli stessi militari dell’equipaggio. Ecco il quadro di un conflitto istituzionale senza precedenti tra corpi dello Stato, infliggendo inoltre una immeritata umiliazione alla Guardia costiera E poi c’è la questione rimpatri. Dovevano essere 500 mila in poche settimane, ci vorrebbero 70 anni . Se non fosse una tragedia, perché si parla di vite umane, sarebbe una farsa. L’unica cosa che può fare una democrazia è governare i flussi migratori contrastando i trafficanti di essere umani e aprendo canali legali». Ma cosa è cambiato in Libia da quando il governo di cui lei era parte si accordò con l’esecutivo di Tripoli? Bartolo dice che fu un errore considerare allora la Libia porto sicuro. «La situazione in Libia si è deteriorata. Il governo di Tripoli, dopo il bombardamento al campo di Tajoura, ha deciso di chiudere 3 campi di accoglienza. Non può essere inteso dall’Europa e dall’Italia come un ricatto, ma è una drammatica realtà che è a un passo dal diventare fuori controllo trasformandosi in una emergenza umanitaria senza precedenti. Nel momento in cui la Libia chiude i centri di accoglienza, l’Italia e la Ue non possono fare finta di nulla. Quei centri di accoglienza devono essere svuotati in collaborazione con l’Onu. E vanno rilanciati i corridoi umanitari e i rimpatri volontari assistiti». Per Salvini il pugno duro è l’unica politica di immigrazione. E i sondaggi gli danno ragione. «L’approccio di Salvini è una “strategia della tensione” comunicativa. Ha descritto l’immigrazione come fuori controllo, ma con il centrosinistra gli sbarchi erano già diminuiti dell’80 per cento. È servita ad alimentare la gestione cinica della paura per il consenso elettorale. Se ne esce non sottovalutando la questione della sicurezza, ma coniugandola con l’umanità. Occorre avere capacità di relazioni internazionali». L’Italia in questo momento rischia un flop anche in Europa, tardando persino a indicare il “suo” commissario Ue. «Questo governo ha portato l’Italia in una condizione di irrilevanza internazionale. Evidente che l’Italia non può essere lasciata sola sull’immigrazione e che l’Europa deve fare molto di più. Ma l’immigrazione è stata utilizzata come arma contro la Ue. Ci siamo isolati. Non abbiamo la capacità di confronto a cui ci ha richiamati anche la presidente von der Leyen». Sicurezza bis: sul provvedimento può cadere il governo? «Quel provvedimento è una aberrazione giuridica. Cancella l’umanità e non garantisce la sicurezza. Lega e 5Stelle mi ricordano i ladri di Pisa, che litigavano al mattino e poi la sera lavoravano insieme. Questo governo ha una guida nazional populista in cui le cinque stelle stanno diventando ornamento di un monocolore leghista». È giusto sfiduciare Salvini, chiedergli di dimettersi? «Sì. E’ inaccettabile che un ministro non risponda al Parlamento.Non è solo maleducazione istituzionale, è qualcosa di più grave: è uno slittamento delle regole di democrazia parlamentare. Bene la raccolta di firme del Pd. Su queste cose non ci si divide, conta il risultato: moltissime firme. Con la mozione di sfiducia va fatta chiarezza su Moscopoli: il ministro dell’Interno è autorità nazionale di pubblica sicurezza, non ci può essere ombra di sospetto che sia in una condizione di soggezione psicologica, economica e politica di una potenza straniera. Ne va della sicurezza dell’Italia. Nella conferenza stampa balneare, ho visto un ministro sull’orlo di una crisi nervi. Il ministro della paura, sembra impaurito».

10 carabiniere

Il mistero delle telefonate prima di incontrare i killer

Per gli avvocati degli americani punti da chiarire sulle chiamate di quella notte `La difesa non chiederà la scarcerazione in attesa di completare le sue indagini

BRUGIATELLI RISCHIA IL FAVOREGGIAMENTO «HA AIUTATO I DUE RAGAZZI DICENDO AI MILITARI CHE ERANO AFRICANI»

Messagfero p.11

IL DELITTO DELLA DROGA Le ambasciate trattano lo scambio di prigionieri tra Italia e Stati Uniti Elder e Hjorth dopo la sentenza tornerebbero negli Usa. E Roma riavrebbe il velista Forti

Giornale p.15

La sarzanini recupera oggi il buco di ieri dal Messaggero

La rete ditelefonate segrete prima della morte di Cerciello Roma, il fitto scambio di contatti. Il giallo dell’accordo con i due americani

A La sera dell’omicidio del vicebrigadiere Mario Cerciello Rega ci sono state diverse telefonate di cui non si conosce ancora il contenuto. La traccia dei contatti è negli atti processuali, ma adesso si sta cercando di ricostruireidettagli dell’accordo tra il mediatore dei pusher Sergio Brugiatelli e i due americani accusati del delitto. E soprattutto quelli con i carabinieri. Un grammo di coca Rimane infatti tuttora oscuro il motivo che ha spintoimilitari adassecondare le richieste di Brugiatelli, nonostante fossero consapevoli che lo scambio prevedesse la consegna di un grammo di cocaina. Già quel particolare era infatti sufficienteadimostrare che l’uomo era al centro di un traffico illecito. E dunque non si comprende perché— invece di denunciarlo — si sia deciso di pianificare un intervento per recuperare il suo borsello. Un’operazione alla quale Cerciello ha partecipato pur non avendo con sé la pistola d’ordinanza. La ricostruzione, così come emersa grazie all’incrocio dei dati contenuti nelle annotazioni di servizio e delracconto dei testimoni, dimostra che prima di arrivare all’appuntamento con i due americani ci fu un fitto scambio di contatti. Il gip sottolinea che «una delle telefonate effettuate da Brugiatelli alla presenza dei carabinieri Andrea Varriale e Cerciello Rega, fu registrata». Ma poi dà conto di altri contatti effettuati da diversi telefoni. E soprattutto evidenzia le chiamate al 112 specificando che a un certo punto «Cerciello venne contattato sulla propria utenza cellulare dall’operatore della centrale del Comando del gruppo Roma». Perché tanto impegno? Che cosa c’era di così prezioso in quel borsello da determinare prima la mobilitazione dei carabinieri fuori servizio che si trovavano in quella piazza di Trastevere e poi l’operazione della pattuglia in borghese che dopo aver partecipato alla trattativa decise di andare nel quartiere Prati per effettuare lo scambio? Il ruolo del mediatore Anche se davvero non è un complice degli spacciatori, Brugiatelli ha un «profilo» che dovrebbe convincerlo a tenersi lontano dalle forze dell’ordine. E invece la notte tra il 25 e il 26 luglio è stato lui a chiamare i carabinieri più volte, a insistere per avere il loro aiuto. Qualche giorno fa ha deciso di diffondere un comunicato per negare di essere un confidente, maèproprio il comportamento tenuto dopo lo scippo ad avvalorare l’ipotesi che in realtà fosse consapevole di non avere nulla da temere. E sarebbe stato proprio lui, dopo l’omicidio del vicebrigadiere,aparlare della pista che portava ai nordafricani. Neiprossimi giornii pubblici ministeri coordinati dal procuratore Michele Prestipino valuteranno la sua posizione e analizzeranno la sequenza delle telefonate di quella notte.I«punti oscuri» di cui ha parlato lo stesso magistrato non sembrano affatto chiariti. Compresa la dinamica dell’aggressione terminata con le 11 coltellate che Lee Finnegan Elder ha ammesso di aver inferto al vicebrigadiere. Anche per questo si continua a verificare se ci fosse almeno un’altra telecamera accesa e finora sfuggita ai controlli.

10 pecorino

Sardegna, si riaccende la guerra del pecorino

`I pastori pronti a far scattare di nuovo la protesta, non piace il nuovo piano del consorzio: «Cambia poco, noi penalizzati»

Forze dell’ordine in allerta per scongiurare azioni violente nel pieno della stagione turistica. Come quelle di febbraio

Messaggero p.15

ROMA «Tenetevi pronti, ogni momento è buono e la protesta sarà improvvisa». Il passaparola tra i pastori sardi è continuo e ancora maggiore la preoccupazione tra le forze dell’ordine che temono la replica delle violente manifestazioni di febbraio quando le strade della Sardegna vennero messe a ferro e fuoco dai produttori di latte che protestavano per i prezzi troppo bassi pagati dai produttori di Pecorino Romano (50-60 centesimi contro almeno l’euro richiesto). In piena stagione turistica, la replica delle proteste di febbraio (latte sversato nelle strade e blocchi stradali, paralisi di alcuni porti) potrebbe avere ricadute disastrose per l’intera regione. I produttori in inverno avevano cessato le proteste a fronte di tre impegni: il governo avrebbe ritirato il prodotto in eccedenza per fare alzare i valori; un nuovo regolamento del consorzio, attualmente sbilanciato a favore dei caseifici; una anticipazione immediata ai pastori di 72 centesimi al litro con conguaglio a novembre. LA DELIBERA La delibera sul ritiro – dopo mesi di sollecitazione – è arrivata solo questa settimana: il ministero dell’Agricoltura – in accordo con i ministeri del Lavoro e degli Affari sociali – ha stanziato 14 milioni per ritirare le eccedenze tramite aste pubbliche. Ma passeranno altri mesi per l’operatività prima che l’Agea stili i regolamenti con i criteri per comprare e poi per donare in beneficienza (e a chi?) il pecorino. In alto mare anche la questione delle anticipazioni. Anzi c’è il rischio che sia un boomerang perchè il pecorino sardo dop continua ad essere venduto a valori ben lontani dagli auspicati 8,20 euro al chilo che avrebbero consentito ai caseifici di portare a 1,02 al litro il prezzo del latte. Nelle maggiori borse merci di venerdì il formaggio sardo è stato venduto mediamente ad appena 6,65 euro al chilo. Quindi a novembre gli allevatori potrebbero trovare la cattiva sorpresa di dover restituire gli anticipi ricevuti. Infine – ed è il capitolo più controverso – l’approvazione mercoledì delle nuove norme del consorzio della Dop. Gli allevatori se da un lato annunciano un pacifico ricorso all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, dall’altro minacciano nuove pesanti proteste. Eppure nel consorzio ogni loro voto varrebbe quanto quello dei produttori: con 12 mila allevamenti e 2,6 milioni di pecore garantiscono una produzione di 3 milioni di quintali di latte, che dopo la trasformazione in pecorino romano dop, vale 250 milioni di euro e per il 70% è esportato nel mondo. IL MECCANISMO «Il nuovo piano – dicono i portavoce della protesta Nenneddu Sanna e Gianuario Falchi – apparentemente sembrerebbe più rigido del precedente, ma in realtà è stato studiato in modo tale che ogni caseificio si tenga ben strette le proprie quote storiche. Pensiamo che il nuovo piano non modifichi sostanzialmente la situazione: così noi pastori restiamo asserviti a un sistema che non ci consente di valorizzare il nostro latte». Secondo i pastori i caseifici troverebbero facilmente i meccanismi per produrre in surplus in violazione delle regole e risparmiando proprio sul valore di acquisto del latte. «Noi – spiegano i pastori – vorremmo invece un maggiore potere contrattuale con un meccanismo che ci consenta quando ci spostiamo da un trasformatore ad un altro di portarci dietro oltre al nostro latte anche la quota percentuale che può essere trasformata in Pecorino Romano». C

10 formigoni

La raccolta fondi online per aiutare Formigoni Mobilitazione su Facebook: all’ex governatore ora ai domiciliari tagliati pensione e vitalizio

Giornale p.6

La sorte dell’ex governatore della Lombardia Contro Formigoni odio senza limiti: vogliono che torni in cella senza pensione

Fabrizio Cicchitto su Libero a pagina 7

Caro Direttore, credevo che ci fosse un limite a tutto, ma invece non è così. Non solo, come lei ha rilevato qualche giorno fa, a Formigoni è stata tolta la pensione di parlamentare, ma in precedenza gli è stata annullata anche quella regionale. Adesso però, forse per bilanciare le cose, la procura di Milano ha anchefatto ricorsoin Cassazione contro la concessione degli arresti domiciliari. A ben vedere forse quest’ultima iniziativa potrebbe avere un’interpretazione se non benevolaalmenologica: vistoche Formigoni è stato privato di ogni reddito, permantenersiallorala procuraauspica che lo Stato lo mantenga a proprie spese per alcuni anni attraverso il regime carcerario. Ciò detto, èevidente che esistonoforze potenti che non perdonano a Formigoni due cose: di aver avuto per molti anni un ruolo e una visibilità straordinari e di aver reso la Lombardiala regione all’avanguardia in Italia per ciò che riguarda la sanità. In questo quadro sul piano giudiziario è potuto anche avvenire che tutti coloro che per dovere d’ufficio hanno firmato in prima battuta (Formigoni li ha controfirmati) i provvedimenti messi sotto accusa, sono stati assolti. Formigoni invece non solo è stato condannato a 5 anni e 10 mesi, ma gli è stata tolta anche ogni risorsa per vivere. Facciamo una domanda amagistrati eautorità parlamentari e regionali. In ogni caso l’autorità giudiziaria non ha potuto condannare Formigoni all’ergastolo per dei limiti non aggirabili del codice penale che condiziona l’entità della pena e i reati commessi: di grazia, allora come dovrebbe vivere Formigoni fuori dal carcere? La domanda è legittima perché non è affatto scritto da nessuna parte che egli possa avere amici personali in grado di dargli un tetto e due pasti al giorno. Soloil combinato disposto di unamentalità totalitaria di stampo stalinista e di una soggettività inquisitoria e persecutoria di stampo controriformista (quella di cui parla Paolo Sarpi nella Istoria delConcilioTridentino), che vuole torturare il peccatorefino alla sua distruzione per redimerlo, potrebbero aver architettato la combinazione di similimarchingegnigiuridicied economico-finanziari. Siccome nei confronti di Roberto Formigoniil puntolimite è statolargamente raggiunto e superato, ci auguriamo che la ragionevolezza possa riemergere. ©

10 bibbiano

Non c’è solo il caso Bibbiano. I dati parlano chiaro: è strage degli innocenti… Cinquecento bimbi dati in affido e spariti nel nulla Duemila quelli fuggiti, quasi 5mila quelli con problemi di alcol e droga. Ronzulli (Fi): sopralluoghi in tutte le strutture

Giuliano Zulin su Libero in prima e a pagina 9

Parlateci di Bibbiano. Sì, ma anche di quello che succede nel resto d’Italia. Nel comune reggiano l’inchiesta “Angeli e demoni” ha scoperchiato un mondo brutto, respingente, inimmaginabile. Eppure, è da anni che va avanti la tratta dei minori. Perfino il Parlamento se n’è occupato tempofa. Gennaio 2018. Un’indagine conoscitiva aveva spiegato per filo e per segno il sistema. Bucato. Così come presentava delle falle la stessa relazione presentata (…) segue ➔ a pagina 9

(…) alla Commissione Infanzia: pochi dati e vecchi, poichè gli enti locali non comunicano molto, ognuno fa per sè (in questo caso c’è l’autonomia) e alla fine non è possibile avere una fotografia completa dei problemi, emersi proprio dall’inchiesta di Reggio Emilia. Però già dai pochi numeri a disposizione si capiva – e non si è intervenuto – che qualcosa nonandava. In queste settimane abbiamo raccontatolo strapotere degli assistenti sociali nel togliere i minori alle famiglie. Però «di grande interesse – si legge nell’indagine conoscitiva parlamentare – sono anche i dati relativi ai minori dimessi dai presidi residenziali per tipo di destinazione e ripartizione geografica. Di questi, su un totale di 14.633, 4258 hanno fatto rientro nella propria famiglia di origine, quasi altrettanti – 4055 – sono stati trasferiti in altre strutture residenziali, 546 sono stati dati in affidamento etero-familiare, 289 in affidamento intrafamiliare; solo 1151 sono diventati autonomi,mentre ben 2360 si sono allontanati spontaneamente o sono fuggiti dalle strutture». C’è poi una ulteriore voce che si vede nelle tabelle che fa impressione: 442 minori non si sa dove siano finiti, «destinazione ignota» è la denominazione. Spariti,insomma. Volatilizzati. Senza tuttavia specificare l’età del minorenne: se si tratta di un 17enne si può anche comprendere che possa aver tolto il disturbo dalla sera alla mattina. Ma se il bambino in questioneavesse 2-3 anni? Difficileimmaginare una fuga solitaria, giusto? Clamorosala classificazione deiminori ospiti: «Per quanto riguarda la tipologia di disagio dei minori nelle strutture, si rileva che la maggior parte di essi non presenta problematiche specifiche; infatti su un totale di 19.955 ospiti, quelli per cui non sono stati riscontrati particolari disagi sono pari a 11.735». Perché allora sono stati allontanati da mamma e papà? «Quelli che presentano disabilità e disturbi mentali – si scopre dalla relazione della Commissione Infanzia – sono in totale 3.147; mentre quelli con problemi di tossicodipendenza, alcolismo o altri disagi analoghi, sono pari a 4.917». Una cifra spaventosa. «A questi si devono aggiungereiminori stranieri (complessivamente pari a 8129, di cui 5938 maschi e 2191 femmine) di cui 249 maschi e 143 femmine presentano disturbi mentali o disabilità di vario genere.Mentre 1669minori stranieri di sesso maschile presentano invece problemi di tossicodipendenza, alcolismo o altri disagi». Tantissimi, troppi. MENO FONDI L’azzurra Licia Ronzulli, attuale presidente della Bicamerale per l’Infanzia, ha annunciato che «farà un tour dell’Italia per visitare le case famiglia e i tribunali dei minori, come segno tangibile di grande attenzione verso chi è indifeso e deve essere protetto con strumenti legislativi adeguati e con la presenza costante delle istituzioni». La senatrice di Forza Italia metteràa disposizione della nascituraCommissione d’inchiesta sugli affidi «una sorta di diario operativo» – come resoconto della sua iniziativa -in cui «saranno registratele eventuali criticità riscontrate, per individuare così soluzioni percorribili, in un’ottica di miglioramento dei servizi a tutela dei minori e per una formazione mirata di personale adeguato». Bene, era ora. Evviva. Forse però per stanare i furbetti degli affidi basterebbe tagliare la diaria per minore accolto – dai 70 ai 400 euro al giorno – che finiscono nelle tasche di chi gestisce le comunità. Lo stesso metodo che Salvini ha applicato alle coop ospitanti migranti. Con meno soldi in ballo, ci sarebbero meno casi Bibbiano, e più attenzione alle pratiche. Lavorare per nulla, o tanto per fatturare, non piace nemmeno agli assistenti sociali. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Il governatore Zaia ha annunciato un’indagine Solo in Veneto perse le tracce di 102 ragazzi Il 27% dei minori resta in affido oltre i due anni previsti dalla legge. Molti quelli sradicati dalle loro regioni

Alessandro Gonzato su Libero a pagina 9

Centodue bambini “spariti”. Centodue minorenni tolti alle famiglie, portati in comunità, e chissà poi dove andati a finire. In Italia non c’è solo Bibbiano. Anche in Veneto emergono situazioni su cui andrebbe fatta chiarezza. Precisiamo:a oggi non c’èla prova di nessun “sistema” illegale dietro a questi affidi. E però anche a Nordest cominciano ad affiorare casi particolari. Lo dicono i drammi vissuti da certe famiglie perbene alle quali sulla base di relazioni sbagliate sono stati strappati i figli. I dati tratti dalla relazione del “Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza” non possono che far riflettere. Si basano su documenti del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, della Commissione parlamentare per l’infanzia e della Regione Veneto. Dicevamo che di 685 minori dati in affido ai servizi residenziali (ossia in comunità) dal primo gennaio al 31 dicembre 2017, solo 193 sono poi tornati a casaloro, e di 102 la destinazione è ignota. Proprio così. E non si sa se si tratti di ragazzini diventati nel frattempo maggiorenni o di bambini piccoli, i quali potrebbero essere finiti nelle mani di delinquenti senza scrupoli. Parte di questi 102 potrebbero essere ancheminori stranieri non accompagnati, ma le informazioni oltre a essere vecchie di due anni non sono complete e non esiste una banca datiintegrata. Inoltre nel caso specificoi dati non tornano, perché secondo un’altra statistica ricavata dalla medesima analisi i minorenni usciti dalle comunità del Veneto nello stesso periodo sono 662 e non 685: ne mancano 23, che fine hanno fatto? Sempre al 31 dicembre 2017, 35 bambini fino ai 2 anni si trovavano all’interno di strutture d’accoglienza. Quelli con meno di 10 anni erano 156. E però il quadro stride con la legge 184 del 1983 (art.2 comma 1) la quale stabilisce che «il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo (…) è affidato a una famiglia, preferibilmente con figli minori, o a una persona singola in grado di assicurargli (…) le relazioni affettive di cui ha bisogno». E il comma 4 ribadisce: «Il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre 2006 mediante affidamento a una famiglia, ove ciò non sia possibile,medianteinserimentoin comunità di tipo familiare». LE COMUNITÀ Un quarto dei minori accolti in strutture del Veneto, poi, provengono dafuori regione, quindi anche da molto lontano rispetto a casa loro. Perché isolare del tutto bambini e ragazzini dai luoghi dove sono nati? Un altro dato: 177minori su 658 presenti nei servizi residenziali, dunque il 27%, sono rimasti in comunità per più di due anni benché la legge vieti di prolungare l’affidamento oltre tale periodo, a meno che la sospensione dell’affido «rechi pregiudizio alminore». Il 27% è da considerarsi un’eccezione? Alle comunità cheaccolgonoiminori,inmedia, vengono erogati dai 70 ai 100 euro per ciascun ospite. Quasi tutte le regolamentazioni locali prevedonola possibilità diinnalzarela quotafino a 400 euro in presenza di neonati,minori disabili o con problemi di salute. Intorno agli affidi girano una montagna di soldi. E spesso dove ci sono tanti quattrini, ma per fortuna gli onesti sono altrettanti, si nascondono anche farabutti. È doveroso investigare dalla Valle d’Aosta alla Sicilia. Il governatore del Veneto, Luca Zaia ha avviato un’indagine interna all’ospedale di Padova su un clamoroso caso verificatosi nell’ex Serenissima. Parliamo di una giovane coppia veneziana a cui per 9 mesi è stata tolta la potestà genitoriale. L’incubo è cominciatoil 24febbraio 2016 quandolamamma chiudendo il portone di casa ha fatto cadere dall’ovetto la figlioletta di 40 giorni. La piccola ha subito un brutto taglio alla lingua ed è stata operata nel reparto di Pediatria dell’ospedale di Padova. L’intervento è andato bene e però, evidenzial’avvocato difensore dellafamiglia, Matteo Mion, la mamma a sua insaputa e senza il proprio consenso è stata trasferita per 45 giorni con la bimba nel reparto dell’unità di crisi denominato “Casa del bambinomaltrattato”. Due settimane dopo nei capelli della bambina sono state trovate tracce di cocaina, il padre è risultato negativo, per la madre è emersa una positività ma semplicemente al principio attivo di un antidolorifico che le era stato somministrato in ospedale dopo il parto cesareo. Nonostante ciòil tribunale deiMinoriil 9 aprile ha trasferito la bimba in una struttura protetta insieme alla mamma. Sennonché grazie all’avvocatoMion è stata commissionata una consulenza tecnica per accertare se la piccola fosse stata maltrattata o meno, l’esito ha chiarito che si era trattato di un incidente, è stata confermata la questione della cocaina, e il 21 novembre è stato annullato l’affidamento ai servizi sociali. L’avvocato dellafamiglia ha chiesto all’ospedale di Padova 100mila euro di risarcimento: «Nonostante le evidenze istruttorie abbiano dimostrato le schiaccianti ragioni dei genitori, la struttura non vuole rifondere i terribili danni biologicimorali, esistenziali e patrimoniali. Dopo Zaia si muova anche la procura per verificare l’operato dei sanitari».

