Come chiudere il capitolo dei porti chiusi Tornare a Bruxelles e negoziare la riforma di Dublino. Appunti per il Conte bis

La nave Mare Jonio, nonostante onde alte due metri, è ferma ai limiti delle acque territoriali italiane, che non può superare per la decisione dei ministri del governo dimissionario di vietare l’ingresso nei porti italiani. La politica dei “porti chiusi” voluta da Matteo Salvini dimostra di nuovo il suo carattere disumano e deve essere superata, ma per farlo, oltre a un orientamento politico diverso, serve anche un nuovo rapporto con l’Ue. Le acque territoriali italiane sono anche i confini marittimi dell’Europa e per questo serve che siano gestiti insieme a tutti gli stati membri, soprattutto in tema di accoglienza dei migranti. Il secondo governo di Giuseppe Conte sembra orientato a superare i toni tribunizi e aggressivi nei confronti dell’Euro – pa, che erano dettati soprattutto (ma non solo) da Salvini. Un terreno decisivo di questa nuova strategia è la questione migratoria, che però il premier incaricato, nella sua dichiarazione alla stampa dopo l’accettazione con riserva dell’incarico, ha eluso. Per chiudere il capitolo dei “porti chiusi”, senza dare l’impressione di un ravvedimento senza contropartite, serve un’impostazione che richiami gli altri paesi europei alle proprie responsabilità. Il tutto in un quadro di ricerca della collaborazione e non della provocazione, che finora non ha portato alcun risultato concreto. Nell’immediato, come ha chiesto ieri anche il deputato del Pd Matteo Orfini, servirebbe un intervento di Conte per assicurare che i migranti a bordo di Mare Jonio siano fatti sbarcare. Non solo perché si tratterebbe di un gesto di vera umanità (non quella prima evocata e poi calpestata con ipocrisia dal ministro della Difesa Elisabetta Trenta) ma anche perché così impongono le convenzioni internazionali siglate dall’Italia. Bisogna ricordare però che fino alla costituzione di un nuovo governo, Conte agisce in regime di gestione degli affari correnti, il che non gli consente di modificare i decreti sicurezza già approvati. Allora, al nuovo esecutivo rossogiallo non resta che tornare a sedersi attorno ai tavoli di Bruxelles per esigere quello che ci spetta: la riforma del regolamento di Dublino, per condividere equamente gli oneri dell’accoglienza tra tutti gli stati membri.

La premessa, doverosa, prova a stemperare subito la curiosità. “I cittadini ci chiedono di risolvere problemi concreti. Per questo parliamo di temi, non di poltrone”. E sia. Ma siccome a risolvere i problemi saranno persone, uomini e donne, che su una poltrona dovranno pur sedersi, il ruolo di Luigi Di Maio, nel governo che verrà, risulta evidentemente ineludibile. E allora Stefano Patuanelli, nell’ufficio che momentaneamente lo ospita a Montecitorio in questi giorni di trattative, si toglie per un attimo gli occhiali e strizza gli occhi. “Luigi ha già rinunciato due volte al ruolo di presidente del Consiglio. Lo ha fatto nel maggio del 2018, quando il suo passo indietro portò alla nomina di Giuseppe Conte; e lo ha fatto anche nei giorni scorsi, quando l’offerta di diventare premier è arrivata dalla Lega”. Veniamo all’oggi. “Oggi è chiaro che c’è un tema politico”, ammette, dismettendo finalmente la prudenza di maniera, il capogruppo del M5s al Senato, da tutti considerato un papabile ministro nel nascituro governo giallorosso. “Luigi è il capo di questo movimento, e non è pensabile che ci sia una contrattazione sul ruolo che il leader del partito di maggioranza relativa dovrà avere nel prossimo governo. Del resto nessuno di noi si è mai neppure sognato di porre veti sull’ingresso nell’esecutivo di Nicola Zingaretti”. La cui vice, Paola De Micheli, ribadisce che però già Conte è espressione del M5s: come a dire, insomma, che basterà lui a difendere i vostri interessi ai tavoli ristretti con un eventuale vice del Pd. “La tutela degli interessi del M5s al governo è in capo al leader del nostro movimento”. Questione di tenuta dell’esecutivo? “Se il Pd vuole, come dice, un governo solido, dovrebbe sapere che la presenza in un ruolo di prestigio di Di Maio è evidentemente una garanzia di stabilità”.

Al che Patuanelli s’interrompe: “Ma non dovevamo parlare di temi?”. Parliamo di economia. “Scongiurare l’innalzamento dell’Iva è prioritario. Così come ridurre il cuneo fiscale. Su questo non credo che col Pd possano esserci problemi”. E sulle infrastrutture? “Neppure”, risponde Patuanelli, col tono di chi sa che quello potrebbe essere l’argomen – to di cui dovrà occuparsi nei prossimi mesi, se sono vere le indiscrezioni che lo vogliono come indiscutibile sostituto di Toninelli al Mit. “Il M5s è determinato a realizzare le infrastrutture di cui questo paese ha bisogno senza inchinarsi al concetto astratto della grande opera. La manutenzione e il potenziamento delle infrastrutture già esistenti, ad esempio, credo siano la prima grande opera di cui necessita l’Italia. Graziano Delrio ha aperto alla possibilità di ridiscutere le concessioni autostradali: mi fa piacere. D’altronde in questi giorni ho potuto lavorare fianco a fianco col capogruppo del Pd alla Camera, e penso che su molti temi si potrà trovare insieme un punto di equilibrio”. Ma Delrio sarebbe forse un po’ meno d’accordo sui vostri risoluti No a trivelle e inceneritori. “No, su questi temi le divergenze non ci sarebbero affatto con Delrio, ma semmai con altre parti del Pd”. Allusione ai renziani, che però sono magna pars dei gruppi parlamentari, specie al Senato dove la maggioranza è risicata. “Risicata? Con LeU e Autonomie ci sono margini perfino più rassicuranti di quelli attuali. Dopodiché, non demonizzo nessuno: ho lavorato bene coi colleghi della Lega per un anno e mezzo, riuscirò a farlo anche col Pd, renziano o non renziano”. Torniamo al programma: su trivelle e inceneritori l’intesa sembra ardua. “Evidentemente qualcuno professa un ambientalismo solo orale, che riscopre quando Greta Thunberg viene in Italia. In ogni caso, sarà poi il presidente Conte a trovare una sintesi sui singoli punti del programma”. A proposito, Conte ha ribadito la necessità di restare ancorati all’europeismo. Paolo Gentiloni ha subito rilanciato: “Alla larga dai balconi”. “Io sul balcone di Palazzo Chigi non ci sono salito e non ci salirei mai. Quello fu un errore, anche a livello comunicativo. Detto questo, noi non abbiamo mai messo in discussione il nostro europeismo”. Proponevate il referendum per uscire dall’euro. “Un conto è la moneta unica, altra l’Unione europea. La cessione di sovranità monetaria doveva essere un primo passo verso una maggiore integrazione a livello di politica estera, fiscale, e di gestione dei flussi migratori. E invece ci si è fermati all’euro. Le nostre critiche a certe politiche di Bruxelles dovranno essere più costruttive, d’accordo, ma non si può pretendere che il M5s si adegui a un europeismo di comodo, che non fa affatto bene agli interessi del paese”. Giustizia? “Sulla riforma della prescrizione non si torna indietro, e sul resto si riparte dall’impianto elaborato dal ministro Bonafede. E mi auguro che ci si concentri sulla riforma del processo civile, che è il vero problema in tema di investimenti e attrattività del paese per le aziende straniere”.

