Gli incendi in Amazzonia sembrano suscitare meno clamore dopo la mobilitazione internazionale — e le misure straordinarie messe in atto dal presidente Jair Bolsonaro, che ha inviato 44 mila soldati nella foresta — ma proprio a settembre l’emergenza rischia di diventare più feroce. Normalmente, stima il World Resources Institute, il 62% dei fuochi di ogni anno nella foresta pluviale è appiccato a settembre. Le queimadas, cioè i fuochi usati da agricoltori e allevatori per ricavare nuovi campi e pascoli, o per rigenerarli, sono la causa principale della deforestazione in Amazzonia: l’80%, secondo un istituto di ricerca forestale dell’università di Yale, viene appiccato per lasciare posto a pascoli; un altro 10-15% a coltivazioni intensive, soprattutto di soia (molto usata per produrre mangimi). Un fenomeno legato all’amministrazione Bolsonaro? Non proprio. Basta un occhio alle serie storiche per notare che la deforestazione dell’Amazzonia procede dal 1972 — cioè da che fu ultimata l’autostrada Transamazzonica — e che negli ultimi quarant’anni la superficie coperta da foresta si è ridotta del 20%. Il governo Bolsonaro Eppure l’emergenza di quest’estateèla peggiore da molti anni: rispetto all’anno scorso i fuochi appiccati sono il 39% in più; e da quando Bolsonaro è al governo, cioè dal 1 gennaio 2019, la foresta ha perso quasi 3.500 km quadrati di superficie. Il presidente — il primo, di una lunga serie di governi più o meno efficaci sul fronte della conservazione dell’Amazzonia, a opporsi apertamente alle politiche ambientaliste — aveva promesso in campagna elettorale di allentare i vincoli ambientali a vantaggio di agricoltura intensiva e allevamento, e così ha fatto. Per un’inchiesta del New York Times, che ha spulciato registri delle polizie locali e della guardia forestale, i controlli del 2019 sono calati del 20% rispetto allo scorso anno. Le politiche ambientali influenzano la serie storica degli incendi in modo quasi immediato: è del 2009, ad esempio, la legge che abbatté la deforestazione escludendo dai crediti agevolati i contadini e gli allevatori delle zone più depauperate, e il calo dei fuochi è evidente dal 2011. È in corso dal 2015 un lento riaggravarsi della deforestazione: dovuto, spiega un report dell’Earth Innovation Institute, a «un aumento mondiale della domanda di olio di palma, carne e soia». La domanda di carne «L’allevamento in Brasile, date le grandi superfici, èabassissima densità: ci sono aree con un bovino solo per ettaro. Dirado le aree erbose vengono concimate, e per rigenerarle è necessario appiccare il fuoco», spiega un rapporto della Yale School of Forestry and Environmental Studies. Circa 450mila chilometri quadrati di Amazzonia deforestata sono destinati a pascoli. Il Brasile, secondo produttore mondiale di carne bovina, ne esporta un quarto del consumo globale. Il dato, fra il 2010 e il 2017, è aumentato del 25%, per arrivare ai 1,5 milioni di tonnellate l’anno dichiarati oggi dall’associazione degli esportatori brasiliani di carne. Hong Kong e la Cina, due mercati esplosi negli ultimi anni, sono i principali importatori. Nella classifica c’è anche l’Italia, che beneficia dell’accordo commerciale Ue-Mercosur stretto il 28 giugno scorso, che riduce dazi e imposte commerciali fra i due continenti. Si stima che le esportazioni di carne bovina verso la Ue aumenteranno del 30% (e, in direzione opposta, aumenteranno gli export verso l’America Latina di auto di grande cilindrata). Il Sinodo per l’Amazzonia Interessi, questi, più tangibili di quelli della foresta: della sua biodiversità — ci vivono il 10% delle specie viventi del mondo — e delle tradizioni dei suoi indigeni, che sono solo in Brasile 896 mila, divisi in 360 comunità che parlano 270 lingue. Nei primi giorni dell’emergenza, a inizio agosto, le comunità native sono state le prime a protestare: le donne indigene hanno occupato in corteo le strade di Brasilia. A loro Papa Francesco ha dedicato il prossimo Sinodo, dal 6 al 27 ottobre. Si parlerà di «ecoparrocchie» e di ambiente, ma anche di «trovare nuove vie per l’evangelizzazione di quella porzione del popolo di Dio».
Dopo aver annunciato i nuovi dazi su prodotti cinesi importati negli Stati Uniti, su Twitter il presidente Donald Trump ha ordinato ai corrieri di FedEx e Ups, ad Amazon e agli uffici postali di “cercare e respingere tutti i derivati di Fentanyl dalla Cina (o da qualunque altra parte”. Come se l’epidemia di overdose da farmaci oppioidi fosse colpa di qualche agente straniero. Secondo il Center for Behavioral Health Statistics and Quality, 1,7 milioni di americani sono dipendenti da oppioidi legali e illegali, dal fentanyl all’eroina, nel 2017 i morti sono stati 47.000. Un dramma simile a quello dell’Aids negli anni Novanta. Trump lo ha dichiarato una “emergenza nazio nale ”. Ma con una abile strategia di comunicazione presenta questa crisi come una delle tante declinazioni del traffico di droga internazionale, che passa dai confini troppo porosi del Messico e dagli anfratti piu oscuri della rete. Più comodo che riconoscere la verità: proprio quell’elettorato bianco, arrabbiato e depresso che vota Trump è stato sacrificato per garantire profitti alle grandi aziende farmaceutiche, con la benedizione dei politici di ogni colore a Washington. LA SENTENZA che ha condannato Johnson & Johnson a risarcire 572 milioni di dollari allo Stato dell’Oklahoma ricostruisce cosa è successo. Per tutti gli anni Ottanta la Johnson & Johnson produceva farmaci a base di oppiodi, anche per altri marchi: morfina, codeina, fentanyl, naloxone. Ma non c’era alcuna epidemia di oppiodi. A metà anni Novanta le cose cambiano: dopo il successo dell’OxyContin prodotto da Purdue per malattie croniche non tumorali, Johnson & Johnson rilancia il Duragesic (disponibile anche in Italia), a base di fentanyl, sostanza cinquanta volte più potente simile della morfina. C’e’ un potenziale enorme, ma bisogna creare il mercato. E così la Johnson & Johnson comincia a fare pressione su medici e pazienti potenziali, paga convegni, finanzia ricerca accademica, crea siti di assistenza ai consumatori che fingono di essere indipendenti, schiera un esercito di venditori porta a porta. E riesce a fare passare il suo messaggio: il “dolore cronico”degli americani non viene curato abbastanza, i medici sottovalutano un malessere diffuso che infligge sofferenze non necessarie a onesti lavoratori o mamme già oberate dalle fatiche quotidiane. Milioni di dollari passano dalla Johnson & Johnson a organizzazioni che fanno lobbying per conto dei pazienti e premono sulla politica perchè permetta agli americani oppressi dalla fatica di vivere di curarsi come meritano. Il piano funziona. Fin troppo. Anche se per anni i medici hanno assicurato che fentanyl e oxycodone non danno dipedenza, chi comincia non riesce a più a smettere. E se il governo cerca di ridurre il numero di medicine legali in circolazione, i nuovi tossici da oppioidi si rivolgono a quello illegale, cercano l’eroina da inettarsi, il fentanyl sintetico di contrabbando che pare mandi in overdose perfino i poliziotti che ne inalano un frammento mentre assistono i drogati. LA STORICA Donna Mourch, sulla Boston Review, osserva che la deregolamentazione del mercato farmaceutico decisiva per l’ascesa degli oppiodi inizia a fine anni Ottanta, proprio mentre in tutto il Paese si combatte la “war on drugs”, la guerra contro la droga. Che, in realtà, è stata la guerra contro la droga dei neri (il crack), mentre il consumo della cocaina, costosa e quindi più diffusa tra i bianchi ricchi, viene sanzionato molto meno. I bianchi dell’America rurale sono i primi a tifare per la linea dura contro i tossici afroamericani. Il clima di ansia e la richiesta di sicurezza vengono appagate: da pene esemplari, certo, ma anche dalle prescrizioni di oppioidi che permettono anche ai bianchi più poveri e con meno difese di drogarsi come i neri metropolitani. Ma senza rischiare la galera, anzi, con l’ap pr ov az io ne del loro medico. Johnson & Johnson ora dovrà pagare 572 milioni all’Oklahoma. Meno del 4 per cento del fatturato di un solo anno. Un sacrificio accettabile. Se la passa peggio al Purdue, produttrice dell’Oxycodone che in passato e’stata difesa da Rudolph Giuliani, il sindaco di New York in guerra contro la droga (dei neri) e oggi consigliere fidato di Trump. La Purdue, sommersa da oltre 2.000 cause civili, per somme tra i 10 e i 12 miliardi di dollari, sta cercando di sfruttare la bancarotta controllata modello Chapter 11 per trasformarsi in un ente non-profit e aiutare le vittime di quelle overdose che ha contribuito ad alimentare. Redenzione o uno spregiudicato tentativo di garantirsi l’impu – nità? Intanto Johnson & Johnson continua a spendere milioni di dollari (136 nel 2018) per condizionare la politica di Washington, anche nel modo in cui reagire all’e m er g e n z a oppioidi. Per ora non ci sono rischi penali per i manager. I danni arrivano dalle cause civili, per pratiche commerciali scorrette e menzogne sui rischi dei farmaci a base di oppioidi. Dalla prospettiva europea tutto questo sembra assurdo, ma è la prova di quanto le aziende farmaceutiche abbiano condizionato la regolazione del settore: si possono vendere anche farmaci pericolosi come gli oppioidi quasi senza limiti purché si dica la verità sui rischi che comportano. Ma sedotte da facili profitti, Johnson & Johnson e i suoi concorrenti sono riuscite a violare perfino le leggi che avevano dettato a politici amici.
Gentile professoressa, grazie per la sua lunga lettera, così ricca di intelligenza e profondità. Il primo sentimento che ho avuto, leggendola, è stato quello di una sottile invidia per i suoi allievi. Ricordando la mia penosa —eper lo più catastrofica—carriera scolastica, non ho potuto fare a meno di pensareacome avrebbe potuto essere diversa se avessi incontrato sul mio cammino una persona come lei.