«Bibbiano diventi un’occasione» L’avvocato che difende i genitori dei bambini strappati alle famiglie: serve subito un disegno di legge, oggi chi viene accusato non ha diritto di difendersi. Riaperta anche l’inchiesta sui “Diavoli della Bassa”

LUCIA BELLASPIGA su Avvenire a pagina 10

Il giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia, Luca Ramponi, ha confermato gli arresti domiciliari per il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, ora sospeso dalla Prefettura. La decisione rientra nell’ambito dell’inchiesta “Angeli e Demoni” su un presunto giro di affidi illeciti dei bambini da parte dei servizi sociali della Val d’Enza. Carletti, che si è autosospeso dal Partito democratico, è accusato di abuso d’ufficio e falso ideologico e si trova agli arresti domiciliari dal 27 giugno. Immediata la replica dell’avvocato Giovanni Tarquini, difensore del sindaco. «C’è in questa vicenda un costante stravolgimento della realtà dei fatti e una palese confusione dei ruoli e delle competenze di amministratori e tecnici» ha detto. Intanto, dalla Procura di Modena arriva la notizia della riapertura delle indagini su un altro filone legato agli intrecci tra minori strappati, presunti abusi, famiglie e servizi sociali. Si tratta dell’inchiesta allora chiamata “I Diavoli della Bassa Modenese”.

Lei difendeva i genitori, quando i loro bambini venivano portati via la notte da casa, la mattina da scuola. Era la fine degli anni ’90 e l’avvocato Patrizia Micai era il legale di alcune delle famiglie entrate nell’inchiesta allora denominata “I Diavoli della Bassa Modenese”, l’antecedente (quasi a fotocopia) di “Angeli e Demoni”, l’inchiesta aperta un mese fa dalla procura di Reggio Emilia a Bibbiano e dintorni. Stesse modalità, stessi operatori, ma allora meno interesse politico e mediatico: «Di quella vicenda si occupò Avvenire e pochi altri, noi rimanemmo soli e tutto fu coperto dall’oblio», spiega Micai. «Anche i genitori che furono assolti dalle accuse di abusi e di riti satanici non rividero mai più i figli. Figli che durante le sedute con gli operatori della Asl di Mirandola pian piano si convinsero di essere stati davvero abusati e di aver partecipato a riti sanguinari, e alla fine odiarono madri e padri. Se a Bibbiano stava succedendo lo stesso – e sarà la magistratura ad appurarlo – forse questa volta siamo arrivati in tempo per salvare i bambini. Ma allora bisogna guardare a Bibbiano come a una grande occasione». Bibbiano una occasione? Occasione epocale di riforma del sistema minorile. Se le accuse saranno confermate, sarà un momento storico sconvolgente ma anL che di rifondazione, purché la politica se ne stia fuori e si resti sul piano strettamente tecnico scientifico. Occorre un disegno di legge che sia immediatamente esecutivo e approvato da tutti i partiti, in modo serio, puntando tutti solo alla tutela del bambino. Per fare ciò, ci vuole un tavolo tecnico non composto dalle solite rappresentanze autoreferenziali, ma da chi veramente sa cosa fare: dopo la Bassa Modenese e Bibbiano è chiaro a tutti che il sistema di tutela del minore ha delle falle. Dire “che non accada più” non serve, se poi non si cambia. Nel concreto, da dove partire? Quando arrivano le segnalazioni, i tempi delle indagini devono essere brevi e certi, in modo che il bambino venga subito messo sotto la protezione del suo curatore speciale, figura che l’ordinamente già prevede ma che in Italia pochi si possono permettere. Il bambino avrà così il suo avvocato che lo tutela e che nomina i propri consulenti su elenchi di professionisti specializzati, pagati dallo Stato. Altrimenti resteremo sempre ostaggio dell’articolo 403 del Codice civile, quello che oggi dà ai servizi sociali l’enorme potere di decidere autonomamente se allontanare un bambino dalla famiglia, senza che questa possa fare nulla. Il 403 va soppresso: è così vago e passibile di interpretazioni che difficilmente i genitori e il bambino possono sostenere verità diverse da quanto affermano i servizi sociali. Manca proprio dal punto di vista procedurale questa possibilità. Di questa prima fase, la più drammatica, resta traccia? Dei primi incontri tra operatori e famiglia non sono previsti video e nemmeno uno straccio di verbalizzazione. Se io non ho acceso il registratore in tasca (come il padre che avete intervistato giorni fa a Bibbiano e che per questo si è salvato), come dimostro se ho ragione io rispetto al racconto dell’assistente sociale? Non parlo necessariamente di dolo, anche l’operatore bravo si può sbagliare, aver preso appunti male, scambiare una pratica con un’altra, succede. Allora la cosa più civile è applicare ciò che già la Carta di Noto prevede, che ci siano video, audio e verbalizzazioni di tutti gli incontri: quando ci si lascia si firma il verbale, così nessuno può aver capito male, è a tutela di tutti, anche degli operatori. Accade nelle riunioni condominiali, e non in un contesto così delicato? Altra falla: com’è possibile che i genitori siano assolti ma i figli vadano lo stesso in adozione, come nel caso noto di Angela Lucanto? Non può essere che ci siano tempi incoerenti tra il processo civile, che si occupa della parte dell’affidamento del minore, e il processo penale, che riguarda gli adulti e i presunti abusi intrafamiliari. Alla fine il bimbo resta fuori famiglia per anni, è devastante. Occorre trovare una modalità perché intanto continui ad avere un contatto con la famiglia, con nonni, zii, anche con i genitori sotto accusa, a meno che non sia il bambino a non volerlo. La domanda che dobbiamo farci è: è interesse del minore rimanere completamente lontano dalla sua famiglia? Se avrà il suo avvocato, sarà lui a stabilirlo. Badi bene che, nel caso il bambino non voglia vedere i genitori, è importante capire perché: perché è abusato? O perché è alienato? Plagiato? In stress post traumatico, proprio da allontanamento? Nella Bassa Modenese i piccoli subirono tali trattamenti da psicologi e assistenti sociali che si convinsero di aver ucciso decine di bambini e tuttora, da adulti, ne sono convinti. Altra riforma urgente? Gli allontanamenti: nella Bassa successe che un presunto padre abusatore era stato arrestato, non c’era più, in casa restavano la mamma e i fratelli della bimba “abusata” (Margherita). Perché allora portarla via? Desaparecida per sempre. Persino un adulto, se è colto in fragranza di reato, per sua tutela ha diritto a un processo per direttissima entro 48 ore, perché invece la bimba, che è la vittima, resta sequestrata a tempo indeterminato? Il piccolo, innocente, vede le forze dell’ordine entrare in classe e venire proprio da lui, per un bimbo è la discesa dei marziani, è condotto in una struttura sconosciuta, perde tutti i suoi riferimenti, i giocattoli, gli amici. Poi ci vengono a dire che ha sintomi di malessere? L’Italia è continuamente condannata dagli organismi internazionali, è possibile che ciò accada in uno stato di diritto? Il padre di Margherita alla fine fu assolto, ma lei fu data in adozione e ancora oggi che è adulta rifiuta di rivedere la famiglia. Perché non accada più non ci si può affidare al buon senso dei singoli, va disciplinato. Una volta soppresso l’articolo 403, risalente al 1941, cosa cambierebbe? La famiglia avrebbe la possibilità di difendersi: oggi se un operatore entra in casa e porta via un figlio, i genitori non sono nessuno, non hanno diritto di contraddittorio, devono solo subire. Ma nel nostro ordinamento non esistono i provvedimenti “inaudita altera parte”, cioè con una parte che non può parlare, in qualsiasi contenzioso penale o civile ci si può sempre difendere, lo dice l’articolo 111 della Costituzione. Dopo 20 anni lei è sempre convinta dell’innocenza dei suoi assistiti, persino di quelli che furono condannati. Condannati sulla base delle relazioni di quei servizi sociali e psicologi, parte dei quali oggi sono indagati a Reggio Emilia. Quei genitori furono “presunti colpevoli”, anziché presunti innocenti come prevede il nostro ordinamento, dovevano loro trovare le prove di essere innocenti. Prove della colpevolezza non esistevano, erano condannati sulla base di perizie psicologiche fatte dalla onlus “Hansel e Gretel” oggi indagata. La grande notizia però è che il procuratore capo di Modena Paolo Giovagnoli ha appena annunciato la riapertura delle indagini sulla Bassa Modenese: riesaminerà le carte e i video di allora, verificherà tutti i legami tra i due casi, così come richiesto mesi fa dall’ex senatore Carlo Giovanardi in un esposto. La prescrizione? Non inizia a decorrere fin tanto che il reato persiste, e molte situazioni sono ancora in corso, inoltre le famiglie porteranno molti nuovi elementi. Io intanto ho già ottenuto la revisione di uno dei processi, il 10 ottobre avremo la prima udienza, poi procederò con gli altri, e questa volta si parlerà anche di omicidi: tra infarti e suicidi, sei persone ci hanno rimesso la vita.

10 viaggio nel sud

Cerignola, l’intolleranza che cresce nei campi Nel paese di Di Vittorio, padre del sindacato, la Lega ha ormai sfondato. Braccianti locali e stranieri si guardano in cagnesco. E molti italiani accusano la Cgil: ormai pensate solo ai diritti di “quelli”

Il segretario della Camera del Lavoro predica l’unità con gli immigrati, ma in piazza, dove si recluta, c’è divisione

Il gelataio Perrucci, fresco d’iscrizione leghista: “Salvini ha capito che qui al Sud ci sono imprenditori di valore”

Gad Lerner su Repubblica a pagina 12

CERIGNOLA (FOGGIA) — Se non riuscite a spiegarvi l’indulgenza dei meridionali che accorrono sul Carroccio del vincitore nonostante la matrice antiterrona della Lega, venite a Cerignola e fatevela spiegare dai suoi braccianti. Sì, proprio Cerignola la rossa, la patria di Giuseppe Di Vittorio, cui è intitolata la sala consiliare del Municipio. Statue e ritratti del comunista fondatore del sindacato italiano adornano in più punti il centro storico; in molte case popolari la sua fotografia venne appesa per gratitudine di fianco all’immaginetta della protettrice Maria Santissima di Ripalta. Ma dalle elezioni europee del maggio scorso la Lega di Salvini è diventata il primo partito di Cerignola col 30% dei voti. Per ora sono solo due i consiglieri comunali leghisti, Vincenzo Specchio e Antonio Bonavita, che volentieri si fanno fotografare sotto il murale dedicato a Di Vittorio anche se provengono dalla destra post-fascista e si proclamano tuttora ammiratori del Duce: «Mussolini e Di Vittorio sono stati entrambi grandi difensori del nostro popolo -affermano col palese intento di apparirmi equanimi – ma ormai la sinistra ha tradito il popolo e sostiene i poteri forti». Poco importa che Di Vittorio fosse detenuto in una cella del carcere di Lucera perché aveva tentato di opporsi all’assalto fascista della Camera del Lavoro, quando il direttore venne a comunicargli che era stato eletto deputato al Parlamento, nel 1921. Orfano di padre a 7 anni, costretto al lavoro minorile nei campi da quando ne aveva 9, era un adolescente quando nel 1909 pose la mano destra su un aratro per giurare eterna fedeltà alla Lega Contadina. Le notti d’estate Peppino dormiva nelle cafonerie dove i latifondisti ammassavano i braccianti al loro servizio, di fianco alla masseria. Oggi le nuove cafonerie hanno cambiato nome. Gli oltre tremila lavoratori stranieri del settore ortofrutticolo di Cerignola trovano alloggio nelle borgate in disuso, nelle tendopoli e, solo i più fortunati, pagando l’affitto nei bassi cittadini. Con i braccianti italiani -a Cerignola se ne contano tuttora 6600, anche giovani- s’incontrano nei campi. E si guardano in cagnesco. Può sembrare assurdo, ma è come se il vento leghista a Cerignola scoperchiasse la realtà binaria di due Cgil sovrapposte: la Cgil della Camera del Lavoro che predica l’unità fra italiani e immigrati; e la Cgil della piazza di reclutamento a giornata dei braccianti, in cui prevale la divisione. Regge sempre meno l’equilibrio fondato sulla specializzazione dei mestieri: da una parte gli esperti nella potatura degli ulivi e negli innesti; dall’altra quelli che si spezzano la schiena nella zappatura e nella raccolta. Gli italiani, con le buste paga intermittenti ma più o meno regolari, sempre attenti a limitare il numero ufficiale delle giornate lavorative per non perdere l’indennità di disoccupazione, borbottano che gli stranieri saranno pure sfruttati ma poi non hanno alcuna spesa ulteriore da detrarre dalla loro misera paga in nero. Quando va bene prendono 30 euro a giornata, ma più spesso si sottomettono al meccanismo infernale del cottimo: per esempio un euro ogni cassone di angurie, e stiamo parlando di un quintale e mezzo a cassone, pesando di media le angurie quindici chili. Cercherò di spiegare perché esistono sul serio due Cgil, la Cgil degli ideali e la Cgil della realtà, peraltro riunite in un profondo legame osmotico. Incontro la prima Cgil alla Camera del Lavoro, che qui si chiama Casa del Popolo “Giuseppe Di Vittorio”. A guidarla è il segretario Giovanni Marinaro, un compagno che conosce bene e, di più, esprime un legame affettivo con la Cgil della piazza del reclutamento a giornata: «Cerignola è afflitta da una criminalità organizzata fra le più agguerrite d’Italia, traffico d’armi, rapine e furti d’auto. Anche fra queste mura, dove arrivano a portarmi i loro problemi di lavoro, avverto che la loro preoccupazione maggiore è la mancanza di sicurezza. E allora li affascina Salvini che fa il duro». Non è una novità assoluta. Da quando, il 5 dicembre 1993, per la prima volta nel dopoguerra il missino Salvatore Tatarella espugnò il comune rosso di Cerignola, alla Casa del Popolo hanno assistito a un passaggio diretto di militanti dal Pci al Msi, sempre però restando iscritti alla Cgil. E certo non li mandano via. Giovanni Marinaro mi fa incontrare nel suo ufficio con i tre giovani dirigenti foggiani della Flai, il sindacato dei lavoratori agricoli impegnato nella lotta contro i caporali del lavoro nero: Daniele Iacovielli, Raffaele Falcone e Magda Jarczak. Quest’ultima è un’immigrata polacca che si ritrovò sequestrata insieme a tante altre in una masseria, durante la raccolta del pomodoro. Dopo che ha trovato il coraggio di fuggire e di denunciare il trafficante, da sindacalista oggi non ha certo paura di sfidare anche i “capi neri”, a loro volta immigrati che gestiscono il racket delle tendopoli e dei furgoni per il trasporto dei braccianti. Un impegno civile che non sembra però riscuotere molti consensi fra gli italiani. Racconta Iacovielli: «Martedì scorso abbiamo organizzato una biciclettata di protesta contro le ripetute aggressioni di cui sono vittime gli africani quando vanno a cercarsi il lavoro da soli, senza passare dai boss. Ma ci sono arrivati dei messaggi di protesta: “Perché difendete i neri e non fate nulla per il carabiniere accoltellato a Roma?”». Così la prima Cgil si trova messa costantemente sotto esame dalla seconda Cgil, gelosa delle attenzioni riservate agli stranieri. «Eppure i braccianti italiani di Cerignola sono fra i meglio tutelati del Tavoliere – fa notare Magda Jarczak – hanno ottenuto di fatto la giornata di 6 ore, mezz’ora in meno di quanto prevede il contratto, per una retribuzione che può variare fra i 45 e i 55 euro. Una bella differenza rispetto al salario di piazza dell’africano che di rado sfiora i 5 euro l’ora». «Noi abbiamo 7 mila iscritti – riassume Iacovielli – fra i quali gli stranieri sono ormai poco meno della metà. Stiamo stiamo attenti a respingere le offerte di abitazioni con affitti simbolici riservate agli immigrati, che potrebbero apparire un favoritismo. Vogliamo affermare il principio che devono essere pagati come gli altri e quindi che paghino come gli altri. Ma nonostante ciò, dietro le spalle avvertiamo il malcontento: “Per il sindacato quelli vengono prima di noi…”». Sentirò ripetermelo spesso, l’eufemismo “quelli”. Senza però che si traduca mai in ostilità aperta contro il sindacato. Lo spiega bene Falcone: «Prevale l’idea di una divisione dei compiti: la rappresentanza del lavoro a noi, la sicurezza a Salvini. Ce lo dicono perfino alcuni nostri tesserati africani, da sempre abituati vivere sotto il dittatore: “C’è un capo? Allora bisogna obbedirgli. Ora il capo è Salvini e io gli metto il like”. Nel nostro direttivo provinciale c’è un bracciante marocchino stabilizzato che interviene per lamentare l’abbattimento del costo della manodopera dovuto alla presenza di troppi immigrati. Nella sua mentalità, il salario resta una variabile da trattare individualmente col datore di lavoro». Alle sette di sera, Giovanni Marinaro incarica due vecchi militanti, Matteo Petronelli e Giuseppe Valentino, di accompagnarmi alla piazza del reclutamento, che rimane il luogo di ritrovo dei braccianti ancor oggi che le convocazioni per l’indomani arrivano quasi sempre via WhatsApp. «Preparati a sentire cose sgradevoli», mi avverte. Cammin facendo, Petronelli e Valentino raccontano dei genitori che li portavano da bambini a sentire il

comizio di Peppino Di Vittorio, issato sul rimorchio bardato con un lenzuolo rosso. Di fianco al Teatro Mercadante, dove Pietro Mascagni compose la “Cavalleria rusticana”, sorgeva un edificio chiamato “Cremlino”. Dentro lo stanzone affumicato dal trinciato forte avveniva la trattativa con gli impresari; fra quelle mura prese avvio il movimento di lotta sindacale che ha emancipato dalla miseria il proletariato di Cerignola. Nostalgia canaglia, eppure… Perfino i compagni Petronelli e Valentino sembrano prendere le distanze da “quelli”: «Per ora ai negri è riservata solo la raccolta dei pomodori, della frutta e delle olive. Ma vedrai che tra dieci anni anche nella potatura troveremo un solo cerignolese per dieci di quelli». Presagio di una spaccatura destinata ad acuirsi, tanto più che i figli dei contadini pugliesi preferiscono andarsene dalla loro terra. In piazza incontriamo Giuseppe Catalano, 60 anni. «Il lavoro per ora c’è ancora, ma l’arrivo di quelli ci svuota le tasche. Tutto è cominciato con l’euro. Prendevamo 70 mila lire, prima; adesso i 45 euro non sono nemmeno 50 mila lire di una volta». Ma non è mica colpa degli stranieri… «Una volta per noi erano già stranieri i braccianti che arrivavano da San Ferdinando», replica Catalano. «Ora dobbiamo fare i conti con quelli. Lavorano male, litigano fra di loro, ma se vuoi togliere i succhioni da sotto le piante devi per forza chiamarli. Quanto alla slopatura dei tumori delle cortecce, costa troppo e nessuno la sa più fare. Di questo passo non so che fine farà la nostra celebre “Bella di Cerignola”, l’oliva più grande del mondo». La prospettiva che gli stranieri, a cominciare dai romeni, imparino presto a potare e a innestare, è vissuta come una sciagurata fatalità: «Piano piano ci spingono fuori dalla porta. Prima lavorano loro e dopo noi». L’insieme delle due Cgil, con la loro assidua presenza nei luoghi della contrattazione, riesce a scongiurare una vera e propria guerra fra poveri – al sindacato di Di Vittorio qui in piazza si porta rispetto – ma vista la situazione sarebbe ingenuo pensare che possa scaturirne una fratellanza di classe di stampo internazionalista. Mi colpisce la durezza del settantenne Pasquale Lavacca, che pure rivendica una gioventù da rivoluzionario, quando gli scioperi non occorreva nemmeno convocarli che già tutti salivano sui torpedoni per andare al corteo: «Quelli danno fastidio, spadroneggiano. Si offendono se appena gli dici che hanno fatto uno sbaglio. Alzano la cresta. E il sindacato pensa più a loro che a noi. Ma alla fine ci cascano tutti, quando ti offrono di zappare un ettaro per cento euro». Il nuovo leghismo meridionale si nutre di questi sentimenti oltre che dell’insofferenza delle aziende ortofrutticole che patiscono la legge 199 contro il caporalato, la legge Martina, giudicata inutilmente restrittiva. L’ultimo sindaco Pd di Cerignola, Matteo Valentino, mi fa notare che al boom leghista delle europee (più di quattromila voti, sorpassati i Cinque Stelle e quasi doppiato il Pd) non corrisponde ancora una classe politica alternativa. Del resto, il partito più forte a Cerignola, sessantamila abitanti, resta quello dell’astensione. In effetti i due consiglieri leghisti di fresca iscrizione, gennaio 2019, fuoriusciti dalla lista civica del sindaco Francesco Metta, provengono dal settore commercio e di agricoltura ne masticano poco. Vincenzo Specchio ha un rinomato negozio di abiti per cerimonie, mentre l’ex carabiniere Antonio Bonavita è titolare di un’armeria. Predicano naturalmente lo stop immigrazione, ma soprattutto affilano le armi del tesseramento. Specchio ci scherza su: «A fare da sentinella per noi c’è l’armiere Bonavita che filtra la lunga fila di aspiranti transfughi dal centrodestra». Prima di decidere chi accogliere e chi no, aspettano di sapere dal Viminale se il consiglio comunale verrà sciolto per infiltrazioni mafiose, come ipotizza un rapporto della Prefettura. Ma intanto, nella migliore gelateria di Cerignola, accettano subito la domanda d’iscrizione del titolare Antonio Perrucci e gli rilasciano la tessera sotto i miei occhi. Lui a quanto mi dicono in passato sosteneva il centrosinistra, ma quando provo a chiedere a Perrucci se non lo imbarazzi il ricordo delle sparate di Salvini contro i terroni, ha la risposta pronta: «I leghisti facevano delle gaffes prima di entrare in contatto con noi meridionali, ma ora si sono resi conto che siamo imprenditori di valore». Sono passati settant’anni dacché Giuseppe Di Vittorio, nel 1949, lanciò il Piano del Lavoro della Cgil «per la rinascita dell’economia nazionale». Ispirato al New Deal di Roosvelt, si fondava su tre direttive: agricoltura, edilizia, energia elettrica. Diede un contributo decisivo al miglioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne, facendo sì che anch’esse beneficiassero del miracolo economico italiano. Condusse il movimento operaio e contadino oltre le scogliere della Guerra Fredda, prefigurando il ritorno dell’unità sindacale. Ma oggi le divisioni appaiono ancora più profonde di quelle dettate dalle ideologie novecentesche. Lacerano un’Italia sempre più spaccata in due e una società che rigetta i nuovi proletari venuti da oltremare. «A Cerignola rischiamo di trasformare Di Vittorio in un santino come Padre Pio», dice lo storico locale Giovanni. Magari affiancandolo a un Mussolini rivisitato in salsa leghista. (2-fine)

