Gli esercizi di trasformismo acrobatico, nel tentativo di dar vita a una nuova maggioranza, proseguono. Non è uno spettacolo edificante. Fatichiamo a pensare che il bene del Paese, cui tutti mostrano di tenere, sia legato al destino personale di un vicepremier. Al dosaggio dei posti più che alla selezione delle qualità dei membri del governo. Vanità personali e convenienze di parte sono seminascosti dal manto di un rinnovato spirito repubblicano che speriamo si traduca in realismo. La buona volontà non manca. Un governo è necessario. D’accordo. Ma in un impeto di sincerità e trasparenza sarebbe apprezzabile che qualcuno, nella nascente coalizione, facesse al pubblico un discorso di questo tipo. Sì, è urgente non aumentare l’Iva, scrivere una manovra, ma temiamo soprattutto di perdere le elezioni, anche regionali, di vedere ridotto il potere nei gruppi parlamentari e di non arrivare al 2022 per eleggere un nuovo capo dello Stato. Non ci sarebbe niente di male. Il sovranismo muscoloso da spiaggia, sconfitto per ora da sé stesso, si nutre anche dell’ipocrisia e della pavidità degli altri. In un sistema proporzionale tutto è possibile. Mai dire mai. Non vi è dunque alcun «furto di democrazia» in alleanze che appaiono innaturali. E i «ribaltoni» non sono tali solo quando a farli è l’avversario. Rimane però l’interrogativo di quanto possano essere credibili gli impegni che si sottoscrivono da parte di forze politiche (e dello stesso premier) disponibili a cambiare idea così facilmente.

N on erano credibili, come si è drammaticamente visto in un Paese che non c r esc e p iù, gli obiettivi del fallimentare «contratto per il governo del cambiamento» a proposito del quale non vi è alcuna forma di onesta autocritica. Lo saranno, al contrario, quelli dell’eventuale Conte 2? Un programma che, secondo le parole del premier incaricato, dovrebbe addirittura gettare le basi di un «nuovo umanesimo», rivoluzionare il modello produttivo, impiegare soltanto energie rinnovabili, porre il nostro Paese all’«avanguardia nella ricerca delle più sofisticate tecnologie». Per non parlare delle venti «condizioni irrinunciabili» poste dai Cinque Stelle e dei più generici buoni propositi del Pd. Manca solo una generale promessa di felicità per completare il quadro immaginifico di questa commedia estiva della politica. Un governo di legislatura dovrebbe fare agli italiani un discorso di verità, non sommergerli di promesse. Parlare non solo di obiettivi ma anche di risorse. Dove trovo i 23 miliardi per disinnescare le clausole Iva per il 2020? Come reperisco i fondi per ridurre il cuneo fiscale e, dunque, rimodulare le aliquote Irpef? Perché se la risposta implicita è quella di sperare di farlo in deficit, confidando in un occhio di riguardo dell’Unione Europea, non vi è alcun cambiamento rispetto al «governo del cambiamento» appena caduto. E ancora: posso permettermi di rafforzare il reddito di cittadinanza e addirittura portare da 80 a 120 euro il già costoso bonus dell’era Renzi? Il salario minimo non è privo di oneri, anche insostenibili, per le aziende. Quota 100 è una mina nei conti pubblici. Se non verrà tolta o si farà finta di niente, perderanno di fondatezza mesi di analisi allarmate. E in attesa delle verdi praterie dell’economia circolare–di cui ci si riempie la bocca – che si fa di sussidi, incentivi, «ambientalmente dannosi» stimati, nel rapporto di luglio del ministero dell’Ambiente, in 19,3 miliardi? Nessuno eccepisce sulla necessità che le «tasse le paghino tutti, ma proprio tutti», come afferma Conte. Ma allora come si conciliano con questo buon propositoivari condoni dell’ultima legge di Bilancio? E poi concessioni, trivelle, inceneritori, Ilva. L’Alitalia se la riprende lo Stato mentre non c’è traccia di 18 miliardi di privatizzazioni messi a bilancio dal Conte 1 (uno per cento del Prodotto interno lordo nel 2019 e 0,3 nel 2020) indispensabili per cominciarearidurre il rapporto tra debito e Pil. Ci vuole un sì o un no. Non generici riferimenti. Altrimenti oltre al pubblico si inganna sé stessi. Nel discorso che Conte ha pronunciato al Quirinale dopo aver avuto l’incarico non c’era alcun riferimento a debito, deficit, coperture. Su 908 parole. Nel documento del 28 agosto (3.531 parole), approvato dalla direzione pd, debito e deficit non sono mai citati. Così nella dichiarazione di Nicola Zingaretti successiva all’incontro con Conte. Tantomeno ne parla Luigi Di Maio nei suoi ambiziosi venti punti. In tutti i documenti e gli interventi – che sono alla base finora della svolta giallorossa – i capitoli di nuove spese sono numerosi. Le risorse arriverebbero solo da una generica lotta all’evasione fiscale. Per il resto nulla. Business as usual.

Mondo

Silvia Romano. Rapimento Romano. Silvia, due piste: in Somalia o Tanzania. Aggravante terrorismo per tre arrestati, la banda è riuscita a sconfinare.

Fatto p.17

Unione Europea. “Il 50% di donne nella Commissione per rendere più forte la Ue”. Intervista a Margrethe Vestager, 51 anni, danese, dal 2014 commissario alla Concorrenza, una delle poltrone più delicate della Commissione. “La composizione dell’esecutivo è un segnale importante che dimostrerà un cambiamento in positivo. Da un gruppo equilibrato dal punto di vista del genere mi aspetto dibattiti più ricchi di sfaccettature. Tutti gli Stati membri dovrebbero rispettare gli standard che si sono impegnati a osservare quando sono entrati nella Ue”. Repubblica p.18

Germania 1. L’avanzata dell’estrema destra al test Sassonia e Brandeburgo. Nei due Länder dell’ex Ddr AfD è in ascesa ma potrebbe restare fuori dal governo. Sul voto peserà la percezione di un Est che si sente ai margini.

Sole p.12

Germania 2. Nella Sassonia nera “Sopportiamo la crisi ma non i profughi” Nel Land al voto domani l’estrema destra dell’Afd potrebbe toccare il 25% La protesta nasce dai fondi per i migranti, dopo anni di austerità

Repubblica p.16

Germania 3. I dati mostrano che la Germania est è sempre più ricca. Ditelo all’AfD. Sul Foglio a pagina 4.

