Il «nuovo umanesimo» di Giuseppe Conte entra nella fase due, anche se della prima non abbiamo trovato traccia che ci riporti a Petrarca o al Boccaccio, forse perché abbagliati dal genio di Danilo Toninelli, dalla profondità culturale di Luigi Di Maio, dagli slanci innovativi della ministra Grillo che, sui vaccini, ha coniato l’ossimoro «obbligo flessibile». Conte è una brava persona e un bravo oratore. Il discorso pronunciato ieri al Quirinale con il quale ha comunicato di aver accettato l’incarico di formare un nuovo governo – e centrato sulla «sfida per un nuovo umanesimo» – potrebbe essere pronunciato da chiunque in qualunque situazione e non mi sorprenderei se fosse un copia incolla di una tesi di laurea per aspiranti filosofi. Conte – girando su di lui un gioco di parole usato ai tempi per definire Gianfranco Fini – «è un uomo che non dice niente ma lo dice bene». Mi piacerebbe sapere quanti italiani sanno che cosa è stato «il vecchio umanesimo» (devo ammettere che anche io, al di là della definizione scolastica, faccio un po’ di confusione), figuriamoci quanti riescono a immaginare che diavolo potrebbe essere un «nuovo umanesimo» soprattutto se lo abbini alla faccia di Renzi o di Di Battista. Conte ci ha messo un attimo a cambiare abito. Nel primo giro gialloverde elogiò il populismo, fece da scudo umano a Salvini prendendosi la piena responsabilità per il sequestro della nave Diciotti e del suo carico di immigrati, firmò i decreti sicurezza uno e due, nulla disse sulla bizzarra conduzione formale del ministero degli Interni. Oggi, che ha bisogno dei voti del Pd, è diventato il più europeista degli europeisti, strizza l’occhio ai radical chic con la storiella dell’umanesimo, farà riaprire porti e centri di accoglienza, passa dal famoso «al governo uno vale uno» all’elogio della supremazia dei ministri tecnici. Diciamo che oltre all’eloquio ha altre similitudini con il trasformista Fini, l’unico ex fascista che si fece di sinistra per mantenere la poltrona (e fare fuori Berlusconi). Per sua fortuna, a differenza dell’ex leader di An, non ha cattive compagnie né cognati ingordi e neppure case a Montecarlo. Vedremo se questo basterà per non fargli fare, politicamente, la stessa fine.

Non ne posso più: io non sono un ipocondriaco”, esordisce così Carlo Verdone durante la serata di mercoledì che lo ha visto protagonista all’Arena CineVillage Talenti a Roma, in cui è stato nominato farmacista ad honorem. La motivazione? “Pur non perdendo l’occasione di farne materia di narrazione – ha letto il presidente dell’Ordine dei farmacisti – Verdone non ha mai dimenticato di mettere in guardia su cosa siano i farmaci: irrinunciabili strumenti se usati con proprietà, ma pericolosi se mal utilizzati”. E DI OCCASIONI di narrazione ve ne sono state. Sul grande schermo, per citarne solo alcune, Verdone è stato il prof. Raniero Cotti Bottoni, il luminare della medicina di Viaggi di nozze(1995) che con il suo “No, non mi disturba affatto” risponde al telefono a ogni paziente durante la luna di miele con Fosca, addirittura durante la prima notte o al funerale di lei, quando fa riaprire la bara poiché gli è scivolato dentro il cellulare. E ancora Bernardo di Maledet – to il giorno che t’ho incontrato (1992) che vuota sul letto il sacco di antidepressivi per trovare di che placare l’ansia di Camilla. E indelebile rimarrà la gag televisiva della farmacia notturna in cui dà voce ai diversi tipi di cliente/paziente, dal disperato in cerca d’aiuto al saputello che produce da sé le diagnosi. “Quella che ho per la medicina e per i farmaci”, racconta il regista romano classe 1950 che durante l’i n c o ntro indossa anche il camice da farmacista con tanto di caduceo appuntato sul bavero sinistro, “è una passione che deriva dall’infanzia. A casa dei miei genitori sono passati i più grandi medici: l’o n c o l ogo Gerardo D’Agostino, che ti faceva solo due domande e scriveva subito di cosa avevi bisogno; i