Il personaggio. La scalata dell’avvocato double face. Dall’Ulivo al Pd, il prof che non crede ai partiti. Elettore del centrosinistra deluso si è vantato di non avere tessere. Ma la sfida ora è dare credibilità e forza alla nuova maggioranza. Il rischio è che l’impresa resti incollata alla necessità di fermare la Lega di Salvini.

Immaginiamola come la storia di un Paese lontano, che a un certo punto precipita in una crisi, e che dalla crisi a un certo punto si risolleva. E ora domandiamoci se la storia manterrebbe la sua plausibilità, immaginando che l’uomo che aveva guidato il Paese fino alla crisi fosse anche l’uomo che dalla crisi lo tira fuori. Non basta? Aggiungiamo un ultimo particolare, che tutt’intorno a quell’uomo le cose cambino, e che l’unico punto fermo rimanga lui. Ebbene, cosa dovremmo pensare di quell’uomo? Due cose soltanto: o che si tratta di un uomo dalle qualità eccezionali, capace di guadagnarsi la stima e la benevolenza di tutte le parti in causa, oppure che è nato sotto una buonissima stella, e tutto è dipeso da circostanze eccezionali che gli hanno regalato questo ruolo, non una ma due volte – nonostante si dica che il treno della fortuna, nella vita, passa una volta soltanto –. (Bisognerà, temo, riformulare il proverbio). Nel caso di Giuseppe Conte, può darsi che sia vera la prima ipotesi, e il Presidente del Consiglio incaricato avrà probabilmente un buon tratto di legislatura per dimostrare le sue non comuni doti. Tra l’imbarazzata continuità che Di Maio ha cercato di difendere e la discontinuità esplicitamente richiesta da Zingaretti Conte ha scelto, per l’intanto, di parlare di “novità”: è evidente che il senso dell’opportunità – voglio chiamarlo così, con un benevolo eufemismo – non gli manca. Né gli mancano la consuetudine a giacca, cravatta e pochette, una buona duttilità, e la capacità di farsi concavo o convesso a seconda delle situazioni. LA SFIDUCIA NEI PARTITI Nel caso però che valga la seconda ipotesi, e pesino in maniera decisiva le circostanze che consentono, in Italia (non credo, oggi, in altre parti del mondo), di avere lo stesso Presidente del Consiglio per due maggioranze profondamente diverse, la domanda è: di quali culture politiche vive allora il nostro Paese? Di nessuna, pare debba essere la risposta. Basta ascoltare, del resto, lo stesso Conte. Che ha sì raccontato di aver votato centrosinistra, l’Ulivo di Prodi, partiti centristi, PD e infine, deluso, Cinque Stelle, ma ha poi aggiunto il vero tratto distintivo della sua formazione: non semplicemente il non aver mai posseduto una tessera di partito, ma il farsene vanto, rivendicando questo dato con una punta di civettuolo orgoglio, al quale certo non è estranea la consapevolezza che la stragrande maggioranza degli italiani non dà certo un giudizio positivo dell’offerta politica in campo. Avere fiducia in Conte significa dunque ribadire ancora una volta che non si ha fiducia nei partiti. Ecco la congiuntura che permette a un professore di diritto, a un avvocato, di ritrovarsi in capo a poche settimane, senza alcuna militanza politica alle spalle, a Palazzo Chigi. E di rimanervi, sfruttando l’equidistanza dai contraenti il patto di governo, che lo rende fungibile per il “nuovo progetto”. Conte è questo: un premier fungibile. Paradosso dei paradossi: il più lontano dal professionismo della politica di tutti i presidenti del Consiglio mai entrati in carica si è, di fatto, inventato la premiership come professione. Per un certo impasto di prudenza, moderazione, consuetudine al potere, disponibilità al compromesso entro un quadro valoriale di tipo tradizionale, e blando filo-atlantismo, siamo abituati in Italia a evocare i tempi della Democrazia Cristiana. Conte ne sembra l’ultimo eroe epigonale. Della Balena Bianca, però, ritorna così, nell’avvocato pugliese, solo un tratto, quello cresciuto all’ombra di quarant’anni di governo, dimenticando che le scelte fondamentali che hanno plasmato la costituzione materiale del Paese e la sua ossatura istituzionale per tutto il dopoguerra hanno richiesto alla DC una qualità che l’intero sistema politico, che solo così può affidarsi a Conte, ha purtroppo perduto: la forza di una larga legittimazione popolare. L’EX PREMIER POPULISTA Nell’anno trascorso al governo, il premier ha più volte dichiarato di essere un populista.Ma era un’altra cosa: era una forma di captatio benevolentiae verso Lega e 5S, che subito smorzava traducendola in una generica volontà di essere dalla parte del popolo. Nei toni, peraltro, Conte non ha nulla della fisionomia da caudillo tipici dei leader populisti, anche se non gli ha fatto difetto l’esibizione in uno studio televisivo della medaglietta di Padre Pio: sia detto per onestà, visto il rimprovero da Conte mosso a Salvini per l’uso di simboli religiosi. Chissà, comunque, se userà ancora la parola populismo, per descrivere il suo “nuovo progetto”. Chissà se gli riuscirà di voltare la parola nella posizione di un problema, piuttosto che nel principio di una soluzione. Che non può trovarsi se non in una profonda ristrutturazione del paesaggio politico e nella reinvenzione delle culture che lo innervano. Dal punto di vista “avalutativo” della scienza politica, la crisi, infatti, è tutt’altro che risolta con la formazione del governo. Semmai è rimandata, ed è da vedere se alla nuova maggioranza riuscirà di dare forza e credibilità al secondo tentativo di Conte, o se l’intera impresa rimarrà incollata alla mera necessità di fermare la Lega di Salvini. L’uomo che da premier visse due volte sarebbe allora semplicemente scivolato sulla superficie delle cose. Per la sua buona stella, ma non per quella del Paese lontano di cui un giorno si racconterà la storia.

L’odissea fra onde alte 2 metri. E alla fine scendono i bambini. Dopo l’intervento della Guardia costiera, a bordo restano 34 profughi. La nave è costretta a rimanere in acque internazionali. Il Viminale dà l’ok allo sbarco, ma non per tutti. Poi la lunga attesa e la svolta col buio. L’appello dalla Mare Jonio: naufraghi ed equipaggio sono esausti e flagellati dal mal di mare. E a bordo manca anche l’acqua.