Siria. Profughi in fuga dall’assedio. Putin annuncia il cessate il fuoco

Migliaia di siriani in fuga dai combattimenti e dai raid si ammassano al confine della Turchia e cercano di sfondare i check-point dell’esercito turco. Ankara avverte che se i governativi e russi continueranno ad attaccare la provincia di Idlib «una nuova ondata di profughi» si riverserà sull’Europa perché la pressione è tale che le forze di sicurezza non sono più in grado di gestirla senza usare la forza. E infatti, nel pomeriggio di ieri, i militari turchi hanno sparato in aria al posto di frontiera di Bal al-Hawa, quando ondate di profughi sempre più disperati e minacciosi hanno cercato di passare a tutti i costi.

Stampa p.17

Siria 2. Mosca annuncia il cessate il fuoco a Idlib. Migliaia di civili in fuga dall’ultima zona in mano ai ribelli. Si prepara l’attacco finale. Repubblica p.26

Mosca. “Mosca sta con noi. La propaganda di Putin sarà smascherata”. Parla Lyubov Sobol, il volto delle proteste in Russia: “non temo l’arresto. Le sanzioni personali sono efficaci, le altre si ripercuotano sui cittadini e fanno il gioco di Putin. Ci battiamo per avere finalmente tribunali indipendenti dal potere politico e libertà di stampa. Vogliamo lo sviluppo europeo della Russia, nel rispetto dei diritti umani e della democrazia”.

Greta. La protesta di Greta contagia New York i giovani in piazza davanti all’Onu Il benvenuto su Twitter del segretario Guterres: “La tua determinazione ci incoraggia”. Cori e slogan tra i coetanei “I leader mondiali devono agire presto”. Repubblica p.19

Ambiente e politica. Tra oracoli, clima e leader narcisisti. Così si spostano le capitali del mondo. L’ultima a trasferirsi sarà Giacarta che sta lentamente affondando. Nel 2024 la città indonesiana sbarcherà nell’isola del Borneo. Il trasferimento della capitale dell’Indonesia costerà trenta miliardi. La paura per Alessandria d’Egitto: sarà sommersa entro il 2050. Carlo Pizzati sulla Stampa a pagina 12. E Giordano Stabile in coda p.12.

POLITICA

Il leader grillino alza la posta: “Il Decreto sicurezza non si tocca. O il nostro programma o il voto”. Zingaretti: “Basta ultimatum”. Conte media e la trattativa prosegue. Ma il Movimento è sempre più diviso. Borse e spread subito male dopo le parole del capo 5S. La sconfessione di Fico: “Fidiamoci del premier e andiamo avanti”.

Repubblica p.2

L’ultimatum di Di Maio: “Sì ai nostri punti o si va alle urne”. Conte oggi ricuce. Il leader M5S alza la posta e chiude sui decreti sicurezza. Il Pd: basta diktat. Ora il vertice decisivo sui programmi.

Stampa p.2

Di Maio s’arrocca e fa irritare tutti. Dal Quirinale in giù. Il capo del M5S: “O passano i nostri punti di programma o meglio le urne”. I 5Stelle si agitano, i democratici e il premier s’arrabbiano, il Colle s’infuria.

Fatto p.2

I dem prima si confrontano increduli, poi replicano con durezza: niente diktat e minacce. Zingaretti: «Basta con gli ultimatum inaccettabili o non si va da nessuna parte».

Messaggero p.2

Le prove di “discontinuità economica” smontano il bluff (al rialzo) di Di Maio. Le prime intese tra Pd e M5s sulla legge di Bilancio. Il dialogo Castelli-Misiani. Le mosse grilline sul commissario europeo. L’ipotesi Fraccaro vicepremier

Valentini sul Foglio in prima

T 2 Cinquestelle

I parlamentari grillini bocciano la retromarcia “Sei troppo egoista, pensi solo alla poltrona”

I vertici del Movimento continuano ad agitare lo spettro di una bocciatura dell’accordo su Rousseau

Patuanelli: Non ci sono ostacoli insormontabili, ma dobbiamo partire dai punti messi sul tavolo

Stampa p.2

M5S, parlamentari contro Di Maio Fico ferma la rivolta: si va avanti Una nota di sconfessione del leader da parte di un gruppo di eletti era già pronta. Poi il presidente della Camera chiama il premier incaricato. L’iniziativa si ferma: “Non spacchiamoci adesso”

Repubblica p.4

Il leader 5S nel bunker con gli ultimi fedelissimi “Non mi faccio mortificare”

Repubblica p.2

Beghin “Il commissario Ue tocca a noi. Nel gruppo con Macron? Possibile”

I nostri voti peseranno anche in futuro dopo il sostegno a von der Leyen. E per il gruppo dialoghiamo anche con En Marche

Repubblica p.4

Casaleggio non ci sta: “Chi vota su Rousseau conterà” Il blog avverte gli eletti: l’anima M5S è di chi sta “fuori dalle istituzioni” Però non smentisce le rassicurazioni di Conte e Di Maio al Quirinale

Fatto p.4

Qui Rousseau Cosa succede se la piattaforma della Casaleggio boccia l’accordo con il Pd? Il M5s può infischiarsene

Foglio in prima

T 3 La reazione di Conte

Conte gela Luigi sui due vice: «Decido io». Breccia tra i dem

`Il premier frena l’ultimo blitz di Di Maio ma non dà certezze nemmeno a Zingaretti.

Nel Pd c’è chi teme che un’umiliazione del capo M5S possa minare la maggioranza

Messaggero p.3

L’ira del premier sul capo 5S “Non doveva evocare il voto”

Ma il leader Cinquestelle non vuol sentire ragioni sul suo futuro: “Io devo essere vicepremier” Giallo sulle concessioni: minaccia la revoca ad Autostrade, nel programma parla solo di revisione

Sul decreto sicurezza il premier ha già fatto fare marcia indietro ai grillini

Di Maio voleva riprendersi la scena in attesa della resa dei conti

Stampa p.3

T 4 Pd

«Non ci possiamo fidare» Dubbi di Zingaretti, Pd diviso sulle “concessioni” ai grillini

Messaggero p.5

Zingaretti: “Sono vincolato da un impegno con il Colle Ma Di Maio non tiri la corda”

Il sospetto Dem: i grillini vogliono far saltare tutto per ottenere una scissione e andare al voto con Salvini

Il segretario stava raggiungendo Di Maio quando ha saputo dello strappo

All’interno del partito ritorna all’improvviso l’unità, con Renzi che appoggia il leader

Stampa p.4

LA PASSIONE DI ZINGA Aveva detto nessun accordo con il M5s, voleva il voto e non Conte. Ma ora tocca a lui. Ritratto del leader del Pd, di fronte al suo governo che non è suo

Carmelo Caruso sul Foglio a pagina III

Zanda “Di Maio poltronista Con la Lega non ha chiuso”

Il tesoriere dem “Rivendica i decreti sicurezza: non si riparte dai porti chiusi”

All’Italia serve una svolta ma non a qualsiasi costo Dobbiamo puntare sulla qualità della squadra di governo

Repubblica a pagina 7

Calenda e la trattativa “I grillini ci stanno prendendo a ceffoni”

L’ex ministro su Renzi “State certi, a ottobre darà vita ai suoi gruppi parlamentari”

Repubblica p.6

Programma

Trivelle, inceneritori e banche i veri temi divisivi

Nell’elenco non c’è lo stop alla patrimoniale e alle modifiche dei Dl sicurezza

Sole p.5

Autostrade: Da revoca a rinegoziazione: la parabola delle concessioni. L’intesa giallo-rosa torna ora a concentrarsi sulla revisione degli accordi. Conte: “Bisogna garantire vigilanza e investimenti”.