Svolta europea, nord, razionalità sui migranti. Gori (Pd) spiega come dem e M5s possono sgonfiare il salvinismo

“Tra i Cinque stelle c’è tutto e il suo contrario, sia in termini di impostazione politica, sia in termini di qualità delle persone. E’ l’occa – sione per passare da Toninelli a Patuanelli”, dice Giorgio Gori al Foglio con una battuta. Il sindaco di Bergamo dice sì al governo fra Pd e Cinque stelle, senza però nascondere le difficoltà: “Ci assumiamo un rischio rilevante, nella scelta di avviare una collaborazione con i Cinque stelle. L’esito è tutt’altro che scontato, perché li abbiamo visti al lavoro e ne conosciamo i limiti. Però, a differenza di tutti gli altri partiti, i Cinque stelle sono una cosa strana dal punto di vista politico, sono duttili e cangianti”. “Un po’, come dice Giuliano da Empoli, perché c’è l’algo – ritmo a indirizzarli, un po’ perché sono nati come collettore di diversi tipi di istanze e di proteste”, aggiunge Gori.

“Quindi dobbiamo puntare a far emergere dal loro interno figure con le quali collaborare. Dario Violi, mio avversario alle elezioni regionali, è una persona con cui io lavorerei senza difficoltà. Con altri invece le distanze sono abissali. La spinta di Grillo per un ‘governo dei competenti’, per quanto sorprendente, va letta come un segnale positivo, di auspicabile maturazione”. Poi certo, dice Gori, “non nascondiamoci le difficoltà. Loro devono essere disponibili a un netto cambiamento della rotta condivisa con la Lega. E tuttavia resto ottimista, confido nella maggior esperienza delle persone, persino nelle ambizioni personali, aggiunte all’istinto di conservazione del gruppo parlamentare. Del resto, se l’algoritmo legge correttamente i segnali che arrivano dalla società, immagino registrerà un diffuso desiderio di stabilità e sicurezze”. In più, dice Gori, “come ha scritto il direttore del Foglio oggi (ieri, ndr) è già positivo il fatto che questo governo riporti in modo chiaro l’Italia dentro la cornice europea, che renda il paese affidabile agli occhi dei nostri alleati storici e che ci permetta di contribuire a determinare i prossimi passi dell’Unione. Tutto quello che non ha fatto Salvini insomma. Già questo vale il rischio che ci stiamo assumendo. Ho amici che la pensano in maniera diversa, come Carlo Calenda. Sono dispiaciuto, ma ne apprezzo la coerenza e il coraggio. Non ho certezze da opporgli, gli dico solo che il rischio vale la pena. Se avessimo votato a breve avremmo con ogni probabilità consegnato il Paese a Salvini, ovvero a un futuro fuori dall’Eu – ropa”. Ma l’antisalvinismo non è simile all’an – tiberlusconismo? “Le personalizzazioni non mi sono mai piaciute. Infatti il punto non è Salvini come persona, ma le sue politiche. Salvini rappresenta una destra irresponsabile che ha isolato l’Italia e promosso scelte oltremodo sbagliate e dannose, e che aveva già annunciato una finanziaria da 50 miliardi tutta in deficit. Il suo obiettivo era di arrivare allo scontro con l’Europa e per il paese sarebbe stato catastrofico”. Questo governo, dice Gori, deve avere alcune priorità. Dell’Eu – ropa ha già detto. “Poi deve consentire al sistema produttivo di riguadagnare competitività. Non è un problema degli ultimi mesi, è da vent’anni che l’Italia non cresce. E crescere è la condizione per fare politiche a sostegno della povertà. Secondo me un pezzo dell’agenda di Confindustria, quello che riguarda il taglio forte del cuneo fiscale, tutto a vantaggio dei lavoratori, è certamente tra le priorità”. Altri punti su cui Pd e Cinque stelle possono lavorare insieme, secondo Gori: giovani ed ecologia. “Qui dovrebbe essere più facile trovare l’accordo, anche se sappiamo che sui termovalorizzatori non la vediamo nello stesso modo”. C’è poi la questione dell’immigrazione, “che sarebbe un errore non considerare una reale priorità. Dobbiamo fare cose diverse da quelle di Salvini ma anche diverse da quelle che abbiamo fatto noi in precedenza, perché l’immigrazione va necessariamente governata”. Il centrosinistra ha commesso errori con le politiche di integrazione? “Assolutamente sì, nel senso che di politiche di integrazione non se n’è vista l’ombra. Con Marco Minniti abbiamo recuperato il governo dei flussi, che si sono enormemente ridotti. Ma non ci fu il tempo per fare politiche coraggiose sull’integrazione. Se vogliamo combattere l’immigrazione illegale la prima cosa è riaprire flussi legali, regolati, individuando criteri di selezione legati alle esigenze del mondo del lavoro e alla capacità di integrare”. Quindi i decreti sicurezza vanno cancellati? “Vanno modificati profondamente. L’idea di chiudere i porti e perseguire le ong, responsabili dell’8 per cento degli sbarchi, è sciagurata e tutta strumentale alla narrazione elettorale di Salvini. Però non è che il controllo dei confini non si ponga come necessità; uno stato è sovrano, che è cosa ben diversa da ‘sovranista’, se è in grado di presidiare i suoi confini. E lo deve fare con l’Europa, ottenendo strumenti di controllo efficaci, e modificando quanto prima il trattato di Dublino. Il sollievo con cui la comunità internazionale e i mercati hanno accolto questo cambio nella politica italiana è importante e va sfruttato fino in fondo, anche per ottenere un allentamento dei vincoli finanziari a sostegno degli investimenti. Confido che Merkel e Macron capiscano che è interesse di tutta l’Unio – ne”. Si parla già di alleanze a livello regionale fra Pd e Cinque stelle, è favorevole? “Mi sembra un po’ presto. Facciamo le cose un passo per volta. Sappiamo intanto che c’è un presidente incaricato e la ragionevole prospettiva che il nuovo governo Conte faccia cose ben diverse da quello che l’ha preceduto. Ecco, il ‘cosa si fa’ è il tema centrale. Zingaretti è stato bravo nel tenere unito il partito e nel gestire il negoziato con i Cinque stelle. Gli va riconosciuto. Dire qualche no, quando si affronta una trattativa, spesso aiuta a ottenere di più quando ci dispone, alla fine, a dire sì. Ed è evidente che la discontinuità cdi cui abbiamo bisogno è assai più legata al ‘cosa si fa’, e alla composizione della squadra, che non alla sola figura del Presidente del Consiglio. Insomma, a mio avviso il segretario si è mosso bene”. Gori dunque è favorevole al nuovo governo, dal quale si attende un aiuto anche come sindaco. “I sindaci si aspettano una attenzione nuova e diversa per le città. Nell’ultimo anno e mezzo abbiamo fatto una gran fatica. Sarebbe utile che nella squadra di governo ci fosse una figura dedicata al rapporto con gli Enti locali, oltre che al tema dell’autonomia. Perché va detto: una cosa da evitare è che questo governo si dimentichi dell’autonomia, che qui è una istanza molto forte. Io vivo in Lombardia e al Nord non si può dire che abbiamo scherzato e non se ne fa nulla. Non parliamo ovviamente delle forzature dei governatori leghisti. Sul tavolo c’è la proposta dell’Emilia Romagna, che è seria, equilibrata e assolutamente praticabile. E allo stesso modo è tempo che ci si occupi dell’agenda urbana”. Il partito dei sindaci, dice Gori, “non esiste”, ma è fondamentale che i sindaci possano finalmente contare su “un’interlocuzione con il nuovo esecutivo riguardo alle politiche territoriali. Anche perché, concretamente, i progetti di riconversione energetica, sull’economia circolare, sulla nuova mobilità, sull’integrazione degli immigrati, sul contrasto alla povertà, dove le fai, se non nelle città? E’ da qui che bisogna partire”. Da qui, e da Rousseau. David Allegranti