chirurghi Paride Stefanini e Pietro Valdoni”. Ma non fu solo un derivato dell’ammirazione, per Verdone i farmaci appartengono al proprio lessico famigliare: “Il comò di mia madre era un sagrato di farmaci. C’e r an o vitamine, molti ansiolitici, stabilizzatori dell’umore. E poi c’era mio zio, che viveva con noi ed era nato col mal di testa: un giorno stava bene e sei no”. Il piccolo Carlo, allora, curioso e affascinato come in un negozio di giocattoli, ne prova qualcuno a caso e “Quasi ce restavo”, commenta con una risata, e ancora oggi è un fiume in piena, se deve annoverare i farmaci/giocattoli della sua stravagante fanciullezza, dai barbiturici alle aspirine, passando per le gocce. Poi, però, iniziò ad averne bisogno. “Una volta, a mia madre cadde accidentalmente del latte bollente sulla mia schiena, e da lì mi iniziarono a dare degli ansiolitici per calmare i tic che mi erano sopraggiunti”. DA QUESTA MISTURA (è il caso di dirlo) di accadimenti, proviene la fascinazione per la scienza medica: “Da ragazzo iniziai a leggermi tutta l’Enciclopedia medica della Curcio Editore. Ero convinto che avrei scelto medicina al l’università. A un certo punto però”, incalza con fare da affabulatore, “arrivai alla definizione di ‘tracoma’, un disturbo oculare serio. In quel periodo soffrivo con gli occhi e mi ero quasi convinto di averne uno. Capii di essere troppo emotivo e di non poter fare il medico”. Sogno professionale che si realizzerà nel prossimo film, Si vive una volta sola, in cui impersona un eccellente primario di chirurgia. Ma già adesso il dottor Verdone (la prima laurea honoris causa è in Medicina, conferitagli dall’Università Federico II di Napoli) non nega mai un consulto ad amici e parenti che chiedano conferma a lui dei pareri medici avuti. “A una mia amica ho salvato la vita. All’ospedale Gemelli le avevano diagnosticato la varicella, ma al telefono mi descriveva sintomi atipici. Ho un’illuminazione: è la Sindrome di Stevens-Johnson, non è da tutti diagnosticarla”, chiosa fiero, mentre in silenzio il pubblico attende lo scioglimento del racconto di Verdone che, proprio come al cinema, anche qui è sempre “malin-comico”: prende cioè le cose serie e le rende seriamente buffe, come una macchia sul vestito delle feste, è una cosa seria, eppure fa ridere. Riprende il racconto: “La mando subito all’ospeda – le Spallanzani dove il primario ha in una mano la diagnosi di varicella e nell’altra il cellulare con i miei sms in cui ordinavo di farle subito il cortisone. Com’è andata a finire? Si è fidato di me, e la mia amica ancora è viva”. Applausi!

Ridere è un mistero. Ci sono circa duemila modi di ridere, secondo gli scienziati, e se penso a tutto il tempo che ci hanno messo a catalogarli mi viene da ridere. Si ride anche di quello che non si vorrebbe. Si può ridere con razzismo, con cinismo, con disprezzo. A tutti noi qualche volta nella vita capita di fare una di queste risate. Ridere nasce da equilibri e squilibri molto complicati. Il tempo comico o ce l’hai o non ce l’hai. Se voi siete dei NON raccontatori di barzellette, la vostra condanna è eterna. Questo non vuole dire che non avete senso dell’u m o r ismo, semplicemente che non avete in dono le pause, i ritmi, o la dilatazione teatrale necessaria per raccontarle. E se insistete a raccontarle, avrete in risposta da chi ascolta quel sorriso di compatimento che è peggio di uno schiaffo. A meno che non siate molto potenti, allora i sottoposti rideranno ma è puro servilismo. LA RISATA va guadagnata. Un attore sa che ogni sera il pubblico riderà spesso negli stessi punti, ma talvolta in punti diversi, o in ritardo, in controtempo, oppure riderà quando non c’è da ridere. O non riderà affatto. Ma il vero attore comico si vede quando, passata l’inerzia iniziale di simpatia, conquista tutti, anche quelli che non sono disposti a ridere. Le risate finte televisive sono un trucco che ogni attore comico dovrebbe rifiutare. Peggio