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Flop dell’appalto da 150 milioni per il porta a porta negli esercizi commerciali

Repubblica a pagina 15

10 la differenziata a roma

Roma, il bluff della raccolta differenziata Per l’Ama i rifiuti pronti per il riciclo sono arrivati al 46% Siamo andati a vedere se i conti del Comune tornano E abbiamo scoperto che gli scarti sono anche del 60% In più quelli “preziosi” vengono trasferiti a società private

Nella Capitale manca la vigilanza e gli errori sono quasi impuniti

L’Agenzia per il controllo dei servizi: “Più differenziata ma meno accurata?”

di Floriana Bulfon su Repubblica a pagina 24

Roma è avvolta da un grande mistero che odora di marcio. Agosto ha concesso una tregua, ma l’immagine che ha offerto al mondo è fatta di cassonetti e pattumiere stracolmi, cumuli di immondizia rifugio di topi, gabbiani e persino cinghiali. Nonostante questo caos, la città eterna vanta ben il 46 per cento di raccolta differenziata. Sì, stando agli ultimi dati forniti dall’Ama, la municipalizzata dei rifiuti, metà degli scarti capitolini sono ordinatamente divisi in umido, carta, vetro, plastica, indifferenziata, poi depositati nei relativi cassonetti o raccolti a domicilio ma comunque pronti per essere trattati e riciclati. Eppure lo spettacolo con cui convivono i cittadini è molto diverso e anche i più convinti ecologisti devono lottare per tenere fede all’obbligo della separazione dei sacchetti. E nasce il sospetto sulla fondatezza del dato. Il dubbi sui numeri Gli unici che hanno cercato di decifrare il sistema dell’immondizia romana hanno infatti formulato «dubbi sia sulle quantità di rifiuti raccolti in maniera differenziata che sulla qualità delle frazioni raccolte da avviare al riciclo». A metterlo nero su bianco è la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti già nel dicembre 2017. «Denunciare un valore di 30, 40 o 50% cambia. Se così non fosse, saremmo in presenza di un reato» spiega l’allora presidente della Commissione Alessandro Bratti. I riscontri sulla percentuale raggiunta sono talmente poco chiari che la prima assessora all’ambiente della giunta Raggi, Paola Muraro, considerata un’esperta in materia, intima: «Fate un audit sull’effettiva percentuale di raccolta. Ciò costituisce un problema perché si potrebbe aprire un danno erariale». La verità sulla differenziata Perché Roma riscuote dai residenti la tariffa più alta per curarsi dei rifiuti, oltre 700 milioni all’anno, a cui vanno aggiunti centinaia di migliaia di euro dalla Regione e dallo Stato. Sono passati tre anni e di quell’inchiesta interna per scoprire la verità sulla differenziata non c’è traccia, come conferma l’Ama. Un mistero eterno su cui però l’Agenzia per il controllo dei servizi pubblici, che dipende sempre dal Campidoglio, individua una traccia inquietante: negli impianti romani dove viene trattato il multimateriale, ossia plastica e metalli, gli scarti hanno avuto un aumento pauroso. Nel sito di via Laurentina improvvisamente crescono così tanto quasi da raddoppiare arrivando al 42 per cento nel 2015. Cosa significa? Lo scrive la stessa agenzia: «Scarti in aumento, aumenta la raccolta differenziata ma meno accurata?». Insomma quello che arriva dovrebbe essere praticamente pronto per il riciclaggio, invece quasi la metà non è utilizzabile perché non differenziata correttamente. Non va meglio nell’impianto di compostaggio di Maccarese, nel vicino comune di Fiumicino, dove finisce l’umido. Tra il 2010 e il 2012 i rifiuti classificati come differenziati ma in realtà “sporchi” passano dal 38,8 al 60,2 per cento, tanto che nonostante le quantità trattate aumentino, crolla la produzione di compost. È il segno che la raccolta è differenziata solo in apparenza. L’autostrada della “munnezza” A un certo punto però gli scarti scompaiono. O meglio prendono altre strade, assieme a tutto il resto. Quello che se raccolto bene è un tesoro, pronto a fruttare profitti con la vendita di carta, plastica, vetro, a Roma lo mandano via. Decine e decine di tir che dalla Capitale corrono lungo l’Autostrada del Sole, trasformata nella superstrada della “munnezza”. Ben 163 mila tonnellate di frazione organica (il 95 per cento) finiscono in impianti privati del Nord-Est. Così come il 91 per cento delle 74mila tonnellate di multimateriale, trasferito per lo più in provincia di Latina. L’autocertificazione dei rifiuti A certificare i dati è Ispra, l’Istituto superiore per la protezione ambientale. Nel suo ultimo report sostiene che Roma ha una media pro-capite di 587, 2 chili di rifiuti per abitante; Milano 494,7. La Capitale nel 2016 aveva il 42 per cento di differenziata e l’anno successivo il 45,4. Milano il 64,9. Spiegano però che non svolgono alcun campionamento: «Si tratta di un’elaborazione in base al modello unico di dichiarazione ambientale compilato dal comune di Roma». Ci si attiene insomma ad una sorta autocertificazione dei redditi da rifiuti. Ed è solo quando calcolano lo scarto che le cose cambiano. L’unico rapporto disponibile è a livello nazionale, mescola le città virtuose e quelle sporcaccione. Il risultato è che «nel 2017 avevamo una media del 55 di raccolta differenziata, il riciclato effettivo però è di dieci punti in meno». Le mancate multe Insomma, quei sospetti della Commissione parlamentare paiono riemergere dietro i diagrammi delle statistiche. Nella Capitale d’altronde gli errori nella differenziata, puniti altrove con multe salate, sono quasi impuniti. Se è vero che nel 2018 sono state staccate quasi 20mila contravvenzioni, tremila in meno rispetto all’anno precedente, quasi la metà riguardano auto in sosta davanti ai contenitori. A dire che manca una vigilanza è persino un gruppo di lavoratori dell’Ama riuniti in un Laboratorio idee che attraverso un blog informa i cittadini: «Ci sono solo 38 agenti accertatori distribuiti su 3 turni di lavoro. In passato era stata tolta la facoltà di multare a 250 capi squadra per motivi contrattuali, ma ad aprile, anche grazie a un nostro intervento, possono accertare e sanzionare. In pochi però hanno ritirato la modulistica. Nessuno sta facendo nulla sui conferimenti e sulla regolarità delle aziende private che operano per conto Ama». L’appalto e il caos Le aziende private sono quelle che lo scorso ottobre hanno vinto l’appalto da oltre 150 milioni per raccogliere l’immondizia porta a porta negli esercizi commerciali. Il risultato è stato un proliferare di bidon

cini, spesso piazzati a ridosso dei cassonetti per i cittadini, che si è trasformato in caos. Cartoni e umido ritirati in ritardo, clienti costretti a fare lo slalom per entrare nel negozio e alla fine si butta tutto nel secchione lungo la via che in poche ore straborda. Un contagio che si propaga dal centro storico alla periferia. «Ho fatto molti reclami. Paghiamo per un servizio che non abbiamo» spiega la tabaccaia Katia esasperata. È un coro: il macellaio, Sandro che ha una tavola calda, il venditore di frutta pakistano tutti muniti di calendario della raccolta con su scritto “Roma ci piace un sacco” e tutti abbandonati con i loro rifiuti. «La situazione è drammatica» denuncia Maura Alabiso, consigliera 5Stelle del VII municipio. Ogni settimana documenta il disastro di un appalto che prometteva di migliorare la differenziata e di fatto invece ha aumentato l’indifferenziata: «Hanno solo portato i secchioni, attaccato il tag, la targhetta su cui passare il lettore per dimostrare di aver ritirato l’immondizia, e poi o non rispettano il programma di ritiro o proprio non si vedono». Nonostante gli annunci e le percentuali i risultati sembrano lontani. «Il fatto è che quando tu metti in campo teorie non suffragate da servizi accurati è chiaro che fallisci» rileva Laura Puppato. Già sindaco Pd di Montebelluna, uno delle città con la raccolta differenziata più alta d’Italia, insieme a Paola Nugnes del M5S ha scritto la relazione presentata alla Commissione d’inchiesta nel 2017: «Rispetto al dato teorico che avevamo registrato a Roma, una quota del 30-40% di materiale andava a finire nell’indifferenziato. Quello che vedo oggi è l’esito di quanto atteso». Una Capitale trasformata in discarica e un mistero che sa di fallimento.

ESTERI

1 Putin

Pene più aspre e carcere preventivo per i capi dell’opposizione Arresti e denunce Così Putin cerca di fermare la rivolta. Oltre 800 i fermati, tra loro anche Olga Misik, la studentessa simbolo della piazza

Stampa p.11

Mosca, il pugno duro contro la protesta tra gli 800 arrestati la leader del corteo

FERMATA SOBOL, LA VICE DELL’ANTI-PUTIN NAVALNY LA GENTE IN PIAZZA CONTRO L’ESCLUSIONE DELLE OPPOSIZIONI DAL VOTO PER LE COMUNALI

Messaggero p.9

Arrestata anche Lyubov l’avvocatessa anti-Putin La 31enne, leader delle proteste di piazza e vicina a Navalny, digiuna da 21 giorni

Giprnale p.10

Moscainpiazza,pugnodurodiPutin La protesta contro il presidente non si ferma:settecento arresti. Fermata anche la leader Lyubov Sobol

Corriere a pagina 12

Fermata anche Sobol, la Giovanna d’Arco anti Putin

Era l’ultima leader in libertà perché madre di una bimba piccola Ieri oltre 800 arresti

“Avete paura di una ragazza che fa lo sciopero della fame?” Ljubov Sobol, 31 anni, ha detto così agli agenti che l’hanno bloccata mentre saliva sul taxi che l’avrebbe dovuta portare al corteo

Repubblica pagina 17

Pezzo della stampa

L’opposizione russa è scesa di nuovo in piazza e ancora una volta il Cremlino ha reagito strozzando la protesta con un’ondata di arresti. Sono almeno 828 i dimostranti trascinati con la forza nelle camionette della polizia in un centro di Mosca blindato da centinaia di agenti in assetto antisommossa e bagnato da una pioggia che a tratti si trasformava in acquazzone. Tra i fermati c’è anche Liubòv Sòbol, la giovane dissidente alleata di Navalny divenuta ormai la «madrina» delle manifestazioni. Arresti e manganellate fanno purtroppo parte di un copione già visto, ma Putin sta affilando la mannaia della repressione e potrebbe presto assestare agli oppositori colpi di una gravità inaudita. Pene molto più pesanti dei 30 giorni di carcere che rischia chi partecipa a una «manifestazione non autorizzata«. Gli investigatori hanno infatti lanciato una serie di inchieste penali dal chiaro sapore politico. La più inquietante riguarda le proteste del 27 luglio, soffocate con 1.400 fermi e bollate come «disordini di massa»: un reato per il quale si rischiano 15 anni di reclusione e che potrebbe facilmente essere esteso ai cortei di ieri. Per ora 11 persone sono state fermate con questa imputazione e per sei è già scattata la custodia in carcere. Chi protesta chiede di lasciar candidare gli oppositori alle elezioni comunali di settembre. Tanto è bastato alle autorità per aprire un’inchiesta per «ostruzione al lavoro delle commissioni elettorali», punibile con cinque anni dietro le sbarre. L’ultima batosta riguarda il Fondo Anticorruzione di Aleksey Navalny, il trascinatore dell’opposizione ora in cella proprio per le proteste: alcuni dipendenti dell’ente sono stati accusati di riciclaggio di denaro per circa 14 milioni di euro. «Sono soldi acquisiti illegalmente», sostengono gli inquirenti senza fare i nomi degli indagati. Il Fondo Anticorruzione da anni punta il dito contro alcuni potenti personaggi del cerchio magico di Putin. Liubov Sobol è la consulente legale di questa organizzazione e una dei tanti a cui è stata negata la candidatura alle elezioni del Consiglio Comunale di Mosca. È stata lei, in sciopero della fame da 21 giorni, a invitare i moscoviti a protestare ieri andando «in un punto qualsiasi dell’Anello dei Boulevard» che circonda il centro della capitale russa. La 31enne però non ha potuto manifestare: la polizia l’ha fermata prima, trascinandola fuori dal taxi in cui si era appena seduta. Gli altoparlanti delle forze dell’ordine invitavano i dimostranti ad andare via e «non ostacolare il riposo dei moscoviti». Ma migliaia di persone hanno comunque manifestato pacificamente sfidando al grido di «Putin ladro!» le forze speciali equipaggiate con caschi, manganelli e giubbotti antiproiettile. Non le ha fermate neanche lo «Shashlik Live», una via di mezzo tra una sagra dello spiedino e un mega concerto rock messa su in fretta e furia dal Comune per distogliere i giovani dalle proteste. Così tanto in fretta che alcune band hanno denunciato di essere state messe in cartellone a loro insaputa e si sono rifiutate di esibirsi. La gente si è raccolta soprattutto su Tsvetnoy Boulevard e in Piazza Pushkin, ed è qui che gli agenti si sono scagliati sui dimostranti. A volte prendendo a manganellate ragazzi inermi. Tra gli arrestati c’è anche Olga Misik, l’adolescente che la settimana scorsa ha letto ai poliziotti la Costituzione ed è ormai un’icona delle proteste anti-Putin.

2 Hong Kong

I ragazzi usano i laser per abbagliare la polizia e non farsi identificare Elmetti e maschere A Hong Kong sfila la lotta senza volto

N on c’è un personaggio carismatico o un volto-simbolo a capo delle manifestazioni che da due mesi sfilano per le strade di Hong Kong contro l’emendamento alla legge sull’estradizione verso la Cina, che si sono poi trasformate nella denuncia dell’erosione dell’autonomia dell’ex-colonia britannica e delle «brutalità della polizia». È troppo forte il timore di andare di nuovo incontro a arresti e ripercussioni legali visto che molti tra i leader del Movimento degli Ombrelli del 2014 sono finiti dietro le sbarre: Joshua Wong è uscito dal carcere solo una manciata di settimane fa, mentre la scorsa primavera c’è stata la condanna di diversi leader di Occupy Central. L’uso delle tecnologie Così che tra chi oggi manifesta per le strade di Hong Kong molti non vogliono essere riconosciuti: coprono il volto con una mascherina chirurgica, calzano elmetti, proteggono gli occhi dai gas lacrimogeni con occhiali di plastica. Praticamente nessuno rivela il suo vero nome. In città cresce anche la preoccupazione che la tecnologia del riconoscimento facciale possa essere usata per identificare chi protesta. I giovani vestiti di nero spruzzano vernice sulle telecamere di sorveglianza, mentre indirizzano puntatori laser e fasci di luce verde contro la polizia: una strategia per confondere gli agenti ed evitare di essere identificati. In metro con i contanti Al termine dei cortei, lunghe file si formano davanti alle macchine dei biglietti nelle stazioni della metro. Nessuno vuole tirar fuori l’onnipresente carta ricaricabile che a Hong Kong viene usata per l’ingresso sui mezzi di trasporto e per piccoli acquisti: il timore è che la polizia possa tracciare i dati della Octopus Card e arrestare chi ha partecipato alle proteste. Anche senza un leader, le proteste di Hong Kong stanno però dimostrando di essere ben coordinate attraverso forum on-line e gruppi sul sistema di messaggistica criptato Telegram, mentre quando la connessione Internet rallenta ci si scambia immagini grazie al peer-to-peer e AirDrop. Spesso si parla di manifestanti giovanissimi, ma è difficile tracciare un profilo preciso di chi è in piazza. Delle 44 persone arrestate all’inizio della settimana e accusate di «rivolta» – un reato per cui a Hong Kong si rischiano fino a 10 anni di carcere – c’erano molti studenti, ma anche un pilota della Cathay Pacific, un insegnante, una donna di 41 anni e una ragazza di 16. Lo scorso week-end alcuni hanno manifestato con la bandiera degli Stati Uniti, ma in piazza c’erano anche associazioni localiste, anarchici e collettivi di sinistra. Tra le molte anime del movimento di Hong Kong forte è la presenza di gruppi cristiani, si tratta di una beffa per la polizia visto che nell’ex-colonia britannica un raduno religioso non può essere dichiarato illegale. Le contromisure Se nelle ultime settimane l’uso di gas lacrimogeni è diventata la nuova normalità di Hong Kong, i manifestanti hanno imparato a neutralizzarli: vengono coperti con i coni stradali arancioni e sui candelotti viene versata dell’acqua. Nuovi incidenti sono scoppiati nella serata di ieri, con i manifestanti che hanno occupato e alzata barricate in diverse strade della penisola di Kowloon, mentre gli agenti hanno risposto con lacrimogeni e spray urticanti. Nel quartiere dello shopping di Tsim Sha Tsui un gruppo ha strappato una bandiera cinese e l’ha lanciata in mare mentre dall’altro lato della baia manifestavano alcune migliaia di sostenitori del governo.— c

3 xi

Trump sfida Xi Nuovi missili balistici schierati in Asia

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W ashington è pronta a schierare nuovi missili a raggio intermedio in Asia per contrastare l’allargamento della sfera di influenza di Pechino. L’annuncio arriva dal segretario alla Difesa Mark Esper all’indomani dell’uscita formale degli Stati Uniti dal Trattato Intermediate-Range Nuclear Forces (Inf) con la Russia. Il nuovo capo del Pentagono spiega che gli Usa possono schierare liberamente i loro armamenti balistici a seconda delle necessità strategiche che l’evoluzione geopolitica globale impone. «Vorremmo raggiungere una certa capacità il prima possibile», ha dichiarato Esper a bordo dell’aereo per Sydney, prima tappa della missione nella regione Asia-Pacifico.«Preferirei mesi – prosegue – ma queste cose tendono a richiedere più tempo del previsto». Il piano è destinato a scatenare una levata di scudi da parte della Cina con cui gli Stati Uniti sono in competizione politica, militare e commerciale di influenza della regione. Esper, tuttavia, afferma che Pechino non dovrebbe essere sorpresa «perché ne parliamo da tempo» di questa opzione. «L’80% del loro arsenale è costituito da sistemi Inf, vorremmo avere una capacità simile». I dazi Il segretario alla Difesa precisa tuttavia che gli Usa non si stanno imbarcando in una nuova corsa agli armamenti. L’annuncio del capo del Pentagono giunge in coincidenza del rifiuto di Pechino di un coinvolgimento in nuovi negoziati per il controllo delle armi strategiche, chiesto da Trump. Il rappresentante permanente presso l’Onu, Zhang Jun, ha espresso il rincrescimento del suo Paese per il ritiro degli Usa dall’Inf e ha espresso scetticismo sulla possibilità di una partecipazione del suo Paese. «Gli Usa dicono che la Cina dovrebbe prendere parte a un nuovo accordo sul disarmo, ma tutti sanno che la Cina non è agli stessi livelli di Usa e Russia», spiega l’ambasciatore. Sul fronte commerciale, dopo l’annuncio di nuovi dazi del 10%, da aumentare sino al 25%, su altri 300 miliardi di merci del Dragone da parte degli Usa, e quello di immediate contromisure da parte di Pechino, Trump rivendica il successo delle linea dura. «Vari Paesi stanno venendo da noi per rinegoziare veri accordi commerciali, non quegli spettacoli horror unilaterali fatti dalle passate amministrazioni». E sulla Cina afferma: «Le cose stanno andando bene. Ci stanno pagando decine di miliardi di dollari, cosa resa possibile dalle loro svalutazioni monetarie e pompando contanti in grandi quantità per mantenere in vita il loro sistema. Per ora i nostri consumatori non stanno pagando nulla, e nessuna inflazione». — cBY NC

4 estremismi

LA TRAPPOLA DEGLI ESTREMISMI

La stampa in prima

Di maurizio molinari

A d oltre tre anni dal referendum su Brexit che ha inaugurato la stagione del populismo in Occidente è possibile affermare che nelle democrazie parlamentari lo Stato di Diritto è sotto attacco. Per Stato di Diritto si intendono le regole fondamentali che hanno distinto le democrazie dalle dittature durante le due grandi sfide del Novecento – contro il nazifascismo ed il comunismo sovietico – ovvero la divisione fra i poteri, il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini, le garanzie del welfare per i più deboli. Ad attaccare lo Stato di Diritto sono gli opposti estremismi che nascono da ciò che resta delle severe sconfitte subite dalle ideologie di destra e sinistra nel secolo scorso. L’estremismo di destra si nutre di una riscoperta delle radici etnico-nazionali che fa leva sull’identità tribale di singole comunità per indicare come nemici gli estranei: i migranti, i Rom e più in generale gli stranieri. È un’area ideologica assai vasta che va dai gruppi neonazisti tedeschi e slovacchi ai suprematisti bianchi anglosassoni fino agli ultranazionalisti fiamminghi, ai lepenisti francesi ed ai sovranisti polacchi, italiani, austriaci e ungheresi. È una galassia di estremismo assai eterogeneo nel cui seno si annidano anche gruppi che promuovono l’odio contro gli ebrei, i musulmani, i gay, le donne, i disabili e chiunque sia un “diverso”. Al momento partiti e movimenti di estrema destra godono di un consenso in crescita in più Paesi – dalla Francia all’Italia, dalla Polonia all’Ungheria – e producono un effetto uguale e contrario ovvero un estremismo di sinistra altrettanto pericoloso.