Nel corso di una vita, avere avuto un professore piuttosto che un altro, un maestro piuttosto che un altro può fare una grande differenza. E la può fare soprattutto per i fragili, per i deboli, per quelli che non hanno alle spalle qualcuno in grado di sostenerli. Che cos’è l’insegnamento infatti, se non un improvviso «vedersi» tra esseri umani? Il più grande vede il più piccolo e intuisce quale sia la strada da indicargli per permettergli di sviluppare la parte migliore di sé. Un insegnante che ama il suo lavoro ha un compito molto importante: quello di trasmettere la sua passione. Può decidere di esporre il programma pedissequamenteopuò, percorrendo vie insolite, riuscire ad accendere di luce lo sguardo di chi lo sta ascoltando, ad aprire una piccola porta nella sua mente, e forse anche nel suo cuore, permettendo a quel ragazzooa quella ragazza, un giorno, di salvarsi. Insegnare nozioni o suscitare passioni, è questo il grande discrimine. Accontentarsi di far ripetere a pappagallo le pagine dei libri di testo o far capire, invece, che lo studio della letteratura non è una scatola piena di dettagli noiosi ma qualcosa che parla alla profondità della nostra inquietudine e alle domande che ne scaturiscono. Letteratura come natura morta o letteratura come parte irrinunciabile della nostra vita. Essendo cresciuta nel Nordest dove, all’epoca, i legumi mediterranei erano degli assoluti sconosciuti, mi sono interrogata a lungo sulla ragione per cui padron ’Ntoni ci tenesse tanto a un carico di lupini, cioè, per me, di piccoli lupi. Che cosa doveva farsene di quei cuccioli? Voleva introdurli in Sicilia? E per quale ragione? A parte questo enigma, che si è risolto soltanto quando, ormai maggiorenne, mi sono trasferita a vivere a Roma e ho scoperto che i lupini erano dei legumi gialli, della mia preparazione scolastica di letteratura non mi è rimasto praticamente nulla se non l’idea, radicatissima, che si trattasse di qualcosa di antiquato che non avesse nulla a che fare con la mia vita. Per riaccostarmi al Leopardi e nutrirmi della sua grandezza ho dovuto aspettare i trent’anni; per osare riprendere in mano I promessi sposi,eapprezzarli come meritano, ho atteso i quaranta. Sono convinta che la ragione per cui il nostro Paese viene considerato la Cenerentola europea negli indici di lettura sia da ascrivere soprattutto alla diseducazione letteraria attuata nel percorso scolastico. Quante persone una volta terminate le scuole superiori, magari con ottimi voti, non si sognano più di aprire un libro, così come una buona parte dei laureati, una volta ottenuto l’ambito titolo, vengono colti da perpetua e inguaribile «papirofobia»? Questa invincibile allergia alla carta stampata, quali che siano i suoi contenuti, non è forse dovuta — oltre che alla tendenza delle famiglie a non leggere e dunque a non stimolare i loro figli a farlo — anche al cronico fallimento della scuola che, in tanti anni di insegnamento, non ha saputo lasciare ai bambini e ai ragazzi, una volta diventati adulti, un solo germe di curiosità? È la curiosità infatti la molla che spinge ad aprireilibri. Curiosità, voglia di saperne di più. Il discorso non è limitato alla letteratura. Si può essere curiosi di storia, di biologia, di matematica, di geografia, di filosofia. Una persona curiosa ha un grande pregio: non si farà mai ingabbiare dalle spire del fanatismo. La curiosità infatti è il principale antidoto all’indottrinamento. Lei regala, così mi scrive, a ognuno dei suoi alunni all’inizio di ogni anno scolastico una copia delle Lettere a un giovane poeta di Rainer Maria Rilke. E la regala anche se i suoi ragazzi non sono studenti di un liceo ma di un istituto tecnico, suscitando ironia e critiche dei colleghi, vittime del solito snobismo provinciale per cui la cultura dovrebbe essere appannaggio solo di chi frequenta il più nobile liceo, mentre le lande desolate degli istituti tecnici dovrebbero servire solo a traghettare i ragazzi al mitico foglio di carta, offrendo una preparazione che già in partenza viene considerata di serie B. Perché mai, si chiede e mi chiedo, chi frequenta un istituto turistico, un alberghiero, un professionale non dovrebbe essere messo in grado di leggere e apprezzare un poeta, di capire che cosa sia la poesia? Saper percepire la bellezza deve essere forse il privilegio di un’élite? Tra le molte piaghe della scuola italiana, forse una delle più gravi è proprio quella dell’inossidabile mito del liceo. Si ingannano le famiglie facendo loro credere che esistano scuole di prima e di seconda scelta. Il liceo — scientifico, classico, linguistico — viene con siderato automaticamente più nobile, in grado di aprire le porte dell’università. Nel nostro Paese ci sono migliaia e migliaia di posti di lavoro vacanti per mancanza di persone tecnicamente preparate, a causa della carenza di veri percorsi professionali e formativi, e altrettante migliaia di liceali che camminano verso il nulla con il loro bel pezzo di carta in mano. Né agli uni né agli altri, a meno che non abbiano avuto la fortuna di incontrare un’insegnante entusiasta e coraggiosa come lei, è stata data la possibilità di accedere davvero alla cultura; dove cultura vuol dire curiosità, capacità di appassionarsi, di ragionare, mantenendo sempre la mente in una condizione di apertura. Ho diversi amici che insegnano, come lei, negli istituti tecnici e i racconti che mi fanno sono per lo più desolanti. Malgrado l’impegno e l’amore che mettono nel loro lavoro, si sentono spesso circondati da un clima di fatale disfattismo. Una mia amica, scoprendo che gli studenti dell’ultimo anno giocavano a carte durante le sue lezioni, è andata a parlare col preside per capire come comportarsi. «Li lasci fare» si è sentita rispondere «tanto sono abituati così. E poi sono in quinta, quest’anno se ne andranno…». La solita tecnica dello scaricabarile: foglio di carta in mano e via. Non mi riguarda più. Ma i ragazzi-peso, una volta scomparsi dall’orizzonte, dove vanno? Diventano per lo più ragazzi-zavorra. Zavorra buttata a mare. O meglio, ragazzi-risacca: si fanno trasportare dalla corrente perché nessuno ha mai dato loro importanza, e questa assenza di importanza — e dunque di peso — li rende incredibilmente leggeri. È una leggerezza ingannevole, la leggerezza del nulla saper fare, del nulla sperare, del nulla desiderare. Una leggerezza che, in breve, si trasformerà in una inesorabile pesantezza. Pesantezza sociale, pesantezza individuale. Che cosa faranno, una volta diventati adulti, questi ragazzi da cui nessuno ha preteso niente, che nessuno ha mai davvero visto? A quali povertà li condanna la scuola del non-impegnoedella promozione perpetua? La scuola che non ha mai messo davanti a loro gradini, ostacoli, asticelle da superare? Alla povertà economica, probabilmente, a quella sociale anche ma, più di ogni altra cosa, li condanna alla povertà umana, cioè alla totale sfiducia in loro stessi e nella propria capacità di affrontare e risolvere i problemi. I dieci anni di scuola obbligatoria rimarranno, nella memoria dei più, come un lungo e grigio inverno di cui non aspettavano altro che la fine. Avranno messo crocette per anni, si saranno arrabattati confusamente tra le prove Invalsi, avranno imparato qualche data a memoria, per dimenticarla a interrogazione conclusa e, navigando con i motori al minimo, saranno andati avanti così, di anno in anno. Certo, non si può ignorare l’irrompere tumultuoso della tecnologia nella vita delle nuove generazioni e nella nostra. Un irrompere che ha creato un mondo parallelo a quello reale, un mondo segnato dalla facilità e dall’immediatezza, dalla superficialità e da una fallace onniscienza. Nei primi anni di questa rivoluzione, mi è capitato di leggere tesine delle scuole medie o delle superiori e di restare ammirata per la quantità di nozioni esibite e per la complessità dello svolgimento.Nella mia ingenuità analogica, mi sperticavo in complimenti con chi le aveva scritte ma il mio stupore ammirato era sempre destinatoaessere di breve durata. Parlando, infatti, dell’argomento che avevano esposto, mi rendevo presto conto che quello che c’era scritto non corrispondeva a quello che lo studente davvero aveva appreso. Era iniziata l’era del «copia e incolla» e io non me ne ero accorta. È vero che la tecnologia porta una grande ricchezza nelle nostre vite ma, perché ricchezza davvero sia, bisogna imparareausarla. Usarla e non esserne usati. Consentire gli smartphone in classe è pura follia, così come sostituire i libri di testo con l’uso del tablet. In molti Paesi europei, dove l’innamoramento per le tecnologie a scuola è arrivato prima che da noi, si stanno rivalutando la scrittura a mano e lo studio sui libri, anche come antidoto alle gravi dipendenze da schermo e da social che le nuove generazioni sviluppano in modo allarmante. Secondo una ricerca molto dettagliata del Miur basata sui test Pisa del 2015, gli studenti italiani con i migliori punteggi nella lettura digitale sono quelli bravi anche nella lettura cartacea e, viceversa, quelli con difficoltà nella lettura cartacea non capiscono nemmeno i testi digitali. Il nostro ministero, che in controtendenza si è lanciato con sventata allegria nella rincorsa alla modernità, senza approfondire i molti studi sulla negatività di certe scelte, non ha considerato che al limite le due vie — tecnologica e umanistica, diciamo — possono procedere parallele, arricchendosi una con l’altra. Ma così non è stato. Dato che il suo compito, da ormai troppo tempo, è quello direndere le cose sempre più facili, di non creare ostacoli, di permettere a tutti diraggiungere l’agognato pezzo di carta — perché questa è la più alta e più perversa forma di democrazia — non poteva fare diversamente. Non creare problemi, questa sembra l’unicapreoccupazione della scuola-azienda, della scuola-centro commerciale, con vetrine sempre più sfavillanti per attirareiclienti. «Avremmo dovuto bocciare molti in quella classe, non ammetterli nemmeno alla maturità» mi ha confessato un giorno un’amica «ma non abbiamo potuto farlo. Siamo un piccolo istituto tecnico di provincia. Ogni allievo è prezioso per non chiudere e, se chiudiamo, perdiamo tutti il posto». È questo il fine della scuola statale? Rendere? Ma promuovere gli ignoranti e i negligenti, le persone che si preparano per un mestiere per cui non avranno la minima competenza è davvero un rendimento, o è piuttosto un fallimento? Un rimandare la resa dei conti offrendo una colossale presa in giro deiragazzi e delle loro famiglie? A quale efficienza mira questo sistema? Direi soltantoaquella delle statistiche. Tot iscritti, tot promossi. La scuola funziona! Se sirisvegliasse don Milani, che cosa direbbe della scuola di oggi? I «Gianni» che all’epoca venivano ripetutamente bocciati ora non incorrono più in quell’onta, in quello stigma sociale. Tutti promossi, ma con una promozione che ha l’effetto di un boomerang. Colpisce e torna indietro lasciando a terra il corpo inerte. La parte importante del suo metodo — il lavorare insieme creando un sapere che nasce dalle domande, dunque maieutico — è stata rapidamente archiviata. Travisato e manipolato, è rimasto soltanto il diktat: non bocciare i Gianni! Senza che nessuno abbia mai alzato la mano per dire che in questo sistema le vittime sono proprio loro, i Gianni, costretti a rimanere tali per sempre, mentre gli odiati «Pierini», i ricchi, i privilegiati, continuano imperterriti per la loro strada. Una strada fatta di sezioni migliori, di possibilità di ripetizioni, di scuole private, di soggiorni all’estero, di famiglie capaci di stimolarli, sottraendoli al giogo omogeneizzante imposto dai media. Forse a questo punto si stupirà di sentirmi parlare con tanto fervore di scuola e di educazione, in fondo non dovrei occuparmi di letteratura? In realtà, prima di scrivere, per una parte importante della mia vita ho pensato che la mia vocazione fosse proprio l’insegnamento. Ho frequentato l’istituto magistrale — quello che ha formato le maestre che hanno alfabetizzato l’Italia — e, negli anni dei miei studi pedagogici, mi sono infiammata per Pestalozzi e Fröbel, per don Milani e Rousseau, per la Montessori e per tutte le teorie che, a quel tempo, aprivano nuovi orizzonti nel campo educativo. Alla base della mia passione c’erano due forze che si completavano a vicenda: le grandi sofferenze patite sui banchi e la convinzione che occuparsi dell’ottimale sviluppo delle persone fosse il punto cardine di una società che vuole continuare a crescere nella luce della civiltà. Non avevo — e non ho — alcun dubbio sul fatto che abbandonare l’idea della centralità dell’educazione voglia dire spalancare la porta alle barbarie.
Niente sorpasso. L’incubo che l’ultradestra Afd diventasse il primo partito in due Land della vecchia Germania est e facesse tremare anche il governo Merkel, è stato scongiurato. Per Thorsten Schaefer-Guembel, uno dei triumviri della Spd, «è chiaro che ci sono differenze sostanziali», nel governo Merkel, «ma è altrettanto chiaro che andremo avanti» con la Grande coalizione, ha detto ieri ai microfoni dell’Ard. Secondo molti la resa dei conti vera è rimandata all’autunno, con la verifica del contratto di coalizione di metà legislatura e l’elezione del nuovo capo della Spd. Intanto, Schaefer-Gumpel ammette che i risultati della Sassonia e del Brandeburgo rappresentano «un grande sollievo, perché abbiamo potuto evitare che l’Afd diventasse il primo partito». L’ultradestra, però, registra un’avanzata inquietante: in Sassonia e Brandeburgo oltre un quarto degli elettori ha messo la crocetta sul partito che ha fatto della paura, del nazionalismo e della xenofobia il suo principale strumento di campagna elettorale. E continua a intercettare il voto di chi è rimasto bruciato dalla Riunificazione, chi si ritiene un perdente della caduta del Muro di Berlino. Lo slogan adottato in Sassonia, non a caso, è stato “Wende 2.0”, con riferimento alla “svolta” che mise fine al regime comunista. Come se la prima fosse fallita. Impressionante anche il boom dell’affluenza: in Sassonia aveva votato il 49% dei 3,3 milioni di elettori, ieri è stato il 65,5%. In Brandeburgo il 60,5% degli oltre due milioni di elettori si è recato alle urne contro il 47,9% del 2014. Il crollo della Cdu e la Spd segnala in entrambe le regioni che la crisi delle Volksparteien si aggrava e che prosegue il consolidamento, almeno a Est, di un terzo partito di massa che si colloca fuori dall’arco costituzionale, come si sarebbe detto una volta. Notevole anche il boom dei Verdi, ma rispetto ai sondaggi deludono, anche se prendono molti più punti rispetto alle ultime elezioni regionali. In entrambi i Land gli ambientalisti tedeschi saranno comunque cruciali per la formazione dei nuovi governi. Con i numeri di ieri, è esclusa sia una prosecuzione della Grande coalizione in Sassonia, sia la sola alleanza tra Spd e Linke in Brandeburgo: i governatori uscenti dovranno entrambi aggiungere un terzo partito per raggiungere la maggioranza nei parlamentini. I Verdi saranno l’ago della bilancia. Il leader Robert Habeck ha festeggiato un «risultato fantastico». In Sassonia la Cdu resta il primo partito con il 32,8% grazie a una rimonta eccezionale del governatore Michael Kretschmer, che nelle ultime settimane era dato testa a testa con il suo rivale dell’Afd, Joerg Urban. Con il quale, nonostante i mugugni della destra del partito, ha sempre escluso alleanze. «Ce l’abbiamo fatta», ha esultato Kretschmer ieri. «Questo è il messaggio che arriva dalla Sassonia. La Sassonia gentile ha vinto». Ma rispetto alle ultime regionali la Cdu ha perso sette punti. E l’Afd ha triplicato i consensi dal 9,7% di cinque anni fa al 27,8%. Un risultato da brivido. Alice Weidel, capogruppo al Bundestag, ha parlato di un «dato eccezionale» e ha definito «antidemocratica» la scelta della Cdu di escludere coabitazioni con il suo partito. Ma il segretario generale della Csu, Paul Zemiak, ha dato manforte a Kretschmer ricordando ieri sera che «escludiamo una collaborazione con l’Adf. Abbiamo assunto una chiara decisione a livello federale». In Brandeburgo, la Spd è riuscita a restare primo partito con il 26,1%, ma perde quasi sei punti rispetto al 2014. Qui l’Afd, che la tallonava da vicino fino ai sondaggi di ieri, si è fermata al 23,5%. Comunque un risultato notevole: cinque anni fa aveva incassato il 12,2%. Per il vicecancelliere Olaf Scholz «la Spd può ancora avere successo». Ma anche qui il governatore uscente Dietmar Woidke dovrà allargare l’attuale coalizione ai Verdi. La Linke, suo junior partner, ha perso quasi otto punti scivolando al 10,8%. Peraltro la sinistra radicale è l’altra grande sconfitta di questo appuntamento elettorale: passa dal 18,6% al 10,8%. Anche in Sassonia si è quasi dimezzata dal 18,9% al 10,2%.