Malgrado l’annuncio del Viminale sul fatto che sarebbe stato consentito lo sbarco dei minori non accompagnati, dei bambini con le loro famiglie e dei profughi in serie condizioni di salute, a bordo della Mare Jonio si era ormai persa la speranza di vedere i naufraghi dirigersi finalmente verso terra. Poi, nel momento peggiore della giornata, con il buio e il mare grosso, da Roma è arrivato l’atteso ordine. Con onde alte quasi due metri solo grazie alla perizia degli specialisti della Guardia costiera si è evitato che qualcuno precipitasse in acqua. Il passaggio dei 64 naufraghi che saltano sulla motovedetta sbatacchiata dai marosi è un’immagine che spiega, più di ogni analisi, quanto scellerato sia il decreto sicurezza e quali rischi vengano fatti correre ai migranti e agli uomini dello Stato incaricati di interventi in situazioni impossibili. A bordo ora restano 34 persone, che sperano in una rapida fine dell’odissea cominciata nel Sahara e che stava rischiando di concludersi negli abissi. Nel pomeriggio c’era stata quella che, per sdrammatizzare, era stata ribattezzata “la svolta dell’acqua minerale”. Quarantadue casse che possono cambiare la storia della Mare Jonio. Le ha consegnate la Guardia costiera in acque internazionali alle 19, quando ormai scarseggiava anche a causa di un guasto al dissalatore stressato dal mare in tempesta e dall’uso intensivo per le persone soccorse e inzuppate di carburante fuoriuscito dal motore del gommone rimasto alla deriva per giorni. Dal momento della consegna, di fatto, la nave umanitaria, pur tenuta fuori dai confini marittimi nazionali, è diventata responsabilità del governo italiano. In tutto circa 250 litri d’acqua per 130 persone, tra profughi ed equipaggio. Di sicuro, stasera ne servirà dell’altra. La giornata era cominciata male. Alle 11,30 quando dopo oltre un’ora di attesa dalla prima richiesta, dalla Capitaneria di Lampedusa gelano il comandante della Mare Jonio. Nonostante, per stessa ammissione della guardia costiera, vi siano fino a due metri di onda, non è stato permesso alla nave umanitaria carica di famiglie con bambini di ottenere un riparo sotto costa. In altre parole, i cento migranti e i loro soccorritori devono restare in balia della intemperie. Nel corso del drammatico contatto radio filmato da Avvenire il comandante Giovanni Buscema più volte perde la pazienza, insistendo per ottenere un punto di fonda dove riparare la nave sotto le scogliere, in un tratto nel quale il vento vieM ne affievolito dai promontori dai promontori. Ma dalla radio sono inamovibili: «In conseguenza del provvedimento di divieto di ingresso nelle acque italiane non potete avvicinarvi», spiega l’operatore. Non dev’essere facile per gente addestrata ai soccorsi in qualunque condizioni di tempo osservare un ordine che finirà per abbattersi specialmente sui bambini. Buscema insiste, segnalando le condizioni meteo e i rischi per le persone a bordo e la Guardia costiera, rispondendo, riconosce che vi sono «un metro e mezzo e fino a due metri di onda». Eppure neanche questo ha permesso alla “nave dei bambini” di trovare un momento di tregua. Consumando l’ennesima vergogna italiana. Biberon e ciucci, a quanto pare, non suscitano alcuna pietà. E se non bastasse l’indecenza, arriva anche il ridicolo. Quando in mattinata la Guardia di finanza consegna, con evidente imbarazzo, al comandante della nave e al capomissione Luca Casarini il decreto di sequestro, tocca leggere che il divieto di ingresso è motivato dal rischio che a bordo vi fossero potenziali terroristi o pericolosi criminali. In effetti tra i molti si aggira un personaggio che tutti, a bordo, tengono d’occhio dal primo istante. Imprevedibile, astuto, piuttosto diffidente, insegue il suo fuoristrada a molla seminando il panico sul ponte. Youssuf avrà cinque anni. Si infila tra le gambe, piroetta tra un marinaio e un soccorritore, si tuffa a riacciuffare il macinino mandandoti gambe all’aria. Ora è a terra. Al sicuro con i suoi. Ogni ora in più trascorsa a bordo è un supplizio consumato per capriccio di chi dovendo scegliere tra una firma per aprire i porti e una per schiaffeggiare vite già provate, ha scelto la seconda. «Una crudeltà gratuita», si arrabbia da bordo nave Caterina Bonvicini, la scrittrice venuta per raccontare e finita come tutti a fare da baby-sitter, interprete, confidente delle donne dalle storie indicibili. La Mare Jonio, che ha invano chiesto l’evacuazione immediata, che questa mattina si è svegliata con una veloce visita della Guardia costiera di Lampedusa che a bordo di una motovedetta ha portato sulla nave umanitaria personale della Guardia di finanza, che ha notificato il divieto firmato dai tre ormai ex ministri Salvini-ToninelliTrenta. La nave dei bambini e delle famiglie viene ritenuta “non inoffensiva”, perciò Mare Jonio si tiene in acque internazionali ma in condizioni proibitive a causa del mare grosso e della pioggia che ha flagellato il ponte su cui si trovano i migranti salvati al largo di Misurata. Proprio l’improvviso peggioramento delle condizioni meteo conferma che il gruppo non sarebbe potuto sopravvivere a una terza note alla deriva. Il primo report sanitario, che ha permesso anche di stabilire il numero definitivo dei naufraghi a bordo, è perfino peggiore di quanto non apparisse la situazione in un primo momento. A bordo c’erano 5 donne incinte, tutte senza un compagno. Le gestanti hanno raccontato che le gravidanze sono frutto delle continue sessioni di stupri di gruppo avvenuti nelle prigioni libiche. Racconto confermato dai rilievi del medico Donatella Albini, con una lunga esperienza in missioni umanitarie nel mondo, e che racconta di non avere mai visto condizioni simili. L’equipaggio aveva chiesto assistenza al Centro di Coordinamento Marittimo e alla Capitaneria di Porto, «per le condizioni di bordo dei 98 naufraghi, in particolare donne incinte e bambini. Alle nostre reiterate richieste di Pos (Place of Safety, porto sicuro) fatte alle autorità della nostra bandiera, ancora nessuna risposta». Ora non resta che attendere le decisioni politiche di chi deve stabilire che fine faranno gli ultimi 34 rimasti.

È trascorso un anno dal controverso «caso Diciotti», per il quale il Ministro dell’Interno è stato accusato di sequestro di persona verso migranti trattenuti per quasi dieci giorni a bordo di una nave militare.