Chi ha trasformato il Conte marziano nel presentabile BisConte. Nomi e storie. La diplomazia europea, gli spazi concessi da chi lo voleva commissariare e tutti i profili per capire il futuro del premier incaricato. Geografia di Palazzo Chigi. Studiando da Mattarella.

Il giorno in cui lo incaricò (la prima volta) di fare il presidente del Consiglio, il vecchio Sergio Mattarella, sempre modico nel parlare, ma vivo nell’azione come cauto e acuto nel pensarla, gli disse: “Le consiglio di farsi uno staff politico”. Giuseppe Conte, che arrivava dalla provincia e non s’era mai occupato di politica in tutta la vita, all’inizio non aveva capito bene quanto quelle poche parole sussurrate dal presidente fossero importanti. Attorno a lui, entrato a Palazzo Chigi pieno di carezzevoli aspettative, miste a una certa qual apprensione e timidezza, ogni cosa veniva apparecchiata da altri. Casaleggio gli aveva subito occupato l’in – tero primo piano del Palazzo imponendogli lo staff di Rocco Casalino. Giancarlo Giorgetti, il gran leghista, si era organizzato nel Palazzo con un suo staff numeroso quasi da “anti premier” (come l’anti Papa). E infine i due vicepremier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, avevano occupato il resto. Per il presidente, quasi nulla: un segretario generale, Roberto Chieppa, molto esperto di legislazione ma digiuno di politica, una segreteria e poco altro. Di fatto, dall’inse – diamento di Conte, e per i successivi quattordici mesi in cui è sopravvissuto il governo gialloverde, la presidenza del Consiglio è stata svuotata. Persino i decreti venivano scritti e perfezionati altrove, da Lega e M5s. E al famoso quarto piano di Palazzo Chigi, dove ogni premier può contare sul fortissimo “Dagl”, cioè il Dipartimento affari giuridici e legislativi, nessuno più in realtà lavorava. Così, ben presto, il “premier per caso”, precipitato come un marziano nel cuore dello stato, si è risolto, quasi naturalmente, per inerzia, a occupare l’unico spazio che sembrava proprio non interessare né la Lega né i Cinque stelle: la diplomazia europea. Attorno a sé, Conte ha trovato e rinforzato grazie a Mattarella una squadra che gli ha poi permesso di trasformarsi per tutte le cancellerie del continente “in Giuseppe”, “quello affidabile”. In un anno e due mesi, mentre Salvini giocava con l’euro e Di Maio si fotografava con i gilet gialli, Giuseppe Conte non si è perso un solo vertice internazionale, nemmeno uno di quelli più inutili. E a portarlo in giro per l’Europa e per il mondo, oltre al bravo ammiraglio Carlo Massagli – il consigliere militare che per mesi ha provato a fermare lo stupidario grillino sulle commesse della Difesa – c’erano due ambasciatori di grandissima esperienza, depositari di quelle chiavi necessarie ad aprire tutte le porte al neofita spaesato: Maurizio Massari, rappresentante permanente dell’Italia presso l’unione europea, ma sopratutto Piero Benassi, l’ex ambasciatore a Berlino che (su consiglio di Mattarella, stavolta ascoltato) il premier ha subito nominato suo personale consigliere diplomatico. L’uomo che oggi Conte ascolta più di chiunque altro per la politica estera. Silenzioso, garbato, sorridente e condiscendente (raccontano che una volta sia stato capace, nel giro di pochi minuti, nel corso di un vertice, di dare ragione prima a Orbàn e poi pure a Macron, che è un po’ come fare il tifo per la Roma ma anche per la Lazio), Conte all’inizio era forse apparso un po’ strano ai leader europei. Non solo non parlava mai a braccio, ma sempre leggeva dai foglietti preparati dal servizio diplomatico. E agli occhi degli osservatori stranieri, dei suoi colleghi capi di governo, qualcosa non quadrava in quell’aria da gagà calato al G7 e al Consiglio europeo, col fazzoletto a quattro punte nel taschino, i gemelli, la lacca, il profumo al limone… Ma poiché la sguaiataggine irrazionale di Salvini e Di Maio aveva decisamente abbassato le aspettative sul nostro paese, alla fine, in fondo, quell’italiano azzimato e un po’ fuori posto, con la sua aria inclinata da maggiordomo, non risultava così male. “Almeno non è maleducato”. Ma non è certo soltanto grazie alle buone maniere (o alle cattive di Salvini) se alla fine Giuseppe Conte è poi riuscito a evitare all’Italia la procedura d’infrazione per eccesso di deficit, se ha compiuto il capolavoro di far giocare la grande politica di Bruxelles agli scombiccherati grillini (che da sconfitti alle elezioni sono riusciti a eleggere un vicepresidente del Parlamento), se ha fatto entrare il M5s nella maggioranza che ha eletto il presidente della Commissione, e se infine ha talmente convinto il mondo e gli osservatori stranieri al punto che in queste ore – nell’in – stabilità politica – è bastato averlo (ri)nominato a Palazzo Chigi per osservare un clamoroso abbassamento dello spread e un rimbalzo positivo pure della Borsa di Milano. Dietro tutto questo, nell’ombra, c’è il lavoro di gente che sempre ha saputo quali tasti premere e quali contatti andavano intensificati: Massari e Benassi. Massari, ex ambasciatore in Egitto, con esperienza a Mosca ai tempi della perestrojka e poi a Washington, ex capo dei servizi stampa della Farnesina, oggi l’uomo che dirige di fatto la politica europea del nostro paese, pupillo del barone Ferdinando Salleo – uno dei più grandi diplomatici della storia italiana – ha introdotto Conte nei meccanismi dell’Unione, lo ha reso famigliare a Juncker, l’ex presidente della Commissione europea, e lo ha fatto proprio mentre Salvini diffondeva meme su internet e definiva Juncker “ubriaco”. Tuttavia è stato l’ambascia – tore Benassi ad aprire a Conte la porta più importante, quella della Germania. Ex ambasciatore a Tunisi in un momento estremamente delicato, poi per cinque anni a Berlino, Benassi conosce da anni Angela Merkel e soprattutto conosce benissimo Uwe Corsepius, l’abile consigliere diplomatico della Cancelliera, con il quale Benassi ha un rapporto antico ed eccezionale. Tutti ricordano quel caffè tra Conte e Merkel a Davòs, ma poi sono seguite cene, incontri tête-à-tête, momenti di sboccio di certe confidenze e indiscrezioni, primi fondamenti di una impalcatura amichevole su cui veniva crescendo remoto un sentimento di fiducia reciproca. Così, mentre Salvini rovinava il suo straordinario successo elettorale alle europee dimostrando una sorprendente incapacità politica, nonché il pericoloso vuoto della classe dirigente leghista, ecco che Conte quasi senza accorgersene diventava invece il perno di un’operazione che a Bruxelles avrebbe portato non solo all’accreditamen – to dei grillini tra le forze “accettabili”, ma anche alla prima convergenza tra il M5s e il Pd: “l’operazione Ursula”, con l’elezione dell’ex ministro di Angela Merkel alla guida della Commissione europea. L’intenzione, in origine, era d’usare qualche modesta diplomazia. Di impratichire un po’ un uomo che a stento parla in inglese. E’ andata a finire che per un incrocio irripetibile del destino, e con i buonissimi uffici del Quirinale (sempre presente), il professorino pugliese si è trasformato in una specie di baluardo della tradizione democratica in un paese – l’Italia – che intanto scivolava verso le più insulse sgrammaticature. Adesso ritorna a Palazzo Chigi. Si è liberato dei due vicepremier, e in teoria potrebbe anche tentare di occupare quello spazio politico che Di Maio e Salvini a Roma non gli permettevano di avere e che alla fine però lo ha sospinto (per sua fortuna) verso quella politica estera che è oggi la vera ragione della sua riconferma. “Le consiglio di farsi uno staff politico”, gli disse Mattarella, quattordici mesi or sono. Il consiglio è ancora valido.