I n Gran Bretagna trova ospitalità nel Labour Party di Jeremy Corbin, incarnando la simbiosi fra antisionismo ed antisemitismo, mentre negli Stati Uniti trova espressione in candidati democratici alla presidenza come la californiana Kamala Harris che non esita a giocare in tv la carta della propria identità afroamericana per accusare Joe Biden – per otto anni vicepresidente di Barack Obama – di aver tollerato in passato esponenti segregazionisti. Sul continente europeo tale estremismo di sinistra ha più volti: dai silenzi svedesi sulle violenze commesse dagli estremisti islamici a Malmoe al sostegno aprioristico, dalla Germania all’Italia, per quelle ong che fiancheggiano di fatto i trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo. Per non parlare del fanatismo del “politically correct”: bagni per bambini “transgender” nelle scuole pubbliche hanno spinto un numero significativo di americani a votare per Trump nel 2016 e di brasiliani a scegliere Bolsonaro nel 2018. È tale contrapposizione crescente fra estremismo di destra e di sinistra a contenere la minaccia più seria per lo Stato di Diritto. Per quattro motivi. Primo: in comune hanno il disprezzo per l’avversario che puntano a delegittimare in ogni modo – a cominciare dall’uso del social network – generando narrative basate sul conflitto anziché sulle proposte. Secondo: si tratta di forme di intolleranza verso il prossimo che si alimentano l’un l’altra, spingendo un crescente numero di elettori moderati a schierarsi su uno dei due fronti. Terzo: pongono le basi per una sfida frontale fra estrema destra anti-migranti e estrema sinistra sostenuta da gruppi islamici che può generare il più pericoloso dei conflitti. Quarto: distraggono risorse, umane ed economiche, dalle sfide strategiche che incombono sugli Stati nazionali – dalla lotta alle diseguaglianze allo sviluppo delle nuove tecnologie – ponendo le basi per un impoverimento collettivo destinato a generare niente altro che ulteriore intolleranza. Da qui l’interrogativo su come le democrazie possano riuscire a liberarsi dalla trappola degli opposti estremismi. La risposta non può che partire dalla responsabilità dei cittadini: la risorsa più importante di una democrazia sono i valori dei propri abitanti. Voltare la testa dall’altra parte quando un leader politico – di qualsiasi grado e colore – insulta un qualsiasi individuo per la sua diversità – di fede, pensiero, origine o genere – significa diventare ingranaggio della macchina dell’intolleranza che costituisce la più grave minaccia alla libertà personale. E poi ci sono le responsabilità di Stati, governi e partiti: in Europa come in Nordamerica sono chiamati a dare risposte urgenti ed efficaci su diseguaglianze economiche e integrazione dei migranti. Più tarderanno, più la protesta del ceto medio continuerà ad espandersi alimentando il vortice degli estremisti. —

10 Onu la fine dell’isis

Nell’Isis 30mila foreign fighters In Europa «alto rischio» attentati

IL RAPPORTO DELL’ONU

2mila «COMBATTENTI IN EUROPA» Tanti sono secondo l’Onu i foreign fighters di rientro dalla Siria e dall’Iraq

Sul Sole a pagona 3

Entro la fine dell’anno potrebbero verificarsi nuovi attacchi terroristici, anche in Europa, da parte dell’Isis. È questa l’analisi degli esperti dell’Onu che hanno realizzato un rapporto sul terrorismo islamico basandosi sulle informazioni raccolte dalle agenzie di intelligence nazionali. Sarebbero in tutto 30mila i foreign fighters pronti all’azione dopo essersi rintanati nei territori rimasti sotto il controllo dello Stato Islamico. «I leader estremisti dell’Isis – spiegano all’Onu – stanno cercando di riorganizzarsi e di creare le condizioni per una rinascita a partire da alcune aree della Siria e dell’Iraq» dove, dopo la caduta del cosiddetto Califfato, «si è rifugiato il capo dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi». L’Isisi avrebbe «ancora accesso a fondi tra i 50 e i 300 milioni di dollari». Nella relazione consegnata al Consiglio di Sicurezza nei giorni scorsi si descrive l’evoluzione dei gruppi legati all’Isis e ad al-Qaeda e si sottolinea che «lo sviluppo più sorprendente nei primi sei mesi del 2019 riguarda il terrorismo islamico nel Sahel e nell’Africa occidentale dove Isis e al-Qaeda stanno collaborando per mettere in difficoltà i Paesi meno stabili». La preoccupazione per l’Europa deriva dal rientro nei Paesi occidentali di «almeno 2mila combattenti dell’Isis». Gli esperti dell’Onu affermano che «continua la propaganda dell’Isis che sostiene attacchi anche poco elaborati» e che «il rischio di attentati resta alto». © RIPRODUZIONE RISERVATA

L’Onu mette paura all’Europa «Entro l’anno l’Isis vi colpirà» Dossier rivela: il Califfato è finito ma 30mila foreign fighters sono liberi. E un centinaio nascosto in Italia

Fausto Biloslavo sul Giornale a pagina 9

Lo Stato islamico potrebbe tornare a colpire, in Europa, entro la fine dell’anno. L’allarme arriva dal rapporto dell’Onu sul terrorismo jihadista per il Consiglio di sicurezza. Forse non è un caso che nelle stesse ore i tagliagole delle bandiere nere hanno reso pubblico il video dell’ultima decapitazione di un prigioniero in Afghanistan. La vittima si chiamava Fadi Ahmad ed era inginocchiata con la classica tuta arancione stile Guantanamo davanti ad una fila di terroristi armati e in mimetica con il volto coperto. La decapitazione è stata fatta girare via Telegram dimostrando l’importanza del «Califfato virtuale» legato alla propaganda e proselitismo citato nel rapporto dell’Onu. «L’attuale diminuzione – degli attacchi terroristici nel mondo – potrebbe non durare a lungo, forse neanche fino alla fine dell’anno» si legge nella relazione del 15 luglio pubblicata ieri dal quotidiano inglese The Guardian. Gli esperti dell’Onu spiegano che nonostante la sconfitta e perdita del territorio in Siria e Iraq, si temono nuovi attacchi «ispirati dall’Is (Stato islamico, nda), possibilmente in luoghi inattesi». E la minaccia in Europa «resta alta». Almeno 30mila combattenti che si erano uniti al Califfato sono ancora vivi. Dall’Europa sono partiti fra i 6mila e 8mila volontari della guerra santa. Si calcola che il 30-40% sia stato ucciso e il 10-15% è stato catturato. Secondo il rapporto Onu «fra il 30 e 40% è tornato in Europa». L’ultima relazione semestrale dei servizi segreti al Parlamento ribadisce che la minaccia jihadista «non ha in realtà mai conosciuto flessioni». I combattenti tornati nel Vecchio continente, che sono stati monitorati, risultano 1700 compresi 400 nei Balcani. La pericolosità, secondo la nostra intelligence, «risiede nel profilo stesso dei reduci, potenziali veicoli di propaganda e proselitismo, nonchè portatori di esperienza bellica e di know-how nell’uso di armi ed esplosivi». I volontari della guerra santa legati al nostro Paese non arrivano a 150. Una cinquantina è morta sul campo, ma di recente è stato prelevato dal nord est della Siria e portato a Brescia, Samir Bougana, il primo terrorista italiano dell’Isis fatto prigioniero dai curdi, che sarebbe pronto a collaborare. I servizi segreti hanno confermato le «numerose allerte su pianificazioni terroristiche da realizzare in Occidente o contro obiettivi occidentali ad opera di singoli, micro-nuclei o cellule strutturate, delle quali è stato più volte segnalato l’approntamento in modalità “dormiente” anche in ambito europeo». L’Onu sottolinea che i resti dello Stato islamico hanno ancora a disposizione un tesoretto che va da 50 a 300 milioni di dollari. «Quando avrà il tempo e lo spazio per reinvestire in capacità operative esterne – evidenzia il rapporto – l’Is ordinerà e faciliterà attacchi internazionali». Un altro campanello di allarme è la radicalizzazione nelle carceri europee dei terroristi catturati. «I programmi di deradicalizzazione non si sono dimostrati pienamente efficaci – si legge nel rapporto Onu – I combattenti più duri condannati a pene più lunghe restano ancora pericolosi e continuano a porre una minaccia sia all’interno che all’esterno del sistema penale». Però il vero allarme è che si sta avvicinando il rilascio della prima ondata di jihadisti arrestati dopo il rientro in Europa dal Califfato. E sul terreno si teme che i seguaci delle bandiere nere ancora in circolazione «potrebbero unirsi ad al Qaeda o potrebbero emergere altri brand internazionali» del terrore. L’uccisione di Hamza, il figlio di Osama bin Laden, erede designato è un duro colpo. Anche il successore ufficiale, Ayman al Zawahiri, sarebbe troppo anziano ed in cattive condizioni di salute per gestire la rete del terrore. In un recente studio dell’Icsa, fondazione che in Italia si occupa di intelligence, difesa e sicurezza viene prefigurata una «nuova alleanza fra le metastasi jihadiste» di Al Qaida e Stato islamico. Il collante è ideologico e punta ad un solo obiettivo: «La ricostituzione del Califfato».

5 nantes

La rivolta di Nantes contro la polizia “La verità su Steve” La festa techno, il raid, i misteri: scontri e arresti dopo il ritrovamento nella Loira del corpo del ragazzo. E ora il ministro finisce sotto accusa

In migliaia sono scesi in piazza nel centro di Nantes per ricordare Steve. In sua memoria è stato dipinto un murale.

Repubblica pagina 17

6 cinese

Torna la superstar cinese “Mai più senza il partito”

Fan Bingbing è la più celebre attrice del Paese Travolta da scandali fiscali, fa mea culpa per riprendersi la gloria

Vivo un momento buio della mia vita e della mia carriera, ma ho potuto riflettere sui miei desideri futuri

Non sarei diventata nessuno senza il partito comunista e senza le valide scelte dello Stato cinese Non si può avere sempre il meglio: sono a un bivio e nonostante il dolore sento che devo andare avanti

di Steven Lee Myers su Repubblica a pagina 21

— Per più della metà della sua vita l’attrice Fan Bingbing è stata un’icona della fiorente industria cinematografica e televisiva cinese, trasformandosi da ragazza della porta accanto, come appariva nei primi ruoli, a star internazionale e celebrità della moda. Poi, lo scorso anno, la sua carriera è stata turbata da uno scandalo fiscale che l’ha fatta cadere in disgrazia agli occhi del pubblico e ha infangato tutto il settore. «Non è mai tutto rose e fiori», racconta Fan con calma rassegnazione – forse studiata – nel corso della rara intervista che ci concede, la prima da quando è scoppiato lo scandalo. Lo scorso anno Fan è sparita per quattro mesi e la sua misteriosa assenza ha impensierito milioni di fan e i colleghi del cinema. All’insaputa di tutti, l’attrice è stata costretta a una sorta di arresti domiciliari mentre le autorità indagavano sulla sua lunga e redditizia carriera di attrice, astro del red carpet, volto di marchi del lusso e imprenditrice di successo. Oggi Fan, 38 anni il mese prossimo, rientra in punta di piedi in una società che un tempo la riveriva. «Forse sto vivendo un momento buio della mia vita e della mia carriera, ma in realtà è positivo», dice. «Mi ha fatto riflettere con più calma su quelli che sono i miei desideri per il futuro». Recentemente l’attrice è ricomparsa su Weibo, la versione cinese di Twitter, pubblicando a beneficio dei suoi 62 milioni di follower una serie di post che la mostrano a eventi di beneficenza e annunciando la rottura con il fidanzato, Li Chen, attore e regista. Il mese scorso è anche apparsa su Instagram nell’anteprima di “355”, un film prodotto dalla regista americana Jessica Chastain. La sua partecipazione alla pellicola — un thriller d’azione – era stata in forse da dopo lo scandalo. Molti altri suoi progetti lo sono tutt’ora. Uno dei suoi ultimi film, “Air Strike,” è stato bandito dai cinema. E c’è voluto tempo perché i marchi del lusso che si erano allontanati da lei la richiamassero. La reazione online alla sua partecipazione a un reading di poesia a Pechino il mese scorso è stata durissima. «Il nostro Paese non dovrebbe permettere a questo genere di persone di influenzare la nuova generazione» è stato scritto. Ora che sta tentando di tornare alla ribalta si può trarre un primo bilancio dei danni subiti dalla sua reputazione e da un’industria che la Cina intende utilizzare come vettore di soft power in tutto il mondo. In ottobre è stato rivelato da fonti cinesi che a Fan era stata imposta una multa da 70 milioni di dollari tra tasse evase e sanzioni, mentre alla sua casa di produzione è stata notificata una cartella di pagamento di più di 60 milioni di dollari. Quello stesso mese, nella sua prima dichiarazione pubblica dal giugno, Fan ha espresso il suo pentimento. All’attrice è stata risparmiata l’incriminazione per reati penali, ma il suo manager è stato arrestato: nonostante la sua fama, o forse proprio a motivo di essa, le autorità hanno voluto darle una punizione esemplare in un periodo in cui scelgono la linea dura nei confronti internet, dei giornalisti investigativi e persino di orecchini e tatuaggi, reputati in contrasto con «i fondamentali valori socialisti». Con la vicenda di Fan l’avvertimento ora è arrivato anche all’industria cinematografica. Il fatto che Fan abbia avuto tanti problemi con la giustizia crea sorpresa perché non si tratta di un’artista dissidente, bensì della rampolla di una famiglia di attori iscritti al partito comunista. L’ultimo grande film che ha interpretato è Sky Hunter, un omaggio a Top Gun, realizzato col la collaborazione dell’Esercito di liberazione del popolo. E non a caso tornata in libertà, Fan ha dichiarato che non sarebbe mai stata nessuno «senza il partito e le valide politiche dello stato». Nata nel 1981, Fan è cresciuta a Yantai, città portuale sul Fiume Giallo. Dopo aver studiato recitazione a 16 anni ha interpretato una fiction tv ambientata nel diciottesimo secolo, “La mia bella principessa”, che l’ha fatta conoscere. È stato il suo ruolo di debutto sul grande schermo a porre le basi di quella che, 15 anni dopo, sarebbe stata la sua rovina. Nel 2003 Fan interpretò l’amante di un conduttore tv in un film dal titolo “Cellulare”. Un vero conduttore televisivo, Cui Yongyuan, accusò il regista di diffamazione perché la pellicola conteneva riferimenti alla sua carriera. Quando Fan nel 2018 ha annunciato il sequel del film, Cui, furioso, ha postato online le foto dei contratti dell’attrice. Il primo riportava un compenso fittizio di 1,6 milioni di dollari, il secondo il compenso effettivo pari a 7, 8 milioni. Le autorità hanno accusato Fan di aver falsificato i contratti quattro volte. A giudizio di Fan l’industria cinematografica dovrebbe «calmarsi e riflettere» sui propri errori – come lei sostiene di aver fatto. Nel corso dell’intervista, svoltasi in uno studio di Pechino dove l’attrice posava per l’edizione vietnamita di Harper’s Bazaar, Fan è apparsa rilassata e fiduciosa. Avvolta in una vestaglia rossa, ancora truccata e acconciata per il servizio di moda, si è mostrata pentita, senza però entrare nel dettaglio della sua vicenda. «È impossibile avere sempre il meglio» – ha detto, definendosi «a un bivio». Resta da vedere quanto i fan e il governo si mostreranno aperti al suo ritorno. Fan si dice pronta alla prossima scena, qualunque cosa comporti. «Nonostante il rammarico, il dolore e la fragilità sento che devo andare avanti». — Copyright New York Times News Service Traduzione di Emilia Benghi

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Dalla Thailandia alla Cambogia aumentano le espulsioni: “Se lo facessimo noi nei vostri Paesi saremmo subito deportati come clandestini” L’Asia in rivolta contro i turisti occidentali “Chiedono l’elemosina per viaggiare gratis”

I cosiddetti “begpackers” sono visti come un insulto ai veri poveri

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I l cartello scritto con pennarello su un cartone ammicca: «Ciao, sono Sergey, sto viaggiando in Asia da 5 mesi. Hong Kong è stupenda ma così costosa. Purtroppo, ho finito i soldi. Ti prego, aiutami». Lo vedi lì, il russo, con quel sorrisetto furbo e simpatico, capello corto, barbetta lanuginosa sotto al mento, un po’ hipster, guance e naso lucidati dal sole. Magari ci pensi anche. Ad aiutarlo. Poi lo trovi due mesi dopo in short, canottiera e sandali. Cartello identico, ora anche in cinese. Dice che sta viaggiando nel continente, ma per 10 mesi. Si vede che il business del mendicante funziona. E va di moda. In Asia, l’epidemia di falsi turisti nei guai sta diventando un affare serio. Li hanno definiti «begpackers», unendo «begging» (chiedere l’elemosina) e «backpacking» (fare i saccopelisti). Saccopelisti-mendicanti. Le strade di molte capitali asiatiche, da Bangkok a Seoul, sono sempre più ingombre di ragazzotti biondi, castani, rossicci, dagli occhi azzurri o verdi, a volte un po’ straccioni, ma spesso con vestiti freschi d’acquisto. Chiedono aiuto. E che c’è di male? In realtà molto, perché in Paesi come Cambogia, Laos, Vietnam, Malesia, India, Indonesia e Tailandia il livello di fastidio per questi finti mendicanti è un problema a volte sanzionabile, se recidivo, con un mese di prigione. Bambini sfruttati Una coppia di giovani mendicanti russi è stata arrestata in Malesia perché, elemosinando, tirava in aria un bebè col pannolino, stringendolo per i piedi. Il video fa rizzare i capelli. E ha fatto scattare la polizia. Poi c’è Party Big Ben, il tedesco Benjamin Holst che per impietosire mostrava una gamba gonfiata dalla macro-distrofia lipomatosa. Racimolava così 1500 euro, che spendeva in prostitute e alcol. La stampa tailandese l’ha soprannominato «il tedesco più odiato in Tailandia». Deportato. Un’altra tedesca è stata espulsa perché mendicava con una bimba nel passeggino, giurando: «Mi hanno rubato la carta del bancomat». Per due anni di fila. Questi sono i casi più noti, ma, in media, si tratta di un esercito di turisti della finta povertà vissuta come status symbol, come esperienza cool, scelta ideologica, sfida al sistema. Frotte di ragazzi bianchi che riempiono le strade di implorazioni: «Aiutaci a viaggiare attorno al mondo», «Giro del mondo senza soldi! Aiutateci». «Sostieni il nostro viaggio attorno al mondo». Come se il giro del mondo fosse un diritto inalienabile. C’è la coppietta carina che vende abbracci, chi le foto delle vacanze. Alcuni chiedono spicci, ma hanno smartphone e macchine fotografiche da centinaia di euro. Vengono da Paesi occidentali ricchi, chiedono l’elemosina nei Paesi poveri. Esternano quell’entusiastica, positiva e simpatica complicità globalista da millennial della società liquida e precaria. Allegramente liberi di vivere la loro fantasia da orientalisti, approfittando di un retaggio del colonialismo: il complesso d’inferiorità, inconscio, verso i bianchi. I nuovi figli dei fiori La moda persiste da anni, ma ha raggiunto lo zenith, irritando sempre più asiatici. E ha responsabili specifici. Primi fra tutti, i begpackers che nei blog insegnano le loro tecniche e invitano ad imitarli. C’è chi ci prova con le collette su GoFund o Kickstarter. Chi la butta sulla beneficenza, come l’osannata Laura Bingham, che nel 2016 ha girato in bicicletta tra i poveri per 7000 km, senza mai pagare un euro. Il «Guardian» l’ha intervistata acriticamente come pioniera di tendenza. Rob Greenfield ne ha tirato fuori un reality per «Discovery Channel» che si chiama «Free Ride» (La scroccata): un avventuriero di professione per 72 giorni twitta i suoi viaggi gratis rubando lavoretti a poveri che ne hanno realmente bisogno. Il tutto sulla scia di un moderno Grand Tour, di una Wanderung sentimentale, di quei percorsi, dal romanticismo al decadentismo, che portano all’evasione e alla fuga. «On The Road» per ipocriti mendicanti: ribellione al comfort borghese, ma sulla pelle dei Paesi ancora in via di sviluppo. La rabbia dei residenti Se ancora non afferrate il problema, è per una questione di prospettiva culturale. Chi vive in Asia, e vede quotidianamente esempi di vero bisogno, non riesce a capacitarsi del livello di cattivo gusto e scarsa etica di questo glamour del viaggio a scrocco. Chi vive in questo modo, nella maggior parte dei casi, non è un vero turista in difficoltà. Per questi ci sono i consolati. Sono giovani che «fanno i poveri» su Instagram per rendersi interessanti, provenienti spesso da contesti familiari abbienti o benestanti. Vengono spesso da Paesi nordeuropei o dalla Germania, dove la disoccupazione giovanile è al 7,7%, la più bassa in Europa. Insomma, è una posa. Sui social tailandesi li odiano: «Pigri», «disgustosi», «imbarazzanti», «patetici». Un commentatore riassume il tema: «Ci sono così tanti poveri in Tailandia che hanno davvero bisogno di elemosina. E non per farsi un viaggetto. Odio questo genere di turisti». Un australiano si vergogna: «Se puoi permetterti un volo, puoi permetterti di stare a casa e risparmiare finché puoi pagarti andata e ritorno e albergo». Il problema scatena le ire di Raphael Rashid, bengalese trapiantato da anni in Corea del Sud. Professione: «begpacker buster», acchiappa saccopelisti-mendicanti. Rashid perlustra Seoul postando video di begpackers, che denuncia alla polizia. «È un imbroglio, è illegale, è un insulto ai poveri e ai turisti veri. Il viaggio è un lusso, non una necessità. La povertà non è un’esperienza cool. Fanno leva sul complesso d’inferiorità che alcuni asiatici hanno verso i bianchi, trovando incomprensibile che il “potente occidentale” sia in una posizione inferiore di povertà o disperazione. Appare come una situazione sbagliata cui rimediare aiutandolo. Ma è tutta una recita». Pure Nandini Balakrishnan, commentatrice indiana, sul gruppo Facebook di denuncia «Begpackers in Asia», in un video, grida: «Se vengo a fare la begpacker nel vostro Paese, mi deportate subito come clandestina! È disgustoso. Smettetela di approfittare della nostra gentilezza fingendo d’essere poveri qui da noi dove la povertà c’è davvero. Tornatevene a lavorare!». O, come dice l’opinionista Majda Saidi: «Il dibattito esiste perché si tratta di bianchi. Un mendicante occidentale, ma dalla pelle scura, in Asia non verrebbe proprio considerato, mentre i begpeckers di pelle scura in Europa si chiamano profughi». — cBY NC N