Quel procedimento penale si è poi interrotto per effetto della negata autorizzazione a procedere del Senato, ma l’episodio ha comunque gettato una luce sinistra sulle modalità di gestione dei flussi migratori adottate da quello che fino a pochi giorni fa era il Governo in carica. Oggi, di fronte alle conseguenze umanitarie causate dai divieti di sbarco emanati in base al decreto sicurezza-bis, la sensazione di trovarsi di fronte a macroscopiche violazione dei diritti fondamentali risulta, se possibile, ancora più forte; e parallelamente sorge spontaneo riflettere su eventuali ulteriori profili di responsabilità penale a carico dei membri della catena di comando attorno alla quale ruota la politica dei «porti chiusi». PENSIAMO al caso della Open Arms, rimasta bloccata per diciannove giorni alle porte di Lampedusa prima che gli ultimi ottantatré migranti rimasti a bordo fossero lasciati sbarcare a seguito del sequestro preventivo disposto dalla Procura di Agrigento. Le cronache hanno rivelato le terribili condizioni nelle quali si sono trovate, per quasi tre settimane, le persone coinvolte: sovraffollamento, promiscuità e limitate possibilità di movimento; esposizione costante al sole ed alle roventi temperature estive; progressivo aggravamento delle condizioni di salute, con conseguente necessità di molteplici evacuazioni d’urgenza; stress psicologico, dovuto all’incertezza della situazione ed alla paura di essere ricondotti nell’inferno libico, culminato per alcuni nel disperato tentativo di raggiungere a nuoto le coste di Lampedusa. EBBENE OLTRE al reato di rifiuto o omissione di atti d’ufficio (al momento oggetto di indagini contro ignoti), il codice penale contempla anche una fattispecie specificamente rivolta a sanzionare chiunque deliberatamente infligga sofferenze del genere descritto ad altri esseri umani soggetti alla sua vigilanza o al suo controllo: si tratta del delitto di tortura. Parlare di tortura come effetto di un divieto di sbarco potrebbe apparire una forzatura, frutto di una provocazione più che di una meditata valutazione giuridica; codice penale in mano, tuttavia, tale prospettazione risulta forse meno azzardata di quanto sembri. In base all’articolo 613-bis, perché sussista il delitto di tortura è anzitutto necessario che la vittima sia “privata della libertà personale o affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza” dell’autore del reato. SI TRATTA di un ventaglio di situazioni molto ampio, in grado di ricomprendere quelle in cui si trovano i naufraghi a bordo di navi alle quali viene negato un porto sicuro: anche a prescindere dalla privazione della libertà personale, infatti, i divieti ministeriali di ingresso sono quanto meno espressione di vigilanza e controllo verso chi si affaccia alle frontiere. IN SECONDO LUOGO, affinché possa parlarsi di tortura è necessario che siano cagionate “acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico” attraverso condotte alternative quali l’inflizione di “violenze o minacce gravi” oppure l’avere agito con “crudeltà”. Nessun dubbio in ordine alla sussistenza di acute sofferenze e traumi, tali da integrare un “trattamento inumano e degradante”, come pure richiesto dal codice: basti a tale proposito richiamare le drammatiche condizioni psico-fisiche delle persone a bordo, certificate dai rapporti del personale medico, inclusi i consulenti della Procura di Agrigento. Quanto alle condotte alternative, almeno la violenza sembrerebbe sussistere, tenuto conto che, secondo la Corte di Cassazione, è violenta qualunque condotta idonea a costringere taluno a subire un trattamento contro la sua volontà, anche in assenza di un contatto fisico diretto; senza contare che la lenta agonia alla quale sono stati sottoposti i migranti potrebbe al limite configurare un’azione qualificabile come crudele. CERTO, COME di regola accade per tutti i delitti, è indispensabile che l’autore del reato abbia agito con dolo, ossia abbia volontariamente causato l’offesa. A tale riguardo, peraltro, risulta difficile negare che, dopo la pronuncia cautelare del Tar Lazio (sospensiva dell’efficacia del divieto di ingresso, in ragione dei suoi verosimili profili di illegittimità), e soprattutto a fronte della notorietà dell’emergenza sanitaria a bordo (almeno a partire dallo scorso 15 agosto, secondo quanto riferito dai medici della sanità marittima), le autorità stessero agendo nella piena consapevolezza ed accettazione delle possibili illecite conseguenze lesive del proprio operato. NATURALMENTE ogni singolo episodio di divieto di ingresso ha caratteristiche proprie, e la sussistenza dei presupposti della tortura, reato che per i pubblici ufficiali comporta pene fino a dodici anni di reclusione, dovrebbe essere accertata con estrema cautela, valutando attentamente il surplus di sofferenze che il prolungato trattenimento sulle navi dei soccorritori cagiona di volta in volta ai naufraghi. LADDOVE tali presupposti fossero ritenuti sussistenti, come qui ipotizzato rispetto al caso Open Arms, ciò avrebbe conseguenze rilevanti non solo dal punto di vista simbolico, ma anche nella prospettiva dell’eventuale successiva autorizzazione a procedere nei confronti delle autorità ministeriali coinvolte: in base alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, infatti, il divieto di tortura è inderogabile perfino in tempo di guerra, sicché risulterebbe assai difficile giustificarne la violazione al solo fine di proteggere i confini nazionali. * docente di diritto penale europeo presso l’Università Statale di Milano ** avvocata penalista

Da Roma alle regioni, la strada (in salita) per fermare la Lega Il trionfo della destra nelle prossime tornate elettorali sembrava invevitabile. Ora dirigenti Pd e militanti 5S ragionano sul da farsi.

Tutte le strade portano a Roma. Ma è vero anche il contrario: tutte le strade partono da Roma. E così se Movimento 5 Stelle e Pd si avviano a governare insieme il paese, sui territori si ragiona su cosa potrebbe accadere a cascata. Tra la fine di ottobre e la prossima primavera si rinnoveranno tanti consigli regionali e se fino a qualche settimana fa il trionfo della destra appariva inevitabile più o meno ovunque, adesso il discorso si è fatto più complesso e tanti dirigenti dem e tanti attivisti pentastellati si interrogano sul da farsi. IN UMBRIA, DOPO la rovinosa caduta di Catiuscia Marini, si voterà il 27 ottobre. Il commissario regionale dem Walter Verini, da tempi non sospetti, sostiene che «da solo il Pd non va da nessuna parte» e che quindi è necessario guardarsi intorno. «In Umbria – spiega Verini con tono navigato – non parliamo di un dialogo tra partiti, ma dell’incontro su un progetto civico e sociale avviato». I grillini questi rumori che vengono dal Pd li hanno colti, e nei mitologici meet up si discute. Un militante perugino è molto chiaro in questo senso: «Non potremo andare con la Lega, è chiaro. Le scelte sono due: o andiamo da soli o vediamo cosa si può fare con il Pd». La strada, beninteso, è in salita: il terrore di una vittoria leghista non può essere l’unico collante di un’eventuale coalizione, questo è chiaro a tutti. Però la Lega bisogna sconfiggerla comunque, altrimenti sarebbero guai seri anche per il governo. E questo discorso non vale solo per l’Umbria. «Da parte nostra – argomentano tra i dem – un dialogo era già cominciato nel 2013, all’epoca dello