Il vento dell’Est spinge in alto l’estrema destra, ma non abbastanza da sconvolgere il quadro politico tedesco. Almeno per il momento. Nel voto regionale in Brandeburgo e Sassonia, l’AfD raddoppia nel primo e addirittura triplicaisuoi voti nel secondo, ma manca l’obiettivo dichiarato di diventare il partito più forte in entrambi i Land. Sia pure con una forte emorragia di voti, la Cdu della cancelliera Merkel rimane al primo posto a Dresda e continuerà a governare, anche se dovrà cercarsi un nuovo alleato al posto dei socialdemocratici. Più grave la sconfitta della Spd, che in Sassonia crolla al minimo storico e a Potsdam riesce faticosamentearimanere primo partito, superando di pochi punti l’AfD. Le proiezioni danno in Sassonia la Cdu al 32,5%, in calo di 7 punti rispetto al 2014. L’AfD balza al 27,8% (aveva il 9,7%) e il suo leaderregionale, Jörg Urban, parla di un «giorno storico», anche se non può nascondere la delusione di aver mancato il sorpasso della Cdu, cheisondaggi consideravano possibile ancora poche settimane fa. A sinistra sono in calo drammatico sia la Spd, scesa dal 12,4% all’8%, sia la Linke, che dal 18,9% del 2014 è ora ferma al 10,5%. Bene i Verdi, che sfondano nel Land, passando dal 5,7% all’8,5%. Se confermati, i nuovi rapporti di forza rendono complicata per la Cdu la formazione di una coalizione. Il ministro-presidente Michael Kretschmer, l’uomo che nell’ultimo scorcio della campagna ha trascinato la rimonta della Cdu, ha escluso ogni ipotesi di alleanza con AfD e questo rende possibili solo due alternative: un’alleanza a due Cdu-Verdi, che però disporrebbe di una maggioranza di appena un paio di seggi. Ovvero una coalizione Kenya, cioè nero-rosso-verde, tra Cdu, Spd e Grünen. Inoltre in Sassonia pende la questione dei seggi di AfD, che in base ai risultati ne ha ottenuti 38, ma ne avrà solo 30, il numero dei candidatirimasti in lista dopo che la commissione elettorale aveva bocciato perirregolarità una parte dei nomi. Nel Brandeburgo, dove governa sin dalla riunificazione, la Spd viene data al 26,5% (aveva il 31,9%) e ora avrà bisogno di almeno due partiti per rimanere al vertice del Land. A Potsdam, dov’è guidata da uno dei leader dell’ala dura, Andreas Kalbitz, in passato legato ad ambienti neonazisti, l’AfD sale dal 12,2% al 23,8%. La Linke, fin qui alleata della Spd, crolla dal 18,6% al 10,7%, facendo venire meno la maggioranza uscente nel Parlamento regionale. In calo anche la Cdu, che passa dal 23% al 15,7% di ieri. Ancora più smagliante che in Sassonia è il successo dei Verdi, che dal 6,2% passano al 10,5% e diventano l’eventuale ancora di salvezza per il ministro-presidente socialdemocratico Dietmar Woidke, che potrebbe ora ampliare a loro l’alleanza con la Linke. Il voto in Brandeburgo e Sassonia conferma la crisi dei grandi partiti di massa e il radicamento ormai profondo della AfD nelle regioni della ex Germania Est, dove il partito di estrema destra ha giocato tutto sulla retorica della promessa tradita della riunificazione, rivendicando per sé la missione di completare la Wende, la svolta del 1989. Fortemente influenzato dalla Flügel, l’ala più estremista, il messaggio di AfD ha infatti puntato non solo sui temi dell’immigrazione e delle ansie economiche causate dalla chiusura delle miniere di carbone, ma anche sulla narrazione della “memoria negata”, la percezione diffusa nella ex Ddr di essere considerati “tedeschi di seconda classe”, la leggenda della democrazia incompiuta. Sul piano federale, il voto di Dresda e Potsdam lancia un nuovo, serio avviso alla Grosse Koalition in caricaaBerlino. In un certo senso la stabilizza nel breve periodo, ricordando alla Cdu e soprattutto alla Spd quanto poco avrebbero da guadagnare da una rottura e da eventuali elezioni. La “coalizione va avanti”, ha detto Thorsten SchäferGümbel, uno dei tre reggenti della Spd. Per quanto ancora non è chiaro. Prossima verifica, a fine ottobre in Turingia.
Caro direttore, la nostra recente storia democratica ci ha insegnato che, molte volte, gli interessi di partito vengono prima degli interessi del nostro Paese. Quanti governi sono caduti perché qualcuno pensava di racimolare qualche decimale di consenso in più alle elezioni? Se osserviamo lo scenario attuale, ci accorgiamo che dietro il posizionamento delle varie forze politiche ci sono dei legittimi interessi per la propria parte. Pensare che, in futuro, vengano anteposti gli interessi dell’Italia è una utopia irrealizzabile? Il sistema elettorale proporzionale è un impedimento maggiore ad anteporre il Paese al proprio partito? Sergio Guadagnolo.
Caro signor Guadagnolo, S olo in un sogno la sua utopia è realizzabile. Però qualche piccolo passo avanti forse è possibile farlo. Perché (e questa crisi ne è un esempio evidente) oltre agli interessi di partito sono entrati prepotentemente in ballo anche questioni personali: «o si fa come dico io o salta tutto», è attualmente la frase più in voga. E allora cerchiamo almeno di cominciarearimuovere queste impuntature, a dimostrare quel senso di responsabilità di cui il nostro tormentato Paese ha un gran bisogno. Togliamo di mezzo le ambizioni eccessive, guardiamo a pochi punti di programma realizzabili che migliorino la qualità della vita di tutti e facciano crescere l’Italia. Non vergogniamoci di trovare quei «compromessi» positivi tra forze politiche diverse. I partiti della cosiddetta Seconda Repubblica (e quelli della nascente Terza Repubblica) per interessi di parte hanno approvato leggi elettorali che impedivano di esprimere nelle urne oltre che un voto di appartenenza anche una scelta per il governo. Personalmente penso che un sistema elettorale a doppio turno risolverebbe tale problema ma, in attesa che questa scelta venga compiuta, sono indispensabili dei punti di mediazione che guardino agli interessi del Paese. Nei prossimi giorni scopriremo se c’è ancora speranza di vedere all’opera dei veri leader e non solo dei capi partito.
L’alleanza fra populisti e progressisti è un rischio da tentare in Spagna e Italia. Le regole della democrazia alla prova delle forze anti-sistema. Giorni fa, durante una breve vacanza estiva, ho avuto l’opportunità di rivivere i forti legami storici che uniscono due Paesi che furono culla di imperi: l’Italia e la Spagna. Il caso ha voluto che il ricordo di Carlo di Borbone, che lasciò la corona di Napoli per cingere quella spagnola, si mescolasse con le notizie sulle crisi di governo a Roma e a Madrid, che offrono paralleli non trascurabili. Il più ovvio ha a che fare con la possibilità che i partiti socialdemocratici possano o debbano dare vita a un governo di coalizione con formazioni che si definiscono anti-sistema, i cui leader continuano a ripetere, alla stregua di piccoli Machiavelli, che non sono interessati a mantenere lo status quo ma hanno intenzione di rovesciarlo. Anche se, mentre Pedro Sánchez rifiuta l’ingresso dei ministri di Podemos nel suo governo, Giuseppe Conte cerca di mettere insieme M5S e Pd in cerca di stabilità, quindi, se non proprio lo status quo, qualcosa che gli assomiglia parecchio . In questo caso, non pochi si chiedono come potrebbero convivere sistema e anti-sistema, temendo che l’esperimento possa dare alla luce un mostro a due teste, due governi in uno, cioè il contrario di qualsiasi stabilità, come già visto d’altra parte nell’avventura Di Maio-Salvini; e se quindi non sarebbe meglio tornare alle urne, nonostante la stanchezza dell’elettorato, particolarmente evidente in Spagna. Condividere il potere Vale la pena quindi, tentare una riflessione sulla natura della democrazia rappresentativa e sui mali che l’ affliggono. Inizierò rispondendo alla domanda iniziale. È lecito e conveniente per i partiti democratici che sono stati al governo negli ultimi decenni condividere il potere con i populismi nati nel pieno della protesta contro quegli stessi partiti? Secondo me sì, al contrario di chi pensa che sarebbe come mettere la volpe nel pollaio. Tra l’altro, sarebbe necessario definire chi sia la vera volpe in questa storia. Per giustificare la mia risposta, è sufficiente fare appello ai valori e ai principi classici del sistema rappresentativo: la democrazia è prima di tutto la regola della maggioranza, insieme al rispetto dei diritti delle minoranze e alla separazione dei poteri. Chi rivendica la democrazia assembleare, un segno identitario dei populisti di sinistra, dimentica troppe spesso queste ultime due condizioni. Ma chi si presenta come custode del Graal del regime delle libertà non può continuare a ignorare che l’emergere di nuovi partiti, che ha prodotto la frammentazione parlamentare, è in gran parte dovuto alla corruzione, al clientelismo e persino al banditismo dei dirigenti delle formazioni tradizionali. Il modello europeo dopo la fine della Seconda Grande Guerra fu costruito attraverso un’alleanza tra democrazia cristiana e socialdemocrazia, apertamente contraria ai postulati marxisti. Se entrambe le formazioni sono in declino nella maggior parte d’Europa, quando, in alcuni casi, non completamente sparite, è perché con il passare del tempo hanno tradito la loro vocazione e dimenticato il mandato popolare, allontanandosi dai problemi reali e quotidiani dei cittadini in un momento di grandi mutamenti sociali, aumento delle disuguaglianze e incertezza sul futuro. Paradossalmente, sono diventati un vero pericolo per la sopravvivenza del sistema che sostengono di difendere. I populisti di sinistra sono cresciuti al grido di «non ci rappresentano», ma sono i populisti reazionari, riuniti nelle formazioni storiche, a essere nell’insieme molto più aggressivi e dannosi. Questo è il motivo per cui non le formazioni tradizionali, ma la forza delle istituzioni ha permesso all’Italia di sopravvivere a Berlusconi, così come sopravviverà a Salvini, e consentirà al Regno Unito di sopravvivere a Boris Johnson o agli Stati Uniti a Trump. L’oligarchia dei leader Già oltre un secolo fa, Robert Michels aveva definito la legge ferrea dei partiti, che tende a trasformare la poliarchia democratica (il governo di molti) in un’oligarchia incarnata dai leader. Giovanni Sartori stabilì anche le differenze tra le democrazie del pluralismo moderato e quello che chiamava pluralismo polarizzato, che è ciò che si vede oggi la Spagna e che ha dato alla luce il governo Di Maio-Salvini. In questo modello, le ideologie trionfano sulla ricerca di soluzioni e il vecchio bipartitismo viene sostituito da uno scontro tra blocchi. Per questo credo che un’alleanza tra rappresentanti dell’uno e dell’altro mondo (istituzionale ed emergenziale) possa e debba aiutare la rigenerazione che tanti predicano. E soprattutto evitare che in nome del governo per il popolo e per il popolo, si scelga un vero malgoverno. Non voglio negare le difficoltà e i pericoli che comporta l’esperimento, un pretesto con il quale Sánchez in Spagna, con solo 123 deputati in una camera da 350, si ostina, inutilmente e arbitrariamente, a voler formare un governo monocolore. Dopotutto, gli anti-sistema, anche se non lo confessano o non lo sanno, vogliono costruire un nuovo ordine con nuove regole senza le quali è impossibile che funzioni. Siamo di fronte a un’insurrezione quasi mondiale contro gli effetti della globalizzazione e l’abuso dei potenti, ma le rivoluzioni non la fanno finita con le élite, piuttosto aspirano a sostituirle. Per evitare situazioni odiose come quelle del Venezuela, il rispetto della legge e della Costituzione sono indispensabili. In questo caso, un’alleanza tra M5S, il partito con più parlamentari in Italia, sebbene si sia presentato come antipartito, e la ricomposizione un po’ ambigua della socialdemocrazia, lungi dall’essere una minaccia alla democrazia, può costituire una speranza e un bene per i cittadini. Peccato che in Spagna il Psoe non impari la lezione quando si tratta di scendere a patti con Podemos, mentre l’estrema destra continua a ripetere la sua solfa: senza di noi è il caos.