Non sappiamo se, politicamente parlando, quello che si apre sarà un anno bellissimo per il professor Giuseppe Conte, da ieri premier incaricato dal capo dello stato di formare un governo con molti bacioni agli amici di Rousseau, ma sappiamo che la stagione apertasi all’indomani della rottamazione chissà se momentanea del salvinismo (bacioni) e del savoismo (ri-bacioni) ci permetterà di dimostrare che per essere un buon avvocato del popolo occorre prima di tutto essere un buon avvocato del popolo dello spread. Pochi giorni dopo aver aperto la crisi di governo, lo scorso 12 agosto, il senatore semplice Matteo Salvini aveva profetizzato che lo spread sarebbe sceso in modo molto significativo qualora l’Italia avesse scelto di andare alle elezioni, “se si va al voto velocemente lo spread si dimezza”. Ma l’andamen – to dei mercati finanziari degli ultimi giorni, purtroppo per Salvini, è lì a dimostrarci che la salute finanziaria dell’Italia è direttamente legata a un fattore diverso: l’allontanamento dal governo della miccia anti europeista. I titoli di stato italiani, nelle ultime ore, hanno raggiunto rendimenti molto bassi, tra i più bassi della loro storia. Lo spread, ovvero il differenziale tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi, è sceso ai livelli precedenti alla formazione del governo e molti analisti sostengono che di questo passo nel giro di qualche mese verrà sostanzialmente azzerato il differenziale con i titoli di stato spagnoli, che oggi corrisponde a circa 100 punti base. I btp decennali hanno raggiunto un interesse basso a livelli mai visti prima, sotto l’uno per cento. La Borsa, subito dopo l’incarico a Giuseppe Conte, è salita del due per cento. Tutto questo non ci dice soltanto che è sufficiente avere la prospettiva di un governo non anti europeista, non nemico dell’Europa, non nemico dell’Euro per avere un paese capace di generare maggiore fiducia (ieri il premier incaricato ha scelto con sapienza di sottolineare che tra le svolte del nuovo governo ci sarà l’impegno chiaro per “un multilateralismo efficace, fondato sulla nostra collocazione euro-atlantica e sulla integrazione europea”). Ma ci conferma ancora una volta che per misurare la compatibilità di un governo con la realtà, e dunque con l’inte – resse della nazione e del popolo, non esiste un indicatore migliore rispetto a quello dei mercati. Il senatore semplice Matteo Salvini, nel corso della sua per fortuna breve esperienza di governo, si è preoccupato in molte occasioni di mostrare la sua indifferenza rispetto al giudizio offerto dai mercati relativamente all’attivi – tà del governo. A ottobre dello scorso anno, quando lo spread arrivò a quota 300 anche a causa delle dichiarazioni dell’allora ministro dell’Interno, che all’epoca minacciava di sfasciare i conti pubblici lasciando intendere di essere disposto a tutto pur di non farsi dettare l’agenda dall’Europa, disse chissenefrega dello spread, perché lo spread è l’immagine dello “scontro tra l’economia reale e l’economia virtuale, tra la vita vera e la realtà finanziaria e a nome del governo voglio dire che non torneremo indietro ma saremo disposti ad andare in avanti” e se lo spread salirà troppo “gli italiani ci daranno una mano”. Per fortuna, nel corso dei mesi, anche grazie alle indicazioni offerte dai mercati, il governo del cambiamento ha spesso cambiato il suo approccio nei confronti dello spread e ha scelto di non sfidare i mercati sul ministro anti Euro (do you remember Paolo Savona?), sulla legge di Stabilità (il deficit doveva sfondare il tre per cento, è rimasto al due) e sulla procedura di infrazione (Salvini diceva che mai si sarebbe fatto dettare l’agen – da dall’Europa ma per evitare la procedura di infrazione ha dovuto accettare di farsi dettare l’agenda da Bruxelles). Lo spread, per un anno e mezzo, ha salvato il popolo italiano dalle pericolose promesse dei populisti e se vogliamo il grande merito dell’avvocato del popolo (e dello spread) Giuseppe Conte detto Alexis è stato quello di capire in tempo che essere poco affidabili agli occhi degli investitori non significa essere dalla parte del popolo ma significa essere dalla parte di chi vuole mettere in difficoltà gli italiani, perché più salgono gli interessi sui titoli di stato e più diminuiscono le possibilità di poter trovare fondi per far ripartire l’economia e più diminuiscono le possibilità di poter far arrivare con facilità credito dalle banche alle imprese e alle famiglie. Un paese incapace di dare garanzie sul suo futuro e sui suoi fondamentali è un paese a rischio. Un paese capace di dare garanzie sul suo futuro e sui suoi fondamentali è un paese più affidabile. E il fatto che ad averlo capito sia anche il partito guidato dal balconaro Luigi Di Maio, che fino a qualche mese fa considerava “un segnale positivo per l’eco – nomia italiana” la possibilità di offrire agli investitori rendimenti dei titoli di stato alti e dunque attraenti (sono parole pronunciate un anno fa da Massimo Buffagni), è una notizia che può essere letta con due chiavi di lettura diverse: infierendo sulla contraddizione o esultando per la conversione. Dio benedica i mercati e gli splendidi avvocati dello spread.