Fatto p.8

Pasquale Tridico Il presidente Inps voluto da Luigi Di Maio: “Funzionano, nel 2019 i poveri assoluti diminuiranno e i contratti stabili stanno crescendo”

“Reddito e dl Dignità funzionano: il governo M5S-Pd non li cancelli”

La posizione degli stranieri regolarmente soggiornanti dovrebbe essere equiparata a quella dei comunitari

La finestra per la pensione è finanziata per tre anni, sta costando meno del previsto e ci aiuta a svecchiare la P.A.

Fatto p.9

Rai

Il presidente Confindustria Boccia: «Primo obiettivo la crescita con infrastrutture e lavoro. È essenziale aumentare il potere d’acquisto dei lavoratori. Sulla riforma della giustizia, andrebbe accorciato il processo non allungata la prescrizione. Evitare di usare la Ue come alibi per non affrontare le questioni interne, la flessibilità solo per gli investimenti. È giunto il momento di riattivare l’ascensore sociale: basta cavalcare le ansie, dobbiamo alimentare speranze».

Messaggero p.7

T 5 Editoriali

Stella sul Corriere in prima

Dario di Vico sul Corriere in prima

Beppe severgnini sul corriere in prima

Verdelli sul Repubblica

Boeri su Repubblica

Folli su repubblica

Tre problemi a destra del premier

Giovanni Orsina sulla Stampa.

Le tre false credenze che la crisi ha svelato

Luca Ricolfi sul Mesaggero.

Marco Travaglio sul Fatto

Cerasa sul Foglio

Ferrara sul Foglio

E SE CI FOSSE LO ZAMPINO DI SALVINI?

Sallusti sul Giornale

L’uomo del giorno che non avremmo mai voluto vivere

Feltri su libero

1L Nuovo Baooouo _, oonsaonsaa IL PAESE A1 Tnossoao

Belpiertro sulla Verita

Vespa sul Mattino in prima

 