Governare con i barbari. L’Europa non basta. Che cosa può fare il prossimo governo per archiviare il doppio populismo, per ridare energia all’Italia ed evitare che la pazza svolta in Parlamento diventi un regalo per i nuovi e per i vecchi estremisti. Ottimisti e pessimisti a confronto in un girotondo di idee sul Foglio. Trattative, condizioni, accordi e poi passi indietro e puntini sulle i e nuove condizioni, minacce, ultimatum e semiultimatum, smentite, rassicurazioni. A incarico affidato di nuovo a Giuseppe Conte e mentre era appena avviato il balletto della crisi parte seconda, con l’asticella del possibile esito che nel fine settimana è tornata a ondeggiare ampiamente tra governo rosso-giallo ed elezioni anticipate, abbiamo raccolto appunti, idee e opinioni di foglianti e no sull’ipotesi di un’alleanza Pd-M5s, ovvero sulla possibilità di romanizzare i barbari. Per sapere quale sarà, se ci sarà, il prezzo da pagare in termini di identità politica e di coesione interna per gli uni e per gli altri. Per capire che cosa può fare il prossimo governo per non far rimpiangere il precedente (basterebbe poco) e archiviare il doppio populismo. In questa e nelle pagine che seguono il ricco girotondo che ne abbiamo ricavato. Con ottimisti e pessimisti a confronto. Una manovra finanziaria col botto Per ora gli unici successi del governo 5s-Pd sono spedire Matteo Salvini all’opposizione e far tornare l’Italia un normale paese europeo; non poco ma neppure una garanzia per il futuro. Poiché la benevolenza dell’Europa e dei mercati sarà momentanea occorrere approfittarne subito. Tutto il resto si prospetta come un’operazione a esclusivo rischio del Pd, considerando anche i possibili agguati di Matteo Renzi a Nicola Zingaretti. Questa è l’incognita di cui tutti parlano e che graverà assieme alla ovvia martellante campagna di Salvini e alla congenita inattitudine al governo dei grillini. Giuseppe Conte escluso. Il Pd ha dunque una sola via: impadronirsi dei ministeri e dei centri decisionali economici chiave, cioè Economia, Sviluppo, Infrastrutture; e poi Istruzione e Viminale dove si deve tornare all’era Minniti non certo a quella Alfano. Mollando pure ai Cinque stelle le poltrone d’immagine che in Italia non contano nulla. Il Pd dovrebbe poi lasciar perdere slogan e gosplan e invece partire col botto già dalla prossima manovra finanziaria. Cioè: utilizzare la flessibilità europea e smantellare quota 100 non per fare spesa corrente ma per mettere immediatamente soldi su formazione, università e ricerca; per iniziare a ridurre ragionevolmente le tasse anziché evocare rivoluzioni redistributive; trasformare il reddito di cittadinanza in un serio sussidio di disoccupazione europeo, con obbligo vero di ricollocazione nel lavoro. Assieme, sbloccare realmente e non a chiacchiere le infrastrutture; e ripristinare pienamente Industria 4.0: l’addio di Carlo Calenda che alle europee ha preso 275 mila voti nel nord-est è un cattivo segnale. Se appronterà rapidamente queste concrete misure avrà speranze di successo; diversamente guadagnerà solo tempo verso elezioni anticipate che in quel caso arriveranno comunque, e che i rosso-gialli perderanno. Il Pd condannandosi alla scomparsa e i 5S confermandosi un incidente della storia. E riportando al potere i populisti stavolta al cubo, non solo al Papeete ma al Quirinale. Renzo Rosati Un bordello e un miracolo (in attesa di altri) Che bordello ragazzi! Ma forse anche un miracolo, visto l’incredibile autogol di Salvini. In ogni caso il nuovo governo sembra ormai cosa fatta. Per gli italiani c’era poco da ridere prima, quando Conte e i Cinque stelle governavano con la Lega, e c’è poco da ridere adesso che Conte e i Cinque stelle si apprestano a governare col Pd. Ammettiamo pure che sia ragionevole fare di tutto per non andare a votare, altrimenti vince Salvini. Ma siamo sicuri che da questo Conte bis non sia proprio Salvini a guadagnarci di più? Si sta per dar vita a un governo di sinistrasinistra come non se ne erano mai visti prima in Italia, composto da due forze politiche elettoralmente non proprio in salute, che dovranno governare in un contesto nazionale e internazionale difficilissimo. L’Europa potrebbe certo darci una mano, venirci incontro, anziché porre troppi vincoli. Ma non sarebbe la prima volta, né vedo le condizioni perché questa alleanza di governo ne approfitti per prendere le decisioni che servirebbero al paese, prime fra tutte il taglio della spesa pubblica e l’aiuto alle imprese. Sul piano strettamente politico c’è poi il rischio che in questa operazione si bruci il Pd, ossia una delle due sole forze politiche non populiste rimaste sulla scena politica italiana (l’altra è Forza Italia). Possiamo permettercelo? Se è vero ad esempio che questo governo è frutto soprattutto della paura delle elezioni da parte dei Cinque stelle e della mossa di Renzi che ha costretto Zingaretti a fare un accordo che né lui né Gentiloni avrebbero voluto, credo che con questa mossa Renzi abbia messo seriamente a rischio la credibilità del Pd e bruciato le proprie possibilità di accreditarsi in futuro, magari con un nuovo partito, sul fronte moderato. Calenda sembra averlo capito. Speriamo che qualcosa incominci a muoversi anche sul fronte del centrodestra. Questo è il momento che Forza Italia prenda decisamente le distanze da Salvini, altro che accordi. Quelli si faranno eventualmente dopo le elezioni, visto che ormai stiamo per precipitare in un nuovo proporzionalismo puro, alla faccia della “vocazione maggioritaria” del Pd. Se questa presa di distanza non avverrà, nei prossimi mesi correremo paradossalmente il rischio di non poter fare opposizione al governo Conte bis perché altrimenti si consegnerebbe il paese a Salvini. Un bordello, appunto, con la sola speranza che accadano altri miracoli. Sergio Belardinelli Caro elettore, sono stato al governo con Rousseau Prima il bicchiere mezzo pieno: anzitutto lo struggente romanzo di formazione vagamente mélo della breve ma intensa storia del premier Conte. Nato burattino sovranista, poi diventato leader europeista, apprezzato e stimato all’estero, persino ringiovanito. Una bella storia di riscatto e tinte per capelli da uomo. Una lezione esemplare. Siamo tutti Giuseppi. Poi, certamente, i festeggiamenti per la messa all’angolo del Capitano, in punizione dietro la lavagna. Che però assomigliano a quelli sul balcone per il default. Si apre qui la sconfinatezza buia e paurosa del ben più vasto bicchiere mezzo vuoto, cioè del “gran casino” dell’accodo Pd-M5s. Si è sempre saputo (anche nei tempi più scintillanti del turborenzismo al 40 per cento) che questa cosa dell’Onestà-tà-tà dai e dai sarebbe finita al governo, ma finirci due volte, prima in versione sovranista a porti chiusi, poi in salsa egualitar-democratico-diretta, sa di accanimento. La curiosità di sapere com’è il Movimento al governo “visto da sinistra” non ci sfiora neanche un po’. La curiosità di una manovra economica che mette d’ac – cordo fannulloni a cinque stelle e sinistra Pd mette invece i brividi. Peraltro, nella prima versione del populismo al governo, Salvini, vuoi o non vuoi, aveva comunque condotto il M5s verso una progressiva irrilevanza politica. Al Pd, al contrario, potrebbe riuscire uno di quei giochi di prestigio che riescono solo al Pd e cioè resuscitare i Cinque stelle, un movimento lacerato, diviso, sfiancato da un’esperienza di governo fallimentare (vedi flop del reddito di cittadinanza). Ora si tira fuori il “governo di necessità”; il “patto per il bene del paese”; “un populismo solo che è meglio di due messi insieme”, persino “l’unità antifascista contro il Papeete Beach”. Ma un governo giallorosso rattoppato con lo scotch sembra anche la miglior sceneggiatura possibile per la prossima campagna elettorale di Salvini, l’unica cosa che ha dimostrato di saper fare bene e che stavolta potrebbe fare anche bendato, in mutande o senza. Cosa dirà invece ai suoi elettori il Pd, dopo otto mesi di governo con Rousseau? Andrea Minuz Il paese della fantascienza realizzata Non leggono i mega-presidenti delle mega-ditte che guadagnano fantastilioni senza pagare tasse all’altez – za, gente che con le loro diavolerie cambia la vita anche ai più renitenti (pensate, solo dieci anni fa, a come erano diversi i giorni, le vacanze, il cinema e quasi ogni altra cosa). Figuriamoci se leggono i politici, e figuriamoci se leggono i politici italiani che vantano la propria vicinanza al popolo, e figuriamoci quelli impegnati a formare un nuovo governo per la salvezza della nazione. Ci proviamo lo stesso, un libro da consigliare lo avremmo. Anzi, un racconto. A statisti così occupati a tessere tele di giorno, e a disfarle la notte, non possiamo rubare troppo tempo. Nel 1904 H. G. Wells – lo scrittore di “La guerra dei mondi”, nessuna parentela con Orson Welles – pub – blicò un racconto di fantascienza intitolato “Nel paese dei ciechi” (in altre traduzioni, modello Elio e Le Storie Tese, “La terra dei ciechi”). In una remota valle isolata dopo un’eruzione vulcanica, c’è un paese in cui tutti gli abitanti hanno perso la vista. I bambini nascevano con gli occhi malati, il volontario andato a cercare una cura non era riuscito a tornare per una frana. Quindici generazioni dopo, gli abitanti vivono serenamente: non vedono nulla, non ricordano di aver visto, non hanno nostalgie per il mondo là fuori. Finché nel paese arriva un giovanotto, vede le case senza finestre con le pareti dipinte a casaccio e pensa a un imbianchino incapace. Soltanto dopo un po’ si accorge che ciechi sono tutti, e però il villaggio prospera. Non capisce però che la popolazione si è messa d’accordo per accecarlo, levandogli l’orribile difetto che gli dà alla testa. Lui invece si aspettava di essere incoronato re, o capo supremo, per manifesta superiorità visiva. Il racconto è terrorizzante quanto istruttivo. Ogni cosa può essere ribaltata, cambiando il punto di vista. Ogni posizione di privilegio può rovesciarsi nel suo contrario. Ogni vantaggio può diventare uno svantaggio. L’Italia è il paese della fantascienza realizzata. Mariarosa Mancuso Lasciateli un po’ copiare Della forza fondativa del Movimento 5 stelle resta pochissimo e quel pochissimo è inutilizzabile e meno male così. Con Giuseppe Conte nel ruolo di titolare fisso a Palazzo Chigi si è sancito il ruolo dei grillini, valido almeno in questa legislatura, come grande correntone doroteo a disposizione della maggioranza di turno. A rafforzare questo schema c’è il lento affermarsi di un embrione di entità politica autonoma costituita dai gruppi parlamentari Cinque stelle, un battaglione di governisti refrattario ad assecondare le ambizioni personali di Luigi Di Maio e perfino dei veri capi, ideologici e aziendali, del movimento. I Cinque stelle arrivano a questo estremo tentativo di sopravvivenza sapendo o intuendo che alle prossime elezioni dovranno comunque raccontare un’altra storia, non più quella di chi vietava i due mandati o che ostracizzava la stessa idea di fare alleanze parlamentari (ormai le hanno fatte con tutti) e tutta l’altra paccottiglia antipolitica che conoscete, compresa, ovviamente, quella strategia fondativa fatta di odio per il Pd. La cosa più probabile è che diventino, sempre seguendo l’estro di Conte, una specie di partitone assistenzialista, un’opzione politica ideologicamente neutra con qualche sentore di buon senso seppure qualunquista. Perché questa cosa resti vendibile elettoralmente ha bisogno di qualche copertura ideologica, altrimenti diventa peronismo e da queste parti non attecchisce. Il Pd ne ha da vendere e da regalare. Il buon Giovanni Tria, portatore di una visione equilibrata della politica economica, era diventato un faro politico durante i 14 mesi del governo Cinque stelle e Lega, non guardate a critiche e nervosismi che lo hanno circondato, la sua linea passava sempre e ha, di fatto, consentito la vita di quel governo. Il Pd può mettere in campo un buon numero di ministri ed esperti (il governo si manda avanti più con i consiglieri in gamba che con i super ministri). I Cinque stelle copieranno o insomma una sbirciatina su come si guida un ministero la daranno. La loro scarna ideologia, depurata dell’ossessione antipolitica, può prestarsi a sostenere qualsiasi pratica governativa, compresa quindi quella europeista e solidale e favorevole all’iniziativa economica temperata da interventi sociali. Il governo dei due populismi non poteva stare in piedi (e lo ripetiamo sono stati i non populisti inseriti d’ufficio, come Tria o Moavero, a rendere possibile