streaming di Bersani». Al di là dei programmi, la vera incognita come sempre riguarda i nomi, ma la scappatoia è semplice: trovare un esponente dell’ormai mitologica società civile che vada bene a tutti, un Conte umbro. Difficile ma non difficilissimo. DIVERSA LA SITUAZIONE in Emilia Romagna. Qui le regionali si svolgeranno tra novembre e dicembre e sul piatto c’è la gestione una riforma già avviata: quella dell’autonomia regionale. Si parlerà di tante altre cose, ma il punto fondamentale è questo. Pd e 5S sembrano piuttosto distanti – questa, in fondo, è la casa del famigerato «partito di Bibbiano» e non bisogna mai dimenticare che i primi eletti grillini ci sono stati proprio in Emilia – ma qualche spiraglio si vede. Il sindaco di Bologna Virginio Merola ha già lanciato parecchi segnali, e in consiglio regionale è avvenuta anche una prova tecnica riuscita, quando Pd e M5S votarono insieme una legge contro l’omofobia. In Calabria il consiglio regionale si rinnoverà a gennaio e il Pd appare pronto a prendere il toro per le corna. Qui l’M5S praticamente non esiste – non ha mai eletto nessuno – e la trattativa è stata già avviata a Reggio, dove il sindaco di centrosinistra Giuseppe Falcomatà starebbe tessendo l’alleanza grazie a uno strettissimo rapporto con la deputata a cinque stelle Federica Dieni. IN CAMPANIA, dove si voterà in primavera, la situazione è più complessa: il presidente Vincenzo De Luca non è mai stato tenero con il Movimento Cinque Stelle e questa è anche la regione di Luigi Di Maio. Il dialogo ancora non c’è, ma De Luca ha inviato dieci domande a Di Maio sul governo del paese, uno strumento che potrebbe tornare utile in futuro, se mai ci si siederà a un tavolo per trattare. Su tutto, però, c’è lo spettro del sindaco di Napoli Luigi De Magistris, che qualcuno vorrebbe vedere in campo e che, nel caso, scombinerebbe tutti i piani. Sembra più in discesa la strada in Puglia, dove il governatore Michele Emiliano strizza l’occhio ai 5S da anni ormai. Per lui, al limite, i problemi potrebbero arrivare dal Pd. Incertezza anche in altre due regioni rosse: le Marche e la Toscana. Nel primo caso, il Pd era convinto di andare incontro a sconfitta certa, ma adesso c’è la convinzione che l’M5S possa collaborare. Il problema sarebbe riuscire a non candidare l’uscente Luca Ceriscioli e trovare un nome accettabile per entrambe le parti. La principale indiziata, in questo senso, è l’attuale sindaca di Ancona Valeria Mancinelli. IN TOSCANA, PATRIA del renzismo, l’ostacolo all’alleanza potrebbe essere proprio il gruppo di potere che fa capo all’ex presidente del consiglio: qui il Pd è convinto di vincere in ogni caso («Col maggioritario, col proporzionale e pure col sorteggio», dice un dirigente con forse inopportuno ottimismo). Il mediatore potrebbe essere il presidente uscente Enrico Rossi, ma è presto per dirlo. In ogni caso, i gruppi locali di tutte le regioni che si avviano al voto osservano quello che succede nella Capitale: se accadrà qualcosa, ci si muoverà sempre dall’alto verso il basso, dalle segreterie (o i blog) nazionali ai gruppi locali. Tutte le strade riportano a Roma.

La prima ragione per la quale sono favorevole a che si faccia al più presto il governo Conte 2 è per far sbarcare quei poveracci ammassati sulle navi soccorritrici delle ong che rischiano di affogare. So bene che chiamare brutto l’esecutivo che si prepara è un eufemismo; e anche che decidere solo in base a come tratterà gli immigrati non è criterio sufficiente per giudicarlo nel suo insieme. E però a me al momento mi basta anche solo questo, perché in questo «solo» ci sono le vite di quelle donne e di quei ragazzi e bambini che ci guardano dallo schermo televisivo terrorizzati ma anche stupefatti dalla nostra cattiveria. C’è poco tempo per salvarli, loro e quelli che sappiamo continueranno ad arrivare nonostante il rischio che sanno di correre. E so che ogni altra soluzione alla nostra crisi di governo – ritorno alla compagine precedente, o lunghissima e assai probabilmente perdente campagna elettorale – rappresenterebbe per loro una sentenza di morte. Sebbene sia rimasta stupefatta per l’allineamento di Toninelli e Trenta al diktat enunciato da Salvini nelle sue ultime ore di esercizio ministeriale, una «disciplina» tanto più inspiegabile in quanto proprio questi due ministri sembravano in un primo tempo – ma era solo conflitto di competenze – non allineati al decreto sicurezza bis; e sebbene sia sconsolata per il silenzio, proprio sul tema migranti, nel primo discorso del presidente incaricato da Mattarella. Nonostante tutto questo credo che, almeno su tale problema, finirà per esserci una discontinuità con il Conte 1: non ha forse parlato di «nuovo umanesimo»: e allora apra i porti ai naufraghi-migranti. Ma anche la dura requisitoria pronunciata in Senato contro Salvini – un discorso per molti versi stupefacente per un’Aula come quella (che ha infatti lasciato allibiti gli osservatori esteri di ogni parte politica) dovrebbe garantire una correzione in quella che è stata la linea più caratterizzante della sua politica, quella dei «porti chiusi». Direte che il mio è ottimismo da quattro soldi. Che anteporre la politica migratoria ad altre cose più importanti non è giusto. Ma, scusate, che cosa ci offrirebbe di importante e di buono il ricorso al voto? Solo chi ha una ben misera concezione della democrazia può pensare che sia cosa buona e dignitosa per il paese, ridare comunque la parola agli elettori. La democrazia rappresentativa, quella prevista dalla nostra Costituzione, è svuotata di senso se è solo voto ogni qualche anno da parte di una società socialmente e culturalmente frantumata come quella italiana attuale, dove non esistono più quegli organismi intermedi che garantiscono un canale di comunicazione fra cittadino e istituzioni, che attrezzano a declinare il noi, a leggere la propria condizione attraverso una griglia di classe (come è indispensabile se si vuole capire il senso delle proposte politiche), a comprendere la complessità dei problemi. Nella prima Repubblica questo ruolo è stato assolto con limiti ma anche con successo, dai grandi partiti di massa; oggi questi organismi indispensabili alla democrazia non esistono più, così come sempre più assenti sono altre forme di democrazia organizzata. In queste condizioni una campagna elettorale non rafforza granché la democrazia; tanto meno potrebbe farlo quella che si prospetta, con una parte di elettorato che si è bruscamente e solo per confusa protesta spostata su formazioni appena emerse, l’altra metà che si è rifugiata nell’astensione. Non voglio certo dire che votare non serve, ma vorrei che non ci imbrogliassimo a vicenda pensando che l’incattivito, violento, incolto scontro che si verificherebbe, comandato da social incontrollabili e da insopportabili chat televisive, rafforzerebbe la democrazia. Il maggior pericolo sta proprio nell’usare formalmente le regole della democrazia per affossarla. La storia insegna. C’è molto da fare per ricostruire le condizioni di un confronto meno barbarico e prima ci mettiamo mano, dando a questo obiettivo la priorità che merita nell’agenda politica, meglio sarà. Ma occorre impegnarsi a riconquistare la società che abbiamo perduto e non restare circoscritti all’ossessione del governo. Come sarà questo Conte bis? Sento ripetere da molti ( Cacciari per ultimo, anche se