8 viva litaliano

Elogio dell’italiano. La struttura della nostra lingua induce ad argomentare secondo principi oggettivi: per questo dovrebbe avere un ruolo rilevante nel mondo contemporaneo L’idioma della chiarezza

Daniela Marcheschi sul Domenicale del Sole a pagina 21

«La parola sovrintende nel laboratorio dell’universo»: in una scrittura ricca di immagini per colmare il discorso di aperture e dati conoscitivi, Campa offre la chiave dell’avventura concettuale del suo recente volume. Studio ponderoso insolito, perché la riflessione vi si snoda in serrata concatenazione dei ragionamenti da meditare; in ampiezza di orizzonti culturali e molteplicità di riferimenti. Fra storia e filosofia, letteratura e linguistica, antropologia e scienze esatte, musica e psicanalisi, arte e politica, Campa – professore emerito di Storia delle Dottrine politiche a Siena – tratta le vaste implicazioni epistemologiche, nella società contemporanea, della lingua: risorsa che consente alle «diverse postulazioni concettuali» d’interagire fra loro, nel compendio di giudizi e argomentazioni «con i quali si esplica la temperie sociale». Il concetto stesso di frontiera linguistica si fa pluridimensionale nella realtà socialmente, economicamente composita dell’Europa odierna. Malgrado contrasti e strappi, s’impone una visione della nostra identità quale immedesimazione culturale multietnica e plurilinguistica, entro un’attitudine di dialogo e interrelazioni da costruire con una coscienza democratica nuova. Nella Babele attuale per intendersi le comunità internazionali devono disporsi a una concessione appunto linguistica, per delineare un’area di comprensione e scambio informativo/comunicativo adeguati. L’adozione della lingua inglese a passe-partout dello scambio verbale ne è effetto. Con il suo patrimonio di tradizioni ogni lingua esprime però un mondo di contenuti, caratteristiche conoscitive ed epistemologiche peculiari, e irrinunciabili: così concorre al pluralismo, a una complementarità conoscitiva che, solo nella complessità, può essere utile a ulteriori conquiste intellettuali e civili. L’italiano ha una stratificazione sontuosa di lasciti storici: latino in primis, poi greco, longobardo, arabo, normanno, spagnolo, albanese, eccetara; il rumeno, parlato dall’intera popolazione senza significative varianti, si tiene stretto a quello della latinità. Né va scordato che la giobertiana «repubblica delle lettere», all’insegna della geografia e della storia d’una Italia molteplice e così naturalmente europea, fa riscontro alla società delle corti, dei salotti e dei teatri dell’epoca moderna in «una dimensione culturale sovranazionale e transconfessionale», che Francia, Spagna e Italia stessa hanno saputo serbare in «una propensione unitaria verso la conoscenza e la rappresentazione della stessa nelle sue estrinsecazioni umanistiche, scientifiche, artistiche, religiose». E nel XIX-XX sec. il portoghese giunge a saldare due universi espressivi, iberico e brasiliano, modulati dalla nostalgia: alla riflessione esistenziale di Machado de Assis fa pendant la scrittura degli eteronimi di Pessoa. I molteplici orizzonti linguistici, ragionativi, possono trarre dal paradosso di un monolinguismo aggressivo. Nel trionfo dell’economia, della propaganda pubblicitaria e della società neotecnologica, l’inglese è assunto a lingua di una presunta esattezza scientifica a priori e più usato come veicolo di omologazione: che manipola e realizza imprecisioni, ambiguità, deformazioni concettuali, e gioca al ribasso in molti ambiti. Le culture scientifica e umanistica sono spesso contrapposte, mentre la loro complementarità consiste nell’interazione che animano da sempre. Non per nulla, la «letteratura più accreditata a livello mondiale è rappresentata da cultori di discipline scientifiche e tecnologiche»: gli ingegneri Dostoevskij, Musil o Gadda; l’assistente farmacista e studente di medicina Ibsen; i medici Céline e Bulgakov; il chimico Primo Levi. Il minimalismo conoscitivo dell’inglese dovrebbe servire solo «per intendersi in linea di principio», chiuso com’è ora in una emissione standardizzata da «schematismo congressuale» e «per gli affari, i viaggi e il turismo». Del resto è scritto in italiano il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (Per Giovanni Battista Landini, 1632) di Galileo: la moderna cosmologia. Dunque la nostra lingua può fornire alla conoscenza convenzioni universali, come già il latino con la consecutio temporum. Se lo stesso relativismo e la crisi del linguaggio poggiano nell’idea errata che la verità oggettiva sia sinonimo di verità assoluta, fra scetticismo e dubbio sistematici vince una neosofistica fautrice della convenienza pratica; mentre grazie a Socrate il concetto è l’acquisizione oggettiva delle esperienze individuali. L’opinione corrente «non ha senso se non è suffragata da un’intesa concettualmente vincolante. I sofisti contemporanei evocano l’orda vandalica che precede la riflessione socratica». Nel teatro dell’assurdo, la parola di Beckett «vagola vagabonda senza essere intristita della sua versatilità»; e per Sartre il linguaggio è inadeguato «a declinare le performances della materia nel suo stadio primigenio». La frattura fra il linguaggio e la realtà, fra attendibilità e precisione è però solo apparente: il primo può trovare una energia esplicativa in una misura capace di «conferire alla realtà un grado di rilevazione oggettiva». Per Cervantes, Shakespeare, Goethe, Balzac, c’era una relazione organica fra la realtà oggettiva e l’immaginazione; e per Pound è ancora la letteratura «l’unico strumento in grado di animare e vivacizzare la locuzione e la descrizione». In Estetica e romanzo Bachtin scrive non a caso che la lingua «per la coscienza che vi vive, non è un astratto sistema di forme normative, ma una concreta opinione pluridiscorsiva sul mondo». Per questo – come compresero Leopardi e anche l’austriaco Kraus con la rivista satirica «Die Fackel» (1899-1936) –, il compito preminente degli intellettuali è combattere contro ogni forma di abbandono della cultura, di approssimazione e contro gli stereotipi, evidenziando «la traiettoria cognitiva compiuta dalle comunità» anche quelle in apparenza meno concludenti. Confidando nelle proprie tradizioni, la lingua italiana può perciò ritagliarsi un ruolo nel mondo contemporaneo, ruolo di cui i nostri intellettuali devono assumere la responsabilità storica. Per Campa il declino della lingua latina nel curriculum studiorum delle ultime generazioni degli Italiani «ha inferto una lesione storica alla lingua italiana», che per declinazione è «destinata a perpetuare, per committenza intellettuale, la consecutio temporum e i periodi ipotetici: il corrispettivo in chiave narrativa e dichiarativa della segnica universale delle scienze matematiche, fisiche, biologiche, speculative.[…] La coerenza nei tempi verbali induce l’espressione ad argomentare secondo principi intellettualmente ineludibili e consentirebbe alla dialogazione di investigare nel verso della cognizione oggettiva. La salvaguardia della disquisizione democratica è correlata alla verbalizzazione dei pensieri che ambiscono ad accrescere il senso della condizione umana». Nel convivio greco, dove si univano alto e basso, festa e pensiero, c’erano valori che rendevano l’uomo tale. Uno è proprio la conversazione, lo scambio del Simposio platonico nella e per la lingua, capace di suscitare dialogo e confronto: il chiarimento delle varie teorie conoscitive. Il convivio linguistico di Campa, fra concretezza dei dati e slancio dell’utopia, è una proficua immersione nella cultura europea e un antidoto concettuale salutare contro le ontologie linguistiche e metafisiche disseminate ancora in tanta nostra letteratura contemporanea. © RIPRODUZIONE RISERVATA

9 cita cita…

Stefano Lorenzetto Tutte le più belle citazioni sbagliate

Gino Ruozzi sul Sole a pagina 22

«Elementare, Watson!»; «Madame Bovary sono io»; «Il fine giustifica i mezzi»: chi l’ha detto? Certamente lo sappiamo (o crediamo di saperlo): Sherlock Holmes, Gustave Flaubert, Niccolò Machiavelli. Sembra tutto evidente e invece non è così. Nel Dizionario delle citazioni sbagliate Stefano Lorenzetto in modo affabile e minuzioso ci mostra che le cose sono più complesse, che spesso si attribuisce a Caio quello che ha detto Sempronio e che per lo più, quando citiamo, ricordiamo in modo sbagliato. Niente di particolarmente grave, la storia della conversazione e quella della letteratura sono strapiene di citazioni sbagliate e di erronee attribuzioni. Sovente per farci belli e interessanti e rafforzare la credibilità di quello che affermiamo noi azzardiamo citazioni che sono luoghi comuni e che come tali si riproducono in maniera meccanica, giusti o sbagliati che siano. La citazione è un fortunatissimo genere letterario che affonda le radici nell’antichità e sale con crescente moltiplicazione mondana e mediatica fino a noi. Si pensi alle raccolte di detti memorabili di Valerio Massimo, di Plutarco, dei padri del deserto, ai fiori medievali e agli adagi di Erasmo da Rotterdam, ai numerosi dizionari anglosassoni di quotations e al magistrale Viking Book of Aphorisms di Auden, allo storico Chi l’ha detto? di Giuseppe Fumagalli, al Dizionario antiballistico di Pitigrilli e a Cardarelliana di Leone Piccioni, al Dizionario delle sentenze latine e greche di Renzo Tosi. La citazione costituisce inoltre una struttura retorica fondamentale in una quantità di opere, nei Saggi di Montaigne come nella Storia della mia vita di Casanova. Come controllare l’esattezza delle citazioni? Senza dubbio col ricorso puntuale ai testi. Va però anche detto che spesso la citazione sbagliata è la prova migliore del suo successo. Lorenzetto fa illustri esempi, dal «Non ti curar di lor, ma guarda e passa» di Dante (il cui testo preciso è «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa», Inferno, III, 51) alla scivolosa e altrettanto celebre esortazione «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani», attribuita per lo più a Massimo d’Azeglio e probabilmente frutto di una sintesi concettuale di Ferdinando Martini. Come spesso capita, più si approfondiscono le cose più sorgono dubbi e domande, ma questa fertile incertezza è nella natura stessa della ricerca. Pure Machiavelli non ha scritto «Il fine giustifica i mezzi» (ma l’avrà forse detto? Questo, naturalmente, non lo possiamo accertare). È tuttavia vero che si tratta una ricapitolazione incisiva e memorabile (anche se riduttiva e fuorviante) del suo pensiero. Così come Conan Doyle non ha fatto pronunciare a Sherlock Holmes il notissimo «Elementare, Watson!», che è però diventato l’emblema della sua genialità investigativa. E neppure Flaubert ha mai scritto «Madame Bovary c’est moi», l’illuminante e ambigua frase che ricorre innumerevoli volte quando si parla di lui (e di lei). Insomma un libro utile e divertente, «il che», direbbe Giovannino Guareschi, «è bello e istruttivo».

10 Farmaci

Invecchiamento della popolazione Troppi farmaci non allungano la vita

Silvio Garattini sul Sole a pagina 26

L’invecchiamento della popolazione dipende certamente dal miglioramento dell’igiene e delle cure mediche, ma anche dalla ridotta natalità. Ogni anno a fronte di oltre 600mila morti si hanno solo 400mila nascite e perciò la classica piramide che descriveva la popolazione con una larga base di giovani e pochi vecchi sta divenendo sempre di più una piramide rovesciata. Anche a causa della resistenza degli italiani ad adottare buoni stili di vita, l’invecchiamento determina maggiori malattie. Mentre in passato la popolazione vivente aveva una malattia, oggi ne ha due, tre e anche quattro, siamo cioè di fronte a una polimorbidità. Molte ricerche, incluso lo studio Reposi frutto della collaborazione fra Istituto Mario Negri e Policlinico di Milano, hanno documentato come la polimorbidità si accompagni a un alto utilizzo di farmaci. Basti ricordare che circa il 70 % dei farmaci si impiega nei soggetti con più di 65 anni. Di fatto ciò che succede è che ogni specialista somministra i suoi farmaci, aggiungendoli agli altri, per cui è abbastanza comune trovare persone anziane che devono assumere 12-15 farmaci al giorno, mettendo a dura prova l’anziano e i suoi familiari nel seguire la sequenza di prodotti da somministrare. Normalmente non si nega a nessuno una statina per diminuire il colesterolo, un poco di farmaci antidiabetici, un’aspirina a scopi preventivi, un paio di farmaci antipertensivi, un «omeprazolo» per evitare danni gastrici, un sedativo, la vitamina D con un po’ di calcio e un integratore alimentare. La medicina difensiva accentua queste prescrizioni, perché i medici temono di essere portati in tribunale; d’altro canto anche i familiari si allarmano, se qualcuno pensa di diminuire i farmaci prescritti. Tutto ciò genera poi molti effetti collaterali, che bisogna contrastare con altri farmaci. Dati recenti ci ricordano infatti che i pazienti sottoposti a politerapie hanno nel 43% dei casi dolore, prurito nel 14%, disturbi intestinali nel 37%, senso di fatica nel 68 % dei casi e così via. Disturbi che in molti casi spariscono togliendo i farmaci. Naturalmente qualcuno può pensare che purtroppo, se si vuol star bene, questi farmaci bisogna assumerli, tanti o pochi che siano. Invece non è così perché si cercherebbe invano nella letteratura scientifica uno studio clinico controllato che permetta di stabilire se sia meglio assumere 15 farmaci anziché 10 o 5. Sono ricerche che è difficile possano essere svolte dall’industria farmaceutica, mentre dovrebbero essere il compito della ricerca indipendente, se fossero disponibili adeguate risorse. Occorre infatti stabilire l’appropriatezza dell’impiego di tanti farmaci. La decisione di effettuare una prescrizione deve essere presa collettivamente dal gruppo degli specialisti, guidato dal medico di medicina generale, che conosce il paziente meglio degli altri. Si dovrebbero stabilire delle priorità sulla base della gravità delle malattie o dei sintomi, ma anche tenendo conto dell’efficacia e degli effetti collaterali dei singoli farmaci. Molto spesso accade che la rimozione di un grave sintomo automaticamente allevia anche la severità di altri sintomi. È necessario che la discussione di questi problemi inizi dall’Università, dove ancora oggi manca un insegnamento orientato alle polipatologie, e prosegua attraverso l’educazione continua che, come spesso capita nel nostro Paese, è obbligatoria, ma senza sanzioni! Presidente dell’Istituto di Ricerche farmacologiche Mario Negri © RIPRODUZIONE RISERVATA

10 Immobiliaristi

Approvato il piano per i centri storici. A Roma ci penseranno gli immobiliaristi

La regione Lazio ha approvato il piano per la tutela del patrimonio dei centri storici; così per i piccoli comuni ma non per la capitale, dove resta il rischio della speculazione

Le associazioni avevano presentato al Pd un emendamento per evitare lo scempio dei Villini storici e quello del drive-in di Mc Donald’s alle Terme di Caracalla

Enzo Scandurpa sul Manifesto a pagina 6

Siamo stati facili profeti (con il Pd alla Regione Lazio, prove di autonomia differenziata, il manifesto dell’1 agosto) ad affermare che la Regione si preparava a fare le prove di autonomia differenziata approvando un Piano senza aver consultato il Mibac riguardo ai vincoli sul paesaggio. All’alba del 2 agosto è infatti stato approvato il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale che, dopo vent’anni, rappresenta uno strumento efficace per la gestione e il territorio della regione Lazio e i suoi centri, ma non per il centro storico di Roma e i quartieri ad esso adiacenti.

Così ha esultato Zingaretti dopo l’approvazione da parte del Consiglio regionale: «Regole chiare su paesaggio e patrimonio». Me se questo è vero per i comuni del Lazio e il territorio regionale, per Roma la musica è diversa e carica di inquietanti premesse. ATTIVISTI E ASSOCIAZIONI (tra le quali molto agguerrita la presenza di «Carte in Regola») hanno passato la notte davanti la sede della Regione nella speranza che il Pd introducesse quell’emendamento presentato perché lo scempio dei Villini storici e quello (non ancora scongiurato) del Drive-in di Mc Donald’s alle Terme di Caracalla fosse solo un triste ricordo. Ma così non è stato. Il comma introdotto è invece un altro, ovvero che per il centro storico di Roma le valutazioni degli interventi saranno esercitate dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per il Comune di Roma. DUNQUE, IN BREVE, per gli interventi nel centro storico della Capitale resta solo il vincolo Unesco, rimandando al parere non vincolante della Soprintendenza ogni valutazione. Il che significa che d’ora in avanti potranno proliferare interventi, nel centro storico e nei quartieri novecenteschi limitrofi senza essere sottoposti a nessuna autorizzazione vincolante ma solo a «pareri». Tradotto in un linguaggio non specialistico, significa via libera a interventi speculativi: già L’Eurogarden, alle Terme di Caracalla, ha presentato ricorso contro lo stop ai lavori deciso dal Direttore delle Belle Arti, Archeologia e Paesaggio, Gino Famiglietti (purtroppo in via di pensionamento). Ora il ministro dei Beni culturali, Alberto Bonisoli, si prepara a impugnare il provvedimento perché non concordato con il Mibac. In sostanza la Regione Lazio ha fatto tutta da sola ignorando anche le 445 situazioni critiche segnalate. Stefano Fassina ha commentato la notizia affermando che: «il centro storico della Capitale, sito Unesco, viene escluso dal Ptpr e rimane preda di ulteriore scempio edilizi». Ha vinto dunque a Roma il Partito degli immobiliaristi, come sempre, che a Roma è quello più forte, quale che sia il colore della giunta regionale (che attualmente nella Regione è rosso… sbiadito). È COSA DA LASCIARE interdetti: una delle città (ancora per quanto?) più belle del mondo abbandonata agli appetiti immobiliari. Quello del «parere» e non del vincolo, viene di fatto presentato come un compromesso onorevole; ma compromesso con chi e su cosa? La risposta è semplice: con il partito degli immobiliaristi, partito invisibile ma sempre pronto a far valere i propri interessi quando la posta in gioco si chiama speculazione immobiliare e rendita fondiaria. È stato così per il nuovo Stadio della Roma, per il «capannone» del divo Nerone posto sull’Aventino, per tributare un falso modernismo, e ora per l’intero centro storico e quartieri adiacenti. LA PAROLA «compromesso» quando si tratta di una città dovrebbe essere eliminata: la città non è pubblica, ovvero dei suoi abitanti? E perché e con chi essi dovrebbero fare un compromesso e, soprattutto compromesso per cosa? Dovrebbero forse cedere la sua bellezza e la sua vita pubblica a interessi privatistici e per quale vantaggio collettivo? La mancanza di una normativa di salvaguardia per il centro storico più importante del mondo e dei quartieri pregiati ad esso adiacenti, apre un interrogativo inquietante: a quando il prossimo scempio nella Capitale?