un’azione di governo), questo secondo tentativo può avere qualche sviluppo invece e può vivere senza ministri imposti. Si tratta di lasciarli un po’ copiare, come facevano a scuola quelli bravi ma non cattivi. Giuseppe De Filippi La rischiosa alchimia di un’alleanza E’ grande il rischio che si prende il Pd accettando di formare un governo con i pentastellati. Naturalmente vale anche il viceversa. Se dopo la cura Salvini i Cinque stelle non superassero la prova Pd la loro estinzione sarebbe dietro l’angolo. Perché l’esperimento abbia successo sono necessarie diverse condizioni. La prima riguarda i Cinque stelle. Qualcuno ha affermato che questo movimento (partito?) sia come la plastilina. Malleabile dall’ultimo che ci mette le mani perché privo di una struttura propria. Uno dopo l’altro sono caduti i dogmi inconsistenti dei Cinque stelle. L’uno conta uno (e Di Maio conta per tutti), lo streaming, la trasparenza, i due mandati e soprattutto il rifiuto di ogni alleanza. Ma tutto questo non ha prodotto una seppur minima Bad Godesberg grillina, come sarebbe stato logico. Una qualche visione del mondo che non sia l’oscillare continuamente fra il vaffa e il trasformismo. Né una seria struttura decisionale ha preso il posto della illegittima triade piattaforma Rousseau/BeppeGrillo/Casaleggio. Saprà in questa seconda prova fare un salto di qualità? A giudicare dall’enfasi sui 10 punti, una somma di radicalismi e pensieri vuoti, direi di no. Il rischio è che questa cultura vuotamente massimalista si incroci con alcuni vecchi vizi della sinistra. Il Pd del referendum sull’acqua pubblica per capirci. Della spesa pubblica. Dei sussidi elargiti in nome della lotta alla povertà , che finiscono per rafforzarla anziché sconfiggerla. Dell’ambientalismo sexy, ma inefficace. Nella mozione con cui Zingaretti ha vinto la sua corsa alla segreteria, piuttosto lunghetta, due parole latitavano: debito e crescita. Nell’ulti – mo documento della Direzione Pd ambedue sostituite dal riferimento al “nuovo modello di sviluppo”. Ingrao 30 anni dopo. E i fondamenti veri della crisi italiana bellamente ignorati. Ben altra storia sarebbe se il Pd avesse voglia di portare nell’azione di governo il meglio della sua cultura riformista costringendo i Cinque stelle al duro esercizio dell’aritmetica e del gradualismo. Ma temo che il vecchio adagio “nessun nemico a sinistra” finisca per prevalere con danni collaterali permanenti. Che renderebbero inevitabile una ulteriore scissione e una lunghissima traversata nel deserto. Poi c’è Renzi. Che ha il dovere di difendere un’impostazione riformista. La svolta ci può stare, turandosi un poco il naso. Ma ci vogliono motivazioni solide. L’Iva non è la nuova Brigata rossa che rende inevitabile il compromesso. Certo, c’è anche la necessità di fermare Salvini e questa è una motivazione più forte. Ma se il tutto avverrà con un consistente arretramento della cultura riformista e con un surplus di giustizialismo pentastellato, si sarà distrutto un patrimonio costruito con fatica e si sarà fatto un ulteriore passo in avanti sulla strada del populismo al potere. E lì c’è chi sa interpretarlo meglio. Chicco Testa Svelenire il clima, Parlamento centrale Abbiamo vissuto una crisi di governo davvero singolare, sia per il momento nel quale è avvenuta sia per le sue modalità. In un mese si è sprigionata una polarizzazione che ha agitato gli animi e ha diviso gli italiani. I social, oltre a restare efficace piattaforma di discussione, sono diventati il tubo di scappamento dei sentimenti peggiori. Primo compito di chi governa il nostro paese è quello di svelenire il clima che si è creato, ponendo al centro i valori fondanti dello stare assieme. Dobbiamo poterci riconosce tutti innanzitutto come cittadini, come popolo. L’avver – sario politico non deve essere inteso come “nemi – co”, e questo è possibile se ci si confronta sui fatti e le proposte, non sulle retoriche da campagna elettorale. Bisogna smettere di definire “inciucio” le regole della nostra democrazia parlamentare o di considerare i cittadini come followers. Il Parlamento deve diventare nuovamente centrale. Un paese si distrugge uccidendo la capacità di unire, e le regole servono anche all’unità. Ci vogliono dunque gesti di inclusione. Non ho ricette per depurare il clima politico, anche se nel gennaio scorso su La Civiltà Cattolica avevo indicato sette parole per il 2019 che, a rileggerle oggi, mi sembrano valide in questo frangente. In ogni caso credo prioritarie alcune cose. 1. Bisogna innanzitutto dare un taglio al clima da perenne campagna elettorale in cui il paese è stato gettato. Il governo agisca con serenità, affrontando i problemi con compostezza. 2. Un punto di sintesi sul quale lavorare molto per svelenire le tensioni è la valorizzazione della cittadinanza e della partecipazione, che va incentivata in un tempo in cui gli italiani si sentono estranei al potere. Occorre recuperare l’effettività dell’essere cittadini altrimenti la democrazia si atrofizza e si rischiano innamoramenti per i “capitani” di turno. Una seria riflessione sulla legge elettorale, a mio parere, fa parte di questo percorso. 3. Per svelenire il paese il governo deve affrontare lo stato di disagio profondo della classe media, anche frutto del carattere globale dell’economia e della finanza. Si deve ripartire dalla questione sociale (disuguaglianze, povertà, lavoro) e varare misure a sostegno delle famiglie e della natalità (al di là delle retoriche ascoltate in questi ultimi mesi), dei disabili e per l’emergenza abitativa. Bisogna lavorare sulla sostenibilità, sulla crescita sostenibile, sulla tutela di beni e servizi (scuola, acqua pubblica, sanità…). 4. Il tema delle migrazioni va affrontato efficacemente e in un quadro europeo, ma va spenta la propaganda che ha visto i migranti vittima di un tentativo di distrazione di massa dai veri problemi sul tappeto. Il risultato è stato l’emergere di un sentimento di razzismo, xenofobia e di disprezzo dei diritti umani e della solidarietà, persino delle Ong, potenzialmente devastante per la coesione sociale. 5. Infine: in questi mesi è stato incentivato l’odio strumentale per le istituzioni europee. Il risultato ha rischiato di essere l’isolamento e l’irrilevanza internazionale dell’Italia. Occorre ricostruire una narrativa che ribadisca l’impegno e l’appartenenza leale all’Unione europea per migliorarla. Se il dibattito politico è indispensabile, la polarizzazione lo stronca. Dobbiamo tornare alla politica. Ne va della sanità della nostra democrazia, il nostro bene prezioso. Antonio Spadaro Usare la tecnologia per un big bang fiscale Il vincitore di questa strana estate politica italiana è Giuseppe Conte. Sembrava impossibile 18 mesi fa, ma così è stato. Il premier incaricato sta dando una forma non antisistema a un movimento di matrice illiberale e nato sul Vaffa ed è riuscito a far sembrare, per la prima volta, Salvini non adeguato a essere leader. Il nuovo governo – se nascerà – sarà quindi caratterizzato da Conte. Il Pd per evitare di consegnarsi – quando questo governo andrà a casa – ai destini politici di Conte, anche come potenziale concorrente specie sull’area moderata, deve preoccuparsi di indicare una squadra di ministri in grado di far percepire che il Pd è classe dirigente e non un caminetto di capicorrente. Deve usare l’opportunità di questo inaspettato governo Conte bis per dimostrare che ha idee e persone con la capacità di realizzarle. Non sapendo quando potrà durare il governo, penso che sia importante che nei primi 100 giorni – e qui torna l’esigenza di ministri competenti in grado di gestire i dossier da subito – si facciano partire una serie di iniziative ambiziose. Policy destinate a rimanere nel tempo. In campo fiscale si dovrebbe lavorare a un abbassamento della tassazione delle persone fisiche, non in modo selettivo ma universale, finanziata grazie alla modifica della dichiarazione dei redditi in cui è da inserire anche una parte di rendiconto patrimoniale. Come ad esempio in Svizzera e negli Stati Uniti. Una dichiarazione che abbia non solo elementi reddituali, ma anche tutti gli elementi patrimoniali renderebbe veramente complicato giustificare incrementi patrimoniali non giustificati da donazioni o eventi straordinari. Come si potrebbe far partire – come in Francia – una grande apertura dell’utilizzo dei dati pubblici sulle compravendite immobiliari per dare modo al mercato immobiliare di diventare più efficiente e fluido, evitando così che rimangano – grazie all’uso dei big data – spazi per elusioni fiscali. Usare la tecnologia per un big bang fiscale. Pagare meno tasse, pagarle tutti. Andrea Tavecchio Va bene i barbari, ma chi sarebbero i romani? Caro direttore, risulta davvero difficile provare ad approntare una minima analisi in un paese dove ormai tutto appare possibile. Ritornano potenti le parole scolpite su pietra da Ennio Flaiano: “Non chiedetemi dove andremo a finire perché ci siamo già”. Di solito, nell’eterno cinismo stanco che si respira nelle vie della capitale, l’aspirazione alla “romanizzazio – ne” dei barbari appare come l’ultimo scoglio a cui aggrapparsi per giustificare manovre politicamente estrose e dalle sicure conseguenze nefaste. Perché probabilmente a essere sbagliata è la premessa del ragionamento. Mentre sappiamo bene, anche questa volta, chi sarebbero i “barbari” a me non risulta chiaro chi invece siano i “romani”. Pur non volendo entrare nel merito delle idee dell’attuale segretario del Pd (e molto ci sarebbe da dire), basta restare al metodo che ha portato alla composizione di questo governo: non sarebbe potuto succedere in nessun altro paese del mondo. E questo non dipende dai “barbari”. O almeno solo da loro. La “romanizzazione” sarebbe allora operazione complessa da compiere e, a questo punto, non so quanto auspicabile. Mi rifugio allora, come sempre nei momenti di difficoltà politica, nelle pagine del Codice della vita italiana di Prezzolini: “I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi […] I fessi hanno dei principi. I furbi soltanto dei fini”. E mi sento ancora una volta un fesso. Non perché sia particolarmente attaccato ad alcuni principi, magari giusto qualcuno ce lo teniamo, o no? Ma perché, per esclusione, questo mi sembra il governo dei furbi. Tertium non datur, caro direttore: sono un fesso. Pasquale Annicchino Situazione: ieri disastrosa, oggi sgradevole E se fosse un gigante politico? Se Conte, la cui candidatura a una rinnovata premiership è emersa in tutta la sua forza col discorso al Senato del 20 agosto scorso, fosse il costituzionalizzatore del Movimento 5 stelle? Altro che Berlusconi con l’Msi nel 1993! I Cinque stelle sono nati come forza dichiaratamente populista, con una carica eversiva formidabile, hanno svillaneggiato in ogni occasione la democrazia rappresentativa, hanno sposato idiozie come la decrescita felice e dato fiato e rappresentanza a imbecilli di ogni risma, dai terrapiattisti ai no vax, passando per i no-tutto. E, ancora, non hanno alcun nesso con le tradizioni politico-culturali che ci hanno consentito di essere fondatori e protagonisti della costruzione europea. Ecco. Costituzionalizzare, urbanizzare, “roma – nizzare”, nel senso della civiltà politica di Roma, una simile forza sembrerebbe impossibile. Eppure in meno di 30 giorni, il bello della politica, l’ardua impresa sembrerebbe apparire possibile. Tanti tra noi hanno pensato che essendosi il movimento grillistico ridotto a fare lo scendiletto della Lega, fosse ragionevole favorire in ogni modo la consunzione del Movimento e giungere a un conflitto autentico e duro, tra società aperta e sovranismo, recuperando, se possibile il pezzo liberal popolare del centrodestra alla lotta. Un destino, non una scelta. Fino alla irruzione sulla scena del “genio tattico” di Salvini e alla contromossa di autentica genialità di Renzi. E siamo entrati nel mondo nuovo. Un premier incaricato che appare e forse è, con tutta evidenza, emanazione del gruppo della sinistra indipendente, che ha ben chiaro l’iter di rottamazione della piattaforma Rousseau, che vuole, fortissimamente vuole, ricostruire una percezione di affidabilità dell’Italia nel mondo, che sa di poter contare sulla robustezza e professionalità dei ministri che tra tecnici e Pd renderanno plastica la differenza tra chi lavora e legge i dossier di governo e chi non lo fa. Se la domanda è, può farcela Conte? da solo? la risposta è, non è solo, perché il suo partito di riferimento, il Pd, ha tutte le caratteristiche per essergli di aiuto e, non da ultimo, il