Tutto ma non lo snobismo. Bisognava prenderla a cuore, in modo pulsante e leggermente infartuale, questa svolta politica e parlamentare che ha aspetti demenziali come la crisi da cui è nata. Per una ragione semplice: le crisi, perfino questa, servono a misurare e commisurare linguaggio e intelligenza, servono a eliminare il superfluo flottante della vita ordinaria, con i suoi dettagli inessenziali, ti mettono a contatto con il patri – monio del realismo, di tanto superiore alla chiacchiera delle idee o caciocavalli appesi. Sgombrano il campo dal cancro sentimentale della coscienza assoluta, specie la coscienza individuale, specie la crisi di coscienza, che è un abbrutimento mascherato da incantamento e da bene assoluto, una specialità del giornalismo più stronzo del mondo. Brindiamo alla coscienza rettamente formata, come voleva il cardinale Newman, ma ricordiamoci che senza alcune centinaia di Papi, senza disciplina liturgica, senza ordini consacrati, senza pensiero cristiano aristotelico, materialista, senza cate – chismo il cristianesimo oggi sarebbe una piccola setta di creduloni in perfet – ta coscienza. Brindiamo ai veri grandi obiettivi della guerra di Liberazione, ma ricordiamoci che senza il governo Badoglio e la svolta di Salerno in favore della monarchia fellona, altro che i grillozzi, l’Italia travolta dal mussolinismo di cartapesta sarebbe uscita dalla tragedia con un costo umano, politico e storico infinitamente maggiore. Brindiamo alla coerenza dei valori, evitiamo di giudicare in modo avalutativo, impegniamoci alla misura delle cose senza infingimenti e facilismi, ma tra le cose da giudicare mettiamoci quel che è della politica, lo scopo principale da ottenere, senza alcun tasso di interesse personale male compreso, e con il calcolo degli interessi effettuali in questione, senza pietà, un calcolo sovrano per gente intimamente onesta che non invoca l’onestà, semmai la pratica come vuole l’arte del possibile. Se devi difendere le istituzioni liberali da un bruto, che ora è tornato a essere l’onorevole senatore Matteo Salvini, difendile. Se devi difenderle con una manovra parlamentare del tutto legittima, spericolata e bugiarda come tutte le manovre, esposta perfino al ludibrio, bè, difendile. Compromettiti, agisci, sii severo, intimidente, abbi per te il tuo punto di vista, per quanto inelegante, poco cool, e battiti perché produca risultati utili, non avrai mai ragione in senso assoluto, tutto è reversibile, i rischi ovviamente ci sono, ma il rischio principale è perderti per la pigrizia, l’indif – ferenza, il cinismo travestito da integralismo dei principi, una forma di snobismo. Chi pensa che non ne vale la pena, che c’erano altre strade, che il voto a comando era meglio del licenziamento in tronco del ministro dell’Inter – no, il senatore Salvini, ha tutto il diritto di pensarlo. Chiedo scusa a Pigi Battista per averlo trascinato in una magnifica rissa da strada via Twitter, al massimo l’indecenza della mia reazione energumenica è spiegabile con il fatto che al Foglio tengo sopra molte altre cose, senza feticismi: in effetti avrei dovuto valutare meglio che, Foglio a parte, le sue opinioni sono opinioni legittime. Ma Pigi non è stato snob, è stato per me un po’ cazzone, quello che è intollerabile è il tiepido che dice vabbè, alla Masneri, che alla fine accetta l’ineluttabile di un’alleanza contronatura per combattere un uomo troppo nature, sempre il senatore Salvini ex Truce, ma poi si riserva la salvezza snobistica della sua ipercoscienza illibata. Quel – lo no. Quello è inescusabile. Nel mio delirio pedagogico da vecchio comunista, tra una nuotata e l’altra, ho chiesto di fare a proposito di Giggino, Gribbels, Toninelli e soci le litanie dei santi, e di ripetere con me e con Padre Spadaro esercizi spirituali di ammirazione e incensamento di gente di cui dicevo fino a poco fa che bisogna combatterli per quello che sono più che per quello che fanno. Ognuno ha il suo stile. Il mio è sempre stato incendiario, in certi momenti, perché penso che senza bruciare i ponti nel mio strano, incredibile, fantasioso e feroce paese molta gente che amo finisce per passeggiare lenta sopra tutti ponti e guardare il panorama mentre le rive del fiume prendono fuoco. Lo snobismo, appunto.