inizialmente mi era sembrato di opposto parere) che non è «operazione dignitosa». Limpida non è certo, nessuno credo ne dubiti. Ma di limpido c’è francamente poco in circolazione, e non vedo proprio che razza di governo migliore potrebbe uscire dal voto immediato che viene invocato, anche ammesso che si riuscisse a contenere una pericolosa prepotente e massiccia vittoria della Lega. Nessuno è in grado di prevedere per domattina un governo decente. E allora si tratta, senza illusioni, di accettare questo compromesso fra un Pd certo poco credibile per cosa è stato da tempo e di cui è lungi dall’essersi autocriticato; e un movimento 5 Stelle zeppo di contraddizioni arroganza e ignoranza, ma che – non dimentichiamolo – ha raccolto alle ultime elezioni il voto di una larga parte dell’elettorato di sinistra. Per rabbia e sfiducia. «Perché c’è bisogno di un botto» – mi sono sentita dire da tanti durante la campagna elettorale. (Forse le sue contraddizioni sarebbero scoppiate prima e meglio se il Pd si fosse deciso subito a tentare l’operazione cui oggi è stato quasi costretto). Adesso, liberati dall’ipoteca della Lega, quegli elettori si trovano ad aver a che fare, anziché con una rimessa in discussione del quadro politico italiano (l’auspicato «botto»), con il partito che hanno votato che indica un premier che sembra uscito da Piazza del Gesù ( per i più giovani, l’antica sede della Dc) . Ha persino ricevuto il tradizionale e approssimativo placet dell’alleato americano! Dipende da noi se sapremo usare del tempo che ci darà per far emergere più limpidamente le sue contraddizioni (che non sono solo fra i grillini e il Pd, ma attraversano ambedue i corpi, e anche più profondamente) e riaggregare, politicamente, socialmente e culturalmente un reale schieramento alternativo. Se Salvini, che tuttavia appare già in parte dimezzato ( i leader come lui vincono solo se appaiono vincenti), riuscirà ad usare la debolezza e gli equivoci del Conte 2 (e ad approfittare della attuale legge elettorale che ricompatterebbe la destra) per una anche più schiacciante vittoria, dipenderà molto da quanto riusciremo a mettere in campo noi, che per fortuna siamo nella società un’area parecchio più grande di quanto non registri il dato elettorale. Che sarebbe ora provassimo sul serio a far uscire di casa.

Faccia da Conte. Ci vuole una faccia tosta per mentire così. Poche settimane fa il «presidente per caso» giurava: «Cerco maggioranze alternative? È fantasia». Poi la piroetta che da destra l’ha ricollocato a sinistra e oplà, tutto è dimenticato. Con tanto di beffa agli elettori scornati: «Ho avuto dei dubbi, ma li ho superati»
Accompagnato da un rigagnolo di saliva che minaccia di trasformarsi in un fiume in piena nei giorni a venire, Giuseppe Conte è salito al Colle per ricevere l’incarico di formare il nuovo governo. Se il presidente del Consiglio, fino a poche settimane fa, cioè prima di «matare» la Bestia leghista («Conte si è rivelato un torero gentile e feroce che ha domato i! selvaggio Salvini», lo ha descritto Francesco Merlo su Repubblica dopo le dimissioni in Senato), godeva presso i giornalisti di minor considerazione di un usciere di Palazzo Chigi, da ieri «l’ectoplasma, il politico per procura, il professore con un quasi curriculum» (sempre Merlo su Repubblica, ma prima che infilzasse Salvini e si dicesse disponibile a guidare un governo con il Pd) è divenuto una specie di eroe moderno, un uomo esperto e rassicurante cui affidare senza esitazioni le sorti del Paese. «Abile, turbo, educato e mai divisìvo» lo ha dipinto ieri Andrea Malaguti sulla Stornpo, segnalando che presto colui che era ritenuto un (vis)Conte dimezzato potrebbe non solo essere un Conte raddoppiato, con un incarico bis, ma addirittura per lui si potrebbe immaginare una salita al Colle. «Non tanto per ricevere mandati, quanto per distribuirli». Evviva. Giorni fa scrivevamo: A star is born, e nata una stella, riecheggiando il famoso film con Lady Gaga (da non confondersi con gagà, il nomignolo che parte della stampa aveva affibbiato al presidente del Consiglio per via delle sue giacche impeccabili, la pochette da taschino e il _baciamano alle signore). E bastato attaccare Salvini e contribuire a un ribaltone, perché tutto cambiasse e i severi giudizi su un premier chiamato marionetta improvvisamente mutassero. Aver fatto una giravolta, passando da un governo spostato verso destra a uno che pende verso sinistra, senza nemmeno cambiare pettinatura o tintura, gli ha consentito di ascendere nell’Olimpo degli statisti e dei padri della patria, cui tutto e perdonato, anche le capriole e le contraddizioni. Giuseppe Conte, il presidente per caso, uno considerato un turista a Palazzo Chigi (copyright Matteo Renzi), «la summa di tutte le incompetenze» (sempre copyright Giglio magico), ha giurato che mai avrebbe cambiato bandiera? Nessuno pare ricordarlo più. E tuttavia le frasi sono li da leggere, stampate sulle prime pagine dei quotidiani, e le registrazioni si recuperano facilmente sui siti online. «Non ho la prospettiva di lavorare per una nuova esperienza di governo» disse scandendo le parole il 24 marzo di quest`anno, per poi aggiungere affinché non ci fossero dubbi: «La mia esperienza di governo termina con questa». E vero, sono trascorsi cinque mesi e le persone in cinque mesi possono cambiare look e dunque anche opinione. Ma Conte, il presidente che e «impossibile odiare, più facile sottovalutare» (copvright del biografo della Stumpu che lo proietta al Quirinale), questi stessi concetti li ha ribaditi pochi giorni prima di compiere il doppio salto mortale. Era il 25 luglio quando, rispondendo alle insinuazioni che giravano alle Camere e nelle redazioni, disse: «Che io possa andare in Parlamento a cercare maggioranze alternative è pura fantasia». Eppure dopo un mese il presidente del Consiglio che sta per succedere a sé stesso fra pochi giorni andrà proprio in Parlamento a cercare una maggioranza alternativa a quella che lo ha eletto. Aveva ragione Conte: ci vuole fantasia a immaginare che chi ha chiesto la fiducia sul decreto sicurezza possa chiedere la fiducia su un programma che prevede l`abolizione del decreto Sicurezza dopo appena 30 giorni. Certo, ci vuole fantasia anche a pensare che chi, in quanto capo del governo, davanti ai magistrati, alle Camere e al Paese si è intestato la decisione di chiudere i porti poi, da capo di un nuovo governo, possa promettere ai magistrati, alle Camere e al Paese di riaprirli. Uscendo dal colloquio con il capo dello Stato, il premier incaricato ha detto che il suo non sarà un governo «contro» ma un governo «per»_ E, come se si affacciasse per la prima volta a Palazzo Chigi, ha tracciato la direzione di marcia, parlando dell”intenzione di rendere rigoglioso il Mezzogiorno con la stessa convinzione in cui promise un zolg bellissimo, mentre, a proposito del programma, ha citato la necessità di infrastrutture sicure e di reti efficienti, quasi si fosse scordato di essere il rappresentante di un partito che le infrastrutture le ha bloccate per un anno e mezzo. Il suo non sarà più il governo del cambiamento, ma il governo delle novità. E per il Paese annuncia un «nuovo umanesimo», ma forse ha in mente solo una nuova giravolta_ Conte riceve l’incarico nel segno del trasformismo politico. L’avvocato del popolo non c“e più. Ora c’è liavvocato che al popolo nega le elezioni.