È morto l’uomo che dipingeva Mao (e non era Warhol)
Nessuno lo conosceva ma tutti conoscevano la sua opera Wang Guodong ogni anno rifaceva il ritratto del Grande Timoniere in Piazza Tiananmen. Un lavoro molto pericoloso
dal nostro corrispondente Filippo Santelli
Il più importante pittore di cui la Cina non ha mai sentito parlare è morto venerdì scorso a Pechino. Un artista di cui tutto il Paese ammira l’opera, l’enorme ritratto di Mao Zedong che domina Piazza Tiananmen, ma di cui quasi nessuno conosce il nome. «Non si può firmare, non si potrà mai firmare», diceva del suo capolavoro Wang Guodong, scomparso a 88 anni, spiegando di non soffrire per la mancanza di riconoscimento. Perché quell’immagine non è un ritratto di Mao, quello appeso sulla Porta della pace celeste “è” Mao. Il simbolo del Partito comunista, della Repubblica Popolare.
Wangnon non è stato né il primo né l’ultimo a dipingerlo, ma è stato colui che ha canonizzato l’icona, moltiplicata nelle case di ogni buon compagno, entrata nell’immaginario dei ribelli d’Occidente, resa pop dalle irriverenti variazioni di Andy Warhol. Tanto imperscrutabile, questa Monna Lisa comunista, che ancora oggi a realizzare l’enorme olio su tela sei metri per quattro e mezzo, che ogni anno va rimpiazzato perché rovinato degli elementi, è un allievo della “scuola” di Wang. Con minimissime variazioni sul tema.
Poco importa che a sua volta lo stesso Wang quell’immagine la copiasse da una fotografia che gli passava il governo, in un gioco infinito di riproduzioni. Basta guardare l’emozione negli occhi degli anziani che arrivano a Tiananmen, e si fanno fotografare con il quadro alle spalle, per capirne la forza. Wang era stato scelto nel 1964, quando aveva poco più di trent’anni, per l’incarico più ambito e temuto da un pittore di regime. E nonostante la fedeltà all’originale, c’è mancato poco che gli costasse la vita. Nella furia ideologica della Rivoluzione culturale, all’apice del culto della personalità, le Guardie Rosse lo accusarono di aver dipinto Mao da un’angolazione che mostrava un orecchio solo. Come se il “quattro volte grande” leader ascoltasse solo alcuni, e non le masse tutte.
Wang dovette sottoporsi a una delle famigerate sessioni di autocritica e fu spedito a rieducarsi per due anni in una falegnameria. Ma anche durante quel periodo non gli tolsero l’incarico, che lui assolse lasciando tutto più o meno uguale, dall’espressione seria al neo tra bocca e mento, ma raddrizzando il volto e aggiungendo la seconda orecchia. I Mao di Andy Warhol, dipinti nel 1972, continueranno in eterno a mostrarne una, in compenso valgono decine di milioni.
Tanta era la richiesta di enormi ritratti del leader in quegli anni, ogni funzionario locale voleva il suo, che dissero a Wang di scegliersi dieci apprendisti. Lui andò a reclutarli alla scuola d’arte di Pechino, guardando prima al rigore ideologico che al talento e spiegando loro che avrebbero passato il resto della vita a dipingere un solo soggetto, ma splendido. Li educò per tre anni ai segreti del mestiere, per esempio che il viso va esagerato di rosso, per esprimere anche con il brutto tempo la solidità dello spirito. E infine nel 1976, l’anno della morte di Mao, passò a loro il pennello. Nessuno avrebbe immaginato che solo pochi anni dopo, nella Cina del grande sviluppo, anche i ritratti del Presidente sarebbero passati di moda. Uno dopo l’altro i discepoli sono rimasti senza lavoro e oggi ne resta solo uno, il sessantaseienne Ge Xiaoguang, che in uno studiolo all’interno della Città Proibita prepara ogni anno l’unica immagine ufficiale necessaria, quella di Piazza Tiananmen.
Esposta a smog, vento e pioggia, le autorità la sostituiscono ogni anno, in una notte di fine settembre, in modo che sia al massimo splendore per la festa nazionale del primo ottobre. Questa volta è ancora più importante, visto che si celebrano i 70 anni della Repubblica popolare cinese. Piazza Tiananmen ospiterà una grande parata militare in cui la Cina metterà in mostra gli ultimi gioielli del suo arsenale.
E a dirigere la cerimonia sotto il famoso ritratto di Wang ci sarà il presidente che qualcuno ha definito un “nuovo Mao”, per il potere di cui dispone e il culto della personalità che ha costruito. Pochi giorni fa i media di regime hanno chiamato Xi Jinping lingxiu, leader. Lo stesso appellativo che veniva usato per il Grande Timoniere.
Il Pd, Calenda e il Nord assente
di Stefano Folli
Nel trambusto di questi giorni, la notizia che Carlo Calenda lasciava il Pd è stata un po’ sottovalutata come il gesto di un uomo coerente ma irrequieto, un filo narcisista, desideroso di distinguersi. Una testimonianza morale prima che un’iniziativa politica; una secessione solitaria e come tale di scarso significato. Di sicuro la fretta nel voler mettere in chiaro che lui con i Cinque Stelle non vuole avere niente da spartire — a differenza di altri — ha spinto l’ex ministro a scegliere un momento poco felice per rendere nota la sua lunga lettera di commiato a Zingaretti e Gentiloni: quando gli occhi di tutti erano fissi sui protagonisti della crisi di governo. Se avesse atteso una settimana, il suo messaggio sarebbe stato compreso meglio per quel che è: un documento che descrive lo spazio politico e le proposte essenziali con cui un Pd riformatore e visionario dovrebbe presentarsi al Paese, determinato a combattere per le sue idee.
Ci possono essere peraltro molte ragioni per cui lo stato maggiore del centrosinistra ha scelto di allearsi con i Cinque Stelle. In una democrazia parlamentare è del tutto legittimo decidere di tagliare le unghie a un avversario ingombrante e aggressivo come Salvini attraverso un cambio di maggioranza, anziché uno scontro elettorale. Tuttavia c’è un aspetto colto da coloro che a sinistra avrebbero preferito andare al voto: l’operazione trasformista ha un costo politico che potrebbe essere ingente. Nel connubio con il M5S, nemico strategico, il Pd rischia di vedere sbiadita la sua immagine e di perdere ancora di più il contatto con l’opinione pubblica. In una parola, di smarrire l’anima, se ancora ne possiede una. Anziché rinnovare il suo patrimonio ideale e farne la base della riscossa, il Pd cerca di salvarsi garantendo il ceto politico a Roma e in periferia, nella speranza di poter piegare in modo stabile le truppe sparse dell’anti-sistema, così da usarle per puntellare un disegno di sopravvivenza. Non è un caso che questa critica venga da persone lontane tra loro, come Macaluso, Arturo Parisi, Cacciari, Bertinotti: punti di vista diversi e certo minoritari su cosa dovrà essere il centrosinistra del futuro, ma convergenti nell’indicare il pericolo di un tatticismo privo di orizzonti che non siano il potere immediato. Bisogna riconoscere a Calenda il coraggio, o forse la temerarietà, di voler dare una risposta politica a tali inquietudini, partendo dal dato che non si può avere paura delle elezioni, nemmeno quando ci si sente deboli, se ciò significa cedere le armi in anticipo. Può darsi che sia sbagliato abbandonare un partito che comunque oggi è intorno al 20 per cento, forse più, in nome di un principio. Soprattutto se non si ha una prospettiva alternativa e magari nemmeno la capacità di costruirne una in chiave liberal-democratica. Ma di sicuro è penoso sentire accuse come “disertore”, “traditore”, “confindustriale”. Quando non si può negare che il vizio d’origine, nella maggioranza del Conte-bis, è la mancanza del Nord produttivo. Il punto d’equilibrio è tra Centro e Mezzogiorno, ma dov’è il Settentrione, quella fascia di regioni tutte governate da giunte leghista? Assente. Calenda, eletto nel Nord-est al Parlamento europeo, sembra rendersi conto di questa lacuna su cui può inciampare non un debole governo, ma la stessa coesione nazionale.