10 Giorgio Armani

«Ilmiovinoeiricordi: coraggiosofindabimbo locapiscosoloadesso» Giorgio Armani: «Da piccolo venni ferito da una bomba Il primo amore a 12 anni: lei morì travolta da un camion Ho rifatto l’Emporio Caffè di Milano, è un luogo speciale»

Luciano Ferraro sul Corriere a pagina 23

U n calice di vino dorato apre la porta dei ricordi di Giorgio Armani. È il suo vino. Si chiama Oasi, viene da Pantelleria, dove re Giorgio è in vacanza, nella villa con7dammusi e 180 palme. Armani ricordaescrive, e il bicchiere resta pieno. A 85 anni appena compiuti, non beve più. Ogni giorno si esercita in palestra e lavora molto. Mangia poco, ma controlla ogni dettaglio del suo impero del cibo: 20 tra caffèeristoranti. Compresi i milanesi Nobu (dove resta sempre libero per lui il tavolo 99), l’Armani all’ultimo piano dell’hotel, e l’Emporio da poco rivoluzionato. Il piatto del cuore, i tortelli della mamma, lo trasporta nel suo mondo da bambino. Quando a Piacenza venne colpito da una bomba della Grande guerra, trovata in un campo. Quando morì il suo primo amore, una ragazzina «dagli occhi esotici», travolta da un camion. Ora ha capito: «Ero un combattente, ho avuto coraggio, me ne accorgo soltanto adesso». Quando ha deciso di produrre vino a Pantelleria? «È stata un’idea inaspettata, cresciuta senza quasi me ne accorgessi, come una radice che affonda nelterreno e un giorno fiorisce. Una ventina d’anni fa, ho comprato dei terreni da aggiungere alla casa. E mi sono detto: voglio provare a coltivare delle viti. Le ho fatte arrivare, piantareeoggi vedo i risultati». Perché un passito? «Perché le viti producono uva di Zibibbo. E poi perché è un prodotto tipico di Pantelleria, che racchiude tutto il suo sole ed è conosciuto nel mondo». Cosa vuole evocare con il nomeOasi? «La suggestione del riposo, della solitudine, dell’incontro con gli amici. Oasi si chiama uno spazio dove amo cenare nella mia casa. È uno spiazzo che ho ricreato ombreggiandolo con le palme più alte dell’isola, che provengono da Villa Tasca, Palermo, e che si affaccia sulla vista aperta del mare». A casa, quando viveva con i genitori, si beveva vino?Quale? «Si beveva pochissimo, soprattutto vini piacentini. A mia madre ne piaceva uno che gode oggi di buona fama, il Gutturnio». Cosa ricorda dei pranzi di famiglia? «I primi ricordi sono legati alla figura di mia madre, che cucinava pertutti noi. Erano i suoi cibi del cuore, pietanze semplici, con qualche concessione appetitosa nei giorni di festa. Mi viene ancora in mente il profumo della frittata che aveva preparato per noi ragazzi una volta che andammo in gita al lago. È stata questa sua capacità di rendere tutto naturale e allo stesso tempo speciale a guidarmi sempre, anche quando le scelte di lavoro sono diventate più difficili. Come aprireimiei locali e ristoranti, e dare un’impronta di gusto italiano anche alla cucina». Quali sono i piatti del cuore? «C’è un piatto che riunisce la mia preferenza assoluta, il ricordo della mia infanzia e le mie radici: i tortelli alla piacentina, che qualcuno impropriamente confonde coniravioli di magro. Sono delicatissimi, da condire solo con burro appena fuso e parmigiano. I migliori in assoluto erano quelli che preparava mia madre: ho ancora davanti agli occhi la sua espressione soddisfatta mentre li portava in tavola. I pranzi domenicali preludevano al tanto desiderato momento in cui mio padre si lasciava convincere da meeda mio fratello e ci annunciava: andiamo al cinema». Chi era l’Armani ragazzo? «Un combattente, che non sapeva di esserlo ma ha sempre lottato in un periodo dove ogni giorno era un rischio. Un’esplosione improvvisa mi spedì all’ospedale per 40 giorni, dove mi fecero una terapia mostruosa immergendomi nell’alcol per togliermi la pelle bruciata. Investita da un rimorchio di un camion durante un sorpassomal calcolato,morì il mio primo amore. Aveva9anni e io 12, ricordo ancora la sua carnagione ambrata eigrandi occhi esotici. Quasi tutti i ricordi di quegli anni sono permeati da un senso di emergenza, difuga e di lotta per la sopravvivenza. Qualche volta ho ancora in mente il disagio e l’imbarazzo, la grande tristezza di quelle ultime giornateaPiacenza, con lampi improvvisi di felicità per le mille scoperte che un bambino può fare anche tra le rovine della guerra. Poi ci siamo trasferiti tutti a Milano dove mio padre ci aveva preceduti. E la vita è cambiata. Ho avuto coraggio,mamene accorgo soltanto adesso». Cosa non rifarebbe? «Inutile provare rimpianti. Piuttosto, riflettere sui comportamenti passati aiuta a cambiare il presente, amigliorarlo. Comunque, posso dire che rifarei tutto ciò che ho fatto». Qual è stato il suo giorno più felice? «Vivo nel presenteeil momento presenteèsempre il più felice». Il momento più duro? «Qualche anno fa ho affrontato uno dei momenti più duri e complicati della mia vita. L’ho superato anche peril desiderio fortissimo diritornare ad Antigua, alla piccola spiaggia bianca che mi aveva incantatoeche ero sicuro mi stesse aspettando. Tanto che lì poi ho acquistato una casa». Con cosa brinda? «Se bevessi ancora, con un rosso». Come sceglie i suoi chef? «Premetto che incarnano tutti il mio stile. Ognuno in modo diverso. Scelgo professionisti che dimostrino di avere una grande passione per il loro lavoro: senza protagonismi eccessivi, ma accomunati dal desiderio di raggiungere l’eccellenza». Con quante persone trascorrerà le vacanze? «Con gli amici di sempre, i familiari, qualche collaboratore. Arriviamo fino a 20 persone, ma i gruppi si alternano e c’è sempre una nuova energia». Qual è la giornata tipo? «Posso sembrare molto metodico, ma è un comportamento che mi permette di vivereafondo le mie giornateeimiei impegni. In genere non vado a letto tardi e mi alzo presto perfare un po’ di attività fisica, che mi dà la carica. Con il cibo ho un rapporto equilibrato. Seguo una dieta bilanciata, e sento che il mio fisico trae beneficio da un’alimentazione leggera e sana. Non salto mai un pastoemi ritaglio sempre almeno mezz’ora per sedermi e mangiare correttamente». È vero che non parla mai di lavoro quando èaPantelleria? «Mi piacerebbe, non è possibile. Perché l’azienda non si ferma mai. Ma la mia piccola, meravigliosa Pantelleria è sicuramente il luogo dove riescoastaccare di più». I piatti eivini a casa? «Piatti locali come la pasta al pesto pantesco, o insalate concapperi.O piatti piacentini come i tortelli, o il risotto alla milanese. Anche la pizza, visto che c’è un forno dedicato che amiamo usare la sera… I vini: Donnafugata, ilNozze d’oro di Tasca d’Almerita, il Primitivo… Champagne ogni tanto per l’aperitivo. Oppure Franciacorta». Cos’è il lusso? E l’eleganza? «L’eleganza è un pensieroeun atteggiamento, che mettono in scena la vita, senza strappi né esaltazioni, dove ogni dettaglio suggerisce padronanza e sicurezza. Il lusso può esprimere al massimo livello questa tensione emotiva, ma può anche trasformarsi nel suo contrario». Perché ha scelto di cambiare l’Emporio Armani Caffè di Milano? «Sentivo il bisogno di ripensare l’ambienteela varietà delle offerte, di riprogettare completamente non soltanto lo spazio con giochi di prospettiveedi volumi, ma anche l’atmosfera. Così oggi è diventato Emporio Armani CaffèeRistorante, un luogo speciale, apertoeaccogliente, che per design e cura delfood è lo spirito stesso della contemporaneità». Qual è il suo bagaglio in viaggio? «Amo viaggiare conunbagaglio leggero ma ben organizzato, dove non mancano mai il mio profumo preferito, le magliette blu in cotone d’estate, in cashmere d’inverno, le sneakers bianche». Quali sono i politici di oggi e diieri più o meno eleganti? «Se le premetto che non c’è eleganza nell’abbigliamento senza eleganza di pensiero, mi salva dal rispondere? Per il passato, non ho dubbi: Churchill, Pertini, Mitterrand. E il presidente Napolitano. Per il presente, trovo che il sindaco di Milano, Beppe Sala, abbia un’immagine molto discreta ed elegante. Ho poco da suggerirgli, il suo stile è quello che si addiceaun personaggio politico del suo calibro». Come vede l’impero Armani nel futuro? «Forteeal passo conitempi, sostenuto da un obiettivo sempre chiaro: accompagnare donne e uomini in una quotidianità nella quale etica ed estetica migliorano la vita».

10 Crisi dei campioni

Sei fuori! Accolti da eroi, accantonati come fardelli I super campionisenza più posto in squadra diventati un pessimo affare economico (saranno loro a far esplodere ilsistema?)

Tommaso Pellizzari sul Corriere a pagina 26

F inora carente sotto il profilo canoro, l’estate 2019 ha scovato il suo tormentone da tutt’altra parte, nello spietato mondo del calcio: «Sei fuori dal progetto». Quattro parole, senzamusica,ripetute (più o meno esplicitamente) da dirigenti o allenatori ad alcuni loro calciatori e che riassumono il gigantesco pasticcio in cui alcuni club sembrano essersiinfilati. E raccontato sul «Guardian»dal giornalista e storico del calcio JonathanWilson in forma difavola triste: «Un eroe viene attirato in un regno lontano grazie a promesse di inimmaginabile ricchezza e alla presenza di altri eroi con cui andarein giroafare l’eroe. L’eroe fa l’eroe, ma non così eroicamente come si era immaginato. Allora il re decide che vuole un altro eroe, il che significa che questo se ne deve andare. Ma all’eroe piace la sua rutilante vita e non vuole andare in un altro posto, dove ci potrebbero esseremeno eroi con cui andarein giro a fare l’eroe». Ecco, se l’apologo diventasse mai un film, il casting potrebbe rivelarsi complicato per eccesso di aspiranti protagonisti. Avanti il primo candidato: Mauro Icardi. Presto la sua vicenda all’Inter verrà studiata nelle facoltà di Economia e commercio, in quanto caso esemplare di come si (auto)distrugge il patrimonio di un’azienda. Un giocatore di grandissime qualità (e limiti evidenti) sceglie come procuratrice la moglie: la quale però non ha la minima esperienza in materia e anzi di professione fa altro, il personaggio in tv e sui social. Dove rende insopportabile alla società, ai compagni e ai tifosi il marito-assistito. Fino a quando (febbraio 2019) la società stessa non decide ditogliergli la fascia di capitano. Per poi dichiararlo 5mesi dopo personanongrata, anzi: «Fuori dal progetto». Tanto, pensa la società, lo venderemo facilmenteegrazie a quei soldi lo sostituiremo con Dzeko e Lukaku. E tanto, pensa lui, io me ne vado alla Juve. Che però ingarbuglia tutto virando proprio sul belga dello United, da scambiare colrenitente PauloDybala, candidato n.2al casting in quanto ex «nuovo Messi» di cui la Juve non sa più che farsi. E sì che il neo-allenatore Sarri aveva detto di vedere bene Dybala come «falso nueve». Per due ragioni. La prima è che di «veri nueve» al momento ne ha almeno due: Mario Mandzukic e il terzo candidato del casting,Gonzalo Higuain, ovvero colui che con Sarri alNapoliha realizzato il record di gol in Serie A (36). In più, non è chiaro cosa se ne faccia Sarri di uno come Lukaku, ma sempre meglio che lasciarlo all’Inter, no? A oggi (è bene ripeterlo: a oggi) non sarà lui a rappresentare il Belgio in nerazzurro al posto di Radja Nainggolan. Anche il Ninja, quarto candidato del casting, è «fuori dal progetto» Inter, che l’ha pagato 38 milioni un anno fa, rifiutandone alcuni in più offerti da chi voleva Perisic (ne vogliamo parlare?), altro «fdp» ma solo perragioni tattiche. E poiché nessun club di Champions si è fatto avanti per avere il Ninja (ma dai), lui va in prestito al Cagliari. Tanto, se l’Inter è nell’Europa che conta lo deve proprio a Radja, autore del gol con l’Empoli che ha qualificatoinerazzurri e con cui ha ripagatoisoldi per acquistarlo. Che è un po’ quello che tutto il mondo ha pensato quandoGareth Bale, quinto candidato del casting, segnò lo strepitoso gol contro il Barcellona nella finale di Coppa delRe 2014 (50 metri di scatto palla al piede) o quello del 2-1 nella finale di Champions contro l’Atletico: il Real era rientrato dai 100 milioni spesi per il gallese dal Tottenham. Ma dopo (e nonostante)5anni, 231 partite, 14 trofei, 65 assist e 102 gol (di cui 3 in finali di Champions), l’allenatore del Real Zidane ha fatto sapere che al gallese vuole bene come a Materazzi: «Prima se ne va e meglio è per tutti». Ma Gareth è ancora lì, con lo stipendio di 17 milioni l’anno, a giocare a golf mentreicompagni si allenano. Solo uno è più favorito di lui, nel casting:Neymar. Anche perché lì si tratta di capire chi tra il Psg (che lo ha pagato 222 milioni due estati fa) e il Barcellona — doveONey vorrebbe tornare — lo considera più «fuori dal progetto».Intanto, lo si potrebbe ingaggiare per un altro film. Genere: catastrofico. Trama: un gruppo di club con troppi soldi copre di denaro unmucchiodi giocatori, blindandoli con contratti lunghissimi per alleggerireibilanci e per poterci guadagnare rivendendoli. Una strategia che, però, rende invendibili i giocatori stessi, i quali finiscono per diventare dei macigni, tecnici ed economici. Spoiler (ma neanche tanto): alla fine il sistema esplode. © RIPRODUZIONE

10 Farmaci

GIUSTIZIA

Prostata

L’avete vista tutti. È quella pubblicità televisiva nella quale un uomo di circa 60 anni ha necessità di alzarsi più volte la notte per urinare, e quando rientra in camera la moglie si sveglia, e lui inventa una scusa, (…)

(…) pur di non confessarle il suo intimo problema. Un tipico atteggiamento maschile dettato dal pudore, ed un errore grave, perché i disturbi urinari non dovrebbero essere banalizzati o declassati a semplici fastidi legati all’età, in quanto, se venissero curati già al loro esordio, si otterrebbe un ritardo di almeno un decennio degli importanti ed invalidanti effetti collaterali. Oggi oltre 6 milioni di italiani over 50 sono colpiti da ipertrofia prostatica benigna, un ingrossamento della prostata che affligge il 50% degli uomini di età compresa tra i 51 e 60 anni, il 70% dei 61-70enni, per arrivare al picco del 90% negli ottantenni. In condizioni normali nell’uomo adulto la ghiandola prostatica ha la forma ed il volume di una castagna, è attraversata dal condotto urinario, è posizionata sotto la vescica, ed ha la funzione di produrre liquido prostatico, importante componente del liquido seminale che contribuisce a garantire vitalità e mobilità agli spermatozoi. Quando inizia ad ingrossarsi (può superare anche di due o tre volte le dimensioni normali fino ad arrivare al volume di un mandarino) essa comprime il canale uretrale che la attraversa, ovvero il condotto dove scorre l’urina, riducendone il lume e causandone di fatto una parziale ostruzione, uno strozzamento che interferisce con la capacità di urinare, per cui il sintomo principe, ed il primo a comparire, è l’indebolimento del getto di deflusso, in particolare all’inizio della minzione, che diventa intermittente, a scatti, e che inizia lentamente a non essere più decisa ed impetuosa, perde la forza della sua gittata anche a vescica piena, diventando sempre più debole, e spesso è accompagnata da una fastidiosa sensazione di incompleto svuotamento vescicale, per la permanenza in vescica di un residuo urinario che facilita l’insorgenza di infezioni, nonché la formazione di calcoli. Presto però scompare anche la capacità di dormire in modo continuativo tutta la notte, di fare tutta una tirata dalla sera fino all’alba, perché il sonno viene interrotto dallo stimolo urinario con conseguente necessità di alzarsi una o più volte per andare in bagno (nicturia), e successivamente insorge l’urgenza di svuotare la vescica in modo frequente anche durante il giorno (pollachiuria), con sgocciolamento terminale dopo aver finito di urinare, e le gocce che continuano ad uscire dal prepuzio sono quelle che ristagnavano sul fondo vescicale, quindi sempre acide e di tipo irritativo. LA VITTIMA Purtroppo nella prima fase infiammatoria di questa malattia più del 75% degli uomini non si cura affatto, o peggio ricorre al “fai da te”, soprattutto assumendo vari integratori vegetali, un errore grave, perché questi preparati, non essendo farmaci, non sono curativi, e perché solo il medico può trattare l’ipertrofia prostatica benigna, la quale, se trascurata, può progredire fino a causare ritenzione urinaria con impossibilità a svuotare anche parzialmente la vescica. La vera vittima di una prostata che cresce infatti, è proprio la vescica, la quale, essendo costituita da tessuto muscolare, può aumentare il suo volume ed ispessirsi, per vincere la resistenza ostruttiva della prostata ingrossata che si oppone allo svuotamento, con il rischio di sfiancamento delle pareti vescicali e di sofferenza riflessa degli ureteri e dell’intero albero urinario fino a livello dei reni, gli organi emuntori per eccellenza. È necessario sottolineare che i sintomi dell’ipertrofia prostatica benigna spesso sono comuni e simili a quelli causati del tumore maligno della ghiandola, per cui è sempre necessaria una diagnosi differenziale, tramite esami clinici, ematologici, istologici, ecografici e radiologici, per escludere che si tratti di carcinoma. La visita urologica con esplorazione rettale, seguita da una ecografia endocavitaria, rappresenta ancora un tabù nell’universo maschile, e la maggior parte dei pazienti arriva all’osservazione clinica a malattia già conclamata ed avanzata, quando c’è poco da recuperare, per cui è importante dopo i 50 anni sottoporsi in via preventiva ad una visita specialistica. Ma perché la prostata si ingrossa? Le cause principali di questa patologia benigna sono l’invecchiamento e i cambiamenti ormonali (andropausa) che si verificano nell’età matura, per cui è importante aggredire l’aumento di volume prostatico al suo esordio, quando compaiono i primi sintomi, per ritardare la cronicizzazione della malattia e delle sue complicanze, che possono arrivare all’uso perpetuo del catetere vescicale fino alla rimozione chirurgica dell’intera ghiandola, con effetti permanenti sulla salute sessuale e psicologica dei soggetti che vengono privati di un organo così identitario della mascolinità. I farmaci oggi disponibili comprendono gli inibitori delle 5-alfa reduttasi, ovvero la dudasteride e finasteride, che agiscono sul testosterone responsabile dell’ingrossamento ghiandolare, e gli alfa-bloccanti, che rilassano i muscoli del collo vescicale e dell’uretra prostatica, facilitando il passaggio dell’urina. Come tutti i farmaci, anche questi presentano effetti indesiderati (eiaculazione retrograda, ipotensione ortostatica, vertigini ed astenia), e la finasteride, in una bassa percentuale tra l’1 e il 2% può causare diminuzione della libido e impotenza. LA CHIRURGIA Il trattamento chirurgico non è più invasivo come una volta, si effettua senza aprire l’addome, è lo stesso che viene effettuato per i tumori maligni diagnosticati in tempo, quando sono ancora contenuti nella ghiandola, si chiama T.U.R.P., e si effettua in anestesia spinale con uno strumento detto Resettore, introdotto in vescica dal pene attraverso l’uretra, e dotato di un sistema a fibre ottiche e di un’ansa, tramite la quale si procede a resezione solo della porzione centrale ed interna della prostata, lasciando intatto il resto dell’organo, ripristinando in tal modo il canale urinario ad un calibro congruo a consentire una minzione regolare. La mini-invasività della Turp e la sua rapidità di esecuzione (inferiore ai 60minuti), e la breve degenza (due al massimo tre giorni),lo hanno reso senza dubbio il procedimento chirurgico di prima scelta nel trattamento della ipertrofia prostatica e di alcuni tipi di carcinomi, ma, nel caso della tumefazione benigna, esso viene eseguito solo dopo aver tentato la riduzione ghiandolare con la terapia farmacologica, oppure quando le dimensioni molto aumentate della prostata non lasciano altra scelta. È importante sfatare una leggenda popolare, ovvero sottolineare che questo tipo di operazione, lasciando intoccati i nervi erigendi, responsabili dell’erezione peniena, che hanno un decorso esterno alla prostata, non compromette affatto la potenza sessuale ed il raggiungimento dell’orgasmo, che vengono interamente conservati, ma ha come effetto collaterale l’eiaculazione retrograda nel 70% dei casi, ovvero lo sperma viene eiaculato non più all’esterno ma in vescica, e tale fenomeno è correlato all’abbassamento della pressione a livello del collo vescicale, e quindi a monte dei dotti eiaculatori, cosa che determina una risalita del liquido seminale in vescica, con conseguente impossibilità futura del soggetto operato alla procreazione. L’ipertrofia prostatica benigna è la patologia cronica più frequente negli over 50 dopo l’ipertensione arteriosa, e per evitarla o ritardarla è quindi importante la prevenzione, controllarsi per tempo ai primi sintomi e seguire le indicazioni mediche e farmacologiche, perché, e questo gli uomini lo sanno bene, la prostata può tornare utile anche in età avanzata, invece di diventare sterili o con il catetere fisso da gestire dentro i pantaloni.

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ECONOMIA

1 Berlusconi web

AAA Cercasi soci. “Cerchiamo soci in Europa per sfidare i giganti del web”. Pier Silvio Berlusconi ad di Mediaset anticipa alla Stampa i piani a un mese dalla nascita di Media for Europe. “E’ un progetto di sviluppo, il migliore possibile, per creare un campione Ue della tv commerciale”.More

2 Progetto italia

SEMAFORO VERDE AL NUOVO MAXIPOLO DELLE COSTRUZIONI “Progetto Italia” C’è il via libera di Cdp a Impregilo Per la Cassa si tratta di un’operazione “strategica” Ok dai mercati: Salini guadagna il 6%, Astaldi il 2,3

Stampa p.18

Supergruppo. Progetto Italia arriva al traguardo. Supergruppo Salini-Astaldi-Cdp. Con un cda nella notte Impregilo lima gli ultimi accordi con le banche e con la Cassa Depositi e Prestiti. Nasce un campione nazionale tra i dieci più grandi in Europa (Repubblica p.24).

3 lavoro

Lavoro. Più lavoro per gli italiani. Ma sempre meno reddito. Scrive Federico Fubini sul Corriere (p.6): nell’ultimo anno c’è stato un netto calo di produttività, meno 1,5%; la crescita è zero e un lavoro, di minore qualità, è spesso molto usato perché malpagato. Che le imprese stiano tagliando sugli investimenti, data l’incertezza generale nel Paese, si inizia proprio a sentire.