-:-Contrordine, compagni» versione 2.0. Pochi mesi fa, i giornali italiani facevano eco – in estasi – al velenoso Guy* Verhofstadt. che, a Strasburgo, aveva epostrofato Giuseppe Conte come «un burattino di Salvini e Di Maio». Essendo forse cambiati i burattinai, e mutato anche Iatteggiamento dei nostri grandi media, che ora descrivono favvocato del popolo come uno grande statista, un maestro di politica e pensiero. Dimenticate i sarcasmi sulla pochette o sul curriculum: adesso il premier e in una ideale teca. ha un altare t.ulto suo, una via di mezzo t.ra il Padre Pio di cui e devoto e un padre della patria giallorossa. Il più lirico, letteralmente fuori categoria, È: Giuliano Ferrara, in preda a un”eccitazione incontenibile_ Ecco due perle (rare, come Conte secondo Di Maio) su Twitter: vflonte. sempre Conte, supremamente Conte», «Aprite le porte a Gonde» (pronuncia pugliese, presumiamoI_ Ma e sul Foglio che Ferrara ha dato il meglio, descrivendo il suo nuovo eroe: -< Ha evitato lo sforamento baldorioso del delicit l_._). ha evitato un paio di procedure diinfrazione contro l’Italia (___), ha spiegato alla Merkel in un video fatale che il Truce era un rompicoglioni incontrollabile»_ Il Truce sarebbe Salvini. E Conte ha vinto il duello. barrisce felefant.ino: «Se l`è cucinato a puntino, mettendo il limone nel posto giusto nella sublime porchetta». Morale: «Il comportamento di Conte e stato la perfetta espressione del discrimine che (___) separa la coerenza dal masochismo_ (___) La coerenza a volte e solo l”ultimo rifugio delle canaglia». Entusiasmo condiviso dalliattuale direttore del Foglio, Claudio Ceraso, esultante per il fatto che l`Italia abbia «un nuovo governo: l`l1uropa». Avete capito bene: «l”unica svolta possibile» à «fare del prossimo esecutivo il laboratorio europeo delfantisovranismo». Eccitazione da pilota automatico o da guinzaglio, insomma. Nel sottotitolo dell’editoriale dell”alt.ro ieri di Cerasa. compariva anche un significativo «Slurpl »_ Intanto, nelle pagelle assegnate ieri dal Corsaro ~[a firma di Roberto Gressi), il premier sie preso un rotondo 7′. Ecco le motivazioni: «Lascia al palo Di Maio e Salvini che hanno creduto di poterlo manipolare. Per riuscire non e detto che sia indispensabile non avere macchie di sugo sulla cravatta e non masticare con la bocca aperta, pero aiuta». Eil miniritratto accosta Conte al Mister Wolf di Pulp Fiction {c_|.’.ello di «Risolve problemi»)_ Un trionfo. Duegiorniprima_,sempreil Corriere la firma di Marco Galluzzo) si era superato: « solida credibilità politica e umana», «uno stile fatto divari ingredienti: pazienza e spirito di sacrificio. competenza e autonomia-_ «uno standing conquistato sul campo anche sui tanti complicati tavoli internazionali», «doti di qualità, pazienza, temporanea». Su Lo Stampa, e Andrea Malaguti ad allestire l`altare dedicato a Conte, con tanto di foto (mini)napo_eonica: «Impossibile odiarlo, più facile sottovalutarlo_ Grave errore, perché l`avvocato del popolo difficilmente si fa distrarreil miniritratto accosta Conte al Mister Wolf di Pulp Fiction {c_|.’.ello di «Risolve problemi»)_ Un trionfo. Duegiorniprima_,sempreil Corriere la firma di Marco Galluzzo) si era superato: « solida credibilità politica e umana», «uno stile fatto divari ingredienti: pazienza e spirito di sacrificio. competenza e autonomia-_ «uno standing conquistato sul campo anche sui tanti complicati tavoli internazionali», «doti di qualità, pazienza, temporanea». Su Lo Stampa, e Andrea Malaguti ad allestire l`altare dedicato a Conte, con tanto di foto (mini)napo_eonica: «Impossibile odiarlo, più facile sottovalutarlo_ Grave errore, perché l`avvocato del popolo difficilmente si fa distrarre dagli obiettivi, e quasi mai li manca». E ancora: «Abile, furbo, educato, innamorato del figlio e mai divisivo, le riuscito a costruirsi un universo di relazioni straordinariamente largo che riesce a coltivare e a non ostentare». Fino alla profezia delle profezie, quella di «una salita al Colle non tanto per ricevere mandati, quanto per distribuirne». Avete capito bene: già presidente della Repubblica in pectore, con tre anni di anticipo. Su Repubblica, e stato mobilitato Francesco Merlo, firma di punta addetta ai Grandi Lut.t.i o ai Grandi Omaggi le ieri non era giorno di lutti)_ Per Merlo, Conte è «il quasi premier che ha castigat_o gli spacconi», in un tripudio di «giacche di sartoria, colonia al limone, gemelli ai polsi». E ancora: «l’aria tranquilla, serena, conversativa, amabile e indulgente_._». Mancano solo le testimonianze delle guarigioni procurate, ma ci si sta lavorando.

Non è del tutto vero che la politica di un tempo fosse migliore di quella odierna. È sempre stata un guazzabuglio di cose ai limiti della sporcizia. Oggi però è più ridicola e contraddittoria. Libero presenta nelle fotografie che aprono il giornale due personaggi di grande spessore comico, quella di Zingaretti e quella di Di Maio, autori di una giravoltaindimenticabile e indubbiamente spassosa nella sua tragicità. Il primo, basta leggere il testo, fino a ierlaltro, predicava con foga e passione eccessiva la propria avversione per il M5S, dicendo in occasioni pubbliche che mai e poi mai il Pd avrebbe stretto una intesa con i farabutti grillini, nei confronti dei quali nutriva assoluto disprezzo. Queste sue dichiarazioni altitonanti sono documentate da alcuni video che il nostro sito vi offre gratuitamente. Basta pigiare un tasto per verificare la faccia di tolla del segretario odontotecnico dei dem. Guardateli e ascoltateli e creperete dal ridere, constatando il voltafaccia clamoroso del soggetto in questione. Il secondo ritratto è quello di Di Maio, noto bibitaro esperto in congiuntivi errati, che imita Zingaretti, superandolo, in ipocrisia. Anche egli ribadisce con convinzione ferrea che non si assocerà neppure in caso di strage, a gentaglia postcomunista. Sia chiaro.Non sto riportando opinionimie, dato che non ne ho, bensì quelle dei leader democratico e pentastellato. Le loro parole al vento fanno venire i brividi e dimostrano che coloro i quali le hanno pronunciate sono autentici buffoni, banderuole indegne di essere prese in considerazione. Pagliacci che d’orain poi saranno padroni dei nostri destini. Per favore toglieteceli in fretta dalle palle ondeevitare di trasformarel’Italiain un caravanserraglio guidato da un branco di bugiardi e voltagabbana. Se ne renda conto pure Mattarella che si accinge ad affidare il Paese più bello del mondo alle cure di gente priva di scrupoli e analfabeta.