L’allarme per il lavoro
di Marco Patucchi
Come se niente fosse. Il ministro e vicepremier (al momento solo uscente) Luigi Di Maio, ieri ha fatto trascorrere i soliti, pochissimi minuti dalla pubblicazione dei dati Inps sul lavoro, per postare sui social una sua foto mentre sorridente stringe mani di operai: «Questo è il frutto del Decreto dignità che io stesso ho voluto». Come se niente fosse. Come in un’infinita campagna elettorale. Un mondo parallelo alla realtà. Perché se è vero che nel primo semestre dell’anno i contratti stabili sono aumentati, tra trasformazioni e attivazioni, del 150,7% rispetto al 2018, ci sono altri numeri che dovrebbero suscitare un minimo di autocritica nel leader dei Cinque Stelle.
A luglio, per dire, il numero di ore di cassa integrazione autorizzate è cresciuto del 33,5% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso, con quella straordinaria che ha segnato un +50,2% e quella in deroga un +317,5%.
E dietro a questi numeri ci sono le centinaia di crisi industriali del Paese che il ministero dello Sviluppo Economico nell’ultimo anno non è riuscito ad avviare verso la soluzione. Così come nell’aumento statistico degli occupati, si nasconde il crollo delle ore lavorate, milioni di unità al di sotto dei livelli pre-crisi, il che significa il proliferare dei mini-jobs, della bassa qualificazione, del part-time involontario. Mercoledì prossimo al ministero del Lavoro è convocato un tavolo per decidere sulla cassa integrazione chiesta dalla Fca a Pomigliano. Di Maio, ministro uscente, ovviamente non ci sarà, come d’altro canto non si è quasi mai visto a tutti gli altri tavoli sulle crisi industriali. Non arriveranno risposte, dunque, sul futuro di operai che non sono soltanto numeri. E non sono numeri neanche le famiglie dei lavoratori della ex Alcoa, nel Sulcis, che da domani perderanno l’ammortizzatore sociale perché il relativo decreto Di Maio lo ha scritto, in extremis, solo alla vigilia della crisi di governo. Dopo un anno di nulla. Un vuoto che, si spera, il nuovo governo saprà colmare.
Sulla pelle dei bambini
Si ripete il copione dell’era Salvini: donne, piccoli e malati trasbordati dalla Mare Jonio nella notte tra onde di due metri. Per gli altri continua l’attesa.
A BORDO DELLA MARE JONIO — Di questa stagione, nel Mediterraneo, capita spesso che qualche pesce rondine prenda male una raffica di vento e finisca per errore dentro le barche che incrociano la rotta del suo banco. Ed è stato proprio così, che mercoledì sera, Patrick, cinque anni, ha realizzato il secondo dei due sogni con cui era partito dal Gambia: vedere per la prima volta un pesce, un pesce vero. Non ne aveva mai visto uno in vita sua. Per il primo sogno, arrivare in Europa, ha dovuto invece aspettare altre 24 ore, fino a ieri notte, al trasbordo drammatico di donne e bambini disposto da Salvini ed eseguito in condizioni inutilmente estreme.
Sono due giorni che la storia di Patrick e del pesce rondine tiene banco, sulla Mare Jonio, creando per altro non poco sconquasso. Appena arrivato a bordo, ancora prima di togliersi la maglietta del Real Madrid inzuppata di benzina e pipì, il bimbo aveva già dichiarato ai soccorritori la sua intenzione di vedere un pesce. «Le poisson, le poisson », continuava a ripetere. Indicando l’acqua. E per farsi capire meglio aveva gettato in mare una cima che aveva trovato sul ponte, tenendola in mano come fosse una lenza. C’è voluto un po’ per spiegargli che le cose non erano così semplici.
Ma l’ostinazione dei cinque anni è notoriamente ferrea, e nel giro di poche ore Patrick aveva coinvolto tutti gli altri bambini, ventidue in tutto, nel suo progetto di pesca, costringendo l’equipaggio della Mare Jonio a inventarsi qualcosa. L’idea vincente l’ha avuta Fabrizio Gatti, uno dei soccorritori: ha preso un cartoncino rosso e ha cominciato a ritagliare tante sagome di balena. Poi le ha nascoste in giro per la nave. Ne è venuta fuori una surreale caccia o, meglio, pesca al tesoro, con i pesci rossi nascosti tra le coperte termiche, quelle d’oro e d’argento, o tra le scatole dei sali minerali, e con i ragazzini a scorrazzare rumorosi nel container di poppa, quello adibito ad infermeria.
La cosa buffa era il contegno degli altri naufraghi. Alcuni non riuscivano a non sorridere. Altri erano letteralmente infastiditi. Il più contrariato di tutti era quello che sin dal primo istante è apparso come uno dei leader del gruppo, un camerunense di 46 anni, molto rispettato da tutti gli altri, e ribattezzato non a caso, “le grand chef”. Scacciava quei ragazzini con le mani, come fossero mosche, tutto concentrato a sopportare il suo dolore. E ne aveva ben donde, hanno poi scoperto i medici di bordo. In Libia era stato tenuto per giorni in una gabbia con alcuni molossi della cui ferocia porta ancora oggi segni inconfondibili sulla schiena, sulle natiche, sulle gambe.
Alla fine, però, è stato costretto a sorridere anche lui. Perché la caccia al tesoro l’ha vinta Ibrahim: un bambino ivoriano di quattro anni a cui mancano due dita della mano sinistra: le ha perse in un conflitto a fuoco nel villaggio dal quale, dopo aver visto morire suo papà, è scappato insieme alla mamma.
Storia simile a quella di tutti gli altri bambini a bordo: già, perché — si è scoperto solo dopo parecchie ore — l’imbarcazione salvata martedì mattina non era solo il “gommone dei bambini”, come lo hanno chiamato i giornali. Era anche il “gommone degli orfani”. Nessuno ha il papà. Per i più disparati motivi: alcuni sono figli della violenza sessuale subita dalla mamma, altri di matrimoni forzati, altri ancora semplicemente orfani di qualche guerra, come appunto Ibrahim.
L’effetto della “pesca al tesoro” sul piccolo asilo è scemato subito. Poi Patrick e gli altri hanno ricominciato con la storia del pesce vero. Che miracolosamente è planato a bordo, da solo, poco prima del tramonto. Come un regalo. Patrick in quel momento stava con Ibrahim sul ponte a guardare il fondo del mare all’improvviso si è ritrovato su un piede questo strano animale alato. Il piccolo ha cominciato a saltare e a urlare, prima di paura e poi di gioia. E infine — convinto dalla mamma — l’ha ributtato in mare.
Patrick era rimasto d’accordo con Gatti che l’indomani avrebbero organizzato un’altra “pesca al tesoro”. E però non è stato possibile. Arrivati a 13 miglia da Lampedusa, il mare si è ingrossato improvvisamente e dal cielo ha cominciato a scendere una pioggia sottile e cattiva. La Capitaneria di Porto, sentiti i referenti politici ha rifiutato alla Mare Jonio il permesso non solo di entrare in acque nazionali, come da decreto Salvini (Toninelli e Trenta) ma anche semplicemente di ripararsi sottovento. Una misura inspiegabile, ai limiti del sadismo. I bambini hanno così iniziato a piangere tutti insieme, e a vomitare. Lo stesso le loro mamme, squassate non solo dalla nausea e dalla stanchezza, dopo tre giorni su un gommone, ma anche dalla preoccupazione per i loro bambini a cui il destino ha deciso di non dare tregua.
E non ha dato loro tregua fino alla fine, visto che anche il trasbordo — promesso alle 11 del mattino ed eseguito alle 21 — è stato per forza di cose eseguito in alto mare, in condizioni di totale insicurezza, con un esercito di bambini, donne incinte e vecchi malati (64 persone in tutto) costretti a dover saltare, al buio, da un rimorchiatore sul tubolare di un gommone sbalzato da onde alte due metri, il tutto sotto gli occhi impietriti dei marinai della Guardia Costiera.