●L’analisi Cosa stia succedendo esattamente lo sapremo forse solo fra qualche anno, con il senno del poi. Per adesso è certo che in Italia non si erano mai viste tante persone con un lavoro, bello o brutto che sia, pagato bene o (più spesso) male. Neanche prima della crisi si era arrivati a 23,38 milioni di occupati. Pochi rispetto a qualsiasi altro Paese ricco, molti in questo. Il novero include anche le persone in cassa integrazione, della quale le ore autorizzate stanno tornando a esplodere; ma questo è stato vero anche in anni recenti e il conto degli occupati comunque non era mai stato tanto alto. C’è però un’altra certezza, dai dati Istat: fra aprile e giugno, proprio quando l’Italia ha segnato il record di posti di lavoro, il prodotto interno lordo (Pil) è stato di 182 milioni più basso che negli stessi tre mesi di un anno fa. Una decrescita anche se i lavoratori che dovrebbero produrre quel Pil aumentano. Per capire cosa si muove nel motore dell’economia italiana, l’unica soluzione è confrontare il Pil con il totale delle ore lavorate. Anche queste ultime nei primi tre mesi del 2019 (i dati più recenti) sono cresciute rispetto a un anno prima, tre volte più in fretta del numero degli occupati: più persone oggi hanno un lavoro e lo svolgono in media per più ore di un anno fa. Eppure anche nei primi tre mesi del 2019 il prodotto lordo era caduto (di 240 milioni) rispetto ai primi tre mesi del 2018. Quest’anno chi lavora genera in media 36,7 euro di Pil lordi per ogni ora di impegno, negli stessi mesi del 2018 ne produceva 37,3 euro. In altri termini nell’ultimo anno c’è stato un netto calo di produttività, meno 1,5%; con gli attuali livelli di occupazione e di ore lavorate, l’Italia oggi crescerebbe il doppio della Germania nel 2019 se solo tornasse ai livelli di produttività dell’anno scorso. Invece la crescita è zero e un lavoro, di minore qualità, è spesso molto usato perché malpagato. Che le imprese stiano tagliando sugli investimenti, data l’incertezza generale nel Paese, si inizia proprio a sentire.

Corriere p.6

4 dazi

Dazi. Trump: «Nuovi dazi da 300 miliardi sui beni cinesi». La misura scatterà il primo settembre. A questo punto l’escalation è completa. Tutto l’import in arrivo dal grande Paese orientale è soggetto a un prelievo alle dogane (Corriere p.10).

: il 10% si aggiunge al 25% applicato a merce per 250 miliardi di dollari. «Noi pensavamo di aver raggiunto un accordo con la Cina tre mesi fa — scrive il presidente—ma, è triste dirlo, la Cina ha deciso di riaprire il negoziato poco prima della firma». E ancora: «Più direcente la Cina aveva concordato di comprare prodotti agricoli dagli Stati Uniti in grandi quantità, ma non lo ha fatto». La trattativa tra Washington e Pechino continua. Ma si comincia a sentire odore di bruciato. Stanno andando in fumo i margini di redditività di molte aziende americane, nonché i guadagni degli agricoltori che esportano soia e carne di maiale. Inoltre l’economia cinese sta rallentando. Giuseppe Sarcina

Corriere p.10

Trump rilancia: nuovi dazi alla Cina

Repubbliva p.24

5 Arcelor mitatl

Immunità. All’Ilva torna lo scudo penale, ma sarà parziale e a scaglioni. Un manager di Arcelor Mittal svela che il governo “ripristinerà l’immunità” facendo infuriare il ministero (“è falso”). La realtà? Sarà reintrodotta, ma con alcuni paletti (Fatto p.9).

Ilva, si stringe sullo scudo parziale `Il governo sta preparando una norma che assicuri garanzie per i vertici, limitate però al piano ambientale `Ma sull’immunità penale scoppia un nuovo caso. Il cfo di ArcelorMittal annuncia il ripristino. Di Maio: «Falso»

Messaggero p.14

ExIlva,scontrogoverno-Arcelor sullatutelagiuridicaeambientale Il gruppo: l’esecutivo sta lavorando a una legge che ripristini l’immunità. Di Maio: falso

Corriere p.33

6 tav

Tav. Alta velocità Torino-Lione, l’appello degli ingegneri. Applicare l’analisi costi – benefici in modo meccanico a progetti infrastrutturali di portata rischia di produrre distorsioni gravissime (Corriere p.33).

La Lente di Marco Sabella Applicare l’analisi costi – benefici in modo meccanico a progetti infrastrutturali di portata continentale come la Nuova linea Torino Lione (Ntvl) e il Terzo Valico che metterà in collegamento diretto il porto di Genova con la Svizzera e il Nord Europa rischia di produrre distorsioni gravissime. Ne sono convinti i due presidente dell’Ordine degli ingegneri di Milano e di Torino Bruno Finzi e Alessio Toneguzzo che insieme a Sergio Sordo (Federazione interregionale degli ordini degli ingegneri del Piemonteedella Valle d’Aosta) e Augusto Allegrini, presidente della Consulta regionale Ordini degli ingegneri della Lombardia , hanno firmato un documento che invita a selezionare meglio i criteri di analisi di due opere che hanno valenza strategica. «Un parametro essenziale di valutazione come l’aumento del traffico indotto dalla sostituzione del trasporto merci da strada a ferrovia, ad esempio, non è stato considerati adeguatamente nelle analisi costi benefici fin qui condotte», spiega Finzi. La sola Svizzera dal 2007 a oggi ha ridotto dall’80% al 30% il trasporto su strada realizzando così una imponente riduzione delle emissioni di CO2. Drastico anche il calo dei costi medi di trasporto. © RIPRODUZIONE RISERVA

Corriere p.33

7 tarttati commerciali

Commercio. Serve una rivoluzione per i trattati commerciali Ue. Lo dice il sottosegretario Michele Geraci che sostiene che occorra difendere gli interessi nazionali anche rimanendo dentro l’Unione Europea e difende questo metodo di trattativa nei confronti di Usa e Cina per proteggere il made in Italy (Corriere p.34).

D ifendere gli interessi nazionali anche rimanendo dentro l’Unione Europea. Il sottosegretario allo sviluppo economico Michele Geraci difende questo metodo di trattativa nei confronti di Usa e Cina per proteggere il made in Italy: «Pechino e Washington preferiscono rapportarsi coi singoli paesi europei. Per questo bisogna confrontarci direttamente con loro. La Francia lo fa per i dazi contro Airbus e la Germania per le tariffe contro le auto. Non aspettano Bruxelles». Per questo Geraci è andato negli Stati Uniti per evitare danni dai dazi contro l’Unione per gli aiuti ad Airbus: «Abbiamo instaurato un dialogo per far sì che non ci colpiscano nel nostro export per 4,5 miliardi. E non era loro intenzione colpirci, ma li abbiamo informati subito». Quindi bisogna anche che, nella stipula di nuovi trattati commerciali, vengano considerati non solo gli interessi del blocco continentale, ma anche quelli dei singoli paesi: «Serve una rivoluzione per fare una valutazione di impatto per tutti gli stati ed evitare che accada come con l’accordo con il Vietnam, dove le importazioni di riso ci colpiscono come produttori del 50% di riso europeo. Per questo ci siamo astenuti nell’approvazione» aggiunge Geraci. Ma dipende da caso a caso e Geraci fa un esempio: «Il Jefta, l’accordo con il Giappone, ha contribuito alla crescita delle nostre esportazioni verso Tokyo».

Corriere p.34

8 conti pubblici

Trucco sui conti pubblici. L’Istat cambia i calcoli, un assist ai conti 2019. La modifica alla struttura dell’economia potrebbe rialzare il valore aggiunto (Sole p.2).

Crisi dei conti pubblici. La stagnazione riduce le risorse Ora la manovra è più difficile e il debito meno sostenibile. I consumi interni segnano il passo ma anche il traino delle esportazioni sta iniziando a rallentare (Repubblica p.6).

9 sud svimez

«Sud tra decrescita e fuga più rischi con l’autonomia». Il rapporto della Svimez: in 15 anni sono emigrati 2 milioni di meridionali. Lo spettro di una nuova recessione. «No alle contrapposizioni territoriali» (Messaggero p.6).

Sud. Fuga dal Sud dice lo Svimez: il Mezzogiorno è già in recessione. In 15 anni scomparsa la popolazione di una città come Napoli. Niente nuovi nati e i giovani che emigrano. La Sicilia perde il futuro (Repubblica p.6). Il Sud, cioè il deserto. Il commento di Sergio Rizzo su Repubblica (p.32).

10 Nord

Nord. Tra Lega e Cgil gli operai del Nord. Nei cantieri bresciani: “Il sindacato serve a non farci fregare, ma Salvini e Meloni ci promettono sicurezza e noi scegliamo loro”. Il senegalese Niane guida gli edili: “I miei iscritti votano per il governo, ma poi scioperano contro i suoi provvedimenti”. Tessera a sinistra e voto a destra? Valter Aglioni, operaio di Calcio “Come le due mogli per i musulmani”. Il viaggio di Gad Lerner fra gli operai del Nord (Repubblica p.9).

POLITICA

1 Giustizia

Riforma della giustizia. È scontro. Salvini: ora riforma vera. I 5S: è come Berlusconi. Ancora liti nel governo. Il ministro: niente cose a metà. Di Battista all’attacco: siete parte della mangiatoia (Stampa p.4). Giustizia in stallo, la mossa di Bonafede: ridurre i tempi? Pronti al dialogo

(Corriere p.5). Il ministro della Giustizia Bongiorno: «Sì a processi rapidi e carriere separate. Il piano dei 5 Stelle? Non dà soluzioni. La parola chiave è certezza. Serve una riforma complessiva»

(Corriere p.5). Una riforma nata già morta Matteo alza ancora l’asticella. Bongiorno ai suoi: con questo testo rimane la bomba atomica della durata dei procedimenti (Messaggero p.3). Salvini come Berlusconi: la Lega è il partito del No per salvare i suoi indagati (Fatto p.2). E Salvini: se mi stufo la parola agli italiani (Messaggero p.2).

Flick. «Improprio lo stop alla prescrizione senza accorciare i tempi dei processi». Intervista al presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick: non vedo come le modifiche promesse possano farsi entro gennaio. Mi pare tutta una proposta confusa bene solo la chiusura definitiva delle porte girevoli politica-giustizia (Messaggero p.3).

Pessimismi. La riforma non si farà. I magistrati: giù le mani dalle toghe. Il provvedimento non intacca i superpoteri della categoria, ma l’Anm è già sulle barricate. Senaldi su Libero (p.4).

2 Salvini

Salvini a tutto campo. Nomadi, giornalisti, Berlino. Sono un caso gli attacchi di Salvini. Il leghista alla rom che lo minaccia: «Zingaraccia». Sindacati in ballo tra il premier e il suo vice. Il ministro dell’Interno e il videomaker della moto d’acqua: gli piace riprendere bambini (Corriere p.2).

Salvini al Corriere: «Sulla sicurezza potremo verificare se il governo ha ancora i numeri. Toni troppo alti? Non so, vado avanti. La verità vera è che noi abbiamo dovuto organizzarci da soli Poi mi arrivano lettere come quella della Ue che mi dicono che prendono alcuni immigrati solo se ne faccio sbarcare altri. La Gronda di Genova sarebbe già partita se Toninelli non l’avesse bloccata. Il primo che la bloccò fu Claudio Burlando, l’accoppiata Toninelli-Burlando fa un po’ effetto… Il mio rapporto attuale con il presidente del Consiglio? È un rapporto di lavoro. Non so se il governo prosegue, è un governo che gode della fiducia della maggioranza degli italiani» (Corriere p.3).

Salvini che ha paura. Perché Salvini non rompe con Di Maio? Il mistero allarma i leghisti. Il grillino debole sembra troppo sicuro di sé. Nella Lega avanza la sindrome del complotto: cosa sa che non sappiamo? Lo spettro di Savoini e dei pm. Foglio in prima. Matteo tra strategia e nervi tesi (Giornale p.6).

Salvini contro Repubblica. Insulti e attacchi ai cronisti. Al Papeete il ministro non risponde al videomaker che aveva fotografato il figlio sulla moto d’acqua della polizia: “Vada a riprendere i minori, visto che le piace tanto” (Repubblica p.2). E l’agente mi avvertì “Adesso so dove abiti” (Repubblica p.3). La libertà di stampa secondo Matteo. Il problema non è il figlio di Salvini, ma il comportamento della scorta composta di uomini dello Stato che è il nostro Stato. Su quella spiaggia abbiamo perso un altro centimetro della nostra dignità e si intende di tutti, anche di chi lo vota. L’editoriale di Carlo Verdelli su Repubblica in prima.

Sondaggio. Voto anticipato, sì dal 58% degli elettori leghisti. Contrario alle elezioni invece l’88% dei sostenitori Cinque Stelle. In tutto l’elettorato è favorevole il 72%, in aumento rispetto al 64% di maggio. La Lega continua a crescere nonostante il Russiagate e sfiora il 39%. Pd secondo partito al 23%, M5S al 15%. In crescita anche FdI (Sole p.3).

diRoberto D’Alimonte Lega e M5S continuano a litigare. Il nuovo tema di scontro è la giustizia. Ma la crisi di governo non è alle porte. Così sembra. Eppure gli elettori sono arrivati alla conclusione che questo governo sia al capolinea e che sia meglio tornare a votare. È il risultato dell’ultimo sondaggio di Winpoll condotto la scorsa settimana. Non è del tutto una novità perché già a maggio in un sondaggio simile il 64% degli intervistati aveva risposto nello stesso modo.

In questo sondaggio la percentuale è salita. Adesso è il 72% a preferire il voto alla continuazione dell’attuale governo. È una opinione condivisa dalla maggioranza degli elettori di tutti i maggiori partiti, con la sola eccezione di quelli del M5S. Questo dato però nasconde un piccolo mistero. Che addirittura l’ 88% degli elettori pentastellati preferiscano che, nonostante tutto, il governo Conte vada avanti non è difficile da spiegare. Visto che in Parlamento rappresentano oltre il 30 % degli eletti mentre i sondaggi li danno intorno al 15% dei voti, è razionale che non vogliano nuove elezioni. Ma perché gli elettori del Pd e quelli di Forza Italia dovrebbero preferire il ritorno al voto ? In questo sondaggio, e in altri usciti recentemente, le intenzioni di voto alla Lega vengono stimate tra il 37 e il 39 per cento. Nel nostro caso al 38,9. Aggiungendo a questa cifra la percentuale stimata per Fratelli d’Italia , cioè il 7,4 , si arriva al 46,3 per cento. Con questi numeri è praticamente certo che in caso di voto anticipato i due partiti otterrebbero insieme la maggioranza assoluta dei seggi in entrambe le camere. Forse gli elettori del Pd e quelli di Forza Italia non lo sanno. Deve essere un difetto di informazione che li spinge a favorire la vittoria di Salvini alle urne. Nel caso degli elettori di Berlusconi, però, potrebbe esserci dell’altro. Dietro la loro preferenza per le elezioni anticipate potrebbe nascondersi la speranza che Salvini alla fine si convinca che sia meglio per lui mettere insieme tutte le componenti del centro-destra e quindi anche Forza Italia, in una coalizione pre-elettorale inclusiva. Un ritorno ai vecchi tempi, con la Lega al posto che una volta era di Forza Italia. Questa ipotesi non è fondata. Come ha fatto capire in tante occasioni, Salvini non ha nessuna intenzione di allearsi a livello nazionale con Forza Italia. Berlusconi rappresenta quel vecchio mondo da cui la Lega di Salvini vuole prendere le distanze. E, come si vede nel nostro sondaggio, i suoi elettori sono d’accordo con lui. Il 64% preferisce che in caso di elezioni anticipate la Lega si allei solo con Fdi, e altri del centro-destra, ad esclusione di Forza Italia. Solo il 18% vorrebbe includere il partito di Berlusconi. Nel sondaggio di maggio questi ultimi erano il 30 per cento. La vecchia alleanza continua a perdere appeal. E questo è vero anche per gli elettori di Fdi, anche se tra di loro la percentuale di chi vorrebbe un centro-destra inclusivo (il 35%) è più alta che tra gli elettori della Lega. Per gli elettori di Forza Italia l’atteggiamento dei loro vecchi alleati è indubbiamente una brutta notizia, visto che addirittura l’85% di loro vorrebbero proprio quella alleanza che gli altri rifiutano. Resta il caso degli elettori leghisti. Il 58 % di loro vuole le elezioni anticipate. Sono pochi o sono molti ? Intanto c’è da dire che sono cresciuti rispetto a qualche mese fa. Certo, se confrontiamo questa percentuale con quella , per esempio, degli elettori Pd e se aggiungiamo la considerazione che il voto anticipato li premierebbe sono relativamente pochi. Visto che i numeri li danno vincenti perché molti non vogliono andare a votare ? D’altro canto però occorre sottolineare che si tratta di elettori di un partito il cui leader è manifestamente contrario ad aprire la crisi. E da questo punto di vista non si può dire che siano pochi. In ogni caso, pochi o molti che siano, il fatto è che il 42% di loro non vuole le elezioni anticipate. Forse è la prudenza. Forse molti non sono convinti che una crisi di governo porti al voto. Altri forse non si fidano dei numeri attuali che li danno vincenti e preferiscono aspettare. Sta di fatto che la loro prudenza è condivisa dal loro leader. Anche Salvini non sembra avere fretta. Le occasioni per aprire una crisi non sono mancate. Ma il leader non ne ha approfittato. Le tendenze elettorali in atto gli danno ragione. La Lega continua a crescere, nonostante i passi falsi moscoviti. Anche Fdi, il futuro alleato, sale e ha superato Forza Italia che continua a sfarinarsi. Il Pd di Zingaretti con il suo 23,3% non va male ma non ha prospettive e quindi non rappresenta un pericolo. E allora forse è meglio superare lo scoglio della prossima legge di bilancio insieme agli attuali alleati e intanto consolidare la crescita nei collegi elettorali del Sud. Poi si vedrà. © RIPRODUZIONE RISERVA

BASTA CON IL TIRA E MOLLA

di Fabio Tamburini Gli italiani hanno le scatole piene di un governo che non governa, diviso da risse continue tra i due partiti leader: il M5S e la Lega. Più esattamente il 72% preferisce andare al voto. Il sondaggio, effettuato dalla Winpoll per conto del Sole 24 Ore, risulta ancora più significativo perché soltanto due mesi fa il partito della crisi di governo era a quota 64%. —Continua a pag.

—Continua da pagina 1 Non solo. Il 58% degli elettori leghisti, nonostante l’opinione finora negativa del loro leader maximo, Matteo Salvini, è convinto dell’opportunità di ridare la parola agli elettori. La stessa convinzione di buona parte dello stato maggiore della Lega nelle regioni del Nord, dalla Lombardia al Veneto. Vedremo come andrà a finire ma resta un fatto: le difficoltà dell’economia sono evidenti e la richiesta, che arriva dalla società civile, è di avere un governo che decida, che faccia delle scelte, che si assuma la responsabilità di dare la spinta necessaria per superare lo stallo. Ogni giorno i numeri confermano che l’economia ha tirato il freno. Mercoledì scorso è stata di turno la Lombardia, con la produzione industriale che per la prima volta da sei anni ha chiuso in negativo il secondo trimestre dell’anno. Il giorno dopo è arrivato il verdetto su scala nazionale: l’Italia è in stagnazione, rallentando dopo il marginale recupero congiunturale dei tre mesi precedenti. Chiunque abbia a che fare con il mondo imprenditoriale sa che tira un vento sfavorevole al governo attuale, litigioso e confuso. Certo le aziende continuano sulla loro strada e non mancano numeri positivi, come confermano i risultati semestrali delle società quotate in Borsa. Ma sono il frutto di scelte societarie che raggiungono gli obiettivi nonostante il clima sfavorevole e il teatrino della politica. Per questo i risultati del sondaggio che pubblichiamo oggi non stupiscono: lo scontento per l’incapacità del governo di prendere i provvedimenti che servirebbero è sempre più diffuso. Mancano idee e la capacità di attuarle. E, contemporaneamente, sono sempre più insopportabili i duelli all’ultimo tweet tra Lega e M5S. Le loro posizioni sono sempre più divaricate: sulla Tav, sulle grandi opere, sulla flat tax, sull’autonomia regionale, sul salario minimo garantito, sulla riforma della giustizia. Salvini e Di Maio sembrano marito e moglie dopo vent’anni di matrimonio. Serve chiarezza. E se non è possibile in una democrazia, piaccia o no, decidono gli elettori. Le forzature nel lungo termine non pagano. Pantalone, cioè gli italiani, non vogliono saldare il conto d’incapacità, verbalismi, confusione a tutto campo.

3 Commissario

Commissario Ue. Conte ha fretta: “Salvini ora scelga il commissario”. Von der Leyen arriva a Roma. Ipotesi Garavaglia. Irritazione di Palazzo Chigi per i ritardi sul candidato. I governi pronti a indicare i candidati. Timmermans, vicepresidente, vuole la delega alle politiche migratorie. Già 19 nomi nella squadra di Ursula. Vestager vuole tenere la Concorrenza (Stampa p.10). Un nome «o ci tolgono le deleghe» (Corriere p.6). Mossa Lega per la Ue: commissario politico, pronti a farlo bocciare (Messaggero p.4). Tremonti alla Ue, l’ultima provocazione della Lega (Fatto p.6)

4 Tav

Tav. I senatori pronti a votare la mozione Pd sulla Tav: “Una scelta logica”. La Lega vede la crisi: “Il governo tiene? Qui si sfida la gravità” (Stampa p.5). FI, idea aiutino ai No Tav per la spallata al governo. Forza Italia tentata di lasciare l’aula quando si voterà il testo grillino. Così l’esito sarebbe sul filo: da un lato M5S, dall’altro Lega e Pd. Dem impauriti. I renziani contrari alle urne: bocceranno Di Maio per evitare una crisi dell’esecutivo (Fatto p.4).