Così la strategia di Mosca sta normalizzando la Siria. La riconquista di Idlib è ormai prossima grazie ai russi. Che hanno frustrato i piani di Erdogan. L’offensiva si fermerà solo al confine turco. E la gente ora inneggia a Putin e ad Assad. Viaggio nell’ultima roccaforte jihadista.

Igor afferra il passamontagna, se lo cala in testa scende tra le rovine. È nato in Siberia 34 anni fa. Per almeno otto ha prestato servizio nei paracadutisti. Ora è un russo senza volto tra le macerie di Khan Shaikoun, la cittadella a sud di Idlib riconquistata dall’esercito siriano grazie all’appoggio chiave di Mosca. Gli americani lo chiamerebbero «contractor». A Igor la parola non piace. «Niet niet… siamo sicurezza privata», protesta mentre ci accompagna tra le macerie della città. Tra le braccia stringe un AK12, l’ultima versione del vecchio kalashnikov. Con la canna dell’arma ci mostra dove non mettere i piedi «Mine tovarish taliansky… mine achtung», ci spiega nel suo linguaggio rudimentale, ma efficace. Gli uomini senza volto come Igor, ex militari reclutati e pagati da agenzie private al servizio del ministero della Difesa di Mosca, sono ovunque. Accompagnano i giornalisti, controllano le vie d’accesso, discutono con gli ufficiali dell’esercito siriano trasformati in comparse mute e confuse. La battaglia di Khan Shaikoun, conclusasi pochi giorni fa, sembra il preludio della riconquista di Idlib, l’ultima provincia siriana ancora sotto il controllo di Tahrir al Sham, la costola siriana di Al Qaida, e degli altri gruppi jihadisti al soldo della Turchia. In questa battaglia la Russia ha cambiato ancora una volta le regole del gioco imponendo la propria legge con la forza delle armi e della strategia politica. Nel settembre di un anno fa Mosca strinse un accordo con iraniani e turchi. In base alle intese firmate ad Astana nel settembre 2018, l’esercito di Ankara era autorizzato a creare dei centri di osservazione all’interno della provincia siriana per contribuire, d’intesa con i russi, a disarmare i ribelli garantendone l’evacuazione. Ma non è andata così. Nonostante la presenza turca, i 12mila militanti qaedisti di Tahrir Al Sham, tra cui oltre 4mila combattenti stranieri provenienti da tutta la galassia islamista, Cina compresa, hanno preso il sopravvento costringendo anche i gruppi jihadisti armati e finanziati da Ankara a seguire i loro ordini. E la Turchia è stata al gioco. «In verità Erdogan non ha mai avuto intenzione di stare ai patti perché, dopo aver disarmato quelli di Al Qaida avrebbe dovuto per forza portarseli in Turchia», spiega a Il Giornale Mohammed Fadhi Sadoun, il vice sindaco di Khan Shaikhoun da poco rientrato in città. «Per questo – continua il vice sindaco – i servizi segreti turchi hanno da una parte lasciato mano libera ad Al Qaida mentre dall’altra hanno continuato ad armare le milizie jihadiste sotto il loro controllo. Il piano era semplice. Speravano che l’esercito siriano e i russi facessero fuori Al Qaida e che il controllo della provincia restasse ai loro miliziani. Ma si sbagliavano perché l’esercito siriano ha sloggiato entrambi». In verità a far saltare i piani turchi ci ha pensato Mosca. Nella strategia del Cremlino, Idlib rappresenta lo scacchiere fondamentale su cui giocarsi il futuro strategico e politico della Siria. Mentre Erdogan giocava con Al Qaida e gli altri gruppi jihadisti, Mosca ha riaddestrato, riarmato e riorganizzato le unità più efficienti dell’esercito siriano garantendosene il pieno controllo. Con quest’opera di sostanziale ristrutturazione dell’apparato militare siriano i russi hanno raggiunto un doppio obbiettivo. Da una parte hanno reso superfluo il coinvolgimento di Hezbollah e di tutte quelle milizie irachene e afghane controllate dai pasdaran iraniani fondamentali, in passato, per garantire il successo delle offensive di Damasco. Mettendo fuori gioco gli iraniani, come promesso da Vladimir Putin agli israeliani, il Cremlino ha di fatto assunto il pieno controllo delle operazioni sul terreno. La presa di Khan Shaikoun è diventata così la prova generale di un’offensiva destinata non solo a metter fuori gioco le forze ribelli, ma anche a disegnare il futuro politico della Siria. Tra i resti della Khan Shaikoun liberata il disegno è assai evidente. Nella spianata della moschea cittadina il generale russo Ravil Moughinov, 54enne comandante di una task force responsabile della ricostruzione, ha già assunto il pieno controllo della situazione. A tre giorni dalla ritirata di Tahrir Al Sham il generale ha avviato la ricostruzione della scuola e la distribuzione di pacchi di viveri con il simbolo della repubblica russa. «Il nostro obbiettivo – spiega con fare suadente – non è più combattere, ma ricostruire. La Russia vuole dimostrare che è possibile ritornare alla pace. Siamo stati i primi a intervenire quando nessuno muoveva un dito per fermare l’Isis e gli altri gruppi terroristi, ora vogliamo aiutare la Siria a risorgere dalle sue ceneri». Tutt’attorno qualche centinaio di civili, rientrati dopo quattro anni di esilio forzato dai villaggi e dalle città vicini, inneggiano non solo a Bashar Assad, ma anche a Vladimir Putin e all’aiuto russo. «Il mio povero figlio aveva solo 24 anni e i ribelli me l’hanno ammazzato. Ma Bashar Assad da solo non poteva proteggerci. Senza i russi ci avrebbero uccisi tutti. Per questo la Russia – spiega Ruba Hazlim, un’anziana sunnita con il capo velato – è diventata la nostra seconda madre». E Mosca – come s’incomincia a capire qui a Khan Shaikoun – ben difficilmente si tirerà indietro. Il nuovo fronte è solo tre chilometri a nord della città. Lì c’è ancora Tahrir al Sham. Lì ci sono ancora i miliziani jihadisti amici di Ankara. Da lì inizierà la nuova fase dell’offensiva destinata a fermarsi solo al confine turco. Solo a quel punto il Cremlino potrà a giocare a tutto campo e inseguire l’obbiettivo più ambizioso. Ovvero ridisegnare i futuri assetti politici e istituzionali di una nazione esausta e distrutta.