fatto di aver ritrovato, il Pd, un minimo comune denominatore e un livello di coesione accettabile aiuterà molto. Però mi raccomando, tenere bene fino al 2022, eleggere il presidente della Repubblica (il compagno Conte stesso?), legge elettorale proporzionale, un po’ di abilità negoziale con l’Europa, e non farsi esplodere in faccia la questione settentrionale (sarebbe un errore imperdonabile). Ciliegina sulla torta far sì che il centrodestra torni a essere centrodestra come è stato per settant’anni in tutto l’occidente, con un centro egemone e una destra subordinata. Mettiamola così, se un mese fa la situazione mi appariva disastrosa, oggi sembrerebbe tutt’al più sgradevole. Sempre che non si pensi a patrimoniali, ancorché mascherate. Sergio Scalpelli E se barbarizzassimo un po’ i romani? “E adesso? Romanizzare i barbari?”, mi invita al girotondo il direttore Cerasa. Ma invece il pensiero che mi fa sognare è come sarebbe bello barbarizzare un po’ i romani. Basta governi con Alfano, basta opposizioni con Forza Italia, basta perfino mezzi simboli a Calenda. Ah se il Pd si facesse crescere un po’ la barba, alzasse le vele, accettasse la sfida. Se guardasse negli occhi chi voleva abbattere il sistema (quando il sistema era lui, il Pd), gli desse un buffetto sulla grisaglia e memore dei suoi anni migliori gli dicesse: guarda che io sono la sinistra. Guarda che se voglio a questo gioco io sono più bravo di te. Io sto in politica per cambiare il mondo, come te, ma da prima. Vediamo un po’ come fare, e chi è più bravo. Un imprevisto è la sola speranza, diceva don Giussani citando Montale. Un governo pazzo magari è l’ulti – ma occasione. Riprendere la strada non è trasformismo, semmai è saggezza. O magari è un colpo di fortuna. Ne hanno bisogno entrambi di ritrovare la strada, gialli e rosé. Di ritrovare voti, anche, sebbene avranno una maggioranza più grande di quella di prima. Ah se abbassassero i ditini con cui si rinfacciano da anni difetti, superbie e cialtronaggini, e provassero a parlare al paese insieme, a dire: abbiamo capito, adesso cambiamo. E ripartiamo dalla Costituzione, dalle istituzioni democratiche, dall’Europa, perché su questo ci siamo incontrati. E poi mettiamo al primo posto la grande questione sociale, del lavoro della scuola della salute del fisco. Dell’uguaglianza, uh, si potrà dire uguaglianza? Una cosa è necessaria però: nessun ministro torni al posto dove stava prima. Se proprio non ce la fate a fare una squadra tutta nuova, almeno niente rivincite. Andateci liberi al governo, liberi di testa e di bagagli. Avete tutti con voi, da Trump a Papa Francesco: non dovete dimostrare niente a nessuno, se non ai vostri (ex) elettori. E se a qualcuno domani verrà in mente di staccare la spina perché pensa che gli conviene, ricordategli solo che adesso c’è una parola per definire un’idea del genere: salvinata. Chiara Geloni Avranno la guerra, e senza alcun Churchill Alla fine è nato. Anche se il parto si annunciava difficile, c’era un’ostetrica esperta e una madre molto collaborativa. Ma il neonato è gracile, il cuore batte debole. E’ nato, ma sopravvivrà? Ce la farà il governo di Giuseppe Conte? L’aria più pulita, liberata dal lezzo di un uomo politico autoritario, xenofobo, primitivo che chiedeva tutti i poteri, basterà a dargli la forza necessaria per respirare, per muoversi e agire? C’è chi lo spera. L’aria, liberata dalle parole e dall’azione del capo leghista, raggiungerà livelli più salubri, la democrazia riprenderà il suo corso, ricomincerà a scorrere nel suo alveo naturale. Ci sarebbe da augurarselo. E da tirare un sospiro di sollievo. Ma non sarà così. Per vivere, il neonato governo non ha bisogno solo di un ambiente meno inquinato, ma di proposte, vere, precise, che segnalino almeno la possibilità di un cambiamento nella vita di tanti, che conquistino non solo il Parlamento ma la testa, il cuore e la pancia, di chi, in questi ultimi mesi, è stato cullato dalla sirena salviniana e ha fatto proprie le parole, gli umori, i gesti, la flatulenza di un uomo che pensava di soggiogare paese e istituzioni. Chi ha dato alla luce il neonato non sa come farlo crescere. Il Pd propone un buon governo, retto da un rigore aggiornato e un europeismo subalterno. La sua cultura è ormai irrimediabilmente inquinata dal governismo burocratico di chi, per paura di perdere, non sa più rivolgersi al popolo. Il Movimento 5 stelle ha dalla sua solo la forza di un antico populismo sporcato però dalla politica antimigratoria e dai decreti sicurezza, divenuto moderato, quindi friabile, poco attraente e che, proprio nei mesi del precedente governo, ha trovato nella Lega un terreno più solido nel quale insediarsi. Di sicuro il neonato governo avrà la benevolenza dell’Unione europea per la prossima manovra. Eppure non basta. Il punto non è, come sostengono molti osservatori, che è nato da due partiti diversi, con punti di vista e proposte in contrasto fra loro, uniti solo dalla paura di uno scontro, quello elettorale, che, probabilmente, sarebbe stato perdente. Il punto è che nessuno dei due ha ora proposte forti, capaci di coinvolgere, di cambiare l’economia e i sentimenti del paese. E lo sanno, lo sanno tanto bene, che hanno preferito l’accordo istituzionale al conflitto elettorale. “Potevano scegliere – disse Winston Churchill, dopo l’accordo di Monaco – fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore. Avranno la guerra”. Sì ci sarà la guerra e, purtroppo, non c’è nessuno che assomigli anche lontanamente al cancelliere inglese. Ritanna Armeni Destra e sinistra subalterne ai populismi L’imbarbarimento della vita nazionale si esprime in due fenomeni, correlati anche se contraddittori. Da una parte c’è la caduta dell’autorevolezza a tutti i livelli (dai genitori che aggrediscono gli insegnati ai pazienti che rifiutano le cure o addirittura i vaccini), dall’altra la ricerca di un autoritarismo che ponga fine a questa crisi dell’autorità. I Cinque stelle hanno dato voce al primo fenomeno con una campagna di “vaffa”, Matteo Salvini al secondo, autonominandosi comandante di non si sa bene che cosa. Per superare questa situazione (che non è solo italiana, anzi ha effetti ancora più clamorosi per esempio nei paesi anglosassoni) bisogna restaurare un’autorevolezza basata sul merito e sulla competenza. Non lo può fare un governo raccogliticcio e contraddittorio come quello che si sta formando: il governo però può fornire il tempo necessario perché si sviluppino iniziative politiche che sappiano presentare questa prospettiva. Naturalmente anche la durata del governo, e quindi della tregua, dipende da una serie di fattori, prevalentemente esterni e quindi incontrollabili, mentre le sue correzioni, specie in campo economico, sempre che vadano nella direzione giusta dell’elevamento della produttività, il che è assai dubbio, potrebbero ottenere risultati solo nel medio periodo. Non saranno quindi gli eventuali successi del governo a cambiare il clima nazionale avvelenato dalle varie e opposte campagne di “indignazione” che dominano da anni il marketing politico. Per tornare al confronto (ma c’è mai stato davvero in Italia?) tra una destra e una sinistra civili e reciprocamente rispettose, sarebbe necessaria una rigenerazione di questi due campi, che ora sono di fatto subalterni ai populismi. Si può farlo, per la sinistra, da posizioni di governo, se non ci si illude che sia il governo a garantire questa trasformazione. Lo si può fare, nella destra, dall’opposizione, senza farsi travolgere dall’attivismo leghista? Non so rispondere in modo speranzoso, so solo che sarebbe necessario e utile, il che naturalmente non garantisce che avverrà. Anzi. Sergio Soave Il rischio di finire dove avrebbe voluto portarci Salvini Il Governo Conte-bis, più che del nuovo umanesimo, dovrebbe (pre)occuparsi della vecchia matematica. Con l’espulsione della Lega dalla maggioranza, l’Ita – lia si presenta ai partner europei e ai mercati con un volto meno truce: tutti gli esponenti della nuova maggioranza fanno professione di fede europea e nessuno dice di voler uscire dall’euro. Tuttavia, ci sono due strade per uscire dall’euro: muoversi consapevolmente in quella direzione (come forse voleva Matteo Salvini e come certamente chiedevano i suoi principali consiglieri economici) oppure farlo senza rendersene conto. Come la legge non scusa l’ignoranza, l’economia non scusa la faciloneria. Tutto ruota attorno ai due numeri che dovranno risultare dalla prossima legge di Bilancio: i rapporti deficit/pil e debito/pil. L’Italia si trova sotto infrazione per debito eccessivo. E’ solo la “clemenza della corte” che ci ha risparmiato una analoga procedura per deficit. La precaria tenuta del nostro bilancio pubblico poggia sulle clausole di salvaguardia, cioè, essenzialmente, sull’incre – mento automatico dell’Iva per un gettito di circa 23 miliardi di euro nel 2020 nell’assenza di altri interventi di pari entità (maggiori tasse o minori spese). Finora, i messaggi lanciati e le policy evocate dai “contraenti” sembrano spingere il nostro saldo di bilancio verso o addirittura oltre la soglia del 3 per cento, mentre delle pluri-annunciate privatizzazioni per contenere il debito non c’è neppure l’ombra. Se Pd e M5s non seguiranno il sentiero stretto dell’equilibrio di bilancio (richiesto tanto dagli impegni europei quanto dall’articolo 81 della Costituzione, e quotidianamente misurato dal termometro dello spread) rischiamo di trovarci, senza Salvini, dove avrebbe voluto portarci Salvini. Per prevenire l’Ital-exit è certamente necessario smettere di predicare l’uscita dall’euro, ma più ancora bisogna farla finita con politiche incompatibili con la permanenza nella moneta unica e con l’idea sottostante che non c’è crescita senza spesa. Non fiori ma opere di bene: non omaggi verbali ma rigore contabile. Carlo Stagnaro Ma l’elettorato non sarà romanizzato Il cambiamento di maggioranza in un sistema parlamentare non scandalizza. Si può però legittimamente dubitare dell’opportunità politica di certe strategie. Giuseppe Conte sarà presidente del Consiglio di una maggioranza formata dal suo partito con quello che era il principale partito d’opposizione al suo precedente governo. Una mossa che spinge il parlamentarismo ai limiti delle sue possibilità con il rischio di indebolire tanto i partiti quanto la fiducia degli italiani, già molto bassa, nella politica rappresentativa. Molti ritengono che questa manovra sia necessaria per riallineare il paese a Bruxelles ed evitare di consegnarlo al sovranismo di Salvini. Sull’opportunità di questa strategia aleggiano almeno tre grandi dubbi. Il primo è attinente a quella che Giovanni Orsina su queste colonne ha chiamato “romanizzazione dei barbari”, per intendere il percorso di normalizzazione delle forze populiste. Tuttavia, il governo giallorosso riuscirà forse a “romanizzare” solamente i Cinque stelle, ossia il partito populista che ha maggiormente accusato l’esperienza di governo e che era già stato di fatto moderato dalla stessa Lega. Ciò che invece non sarà “romanizzato”, è quell’elettorato che lascerà i pentastellati per l’astensione o per unirsi ai “barbari” che già seguono Salvini e Meloni. In altre parole, si rischia lo scivolamento e la coagulazione a destra di tutto il messaggio antipolitico, anti-establishment ed euroscettico. Siamo certi che con un governo giallorosso nato in questo modo, l’estremismo, specie nei confronti dell’Europa, di una consistente porzione dell’elettorato non verrà rinfocolato piuttosto che smussato? A volte la cura rischia d’esser peggio della malattia. Il secondo dubbio riguarda l’esclusione del settentrione. I due partiti di governo sono molto deboli a nord del Po e c’è da chiedersi se si possa governare bene l’Italia senza un consistente appoggio dell’area più produttiva del paese. A questa domanda si ricollega il terzo dubbio e cioè il rapporto tra il nascente governo, il suo programma e le ricette per la crescita economica. C’è più di un motivo per sospettare, infatti, che politiche di spesa sociale, irrigidimento del mercato del lavoro, nuove tasse, regolamentazione ambientale e aggressione fiscale del risparmio possano fare parte del menù giallorosso. Tutto ciò vale la pena solo per impedire al centrodestra di vincere le elezioni? Un governo di coalizione e una legge di bilancio difficile avrebbero “romanizzato” Salvini e soci assai più dell’opposizione inferocita che faranno al Conte-bis. Oltre questi dubbi c’è una buona notizia. E’ possibile che, se non prevarranno le tentazioni proporzionali, il quadro