Con un discorso dalla colorazione progressista, Giuseppe Conte ha avviato ieri la formazione del nuovo governo imperniato su Pd e M5S. Un discorso anche assai «generalista». Ma non tanto da toccare tutti i temi, specialmente quelli più caldi, come l’immigrazione e la giustizia. Un paese migliore, attraente per i giovani, con infrastrutture sicure e reti efficienti, istruzione migliore, ambiente tutelato, patrimonio artistico valorizzato, diseguaglianze sociali rimosse, persone con disabilità protette, mezzogiorno «rigoglioso», Pubblica amministrazione libera dalla corruzione. Le tasse: pagare meno, pagare tutti. Tutto bellissimo, ma come? Non è stata fornita alcuna indicazione sui necessari cambi del paradigma di policy che ciascuno di quegli obiettivi richiederebbe. Tutto bellissimo, ma con quali risorse? Con più deficit? Ma allora quell’Unione europea alla quale il Presidente Conte ha fatto un veloce cenno e che ora appare benigna potrebbe di nuovo diventare un «problema» anche per questo governo «progressista». Con il rilancio della crescita? Bene, ma quelle «infrastrutture sicure e reti efficienti» richiamate e necessarie per lo sviluppo richiedono delle decisioni che facilmente cozzano contro quel sentire anti-modernista e per la decrescita felice presente nel populismo grillino. E se il pagare meno riguarda anche le imprese, sarà possibile intervenire sulla loro tassazione e sul costo del lavoro mantenendo in vita quel pasticciato provvedimento del reddito di cittadinanza che costituisce una bandiera dei 5 Stelle? Vi sono poi le omissioni. Conte non ha parlato dell’immigrazione, ma è proprio il modo in cui è stata gestita che più ha caratterizzato l’azione di Salvini. Perché non ha rassicurato sull’eliminazione dei decreti sicurezza? Li correggerà? Perché non ha spiegato come? Non è forse questo uno degli elementi che darebbe il segno della «novità» più volte richiamata? Chissà, forse bisogna fare i conti con le ambigue posizioni dei 5 Stelle e del loro capo Di Maio (quello delle ong «taxi del mare»). E anche dei ministri Toninelli e Trenta, che nel pieno della crisi hanno controfirmato – a norma del decreto sicurezza bis, ma senza esserne obbligati – il blocco della nave Mare Jonio. Non dimentichiamo che il M5S è pur sempre un’organizzazione che si orienta in base al sentire comune. Nemmeno la giustizia ha avuto spazio, a parte il riferimento al fatto che dovrebbe essere «equa», una tautologia, ed «efficiente», il minimo sindacale. Che sia confermato o meno Bonafede, il silenzio di Conte significa che il nuovo governo farà proprio il populismo giudiziario del ministro 5 stelle? La vaghezza e le contraddizioni del discorso del presidente incaricato Conte ripropongono, dunque, tutti i dubbi sulla natura di un governo basato sull’accordo tra un partito riformista e un partito populista. Le premesse, logiche ed empiriche (ovvero i dati di realtà tratti dall’esperienza sino ad oggi), non sono favorevoli e fanno presagire o una breve durata o il prevalere di una colorazione populista.

Cos’è un partito politico populista, qual è il suo scopo e quanto dovremmo esserne preoccupati? Queste domande girano nella testa degli analisti politici da quando, negli ultimi dieci anni, partiti come il Movimento Cinque Stelle, Podemos in Spagna, il Fronte Nazionale francese o i Democratici svedesi hanno iniziato a crescere nelle urne in Europa. La risposta italiana è sembrata più semplice durante il governo gialloverde degli ultimi 18 mesi, poiché Matteo Salvini ci ha detto che si trattava di immigrati e sovranità nazionale e Luigi Di Maio non ha detto molto di comprensibile. Ora, con il nuovo governo giallorosso formato da Giuseppe Conte, dovremo ancora una volta cercare delle risposte. Fuori dall’Italia era prassi comune, tanto incongruo appariva questo matrimonio, cercare di spiegare la coalizione gialloverde ad altri stranieri dicendo che era come se Donald Trump avesse deciso di formare un governo insieme al senatore Bernie Sanders, il candidato democratico alla presidenza autoproclamatosi “socialista”. C’era del vero in quell’idea, ma si potrebbe obiettare che Salvini e Di Maio si sono rivelati un po’ meno distruttivi di quanto suggerisca il parallelo con Trump, anche se altrettanto caotici e narcisisti. Questo è probabilmente il motivo per cui gli investitori nazionali e internazionali sembrano così calmi al pensiero che Cinque Stelle e Partito Democratico stiano finendo a letto insieme. I gialloverdi essenzialmente hanno fatto molto chiasso ma realizzato poco, o almeno poco del tipo di azione fiscale che avrebbe potuto destabilizzare l’economia, quindi perché i giallorossi dovrebbero andare peggio? Sì, ci sono di mezzo personalità difficili, ma per gli osservatori stranieri questo è di scarso interesse. Il Pd può piacere o meno, ma è un animale domestico, con difetti prevedibili e gestibili. Quindi, ovviamente, sostituire un partito prevedibile, moderato e filoeuropeo all’esplosivo Salvini appare un passo in avanti agli osservatori internazionali, anche per quelli che potrebbero apprezzare una ricetta tradizionale di destra di riduzioni fiscali e deregolamentazione. Le possibilità di inutili scontri con Bruxelles sembrano troppo alte e pochi credono davvero che una coalizione di destra porterebbe fino in fondo un programma coerente di liberalizzazione e riforme. Non è mai accaduto sotto Silvio Berlusconi, in ogni caso, e anche il signor Salvini mostra in realtà scarso interesse per una cosa del genere. Quindi ora tutto torna a ridursi alla domanda su cosa sia realmente il Movimento Cinque Stelle e quale sia il suo scopo. È pertinente definirlo populista? Questi sono i temi che tutti hanno in mente quando si chiedono se questo matrimonio giallorosso possa durare, dato il passato di inimicizia tra i due. Ciò che è emerso negli ultimi 15 mesi sui Cinque Stelle non è né molto stimolante né particolarmente preoccupante, tranne nella misura in cui si potrebbe aver perso tempo prezioso. Il reddito di cittadinanza non è, in teoria, molto diverso dai sistemi di sussidio vigenti in Scandinavia, quindi sebbene abbia chiaramente rappresentato uno sfacciato tentativo di guadagnare popolarità distribuendo denaro pubblico, non è una forma estrema di populismo. Una critica più mirata è che si tratta di una misura inefficace e di un uso mediocre degli scarsi fondi rispetto alle idee alternative – proprio come la superata legge pensionistica di Quota 100 – ma questa è un’altra questione. Pensieri analoghi si possono formulare all’idea di un salario minimo: potrebbe essere una cattiva idea per un Paese come l’Italia con un alto tasso di disoccupazione e una grande fetta di economia sommersa, ma qualcosa che è stato promosso in passato dai laburisti in Gran Bretagna e dal Partito socialdemocratico in Germania non può essere definito nè radicale, né particolarmente populista. Ridurre il numero dei parlamentari ha un sapore populista e anti-casta, ma dal momento che il presidente Emmanuel Macron ha appena proposto di fare lo stesso in Francia, non si può nemmeno trovarlo fuori luogo. Potrebbe anche essere una buona cosa. Anche il lato ambientalista dei Cinque Stelle è in linea con le tendenze europee, anche se troppo spesso si fonde con il pensiero anticapitalista e antimoderno, a differenza dei Verdi tedeschi. Ma poi, nell’ultimo anno, alcune figure di spicco dei Cinque Stelle hanno mostrato simpatie sovrane e nazionaliste, come quelle riguardo ad Alitalia o ai direttori di musei stranieri, quindi non possiamo essere sicuri che questo sparirà nel prossimo governo. La grande difficoltà sta nel mettere insieme tali idee e capire cosa ne possa uscire, che è un altro modo per chiedersi se i politici pentastellati appartengano davvero tutti allo stesso partito. Sono uniti da un atteggiamento di opposizione più che dall’ideologia. Questo è il motivo per cui la conclusione in definitiva deve essere questa: quegli investitori internazionali così tranquilli potrebbero sottovalutare la possibilità che tutto ciò possa sfaldarsi molto presto, quando effettivamente si verificherà l’implosione a lungo attesa dei Cinque Stelle. Questo è il problema con i “movimenti”: si muovono.