Nei tanti aneddoti che questa strana crisi sta regalando alla Storia patria, non poteva mancare la lezione sugli insegnamenti di Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer che la grillina Laura Castelli, già viceministro dell’Economia nel primo governo Conte, ha impartito a distanza agli ultimi eredi del Pci. Ieri pomeriggio, nel Transatlantico semideserto che fa da scenario alle consultazioni del premier incaricato, la Castelli ha affrontato il tema spinoso della nomina di Giggino Di Maio a vicepremier del governo giallorosso: nomina che i 5stelle reclamano, accanto a quella di un vicepremier del Pd, e che, invece, Nicola Zingaretti e il suo inner circle, rifiutano. «Proprio non li capisco!» ha esordito: «Lo dice una come me che, essendo nata nella provincia di Torino, ha conosciuto la scuola comunista. Quella vera. E sono sbalordita: mi aspettavo che, seguendo la liturgia di quel mondo, Zingaretti e gli altri proponessero un ruolo di primo piano a Di Maio, nella logica di coinvolgere maggiormente un alleato riottoso nel governo. Invece cincischiano, non capendo che se dicono “no” al vicepremierato di Di Maio ci creano un enorme problema. Irrisolvibile. Alla fine Renzi, che non pone nessun problema su Luigi, dimostra di essere il più intelligente. Si capisce perché alla fine li frega tutti». Una grillina che spiega Togliatti agli ex-Pci è davvero una chicca. Ma questa strana crisi, sospesa in una strana dimensione tra passato e presente, che mischia le qualità del buon mondo antico con i vizi di una drammatica attualità, in cui le tattiche diventano estenuanti e i bracci di ferro su menate di ogni tipo si moltiplicano, si sta trasformando in un interessante esperimento sull’antropologia e la cultura politica dell’attuale classe dirigente. Offre siparietti da non perdere, vere e proprie scene «cult», che non avrebbero nulla da invidiare neppure ai ciak a tinte forti di Pulp Fiction. Immaginate che ieri, mentre nella sala stampa della Camera i capigruppo grillini si sforzavano di cambiare la narrazione di una crisi vissuta sulla «voglia di poltrone», qualche metro più in là, nell’androne di Montecitorio, Rocco Casalino, portavoce del premier, si lasciava andare ad una battuta che è di per sé una storia: «Io dal mio studio di Palazzo Chigi non ho portato via neppure le penne. Ero sicuro che saremmo restati. Come si dice…? Mi sono incollato lì!». Musica per le orecchie di un Salvini che da giorni intona la litania sul complotto preordinato. Ma non è così, visto che i presunti complottisti sarebbero capaci di annegare nel bicchier d’acqua di un diverbio su un vicepremierato. E in fondo, a dirla tutta, la Castelli, descritta da molti come una sprovveduta, una dose di ragione ce l’ha. Almeno lei ha fatto tesoro delle storie origliate dei tempi passati. Si ricorda sicuramente, ad esempio, che Berlinguer non battè ciglio quando il vertice scudocrociato (fu l’ultima decisione di Aldo Moro) gli propose Giulio Andreotti, capo della destra dc, come premier del primo governo di solidarietà nazionale. Un modo per coinvolgere gli ambienti e i mondi più lontani dall’impresa di un governo che nasceva grazie all’astensione del Pci. Insomma, il pragmatismo democristiano e la realpolitik comunista, ci avrebbero messo un secondo a risolvere la disputa su Di Maio. Invece, sono giorni che si parla solo di quello. Eppure certi ruoli sono solo una fotografia della realtà. Se un domani, nato il governo, Giuseppe Conte dovesse convocare un vertice di maggioranza per mettere pace tra gli alleati, chi chiamerebbe in rappresentanza dei grillini? Chi dovrebbe garantire il compromesso, la mediazione per i 5stelle? Naturalmente Di Maio: e allora di che parliamo?! Tant’è che ieri i capogruppo del movimento hanno convocato una conferenza per dire con la voce di Stefano Patuanelli che «chi colpisce Di Maio, colpisce ognuno di noi». Messa così, è difficile che la soluzione sia diversa da quella che pregusta il premier Conte: o due vicepremier, o nessuno. Del resto, il radicale Riccardo Magi che lo ha incontrato ieri nelle consultazioni, lo paragona – con una buona fetta di fantasia – già all’«inossidabile Andreotti». Un politico pronto a spiegare anche l’inspiegabile: «Se il governo precedente era anti-europeo? Non è vero – ha risposto Conte ai suoi interlocutori – : mentre Salvini faceva i suoi proclami, io salvaguardavo i rapporti a livello internazionale». Ad un personaggio del genere la vicenda dei vicepremier appare come un falso problema. Lo ha spiegato pure al suo staff e magari a Zingaretti: «Per favore non datemi la grana di dover mediare con i 5stelle! Se ai vertici ci sono solo io, insieme a Franceschini e Orlando, poi toccherebbe a me la fatica di convincerli. Sarebbe meglio che lo facesse Di Maio, sul piano politico e per la mia salute!». Per cui alla fine, gira che ti rigira, è più probabile che i vicepremier siano due che nessuno. Del resto la politica ha una sua logica stringente: puoi ostacolarla, non fermarla. Di fronte agli errori o si cambia, o si paga. Salvini ha pagato caro l’azzardo che il segretario del Pd avrebbe potuto garantirgli le urne, accettando tranquillamente l’idea di andare incontro a una sconfitta e regalargli il Paese. Zingaretti ha dovuto piegarsi alla proposta di un premier come Conte, per evitare elezioni che gli costerebbero pure la segreteria del Pd. E sempre Zingaretti, se vuole un governo che duri, deve inglobare Di Maio, un’operazione che per andare in porto può richiedere un vicepremierato. Il buon mondo antico dimostra che in politica è meglio piegarsi che spezzarsi: lo sapevano i democristiani di una volta, come i comunisti. E ne sono consapevoli oggi gli eredi più gelosi delle tradizioni del vecchio Pci. Osserva Loredana De Petris, capogruppo di Liberi e Uguali al Senato: «Su Di Maio, Zingaretti per la terza volta trasformerà il suo no in un sì». Mentre Nico Stumpo, dello stesso partito: «In sezione quando ero piccolo mi hanno spiegato, che l’alleato più distante e infido, va avvolto e lusingato. Togliatti docet». Già, in un mondo normale quello dei vicepremier dovrebbe essere un falso problema o un problema già risolto. Le questioni sono altre: quale tecnico andrà al Viminale, il capo della polizia Gabrielli o il prefetto Morcone? Chi diventerà il nuovo commissario italiano a Bruxelles, Gentiloni o del Rio? Questa è la ciccia per cui vale accapigliarsi, insegnavano i democristiani e i comunisti di una volta. «Io sono fiducioso – è il pronostico di Matteo Renzi -: sono sicuro che la legislatura durerà fino al 2023. Il governo? Dipenderà dalla qualità dei ministri. Se il governo rischia di saltare per la storia dei vicepremier? Ma siamo seri, se succedesse un rutto li seppellirebbe!».