5 Morandi

Ponte Morandi. La perizia: «Fili dei tiranti corrosi e difetti di costruzione». Gli esperti del giudice. L’Aspi: non è la causa del crollo (Corriere p.19). “Morandi, ultime misure efficaci fatte 25 anni fa”. La relazione dei periti del gip inguaia Autostrade: “Cavi corrosi fino al 100%”. Non si è fatto nulla per rimediare all’usura : “Nessun intervento per fermare il degrado”. La replica di Aspi: ”Testo utile solo ai fini descrittivi: mostra che non è stato lo strallo la causa del crollo” (Fatto p.11).

6 Carabiniere

Carabiniere ucciso. Il buco di 24 minuti prima del delitto. Cosa hanno fatto i due americani? In quel tempo hanno percorso solo 500metri (Corriere p.17). Scalfarotto: “Doverosa la visita in cella Lo Stato rispetti i detenuti”. Il deputato Pd sconfessato anche da Zingaretti (Stampa p.9). Il commento di Maurizio Belpietro: Restiamo al fianco delle vittime, non dei carnefici (Verità p.7).

7 Migranti

Migranti. Novanta migranti salvati dalle Ong. E Salvini grida al ricatto tedesco. La Alan Kurdi a Lampedusa con 40 profughi, 52 soccorsi dalla Open Arms a largo della Libia. “Berlino ci chiede di farli sbarcare per prenderne 30 della Gregoretti”. Alla nave della Sea-Eye è stato notificato il divieto d’ingresso in acque italiane. Parla la capo missione: “Fate scendere i più deboli. Sulla nave anche due sopravvissuti al raid sul centro migranti di Tajoura” (Stampa p.8). Msf riparte verso la Libia. “Siamo medici salviamo vite”. La Ocean Viking, affittata con Sos Méditerranée, salpa oggi da Marsiglia. “È il nostro lavoro, alle polemiche non pensiamo” (Repubblica p. 13).

8 Forza italia

Forza Italia. Berlusconi licenzia Toti e Carfagna. Il partito allo sbando rischia di sparire (Stampa p.7). Berlusconi azzera i coordinatori. E Toti annuncia l’addio al partito. Direttorio a cinque. C’è anche Carfagna, ma lei si sfila: «Non esco, ma così moriremo» (Corriere p.7). Intervista a Toti: «L’ho saputo dal telefonino. Qui finisce Forza Italia, lì dentro resta un deserto. Silvio non ha voluto cambiare» (Corriere p.7). Moderati, cattolici e Sì Tav. Ecco chi andrà nell’Altra Italia. Il progetto berlusconiano raccoglie le prime adesioni. Il sì di Parisi e Lupi. Gli autonomisti Svp: «Dialogo» (Giornale p.2). Voleva fondare l’Altra Italia, ha ucciso Forza Italia. Per anni l’ex premier ha rilanciato il partito affidandolo a qualcuno di cui si è subito stufato. La verità è che per lui nessuno ha il quid o la stoffa per succedergli (Libero p.3).

TOTI E CARFAGNA SI ALLONTANANO FORZA ITALIA È NEL VORTICE DEL DECLINO

L e ha provate tutte Silvio Berlusconi per rilanciare la formula politica nata dal miracolo del 1994 e poi passata attraverso trasformazioni, scissioni, cambi di nome, fino al drammatico calo elettorale delle ultime elezioni. L’ultima trovata è stata quella di comporre i dissidi interni a Forza Italia insediando al vertice due esponenti delle opposte tendenze (non diremo correnti) che oggi si confrontano nel partito: Giovanni Toti, già creatura di Berlusconi e ora sostenitore di una stretta alleanza con Salvini nella prospettiva di un unico centro-destra a guida leghista; e Mara Carfagna, anche lei molto vicina al leader ma più attenta alle tematiche liberali della prima Forza Italia. La diarchia non ha retto più di qualche settimana.

Stampa prima

9 Pd

Parlare con i Cinque Stelle. Intervista a Zingaretti: «Il Pd parli all’elettorato M5S non ci interessano accordicchi. Noi dobbiamo dare speranze. Costituente a novembre, non stiamo prendendo tempo. Non bisogna seguire in maniera ossessiva i tweet di Salvini. Raccolta di firme alle Feste dell’Unità per farlo dimettere» (Corriere p.9). Tap, Ilva, Triv e cemento: l’anima anti-green del Pd. Mentre sbandiera l’ecologia, sostiene progetti odiati dagli ambientalisti (Fatto p.5).

Foglio. Il gran valzer del partito che non c’è. Cosa accomuna Renzi, Calenda, Carfagna, Toti, Cairo e il Cav.? Il sogno di rappresentare un’altra Italia non rappresentata da nessuno mostra la vera anomalia di un paese: le opposizioni vuote e senza idee per vincere. L’editoriale di Claudio Cerasa sul Foglio a pagina 1.

Gozi. Si allarga il fronte anti Gozi. Lui: grottesco. L’ultimo attacco, quello che mancava, è arrivato da Matteo Salvini: «Noi stiamo con gli italiani, qualcuno evidentemente ha altri interessi. Pd, sempre dalla parte sbagliata» (Corriere p.9).

«Pensavo che l’Italia sarebbe stata orgogliosa che un connazionale venisse a fare il consigliere del governo francese», dice Sandro Gozi al Tg2. E invece giù accuse da ogni fronte all’ex sottosegretario agli Affari europei per Renzi e Gentiloni, ancora esperto di Ue, stavolta perl’Eliseo. L’ultimo attacco, quello che mancava, è arrivato da Matteo Salvini: «Noi stiamo con gli italiani, qualcuno evidentemente ha altri interessi. Pd, sempre dalla parte sbagliata». A onor del vero, nello stesso Pd, le posizioni divergono. Carlo Calenda, per esempio,resta assai critico sulla scelta di Gozi: «Non si entra in un governo straniero». E poi via Twitter: «Spero che sia il caldo. Perché (…) stiamo raggiungendo vette di stupidità mai prima conquistate». La prima a invocare addirittura la revoca della cittadinanza è stata Giorgia Meloni (FdI): «Vogliamo sapere per quali meriti è stato nominato, il governo italiano gli chieda di non accettare quell’incarico ovvero glirevochi la cittadinanza». Il leader M5S Luigi Di Maio condivide: «Tu rappresenti e servi lo Stato italiano e poi a un certo punto lo tradisci. Nulla contro la Francia ma bisogna valutare se togliergli la cittadinanza». «Non sono né ministro, né sottosegretario — ribatte Gozi —, non ho giurato sulla Costituzione francese: polemica grottesca». A.Cop.

Corriere p.9

10 Moscopoli

Rubligate. “Due incontri prima del Metropol”. Lo sostengono i pm: l’affare del petrolio fu discusso prima sia Roma che a Mosca. Dei due meeting si parla nella registrazione di Savoini e soci in albergo coi tre russi. Registrato da uno dei tre italiani al tavolo: alla Procura lo diedero i cronisti dell’Espresso (Fatto p.3). I pm: a trattare l’affare sul gasolio forse anche un funzionario pubblico di Putin (Repubblica p.4).

10 Rep e gli sccop degli altri

“REP ”FA LE DENUNCE CON GLI SCOOP ALTRUI

STOP al McDonald’s alle Terme di Caracalla a Roma. Dopo una settimana di indagini, polemiche e scaricabarili il ministero dei Beni culturali ha firmato il provvedimento che impedisce la costruzione del fast food nel cuore verde di Roma. A darne il giusto richiamo è Re p u b b l i ca di ieri che, in prima, ricorda che se la vicenda è stata bloccata è proprio merito del quotidiano, grazie alla “campagna di denuncia” che ha portato avanti, “accendendo i riflettori sulla questione che qualcuno aveva tenuto nascosto”. Peccato che Re p u b b l i ca non legga gli altri quotidiani, altrimenti saprebbe che a denunciare “l’installazione tragicomica all’ombra delle Mura Aureliane”, aprendo “uno spaccato impietoso sul tasso di ignavia e incompetenza di cui sono affette le nostre amministrazioni”, è stato Tomaso Montanari sulle pagine deil Fatto Quotidiano. Lo storico dell’arte ha raccontato che l’area rientrando in un vincolo paesaggistico –apposto dalla Regione Lazio nel 2010 –ha fatto scattare l’articolo 146 del Codice dei Beni Culturali, che proibisce modificazioni come quella prospettata e impone a Comune e a Soprintendenza di vagliare in questo senso le eventuali domande: cosa che entrambi gli enti si sono ben guardati dal fare, prima di metterlo nero su bianco sul Fa t to. Così è facile fare le campagne di denuncia.

Fatto p.8

ESTERI

Iran. Le sanzioni di Trump contro Zarif. L’Europa si smarca: “Lavoreremo con lui”. Colpito il ministro degli Esteri, fautore dell’accordo sul nucleare, esponente dell’ala moderata del regime. Il ministro ha studiato negli Stati Uniti, in patria lo chiamano “l’americano” (Stampa p.11).

Russia. Olga, 17 anni e la Costituzione come arma. È lei il simbolo della protesta anti-Putin. Arrestata già quattro volte, ha letto ai poliziotti gli articoli che prevedono la libertà di parola e di assemblea: “Manifestazioni pacifiche e quindi legali” (Stampa p.12). Il sit-in di fronte agli agenti: «La legge non sia una barzelletta». Domani nuovi cortei. Tra le motivazioni delle proteste c’è il divieto a correre per le elezioni per la Duma di Mosca imposto ad alcuni oppositori. I manifestanti chiedono anche il rispetto dell’art. 31 della Costituzione che prevede la libertà di assemblea. E infine viene contestata la costante oppressione degli oppositori politici. Negli ultimi giorni la polizia ha arrestato più di 1.000 persone (Corriere p.11).

Hong Kong. L’ira di Pechino: “Rivolta a Hong Kong finanziata dagli Usa”. Più volte nelle ultime settimane i media di Pechino hanno puntato il dito sui rapporti tra i parlamentari pan-democratici di Hong Kong con organizzazioni americane come la National Endowment for Democracy, oltre che sugli incontri a Washington a metà luglio tra il Segretario di Stato Mike Pompeo e il vice-presidente Mike Pence e Jimmy Lam, editore dell’Apple Daily: una delle voci più critiche verso Pechino nell’ex-colonia britannica (Stampa p.12)

Dopo settimane di proteste e incidenti nelle strade di Hong Kong, per la prima volta è intervenuto il comandante della guarnigione dell’Esercito Popolare di Liberazione nell’ex-colonia britannica ammonendo che le violenze «non possono essere tollerate» e che le forze armate sono determinate a salvaguardare la sovranità della Cina. «Negli ultimi tempi si sono visti una serie di incidenti violenti e radicali che hanno gravemente compromesso la prosperità e la stabilità di Hong Kong, messo in discussione lo stato di diritto e l’ordine sociale, minacciato la vita e le proprietà dei cittadini», ha detto Chen Daoxiang nel corso delle celebrazioni per il 92esimo anniversario della fondazione dell’Esercito Popolare di Liberazione. Nelle stesse ore, l’account Weibo delle forze armate di Pechino a Hong Kong pubblicava un video di tre minuti: nella clip – che in un paio d’ore ha superato i 3 milioni di visualizzazioni – si mostrano militari impegnati in esercitazioni anti-sommossa e anti-terrorismo: un soldato che urla in cantonese «tutte le conseguenze saranno a vostro rischio», poi truppe che marciano protette da scudi, lanci di lacrimogeni e uso di cannoni ad acqua. Secondo la Basic Law, la mini-Costituzione di Hong Kong, il mantenimento dell’ordine

pubblico è responsabilità delle autorità locali, anche se il governo dell’ex-colonia può chiedere a Pechino l’assistenza dei 6mila uomini dell’Esercito Popolare di Liberazione di stanza nell’ex-colonia britannica. Se per giorni è circolata online una ridda di speculazioni sul possibile intervento delle forze armate cinesi a Hong Kong, diversi analisti sono convinti che per ora si tratti solo di minacce e che solo come ultima spiaggia la leadership di Pechino possa dare il via libera a schierare l’esercito in città: una simile mossa significherebbe «un punto di non ritorno» che avrebbe enormi conseguenze per il futuro di questa importante piazza finanziaria internazionale. Mentre sulle pagine social dei parlamentari pro-Pechino dell’ex-colonia britannica circolano foto di stranieri residenti a Hong Kong accusati di essere agenti della Cia dietro le manifestazioni delle ultime settimane, seguendo una consolidata tradizione anche il governo di Pechino ha detto che le violenze di Hong Kong sono «una creazione degli Stati Uniti». Nel corso di una conferenza stampa la portavoce del Ministero degli Esteri Hua Chunying ha ammonito che la Cina «non consentirà mai a nessuna forza straniera» di interferire in città. «Non è un segreto a Hong Kong le forze che protestano contro la legge sull’estradizione siano finanziate dagli Stati Uniti», accusava in un editoriale il Global Times. Più volte nelle ultime settimane i media di Pechino hanno puntato il dito sui rapporti tra i parlamentari pan-democratici di Hong Kong con organizzazioni americane come la National Endowment for Democracy, oltre che sugli incontri a Washington a metà luglio tra il Segretario di Stato Mike Pompeo e il vice-presidente Mike Pence e Jimmy Lam, editore dell’Apple Daily: una delle voci più critiche verso Pechino nell’ex-colonia britannica. «Respingiamo l’accusa che forze straniere siano dietro le proteste», ha risposto il Dipartimento di Stato.e intanto donald trump torna all’attacco e minaccia di imporre dal prossimo primo settembre dazi del 10% a 300 miliardi di importazioni dalla cina anche se «continuano i negoziati commerciali». — cBY NC ND ALCU

Stampa p.12

L’Europa sta a guardare. Un’Europa che resta a guardare. La nuova presidente della Commissione oggi è a Roma, un’occasione per discutere sull’insostenibilità dell’assenza dell’Unione sulla scena internazionale. Non si può accettare che restiamo immobili evitando perfino di sollevare la questione. Ursula von der Leyen è una ex ministra della Difesa tedesca. A lei la situazione è chiara. L’editoriale di Franco Venturini sul Corriere in prima.

Di franco Venturini

N el cimitero della Storia americani e russi seppelliscono oggi quel Trattato Inf che nel 1987 ci liberò dagli euromissili. A piangerlo, ora che scadono i sei mesi diriflessione dopo la denuncia degli accordi, ci sono soltanto due presenze: una è la Cina (anche per aver mano libera con lei e con la Corea del Nord Trump ha organizzato il funerale); l’altra è l’Europa, che aveva dato il suo nome a quei missili micidiali e che li ospitava sul suo territorio (per esempio nella base siciliana di Comiso) diventando potenziale bersaglio di uno scambio nucleare tra Est e Ovest. Una Europa che da oggi, almeno in teoria, potrebbe vederselirispuntare sull’uscio di casa quei missili tra 500 e 5.500 chilometri di gittata, visto che il divieto internazionale sta cadendo, che i rapporti Usa-Russia sono pessimi, e che la tecnologia ha prodotto nuove straordinarie macchine di morte. È questo lutto silente e rassegnato dell’Europa, dunque anche nostro, che ci interessa e ci indigna. Si può capire che l’America consideri obsoleti i trattati di disarmo dei tempi andati (l’Inf fu firmato da Reagan e Gorbaciov), che voglia poter dispiegare missili di quella gittata anche in Asia e che non sia insensibile ai progressi della tecnologia militare soprattutto se Mosca bara davvero al gioco e produce un Cruise proibito (denominato 9M729 oppure Ssc-8).

Corriere in prima

E si può capire, anche, che la Russia non aspetti Trump per mettere a puntoisuoi nuovi missili ipersonici, e che a sua volta Putin accusi gli Stati Uniti di violare il trattato modificando gli equilibri nucleari coniloro missili «soltanto difensivi» in Romania e in Polonia. Ma quel che non si può capireenon si può accettare è che l’Europa, prima beneficiaria a suo tempo del divieto e oggi prima potenziale vittima dell’abolizione del divieto, mantenga tenacemente il suo profilo basso,resti alla finestra, eviti di sollevare la questione negli incontri che pure ci sono stati con Donald Trump e con Vladimir Putin. Che si dichiari essa stessa, insomma, non formata da Stati sovrani e dunque non in grado di badare ai suoi interessi. E di interessi non trascurabili si tratta. Certo, un portavoce della Commissione di Bruxelles ha dichiaratoaun certo punto che l’Europa «continuava ad essere impegnata per mantenere l’accordo Inf sul nucleare». Federica Mogherini, responsabile della politica estera europea, ha tentato di farela suaparte. La questione è stata sollevata in sede Nato, vale a dire con tutti gli europei allineati dietro Washington (che per prima aveva dichiarato di voler uscire dal trattato). E tanto dagli Usa quanto dalla Russia sono giunte generiche assicurazioni contro l’eventualità di una corsa al riarmo missilistico-nucleare in Europa. Ma sappiamo tutti che se mai ci sarà una «nuova Guerra fredda» traUsaeRussia, essa avrà luogo in Europa. Come la vecchia. L’irresponsabilità dei nostri silenzi, allora, rimane. Ed è una occasione preziosa (o lo sarebbe, se i nostri dirigenti politici non dovessero occuparsi delle loro diatribe quotidiane) quella che porta proprio oggi a Roma Ursula von der Leyen, la nuova presidente della Commissione europea. Vogliamo sperare che a lei il presidente del Consiglio

Giuseppe Conte faccia presente l’insostenibilità dell’assenza europea dalla scena internazionale, oltreadiscutere dove andrà a sedersi il commissario italiano. Vogliamo sperare che tantoaConte (e sicuramente al presidente Mattarella) quantoavon der Leyen sia chiara l’urgenza di dare all’Europa, o almeno alle capitali europee unite in cooperazioni rafforzateoin schemi di «diverse velocità», una capacità, che oggi non c’è, di interloquire credibilmente con Washington, con Moscaein altre questioni con Pechino. In un mondo dove cresce di continuo la competizione strategico-tecnologica tra le grandi potenze,ègiunto il momento di capire se l’Europa intende soltanto chinare il capo e continuareadividersi, oppure se si può e si deve conquistare una credibilità che ci impedisca di soggiacere sistematicamente alle ambizioni altrui.

Ursula von der Leyen è tedesca edèuna ex ministra della Difesa. A lei è certamente chiaro lo smantellamento dell’ordine internazionale nato dopo la Seconda guerra mondiale, per mano di Donald Trump (e tra poco di Boris Johnson?).Di sicurolei conosce il subdolo incunearsi della Russia di Putin tra le divisioni che percorrono quel che resta dell’Occidente. La difesa europea sotto forma, inizialmente, di un pilastro europeo nella Nato, l’attribuzione di maggiori poteri all’Alto rappresentante per politica estera e difesa, la creazione di un Consiglio di sicurezza europeo, una spinta alla collaborazione tra industrie della difesa, il raggiungimento di intese tra gruppi avanzati di Stati, sono obbiettivi che l’Europa deve porsi nel quinquennio che comincia accanto alle priorità migranti e crescita. L’alternativa sarebbe una Europa a pezzi conitreGrandi pronti a banchettare sulle sue spoglie. Ne uscirebbero male tutti, nel Vecchio Continente. Ma ben pochi quanto noi, scossi come siamo già da un perenne braccio di ferro interno e da confusi sussulti internazionali che perfezionano il nostro isolamento.

5 Francia

Francia 1. Gli agricoltori francesi e i raid contro i deputati per il trattato «liberista». Attacchi (anche violenti) ai firmatari. Il ministro: attentati (Corriere p.10).

Uiguri. La «rieducazione» degli uiguri. Nei centri di detenzione peri musulmani dello Xinjiang che secondo la Cina sono soltanto «scuole vocazionali». Nei centri si studia il cinese e un lavoro. Vi sarebbero rinchiusi un milione e più di uiguri (Corriere p.15).

7 brexit

Brexit. Senza un accordo economia in ginocchio. Danni anche per l’Europa. La Banca d’Inghilterra: possibile recessione. Lo studio: a rischio 525 mila posti di lavoro nel Regno Unito e 1,2 milioni nella Ue (Messaggero p.10). “La sterlina affonda”, titola il Guardian. “Colpa della Brexit”, spiega il Financial Times. Brexit, sterlina ai minimi dopo tre anni. E il Regno Unito diventa più economico. Il calo della moneta inglese arriva fino al 18%: la vacanza per chi viene dall’Europa ora conviene (Repubblica p.21).

Francia 2. Un prefabbricato aspettando la rinascita di Notre-Dame. Un gruppo di architetti dello studio Gensler ha lanciato la proposta di una cattedrale provvisoria proprio di fronte al monumento simbolo di Parigi. Sarà realizzata con travi di legno bruciato, un’antica tecnica costruttiva inventata proprio per difendere le abitazioni dagli incendi. La legge del contrappasso (Repubblica p.22).

Fino a poco tempo fa l’idea di un grande prefabbricato sul sagrato di Notre-Dame avrebbe fatto inorridire i puristi dell’arte. Il disastro del 15 aprile ha cambiato tutto. Così, mentre i lavori di restauro dopo l’incendio sono bloccati dai rischi di contaminazione da piombo per gli addetti del cantiere, in Inghilterra un gruppo di architetti dello studio Gensler ha lanciato la proposta di una cattedrale provvisoria proprio di fronte al monumento simbolo di Parigi. L’appello per trovare una sistemazione ai fedeli che vogliono prender messa a Notre-Dame durante i cinque anni di restauro, era stato lanciato nelle scorse settimane dal rettore della cattedrale, monsignor Patrick Chauvet. «Abbiamo avuto l’idea di realizzare questa cattedrale provvisoria», spiega ai giornali francesi Philippe Paret, responsabile del design di Gensler. Stando ai disegni, la cattedrale prefabbricata sarà leggera, luminosa e potrà essere costruita in sei mesi. Soprattutto potrà essere smontata e riutilizzata altrove. Curiosità: sarà realizzata con travi di legno bruciato, un’antica tecnica costruttiva inventata proprio per difendere le abitazioni dagli incendi. La legge del contrappasso. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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GIUSTIZIA