politico si semplifichi nel prossimo futuro tornando a uno schema bipolare tra destra e sinistra, ove ognuno potrà agevolmente scegliere da che parte stare. Lorenzo Castellani Il rebus del rapporto con la Cina E ora l’agenda del nuovo governo propone un interessante rebus, quello del rapporto con la Cina che dovrà essere giocato secondo uno schema non più bilaterale ma che tenga conto delle visioni dell’Unio – ne europea e soprattutto di quelle della Casa Bianca. Donald Trump ha fatto della lotta alla Cina il tratto distintivo della sua presidenza, Pechino è molto di più di un ingombrante competitor economico, è, nella visione del presidente americano, il vero e nuovo antagonista degli Stati Uniti sullo scacchiere globale. Se Ronald Reagan definì l’Unione Sovietica l’impero del male, salvo poi aprire una trattativa con Gorbaciov, Trump ritiene che la Cina persegua un disegno egemonico mondiale e che la “Via della Seta” ne sia il cavallo di Troia. E su questo Washington, come nella contrapposizione a Mosca, reclama la piena adesione degli alleati storici. Quando in occasione della visita di Xi Jinping in Italia si è deciso di aderire alla “Belt and Road Initiative” gli Stati Uniti si sono fatti sentire con una dichiarazione del portavoce del National Security Council e assistente speciale del presidente Trump, Garret Marquis: “L’Italia non ha bisogno degli investimenti cinesi, quindi aderire alla ‘Via della Seta’ è un errore”. Preoccupazione condivisa dall’Europa che attraverso l’allora portavoce dell’Ue commentò: “Gli Stati membri devono difendere l’in – tegrità dell’Unione. Nessuno può raggiungere obiettivi con Pechino senza unità”. In quei giorni il Pd depositò un’interrogazione al Senato, a prima firma di Alessandro Alfieri, capogruppo in commissione Esteri nella quale chiedeva di chiarire la posizione dell’Italia soprattutto in relazione al report sottoscritto dagli ambasciatori europei nell’aprile 2018. Del resto, lo stesso Emmanuel Macron, il più aperto alla globalizzazione dei leader europei, quando sbarcò a Pechino, il 9 gennaio del 2018, invocò reciprocità nei rapporti con la Cina, chiedendo “regole bilanciate”. In verità, l’Italia ha sempre spiegato che avere rapporti economici con il gigante cinese, cosa che storicamente hanno fatto prima di noi e in maniera corposa la Germania, la Francia e gli stessi Stati Uniti, non significa cedere a Pechino ma solo sviluppare opportunità. La questione è sul tappeto. Gennaro Sangiuliano Obiettivo dopo aver visto l’abisso: la crescita Abbiamo visto l’abisso: il rischio, per la prima volta nella storia repubblicana, che un’elezione conferisse a una maggioranza il potere di superare i paletti messi dai padri costituenti a difesa della nostra democrazia. E abbiamo comperato tempo: non abbiamo eliminato il rischio, ma l’abbiamo dilazionato. E’ costato caro, al paese, non solo alle forze politiche che l’han – no contrattato: per evitare di aver buttato capitale politico bisogna mettere mano a un programma di governo che dia la garanzia di disinnescarlo. Un primo punto dovrebbe essere rassicurante. Ci aveva già contribuito, (rara intuizione o provvida distrazione?) il M5s votando a favore della presidente Ursula von der Leyen. Borghi e Bagnai forse conserveranno la presidenza delle rispettive commissioni parlamentari, ma ormai la loro è una vox clamantis in twitterio. Una buona designazione per il nostro commissario, il rassicurante presidio di alcune posizioni chiave, e la nostra posizione dovrebbe essere consolidata. Ma il governo deve avere un punto focale, una “mission”, come è diventato di moda dire, e questo non può che essere la crescita: solo se questo governo avrà fatto riprendere al paese il cammino della crescita si potrà dire che il capitale politico messo in gioco per vararlo è stato bene investito. Certo crescita vuol dire pil, vuol dire partecipazione al lavoro. Ma vuol dire anche sgombrare il campo dalle ingombranti macerie, comunicative e legislative, disseminate dal precedente governo. E’ un progetto che deve coinvolgere tutti, imprese e dipendenti, lavoratori e pensionati, élite e popolo, nord e sud, chi verrà posto nelle posizioni apicali della pubblica amministrazione e chi delle aziende che il pubblico controlla. Riguarda i “barbari”, ma riguarda anche i “romani”. Percorrere quella strada è il percorso necessario per “romanizzare” i “barbari”: l’avevano a lungo demonizzata, allettando invece a incamminarsi per la via degli “dei falsi e bugiardi”. Essi devono dimenticare – e far dimenticare – l’urlo sguaiato che è stato il loro big bang. Ma anche i “romani”, che vorremmo che li guidassero, devono guardare con attenzione ogni passo che fanno. Sarebbe un disastro se, mentre gli indicano la strada, perdessero (e in non pochi casi non riprendessero) le posizioni riformiste con tanta fatica conquistate. A loro abbiamo affidato il compito di rappresentare e difendere i valori disprezzati o attaccati dal populismo: il canto di quelle sirene ha pericolose assonanze, se vi cedessero avremmo perso tutto. Franco Debenedetti Obiettivo: una legge proporzionale scolpita nel marmo Comunque la si pensi sul governo rossogiallo (giallorosso è un termine che non merita simili accostamenti, di confusione tra politica e calcio ce n’è già abbastanza, e comunque, semmai, bisognerebbe parlare di governo rosso-nero), insomma, quale che sia il nostro giudizio sul governo Pd-M5s – il mio oscilla tra disgrazia necessaria e disgraziata necessità – mettia – moci d’accordo, almeno, sulle metafore. Per “roma – nizzare i barbari”, civilizzare gli incolti e alfabetizzare gli analfabeti bisognerebbe prima essere ben sicuri di avere a disposizione, se non proprio qualche maestro, almeno dei discreti studenti di diritto romano, filosofia greca e letteratura latina. Lasciamo perdere. Per i paralleli storici, abbiamo esempi assai più recenti. Il Movimento 5 stelle è quello che ha importato in Italia temi e slogan del nuovo nazional-populismo, dai deliri sulla “sostituzione etnica” pianificata dal plutocrate Soros a tutti i relativi corollari complottistici più e meno recenti (compresi i Protocolli dei Savi di Sion, pubblicamente rilanciati dal senatore Elio Lannutti, tuttora al suo posto). Matteo Salvini non ha fatto altro che copiare, nel merito e nel metodo, con Luca Morisi al posto della Casaleggio Associati, mettendoci solo un po’ più di coerenza. Un gioco al rialzo che ha costretto Giorgia Meloni a rispolverare parole d’ordine direttamente dagli anni Trenta, e speriamo di fermarci qui. Di conseguenza, tutti i discorsi sulle origini, le radici e gli ideali “di sinistra” dei Cinque stelle sono nel migliore dei casi un’ingenua fesseria, a meno che non si intendano allo stesso modo le radici socialiste di Benito Mussolini, o del nazionalsocialismo: non è poi storia così nuova questa del movimento popolare che difende i lavoratori abbandonati dalla sinistra, e lo fa combattendo le élite finanziarie in difesa della tradizione e della purezza etnica dei popoli europei. Se dunque questo governo Pd-M5s s’ha da fare, perché l’alternativa è il serio rischio di uscire dalla democrazia liberale, dall’euro e dall’Europa, il minimo che gli si può chiedere è che ponga le condizioni affinché un simile rischio non possa presentarsi mai più, mettendo le istituzioni democratiche e lo stato di diritto al riparo dai capricci della maggioranza di turno (che poi dovrebbe essere il senso stesso dell’espressione “stato di diritto”). Dunque legge elettorale proporzionale scolpita nel marmo, così da garantire che nessun vincitore possa mai fare cappotto. The winner takes all è una filosofia che va bene al tavolo da gioco, non quando si tratta dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti i cittadini. Francesco Cundari E allora il Pd! Il Conte 2 (che secondo Di Maio è 1 perché il primo è da considerarsi un Mandato Zero) nasce non per fermare Salvini, non per scongiurare l’aumento dell’Iva, non per un complotto dell’Europa, ma per aiutare una persona malata di mente: l’avvocato Giuseppe Conte, il quale è affetto da un grave disturbo della personalità. E’ mitomane: crede di essere il presidente del Consiglio. Gliel’hanno fatto credere Di Maio e Salvini per un anno; e quando poi il secondo ha provato a spiegargli che non è vero, Conte ha dato in escandescenze. A nulla è valso l’affetto dei famigliari, soprattutto del figlio Niccolò (“Dai papà usciamo, compriamo un telefonino nuovo!”): Conte si è presentato al G7 di Biarritz come presidente del Consiglio italiano; e indicando il vuoto accanto a lui diceva ai potenti della Terra che lo guardavamo allucinati “Vi dispiace se ho portato un amico?”. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che di matti se ne intende (ne vede uno tutti i giorni allo specchio), lo ha assecondato; e a quel punto tutti dietro (l’Europa, il Vaticano) per paura che “Giusep – pi” potesse dare ulteriormente di matto e compiere qualche gesto sconsiderato. Solo che a quel punto il mitomane, vistosi improvvisamente circondato dall’affetto unanime, ha cominciato a sentire una vocina nella testa che gli diceva “Tu non sei il presidente del Consiglio; tu sei il presidente della Repubblica!”; ed è stato visto dai corazzieri a tarda notte armeggiare con le serrature del Quirinale. Allora Mattarella ha chiamato i 5s e gli ha detto “Voi avete creato il problema, ora voi lo gestite!”; e i 5s hanno risposto dettando le rigide condizioni per un’allean – za: basta che respirino. La presidenza della Repubblica ha allora suggerito il Pd (dato per morto, alla fine respira sempre); e il Pd, per giunta sensibile al tema dalla sanità (mentale compresa), ha ceduto al diktat quirinalizio: “Datemi una mano a fargli credere nuovamente di essere presidente del Consiglio, o una di queste sere me lo ritrovo nel letto!”. Ora il Pd deve spiegare ai 5s come si governa, e magari prima come si legge, si scrive e si fa di conto; mentre i 5s devono dire alla propria base che non è vero che il Pd fa le scie chimiche o provoca l’autismo. Intanto, pare abbiano risolto il problema del voto all’allean – za su Rousseau: alla fine del quesito, al posto di un punto interrogativo, ci mettono un bel punto esclamativo e così diventa un’affermazione. In tutto questo, neanche un minuto di silenzio per Matteo Salvini, deceduto a causa di un selfie pericoloso finito male: voleva fare una diretta Facebook in cima ai pieni poteri, ma ha perso l’equilibrio ed è precipitato giù dal governo. Saverio Raimondo Una ristrutturazione dell’offerta politica Perché si fa un governo? Perché lo prevede la Costituzione. Qualcuno che avesse la sagacia e l’aspirazio – ne alla longevità politica di un vecchio notabile democristiano potrebbe cavarsela con una risposta del genere. Forse è la risposta che darebbe più volentieri lo stesso presidente del Consiglio incaricato, Giuseppe (o Giuseppi) Conte, per il quale il cambio di maggioranza – all’insegno della novità, opportunistica vox media tra la richiesta di discontinuità di Zingaretti e l’abbarbicata continuità di Di Maio – non solo non significa il trasloco da Palazzo Chigi, ma comporta addirittura una promozione di rango e un sorprendente incremento di autorevolezza. Mi piacerebbe essere un giorno nei panni del suo biografo, e dello storico che da questa vicenda potrà trarre indicazioni forse definitive sul rapporto fra gli italiani e l’arte di governo. Cosa può darci, però, l’opera dell’arte? Mi auguro qualche ricucitura, dopo l’anno bruttissimo appena trascorso tra continui strappi: mai consumati fino in fondo, in realtà, e tuttavia sempre minacciati, per tenere alta la temperatura del consenso, grazie al sempreverde espediente del capro espiatorio, applicato ora ai migranti, ora a Bruxelles e dintorni. Ma se il vessillo del governo sarà la novità, io di certo non me l’aspetto in materia di conti, dove, presumo, si farà giusto il necessario, senza grandi ambizioni di riforma della struttura della spesa pubblica o di riordino del sistema fiscale. Forse, si potrà dimostrare una certa alacrità su fronti meno divisivi per la precaria base parlamentare (ambiente, Mezzogiorno, lavoro): con spirito pragmatico, si spera, e senza chiusure ideologiche. In altri ambiti, penso alla giustizia o alle riforme costituzionali, rimanere fermi significherà non peggiorare le cose: con un certo pessimismo, dico che potrebbe essere già un buon risultato. A meno che qualcuno non pensi che la diminuzione del numero dei parlamentari sia la panacea di tutti i mali, o che i tempi dei processi si accorcino sospendendo la prescrizione. Resta la vera novità, che a mio giudizio, se il governo dovesse durare, si produrrà volens nolens: la ristrutturazione dell’offerta politica. Alla linea di partenza la prossima legislatura vedrà in campo nuove formazioni: a sinistra, a destra e pure al centro, forse per effetto di una nuova legge elettorale. Dopo un quarto di secolo e metodi di procreazione piuttosto artificiali, c’è ancora il rischio di un ennesimo aborto. Che va corso, tuttavia (a voler esser lieti, senza molte certezze del domani). Massimo Adinolfi