Possiamo considerarlo un particolare irrilevante, e d’altra parte, da decenni ci si chiede se nel dettaglio si nasconda il Diavolo oppure Dio. Tuttavia non è forse senza significato che, tre giorni fa, il giornale radio della Rai abbia definito “esultante” — eccolo il diavoletto nel dettaglio — il ministro Matteo Salvini. Tanto entusiasmo nella settimana più rovinosa della sua vita politica si dovrebbe alla circostanza che due ministri indicati dal M5Stelle (Toninelli e Trenta) avessero firmato il decreto voluto da Salvini, per vietare l’ingresso nelle acque territoriali italiane alla nave Mare Jonio, della piattaforma Mediterranea Saving Humans.

E questo proprio mentre si stava stringendo l’accordo tra quel partito, il M5Stelle, e il Pd per dare vita ad un nuovo governo, e mentre Luigi Di Maio rilasciava una dichiarazione piuttosto inquietante: «Non rinnego il lavoro fatto insieme alla Lega in questi 14 mesi». Una frase, quest’ultima, che non induce certo a consegnare all’oblio degli archivi e della nostra periclitante memoria la brillante definizione delle ong data dallo stesso Di Maio: taxi del mare.
La questione non è meramente linguistica, anche se mai come in questo caso, “sono le parole che costruiscono il mondo”: la verità è che una parte significativa del gruppo dirigente, dei quadri e dell’elettorato Cinque Stelle condivide la politica per l’immigrazione della Lega (magari utilizzando un vocabolario meno truce), e altri, quella di Alessandro Di Battista, che si affida a una pasticciata miscela di sovranismo terzomondialista ed etnicismo regressivo, il cui esito finale è comunque lo slogan “aiutiamoli a casa loro”. Rispetto a tutto ciò possiamo immaginare quanto arduo possa essere l’intento di segnare quella profonda discontinuità così “sacrosantemente” richiesta dal segretario del Pd. È un’impresa che, oltre a essere faticosissima, esige già da subito segnali inequivocabili. E i tempi dei grandi processi economico-sociali, come l’immigrazione, sono assai più rapidi e incalzanti di quelli richiesti dalle mosse (felpate fino a essere flosce) necessarie per la costituzione del nuovo esecutivo. Anche perché la sofferenza umana arriva a bussare alla nostra porta con tutta l’urgenza dei corpi stremati e torturati: a bordo della Mare Jonio si trova un uomo di nazionalità camerunense che presenta «sette medicazioni per ferite infette alle estremità ed alle natiche (segni di torture ed ustioni chimiche)», secondo il medico di bordo, la dottoressa Donatella Albini.
Sono molte le persone che recano sulle proprie membra le tracce di trattamenti inumani e degradanti, così come, tra le 26 donne, 8 sono in stato di gravidanza e numerose quelle che hanno subito violenza sessuale.
Finora il provvedimento promesso dai ministri dimissionari è quello di consentire lo sbarco delle donne, dei 22 bambini, dei 6 minori e dei malati, ma, certo, questo non può essere sufficiente a segnalare un radicale cambiamento di rotta rispetto alla precedente politica. Non va dimenticato, tra l’altro, che nelle circostanze più recenti, l’Europa è stata meno inerte di quanto si creda (nonostante Salvini e, spesso, contro Salvini). La “redistribuzione” dei profughi è stata in qualche modo garantita, seppure in misura assai ridotta, e numerosi Paesi hanno accolto gruppi di migranti sbarcati sulle nostre coste o su quelle maltesi da imbarcazioni mercantili, dalle navi delle ong, da quelle della guardia costiera italiana. E, tuttavia, ciò ha rappresentato, è il caso di dire, una goccia nel mare. Nonostante le menzogne del governo giallo-verde, nel corso del 2019, secondo le stime dell’Unhcr, i morti e i dispersi nel Mar Mediterraneo sono stati 894; e, dopo le più recenti testimonianze, la sola idea di restituire i profughi alla Libia e ai suoi centri di detenzione grida vendetta davanti a Dio e agli uomini.
Serve una svolta vera. A partire da una intelligente politica per l’immigrazione che — come ha scritto ieri il Presidente Emerito della Consulta, Valerio Onida, sul Corriere della Sera — consenta di «aprire subito e in misura adeguata alle nostre possibilità vie di ingresso legali in Italia e quindi in Europa». Dunque, una rottura col passato, e non solo con quello rappresentato dagli ultimi 14 mesi di governo giallo-verde. Su questo — come sull’ambiente, sull’economia e sulla giustizia — verrà valutata la scelta di governo del Pd. Quella svolta, lo sappiamo, incontrerà reazioni e resistenze, ma è qui che si gioca buona parte dell’onore del Pd. Ed è questo che potrà dare, infine, nuove energie e motivazioni a chi, nonostante frustrazioni e depressioni, si voglia ancora di sinistra.

Addio radical chic. Siete da Ultima spiaggia. Capalbio vuol riprendersi radici e iniziative. Basta immagine del buen retiro della sinistra. Non c’è più l’esibizione dei salotti amici dei dem Spazio ai party dei ricchi. Alle ultime «Europee» la Lega ha superato il 50 % ma il sindaco è «civico». Giovanna Nuvoletti, fotografa e scrittrice, moglie di Claudio Petruccioli. «Ormai come intellettuali, ci accontentiamo di frequentare persone che non inseguono i neri». Capalbio è il comune toscano più a sud. Il nome deriverebbe da Caput Album in riferimento agli alabastri tipici. E’ conosciuta anche come piccola Atene. Celebre lo scopone all’ombra dell’ultimo sole che il procuratore antimafia Piero Luigi Vigna usava per allenare il cervello anche ai tempi in cui indagava sul mostro di Firenze. L’obiettivo del nuovo sindaco, l’ex Pd Settimio Bianciardi, è affrancare il paese dallo strapotere romano, rilanciare il turismo e il lavoro.