Sosspeso a mezz’aria tra Moro e Rumor, tra le velleità del “nuovo umanesimo” e le ambiguità della vecchia politica, Giuseppe Conte compie dunque la sua miracolosa metamorfosi.

Il vacuo “avvocato del popolo”, la “marionetta” irrisa dal tronfio Verhofstadt, l’arlecchino-servo-dei-due-padroni legastellati, diventa suo malgrado il Grande Statista prêt-à-porter .
Entra nello Studio alla Vetrata al Quirinale come premier dimissionato di una coalizione di destra, e ne esce come premier incaricato di una coalizione di sinistra. E con un discorso mimetico, forbito dai sofismi e infarcito dai trasformismi dell’intramontabile rito democristiano, chiude la stagione del “governo del cambiamento” e apre quella del “governo nel segno della novità”. Qualunque cosa significhi tutto questo, lo salutano festanti Donald Trump e Bill Gates. Lo accolgono in letizia Angela Merkel e Ursula von der Leyen.
Lo festeggiano lo spread e le Borse. Ma non c’è vera gloria, in questa incipiente epifania giallo-rossa che archivia la pazza estate giallo-verde. Fino a ieri Conte ha governato uno “stato di eccezione”: l’alleanza spuria, e unica in Europa, tra due diversi populismi, uno dei quali ispirato (e forse persino foraggiato) dalle democrature illiberali russo-turco-magiare. Da oggi Conte governa uno “stato di necessità”: l’intesa forzosa, più comune in Europa, tra due nemici improvvisamente ricongiunti da un accidente della Storia. Li unisce quella che Ezio Mauro ha chiamato “la forza delle cose”. L’emergenza economica (le clausole Iva, il deficit, la manovra di bilancio) e l’incognita istituzionale (la paura del voto anticipato, la probabile vittoria dell’ultra-destra, il rischio Quirinale nel 2022 e certo, anche l’ansia di perdere lo scranno parlamentare). Li divide quella che potremmo chiamare “la debolezza della fase”.
Non solo la crisi generale “di sistema”, la rottura tra élite e popoli, la delegittimazione delle istituzioni, la fine dei partiti di massa novecenteschi. Ma anche la crisi specifica dei due soggetti del nuovo patto di governo.
Il Pd è certamente sinistra, ma preterintenzionale e irrisolta. M5S è politicamente “anti-materia”, ma post-ideologica e informe. Anche per questo, dopo gli anni dello sberleffo in streaming, dello scontro da talk e dell’odio via social, adesso si accostano con la mutua diffidenza di chi (non sapendo bene cosa è, cosa vuole e dove vuole andare) teme ogni forma di contaminazione.
Le parole di Conte, dopo il faccia a faccia con il presidente della Repubblica, riflettono questa “necessità”. Che solo una fortunata congiunzione astrale o l’eroica determinazione degli alleati possono trasformare in “opportunità”. Il premier incaricato surfa sui problemi, parla ma non dice. Dal governo che non sarà «contro» alla «nuova stagione riformatrice»: manca solo la pace nel mondo, e la svolta è compiuta. Poi il programma, l’istruzione e l’ambiente, le disuguaglianze e i giovani: manca la mamma a cui voler bene, e la lista dei buoni propositi è completa. Nel testo contiano spicca il “non detto”: nessun richiamo al taglio dei 345 parlamentari, nessun riferimento alla tragedia dei migranti che proprio durante le consultazioni si consuma sulla pelle dei bambini della Mare Jonio.
È evidente la volontà di enfatizzare le “cose che uniscono”, fuggendo via (almeno per adesso, e con i soliti equilibrismi dorotei) dalle tante e forse troppe “cose che dividono”. Ma prima o poi anche di queste bisognerà parlare. E allora saranno dolori.
Nonostante questo, tra i morotei “brevi cenni sull’universo” di Conte bisogna sforzarsi di cogliere le due cose buone che restano. Da un lato la “collocazione euro-atlantica” del Paese, dall’altro la “fedeltà ai principi non negoziabili della Costituzione”.
Qui almeno un piccolo seme della tanto auspicata “discontinutà” si può cogliere. A giugno del 2018, al suo esordio ossequioso della Dottrina Salvi-Maio, il leguleio di Volturara Appula si definiva «orgogliosamente populista», inneggiava al cambio di paradigma nell’Europa tecnocratica e se ne infischiava serenamente della Costituzione. Un anno e tre mesi dopo, Conte sembra passato dal governo del “me ne frego” al governo del “tengo conto”. È già qualcosa, visti i tempi che viviamo. Ed è quasi molto, rispetto allo sproloquio malmostoso di Di Maio dopo il suo incontro con il Capo dello Stato, che quasi tradiva più nostalgia per la Lega perduta che non fiducia nel Pd ritrovato. Fino a spingersi al paradosso di ribadire contro ogni evidenza che “destra e sinistra non esistono più” (proprio nell’ora in cui divorzia dalla prima e convola a nozze con la seconda) e di rivendicare “il lavoro fatto con la Lega in questi 14 mesi” (con una totale condivisione di tutte le nefandezze ideologiche e falsamente securitarie pretese da Salvini). Per questo adesso si può sperare, ma si fa molta fatica a credere che il seme possa germogliare. Molto dipenderà dalla squadra: non abbiamo il tempo né la cultura per sottoscrivere “contratti alla tedesca”, per questo sono cruciali vicepremier e lista dei ministri. I nomi sono il programma: riveleranno il grado di credibilità dell’esecutivo e il livello di coinvolgimento dei due partiti. Se l’approccio è l’agnostico “not in my name”, o peggio ancora il patetico “mettiamoci i tecnici” del comico genovese, allora è meglio lasciar perdere subito.
Ma molto di più dipenderà dalla maturazione delle due “deboli forze” che daranno vita alla nuova maggioranza. Qui ci sono abissi da colmare.
Il primo abisso riguarda proprio i Cinque Stelle. Se questo governo non è solo il pretesto per non perdere la poltrona, il Movimento ha una formidabile chance, forse l’ultima, per uscire dalla sua felice e irresponsabile adolescenza politica. Dimentichi le scatolette di tonno e si “costituzionalizzi”, in Italia e in Europa. Superi il mito della democrazia del clic e faccia suoi i principi della democrazia parlamentare. Rinunci alle sedute esoteriche tra Elevati nella villa di Bibbona e discuta a viso aperto nei congressi. Contribuisca alla ricostruzione del bipolarismo (come gli ha più volte chiesto Eugenio Scalfari), e si convinca che Salvini e Zingaretti non sono né uguali né intercambiabili. In questi 14 mesi troppa destra è passata sotto i ponti.
Ma forse non è ancora troppo tardi, per risalire il fiume.
Il secondo abisso riguarda il Pd. Sarà anche vero che non c’è più Enrico Berlinguer (che il compromesso storico sapeva farlo capire alle masse), che la politica è «sangue e merda» (come diceva Rino Formica), che la coerenza è «l’ultimo rifugio delle canaglie» (come motteggia Giuliano Ferrara). Ma prima o poi qualcuno dovrà spiegare perché al congresso di marzo Zingaretti incoronato segretario chiudeva il suo comizio in un tripudio di applausi urlando quasi in lacrime che mai avrebbe fatto patti con i Cinque Stelle, e l’altroieri in direzione ha ottenuto una clamorosa standing ovation annunciando l’esatto contrario. Nessuno dubita che anche oggi la sinistra voglia sacrificarsi per il suo solito “senso di responsabilità”. Ma qui la sfida è quasi proibitiva. Si tratta di provare a durare una legislatura. Di smontare il teorema sovranista sul complotto giudo-pluto-massonico (che è altra cosa da un “ordine mondiale” che esiste e che, da Trump in giù, provi a spegnere i focolai di disordine che danneggiano i popoli in nome dei popoli). Si tratta di arginare Salvini che mobilita le piazze contro i comunisti al potere per la quarta volta senza passare per il voto. Mai come oggi, per evitare altri rovinosi autodafé, alla sinistra servono un pensiero, un progetto, un’idea di Paese. Non basta baciare un rospo per evitare di baciare un rosario.