Il punto in fondo, se ci pensate, è tutto in quello strillo lì: ordeeeeeeer! Tra i molti elementi suggestivi ricavati dalla pazza crisi politica innescata questa estate dal senatore semplice Matteo Salvini vi è un elemento cruciale che è stato al centro della battaglia spietata portata avanti con passione dalle forze politiche alternative all’estremismo populista incarnato dal progetto nazionalista salviniano. L’ele – mento cruciale riguarda la dialettica andata in scena nelle ultime settimane in Italia tra coloro che hanno usato la sovranità del Parlamento per combattere il sovranismo populista e coloro che hanno invece tentato di utilizzare il richiamo al sovranismo populista per delegittimare le scelte del Parlamento sovrano. Lo scontro tra il leader della Lega e i suoi avversari offre infiniti spunti di riflessione e infinite chiavi di lettura ma nella polarizzazione del dibattito pubblico tra il partito di Salvini e il partito del tutto tranne Salvini, accanto al tema dell’Europa sì ed Europa no, vi è anche il tema più complesso del rispetto delle prerogative concesse al Parlamento dalla democrazia rappresentativa. Matteo Salvini e il codazzo sovranista al suo seguito hanno inveito contro il Partito democratico e contro il Movimento 5 stelle per aver tradito il popolo con un accordicchio di palazzo, come se qualcuno avesse mai votato alle elezioni l’alleanza di governo tra la Lega e il M5s, ma ciò di cui il senatore semplice Matteo Salvini non si è accorto in questi mesi in cui rivendicava per sé pieni poteri è che la trasformazione del Parlamento sovrano in un argine contro il sovranismo populista è stato un effetto generato proprio dalla propaganda sfascista portata avanti dal leader della Lega. Da questo punto di vista, la parlamentarizzazione della crisi non ha avuto solo la conseguenza di creare un muro di gomma contro il progetto salviniano, ma ha permesso in un certo senso anche di parlamentarizzare la crisi del Movimento 5 stelle. Sarà il Parlamento sovrano ma non ancora sovranista a tenere fuori dal governo gli istinti sovranisti e qualora Rousseau dovesse dare il via libera al governo della svolta, speriamo, sarà sempre il Parlamento a far entrare il Movimento 5 stelle in una stagione diversa rispetto al passato, in cui il tonno della democrazia rappresentativa finisce per prevalere sull’aprisca – tole della democrazia digitale. Per il Movimento 5 stelle parlamentarizzare la crisi significa spostare il baricentro del comando del grillismo dalle piattaforme digitali, possedute dal capo di una srl privata, alle aule non più sorde e grigie del Parlamento e questo ribaltamento di equilibri è stato in qualche modo certificato dalla scelta fatta giovedì scorso dal professor Giuseppe Conte al Quirinale, quando, una volta ricevuto da Sergio Mattarella l’incarico per formare un nuovo governo, ha scelto di non prendere in nessun modo in considerazione la possibilità che una qualche piattaforma digitale possa avere un’impor – tanza superiore rispetto alle prerogative concesse dalla Costituzione al presidente della Repubblica. L’istituzionalizzazio – ne possibile del Movimento 5 stelle (vaste programme) passa in qualche modo dalla sua parlamentarizzazione – e semmai Rousseau dovesse bocciare l’accordo del Movimento 5 stelle con il Pd è facile prevedere che il gruppo parlamentare del Movimento 5 stelle seguirà più la prassi costituzionale che quella digitale. E in una certa misura si può dire che la trasformazione del Parlamento in un argine contro l’estremismo populista non è solo un fenomeno italiano ma è sempre più un fenomeno di livello mondiale. In Gran Bretagna, in questi giorni l’allegro e scapigliato estremismo populista di Boris Johnson (ber gli amici Ben) ha scelto di trasformare il Parlamento inglese – guidato dal meraviglioso speaker della Camera dei comuni John Bercow, diventato famoso anche fuori dai confini inglese per aver urlato non si sa quante volte durante una votazione relativa alla Brexit dello scorso 15 gennaio la parola “Order!” ri – volta ad alcuni esagitati parlamentari inglesi – nel principale ostacolo a quella volontà popolare emersa due anni fa con il referendum sulla Brexit e per questa ragione giovedì scorso il primo ministro ha chiesto e ottenuto dalla Regina la sospensione delle attività parlamentari per cinque settimane, in un periodo che inizierà tra il 9 e il 12 settembre e terminerà il 14 ottobre, per evitare che il Parlamento possa approvare in quest’arco di tempo, prima della scadenza fissata il 31 ottobre per i negoziati sulla Brexit, una legge che provi a impedire il cosiddetto “no deal”. Negli Stati Uniti, per ragioni diverse ma con dinamiche non così differenti, è stato sempre il Parlamento, guidato in uno dei suoi due rami dalla democratica Nancy Pelosi, ad aver costretto Donald Trump a rivedere la sua traiettoria populista ed estremista (a luglio è stata una mozione bipartisan approvata dalla Camera dei rappresentati del Congresso a impedire al presidente americano di ordinare raid contro l’Iran senza aver ricevuto prima l’autorizza – zione del Congresso). In un modo naturalmente più estremo e ovviamente più traumatico, possiamo dire che un altro scontro molto più violento tra populismo sovranista e Parlamento sovrano è andato in scena qualche mese fa in un altro paese lontano dall’Europa, il Venezuela, dove, il 23 gennaio 2019, Juan Guaidó, presidente dell’As – semblea nazionale, per liberare il paese dalla follia madurista si è autoproclamato presidente di un governo provvisorio, appellandosi all’articolo 233 della Costituzione venezuelana, ritrovandosi a livello internazionale non sostenuto nella sua azione solo da paesi non affezionati al rispetto della democrazia parlamentare (Russia, Cina, Cuba, Bolivia, Turchia, Nicaragua, oltre che l’Italia non ancora liberata dal cappio del doppio populismo di governo). L’Italia per fortuna non è il Venezuela e non è neppure la Gran Bretagna ma se il governo rosso-giallo prenderà davvero vita il presidente Giuseppe Conte, l’Alexis Tsipras italiano, avrà una grande occasione, che è poi la stessa occasione che ha oggi ha la nuova Europa: dimostrare con i fatti che il Parlamento sovrano a trazione europeista è infinitamente più forte del populismo sovranista a trazione sfascista.
Non è chiaro come si concluderà questa crisi. Perché non è chiaro quali siano i riferimenti degli attori politici in scena. Dopo il voto del 4 marzo 2018. Che ha sancito il successo di due partiti uniti da ciò che li divide da tutti. Anche dagli alleati di governo. In qualche misura, anche al loro interno. Ciascuno impegnato a inseguire i propri elettori. Fino a ieri. Quando la Lega di Salvini ha deciso di riequilibrare i rapporti di forza in Parlamento. A suo favore. Per questo attendeva e voleva nuove elezioni. Che, tuttavia, il Presidente non ha concesso e difficilmente permetterà. Almeno, per ora. Così, Giuseppe Conte, premier uscente e re-incaricato, ha tentato una via diversa. L’intesa con il PD. Un’alleanza giallo-rossa. Che in Parlamento avrebbe numeri simili a quella precedente. Anche se, in base alle stime elettorali di agosto (da valutare sempre con prudenza…), risulterebbe più debole. Maggioranza parlamentare e minoranza elettorale. Tuttavia, viviamo in tempi liquidi. Nei quali il voto è fluido. Così, non è detto che l’esperimento non possa riuscire. Almeno, nella fase d’avvio. Domani, ovviamente, è un altro giorno. Si vedrà. Tuttavia, è quasi naturale un richiamo al passato, solo in parte sorprendente. È l’accostamento fra il M5s, oggi, e la Democrazia Cristiana, nella Prima Repubblica. Lo ha suggerito, in modo accurato, oltre che ironico, Michele Serra. Proprio ieri. Un’indicazione che può apparire provocatoria. Data la distanza fra i modelli espressi da due soggetti tanto diversi. Perfino alternativi. La DC: il “partito” per definizione. Abituato a “governare”. Ma anche ad “abitare” la società e il territorio. Come il PCI. Il suo antagonista nella Prima Repubblica. Il M5s: Non-partito, per auto-definizione. Canale del disagio democratico e della protesta Anti-politica, nell’ultimo decennio. Tuttavia, se si “contestualizzano” i due soggetti, il “paragone” (con la p minuscola) appare meno provocatorio di quanto si pensi. D’altronde, in passato avevo definito il M5s un esempio di Contro-Democrazia Cristiana. Protagonista della contro-democrazia, una definizione coniata da Pierre Rosanvallon per evocare la “democrazia della sorveglianza”. Ma, al tempo stesso, un soggetto politico che riassume alcuni caratteri dei tradizionali partiti di massa. Per primo la Democrazia Cristiana. L’interclassismo, anzitutto. Il M5s, infatti, raccoglie i maggiori consensi fra i ceti medi pubblici e privati, fra i lavoratori autonomi e gli imprenditori. In competizione con la Lega. Come la DC. A differenza della quale, però, esprime maggiore capacità di attrazione fra i giovani e (soprattutto) gli studenti. Fra i disoccupati. Suscita, invece, minore attrazione presso gli elettori anziani e le donne. E, dunque, fra le casalinghe. Orientate, anch’esse, anzitutto verso la Lega di Salvini. L’altro aspetto, fondamentale, che accosta il M5s alla DC è la trasversalità politica. Circa un quarto dei suoi elettori si definisce, infatti, di centro-sinistra o di sinistra, quasi il 30% di centro-destra o di destra. Una componente cresciuta in seguito all’alleanza di governo con la Lega. Mentre una quota più ridotta (10%) si pone al “centro”. Ma i “centristi puri”, in Italia, hanno sempre costituito una componente limitata. Oltre un terzo degli elettori del M5s, invece, rifiuta lo spazio politico sinistra-destra. E si pone al di “fuori” e in alternativa rispetto all’asse Destra/Sinistra. La base elettorale del M5s, di conseguenza, si sente contigua a partiti molto diversi. E dunque a nessuno, in particolare. Naturalmente, un anno di governo con Salvini l’ha segnata. In una certa misura, l’ha trasformata in una L5s. Lega a 5 Stelle. Un modello dal quale deve necessariamente staccarsi, per proseguire. A questo fine può ricorrere alla trasversalità della sua base e rivolgersi a Centro-sinistra, come una parte del suo elettorato. Tanto più ora, che gli elettori di Destra e di Centro Destra, in parte, hanno scelto la Lega. Tuttavia, i problemi del M5s, nel riprodurre la DC, sono diversi. E difficili da risolvere. Il primo è che il M5s continua a definirsi un non-partito. Anche se si è istituzionalizzato. Tuttavia, a differenza della DC, non ha una classe dirigente formata e selezionata sul territorio. La piattaforma Rousseau è un’altra cosa. Perché la rete può essere utile a verificare il sostegno degli elettori a una scelta. Molto meno a elaborarla, discuterla. Ma, soprattutto, ancora oggi, esclude settori molto ampi della società. I più anziani, i meno istruiti, i ceti periferici. Una parte importante di elettori. Che è giusto e utile interpretare. Per non parlare dell’identità “cristiana” alla base della DC. Irripetibile, se non in modo improprio e caricaturale, com’è avvenuto… In secondo luogo, i tempi sono cambiati. Più della politica conta l’anti-politica. Anche la Dc, peraltro, rappresentava ampi settori di elettori lontani dalla politica, diffidenti verso lo Stato e le istituzioni. Ma si incaricava di integrarli nello Stato. Ne intercettava gli interessi e i sentimenti, piuttosto che i risentimenti. Mentre il M5s è una Contro-Dc. Abile a contrastare i poteri, molto meno a esercitarli. Anche perché non dispone di leader come Andreotti, Rumor, Forlani, De Mita… E non li vuole. Anzi, rivendica il distacco da quella “storia”. Per la stessa ragione il premier, in carica e re-incaricato, Giuseppe Conte, è tanto discusso. Perché, in qualche misura, evoca quel passato. È un mediatore. Cirino Pomicino, uno che se ne intende, intervistato sull’Espresso, l’ha definito “un doroteo”. Ma, per questo, incontra ostacoli. Dentro al (non)Partito. Anzitutto da parte di chi ha guidato la stagione appena conclusa. E vorrebbe riproporre l’auto-inganno dell’anti-partito. Al governo…