RADICAL CHI? A Capalbio la “c” finale dello chic radical è caduta, forse per sempre, insieme all’impero dell’intellighenzia, ormai al tramonto. Ora lo chic è diventato scicchissimo, al modo di Capri, Porto Cervo e Saint Tropez. O quasi. Quasi perché qui, nella Maremma sauvage, il gap c’è e resterà incolmabile: mancano il porto, un lungomare, le grandi firme nei negozi con i vetri lustri e anche il mare. Come il mare? Niente ostriche e aragoste a tavola, per intendersi, ma cinghiale, salsicce e misticanza. Dello scenario fa un affresco esatto nel suo libro di qualche anno fa (L’era del cinghiale rosso) Giovanna Nuvoletti, fotografa e scrittrice, ribelle figlia di Giovanni il “conte”, maestro d’eleganza di Gianni Agnelli del quale sposò, in seconde nozze, la sorella Clara. In due parole, Capalbio è la campagna dei supervip: il mare è un accessorio, anche bellissimo, ma poco comodo da raggiungere in macchina, off limits per barche o peggio yacht. Lei, Giovanna, sposata a Claudio Petruccioli, l’ex colonnello comunista, a lungo alla guida dell’ammiraglia Rai, con lui ha scoperto questo posto nei primi anni Ottanta: «Ci fermammo qui, era bello e le case costavano poco proprio perché non c’era il mare». Poi anche lei è diventata capalbiote doc, come ama raccontare, una dei quattromila e spiccioli residenti. Clientela noblesse da una parte, dall’altra gli intellettuali: Giovanna Nuvoletti ha sempre tenuto a marcare la distanza, a costo di rovesciare una zuppiera di spaghetti in testa a chi, improvvidamente o per lusinga, durante una cena la chiamò contessa Agnelli. ERANO gli anni Ottanta ruggenti di Philippe Daverio, dei baci focosi sulla spiaggia di Achille Occhetto e Aureliana Alberici, delle battaglie con le bucce di cocomero tra Giacomo Marramao e gli amici filosofi che scodellavano in tavola panzanella e sorti del mondo. Altri tempi. In ordine sparso c’erano Alberto Asor Rosa, il primo ad aizzare la rivolta contro l’autostrada Tirrenica, poi Rasy,Missiroli, Castellina, Maffettone, Bassanini, Colombo, Rutelli, Napolitano, Martelli, e via così. Oggi quel sinistrismo eccentrico un po’ di maniera ma anche vivace e contaminante è praticamente estinto. La mutazione genetica della ribattezzata piccola Atene dell’italica gauche è quasi completa e visibile a chi non ha occhi bendati. I pochi resistenti, rappresentanti del mondo e del modo che fu, si sono ritirati a vita privata, nella “riserva indiana” delle loro belle case nel verde, piene di libri e caftani bianchi. E di ricordi. «Ormai noi della prima ora siamo diventati tutti anziani, ci incontriamo nelle nostre case normali e, come intellettuali, ci accontentiamo di frequentare persone che non scrivano scuola con la ‘q’ e non inseguano i neri lungo la battigia per picchiarli», dice, a testimonianza del passaggio d’epoca, Nuvoletti. Ma chi sono i conquistatori che plasmano la nuova Capalbio? I ricchi, anzi ricchissimi. I nobili, anzi nobilissimi. «Nobiltà papalina nera, manager, banchieri, finanzieri, ma anche artisti, attori e pierre», dice il visconte Guglielmotti. Insomma, il bel mondo romano, milanese, fiorentino. L’approdo degli eredi dei padri fondatori che avevano scoperto e amato quella Maremma selvaggia senza però viverla con la mondanità di adesso e senza colonizzarla di amici, figli, conoscenti e generici prossimi che almeno valgano l’invito a una festa da mille e una notte. Era tutta un’altra cosa. E se vent’anni fa i re dei paparazzi si appostavano all’Ultima spiaggia, lo stabilimento vip del Chiarone, per fotografare i tomi sotto l’ombrellone del big della politica di turno, oggi al country club “La Macchia”, a Macchiatonda, il mare di Capalbio, nei fine settimana gli ospiti arrivano in limousine, il minimo per chi può versare una quota d’accesso da 10mila euro alla società Terre di Sacra che qui è praticamente proprietaria di tutto dal 1922, quando un gruppo di amici (tra i quali gli imprenditori più illuminati del tempo, Ambrogio Puri, Pietro Pirelli, Uberto Resta Pallavicino), con lo scopo di «Redimere la terra per produrre nuove risorse», rilevò la proprietà che si estendeva dal castello di Capalbio al mare. E di quel territorio, all’epoca inospitale e paludoso, ne fece prima una miniera agricola e di lavoro e poi un paradiso naturalistico. E’ nata qui la prima oasi italiana del Wwf, al lago di Burano che contende a Massaciuccoli il cuore di Giacomo Puccini. LA SOCIETÀanonima Capalbio redenta agricola (Sacra) fu il principio. Poi venne l’editore e principe Carlo Caracciolo a inventarsi la prima mutazione di Capalbio negli anni Sessanta con la successiva geniale intuizione – e un mecenatismo d’altri tempi – di consacrare all’arte di Niki de Saint Phalle una fetta delle sue proprietà terriere trasformandole nel Giardino dei Tarocchi, un parco artistico esoterico che domina la collina di Garavicchio. Era stata la sorella Marella Agnelli a conoscere l’artista in montagna, a Saint Moritz, e a raccomandarla a Carlo. Ora tra i nuovi proprietari di casali ristrutturati ispirandosi a un lusso garbato, oltre alle seconde e terze generazioni di Caracciolo, Borghese, Odescalchi, Pietromarchi, de Saint-Just, Puri Negri, Ruffo di Calabria, ci sono il supermanager Carlo Clavarino, l’imprenditore del lusso Lorenzo Bassetti, i banchieri Fabio Gallia e Ignazio Carrassi del Villar, l’architetto Guelfo di Carpegna, la presentatrice televisiva Barbara D’Urso, il figlio della diva Audrey Hepburn Luca Dotti, il conte Gelasio Gaetani Dell’Aquila D’Aragona Lovatelli. La lista non si esaurisce qui. Come alla Macchia, tra i soci fondatori del club ci sono i nomi di Isabella Borromeo Brachetti Peretti, Jacaranda Caracciolo Falck, Matteo Marzotto, Paolo Scaroni, Alberica Brivio Sforza, Patrizia Memmo Ruspoli per non far l’elenco troppo lungo. E, insomma, sono ormai da archiviare le gag del film Come un gatto in tangenziale da sovrapporre ai fotogrammi della Grande bellezza, una trasformazione nei modi e nei costumi. «Il tessuto culturale è completamente cambiato, non c’è più il Pd, alle Europee la Lega ha incassato oltre il 50% e i capalbiesi hanno scelto di farsi guidare da una lista civica», dice Guglielmotti. L’obiettivo, quasi rivoluzionario, del nuovo sindaco, l’ex Pd Settimio Bianciardi, affrancare il paese dallo strapotere romano, rilanciare il turismo e il lavoro. «Gli abitanti negli anni hanno votato di tutto, dal Pci alla Dc, liste civiche varie di centrodestra, Pd e adesso sono tutti leghisti», dice Nuvoletti. EPPURE le notti magiche fanno scalpore. «Ogni fine settimana ci sono due o tre feste da quattrocento persone dove scorrono fiumi di champagne», racconta il visconte. «La gente normale? A Capalbio viene, poi scappa» aggiunge. «Scusi dove devo andare per il lungomare?», da un’auto che accosta a Capalbio scalo spunta la testa bionda di una ragazza milanese frastornata dalla disgraziata notizia ricevuta, che un lungomare qui non c’è. La scena si ripete con regolarità svizzera. Ma tra chi arriva e poi riparte a razzo, c’è anche chi s’innamora e Capalbio non la lascia più. Per via di quella natura ribelle che si annoda all’anima. Si vedono segnali di vita nuova: l’edicola si è trasformata in bar e ristoro dove a colazione s’incontrano il segretario Pd Nicola Zingaretti e Carlo Calenda. Perché a Capalbio è vero quel che è vero, cioè tutto e il suo contrario.