Se sia una ragazza in carne e ossa o un’evoluzione tridimensionale di un cartone giapponese non è dato sapere. Lo schermo dello smartphone può essere ingannevole e dopo le influencer generate da sofisticati codici informatici che ricalcano le fattezze di quelle reali, ci sono le ragazzine che fanno di tutto per somigliare a un cartoon. Sono le e-girl che vivono in quella realtà virtuale che si chiama Tik Tok. L’app è un dorato recinto in cui fanciulle e fanciulli si mostrano con la certezza quasi assoluta che non si imbatteranno mai in qualcuno che ha più di 20 anni e tantomeno nei loro genitori. Questo social network cinese ha circa 800 milioni di iscritti nel mondo, di cui 2,4 in Italia, e se il nome sembra solo un rompicapo è perché si è superata abbondantemente la maggiore età. Del resto, per essere membri attivi, amati e seguiti su Tik Tok serve un certo impegno, decisamente maggiore di quello che si spende per scattare (e post produrre) un selfie che faccia strappare i capelli all’ex che ci ha perso per sempre. LA COREOGRAFIA Su questo social under 18 si caricano microvideo di 15 secondi che prevedono una coreografia ben orchestrata nella propria cameretta sulle note di una base musicale a scelta. Se però ci si sa muovere ma non si ha il look giusto, ci si può trovare esclusi dalla cerchia che conta, non avere tanti fan e non prendere il volo verso Youtube con filmati più lunghi. Va detto che le e-girls in questione non si sono inventate nulla o quasi e rimescolano codici stilistici degli anni Novanta, come dire la Preistoria. ARIA LANGUIDA Dunque, come apparire? Prima di tutto serve un tocco emo e dark. Sguardi languidi, sottolineati da eyeliner grafico, fard e ombretti che esasperano il pallore o l’aria da bambola, sono fondamentali. Il vestiario è fatto a strati e ci deve essere sempre qualcosa di aderente o di fuori misura, che sia micro o macro. Insomma, bisogna bilanciare portando tutto, paradossalmente, all’estremo. I jeans sono immancabili, anche perché uscire dal seminato del look scolastico potrebbe richiedere una spesa che va oltre le regalie di nonni e genitori. Il modello da indossare è skinny e soprattutto a vita alta. Va sfrangiato e con qualche taglio ad altezza ginocchio. Se nero o grigio scuro è meglio. Caratteristiche simili anche per gli short, buoni per tutte le stagioni. La vita deve superare l’ombelico e la consunzione è d’obbligo, perché le ragazzine potranno avere pochi anni ma amano dimostrare di aver vissuto, girato, visto e fatto esperienze. Per lo stesso motivo amano infilarsi magliette di band musicali rock, acid rock o dark. Non importa se il gruppo si è sciolto per sopravvenuta età pensionabile del cantante, loro sono la versione 3.0 delle groupie. La t-shirt è frutto di cacce al tesoro tra i banchi dei mercatini e i negozi vintage. Ma la mezza manica da sola è poco trendy. Si può optare per una maglietta lunga e a righe oppure rompere ogni indugio e indossare un top a canotta aderente che lasci scoperta la pancia, strizzata in una cintura vistosa. Sopra, un giubbino di jeans extra large. Quello del fratello maggiore, ma con ali d’angelo applicate sulla schiena. Altra opzione? Una felpa confortevole e con cappuccio. Leggings dal sapore sportivo, berretti di cotone, minigonne a pieghe come nei college inglesi, completano il look. Il troppo scoperto e sexy, come le stesse tutine aderenti, viene sempre bilanciato da volumi over. Una mossa da Lolita con connessione Internet illimitata, tanto che il social sta anche pensando di agevolare i suoi adepti con uno smartphone progettato ad hoc. SCARPE BASICHE Ai piedi tante sneaker, ma di quelle basiche, non modelli iper tecnologici. In fondo si deve solo ballare una manciata di secondi, mica correre la maratona di New York. Converse e Vans, magari in edizione limitata, sono in cima alla lista dei desideri insieme ad anfibi dalla suola spessa, nei quali sono infilati calze e calzini che arrivano almeno al ginocchio. La giovinezza non è sinonimo di spensieratezza solo perché si affida a qualche nota musicale: il sentirsi inadeguate è un modus vivendi. I filtri, anche su Tik Tok, ci sono e sono amplificati dal trucco e dal parrucco. Le lentiggini spesso sono false, così come le labbra ben disegnate. Le ciglia finte sono un classico e il fard è steso in modo da creare un effetto bambolina. Per enfatizzare il tutto si ricorre a occhiali con lenti rosate, si disegnano piccoli cuori sotto la palpebra inferiore e si infilano mollette giocose tra le ciocche di capellimulticolor.