 

Il visconte playboy: ‘Qui non ci sono più Pd e status symbol’ «Io, le belle donne e i formaggi».

Visconte Guglielmotti, dicono di lei che è il playboy della Maremma… «Assolutamente no! Sono solamente chiacchiere nate dal fatto che mi accompagno spesso a donne molto belle e sono ancora scapolo…». Lei è anche un imprenditore: produce formaggi, un’azienda d’eccellenza che porta avanti anche una lunga tradizione familiare. «Per anni ho odiato la mia azienda, colpevole di trattenermi troppo a lungo in questo territorio. Oggi invece sono felicissimo di essere alla guida della più antica industria casearia del Lazio (a Montalto di Castro, ndr) appartenente alla stessa famiglia e sono pronto a affrontare le sfide del mercato internazionale». Lei però è un giramondo. In Maremma ha cominciato a fermarsi da un paio d’anni. Prima per lei la vita estiva era solamente Costa Azzurra, Saint Tropez, Capri, Sardegna. Cos’è cambiato per farla decidere a restare qui? «In Maremma, ma soprattutto a Capalbio, è cambiata la gente. Sono cambiati i frequentatori. Oggi sono persone allegre, raffinate, interessanti, colte e internazionali di ogni fascia d’età, che amano divertirsi aprendo le proprie bellissime case per feste spumeggianti che terminano regolarmente all’alba». Perché dice che il Pd non esiste più e sostiene che i radical chic siano ormai estinti? «Il Pd e tutta la sua nomenklatura che ha contribuito negli anni passati a creare Capalbio sono completamente spariti o, meglio, non se ne avverte più la presenza. Potremmo dire che i radical chic hanno lasciato il posto a persone molto chic ma non più radical…». Qual è la cifra della nuova Capalbio? «La bellezza del suo territorio arricchita da una vita sociale molto intensa, molto glamour ma molto discreta». So che non si chiede, ma è vero che lei è il toy boy di Barbara D’Urso? «Assolutamente falso! Barbara è una mia carissima amica e poi, soprattutto, sono troppo vecchio per lei!».

La madre di Luigi preside a Pomigliano: «Ho avuto il trasferimento come tanti. Qualsiasi cosa farà mio figlio agli occhi del mio cuore sarà sempre lo stesso».

«Tanti docenti hanno dei trasferimenti per riavvicinarsi a casa, ma non vedo perché ilmio nuovo incarico dovrebbe far notizia». Paolina Esposito, madre di Luigi Di Maio, torna a lavorare a due passi da casa, nella sua Pomigliano, ma non le fa di certo piacere che ogni aspetto che riguardi la sua vita privata finisca sui giornali. Mamma-DiMaio,docente e fino ad oggi preside all’istituto comprensivo San Giovanni Bosco di Volla, ha finalmente raggiunto il traguardo di ritornare al paese che ha dato i natali all’ormai ex vicepremier. Per l’insegnante c’è stata pochi giorni fa la notizia che potrà presiedere il Liceo Scientifico e delle Scienze Umane “Salvatore Cantone” di Pomigliano d’Arco. Un ritorno acasa dopo quattro anni, fino al 2015 era stata infatti vicepreside nel Liceo Scientifico Imbriani, sempre aPomigliano. LO SFOGO Ieri la signora Esposito è stata per il suo ultimo giorno nell’istituto di Volla, al lavoro come sempre, ma anche per salutare gli ormai ex colleghi. Stimata da tutti nelle scuole in cui ha lavorato, Paolina ha sempre mantenuto un basso profilo, poche interviste e rarissime apparizioni in tv. Raggiunta al telefono, racconta la sua difficoltà a parlare con i giornalisti. Non nasconde di avercela un po’ con chi ha ripreso su alcuni siti web la notizia del suo trasferimento a Pomigliano come se chissà quali favoritismi si celasserodietroquesto rientro inpaese. «Non vedo cosa ci sia di strano – spiega – si tratta di normalimeccanismi». Non lo dice esplicitamente,ma fa intendere che tutti gli articoli sulle “questioni di famiglia” dei Di Maio, dai lavoratori in nero nella ditta del marito alle ricostruzioni scandalistiche sugli abusi edilizi nelle proprietà di Mariglianella, hanno lasciato ferite nel cuore. Come pure il rincorrere ossessivo da parte dei media a quella sua partecipazione negli organigrammidella società edilediAntonioDi Maio, in cui lei figurava a capo della ditta individuale, ha lasciato squarci nell’anima. «Ci hanno massacrato» – dice.Ma non c’è rabbia o spirito di vendetta nelle sue parole, solo stanchezza nel vedere come anche il suo lavoro finisca troppospesso sotto i riflettori. LA CARRIERA Del trasferimento preferisce non parlarne, del resto il curriculum parla per lei, un profilo di tutto rispetto. Una carriera iniziata con tanto impegno nello studio e il raggiungimento di una laurea con lode in Lettere Classiche. Chissà che il figlioletto non abbia appreso da lei la predisposizione ad interessarsi alla cosa pubblica, Paolina discusse nel 1978 la sua tesi in Letteratura Greca su “Storia e Società nel mondo poetico e culturale di Solone”. Dalla «Democrazia assoluta» teorizzata dal giurista dell’Antica Grecia alla «Democrazia diretta» oggi propagandata da Luigi che ancora tiene in bilico la formazione del nuovo governo vincolandola al voto sulla piattaforma Rousseau. Poi nel 1982 il traguardo del Diploma di Specializzazione presso l’Ansi con il punteggiodi 30 e lode.Unacarriera lunga con tanti anni di insegnamento trascorsi in giro per la Campania: da Teano a Vico Equense, da Casalnuovo a Somma Vesuviana. Poi lo sbocco finale come preside, incarico svolto per il primo anno, nel 2016, a Pagani, in provincia di Salerno. CUORE DI MAMMA La preside declina però la proposta di un’intervista,magari per raccontare cosa prova un «cuore di mamma» nel vedere il figlio 33enne in una delle prove più complesse da quando è entrato in politica. Preferisce restare in disparte e osservare da lontano le prossime mosse di Luigi. Non le piacciono i riflettori a cui non è abituata. Poi, anche per non tirarla per le lunghe, la signora Di Maio spiega di essere impegnata in una riunione a scuola e di dover attaccare,ma lo fa con una gentilezza d’altri tempi. «Qualsiasi cosa farà mio figlio – chiude – agli occhi delmio cuore di mammasarà lo stesso».