che simulare l’orgasmo. Nei libri le risate finte non ci sono. Però c’è gente che legge i libri così bene che fa ridere a ogni pagina. I bambini ridono quando si stupiscono, dovrebbero esserci di lezione. Il riso dovrebbe nascere dallo stupore, non dalla serialità o dai tormentoni. Si può raccontare e far ridere, ma adesso si preferiscono le mitragliate di brevi gag, il racconto non è importante. Ridere è terapeutico ma ridere sempre e troppo è segno di una patologia di imbecillità. I politici non ridono, sogghignano. RIDERE È UNA VERITÀpenul – tima, la propaganda e la serietà minacciosa dicono di possedere la verità ultima, ma noi sappiamo che non è l’ultima, è l’ultima per un breve tempo. È molto difficile ridere di sé stessi. Bisognerebbe tenere una statuetta di Totò sul comodino che ogni tanto ci dica “mi faccia il piacere!”quando facciamo gli sbruffoni. Ci sono dei linguaggi come il medichese, lo psichiatrico, l’avvocatese, il manageriale, il militaresco che è facile parodiare per far ridere. Ma coloro che parlano questi linguaggi tutti i giorni e li ritengono sacri spesso non ridono della parodia, anzi si offendono. Io non rido molto, ridevo di più una volta non so perché. Mi vengono attacchi di allegria senza ridere, questo sì. QUELLI CHE MI HANNO fatto ridere e che ringrazio sono mille, l’elenco è ridicolmente incompleto. Ringrazio tra i libri Rabelais, Poe, Queneau, Mark Twain, Douglas Adams, Dorothy Parker, Achille Campanile, Ennio Flaiano e Carmelo Bene (ebbene sì, un genio del ribaltamento ironico) e poi Stanlio e Ollio e Buster Keaton e il dottor Stranamore e Belushi e Tognazzi, Troisi, Paolo Poli e altri cento e sopra tutti Totò, Totò e ancora Totò. Non parlo dei vivi perché molti sono miei amici e altri sono permalosissimi ma sono tanti, specialmente attrici. Dico Totò perché contiene tutto il mistero e le contraddizioni del comico e del ridere. Bellissimo e brutto, volgare e nobile, sguaiato e raffinato, allegrissimo e triste creatore di linguaggio e suo sabotatore. Sempre inafferrabile. E mi fanno ancora ridere i cartoni animati, Wilcoyote per me è il Beckett dei cartoons. Il duello di magia della Spada nella Roccia è la mia droga. Ogni tanto devo rivederlo. NON RIDO OGGIdi quel che ridevo ieri e domani chissà? Si può ridere anche della morte, e molte strane morti fanno pensare che talvolta, anche la Vecchia con la Falce abbia sense of humour. Ci sono cose su cui faccio fatica a ridere e inventare battute. Sono ad esempio la guerra e la catastrofe climatica. Divento pedante e serissimo. Ma altri dicono che si deve e si può ridere di tutto. A loro lascio questi argomenti. I miei libri mi fanno ridere? Se li rileggo, qualche volta sì, e mi fa piacere. Mi fa piacere che ogni lettore rida di una pagina diversa, di una battuta diversa e, come in teatro, rida anche quando non c’è niente da ridere. Gli animali mi fanno molto ridere, perché non sanno che fanno ridere e questo li rende irresistibili. In Italia per finire, c’è gran consumo di umorismo, ma il senso dell’umorismo è calato. Gli haters sono il triste segno de ll’ironia perduta. L’I tal ia ride spesso a bocca stretta e non è una risata liberatoria, è una risata isterica. Forse un giorno torneremo a saper raccontare e inventare umorismo da soli, non ingoiarlo dalla televisione. Ah sì, per finire mi fa ridere Marco Travaglio in televisione quando sta tutto serio e dandy a bocca stretta perché quello è il suo personaggio, e si vede benissimo che gli scappa da ridere e intanto pensa: ma io che cazzo ci faccio qui. O sbaglio?

Il quartiere di Sham Shui Po, nelle guide turistiche, è descritto come luogo pittoresco per i suoi mercatini, i negozi specializzati in elettronica e il cibo di strada. Spariti i turisti frettolosi da un paio di notti e via, a Sham Shui Po restano i ragazzi che vi abitano, e che da ormai 13 settimane fanno parte dei dimostranti che si battono contro il governo di Carrie Lam. La polizia ne è ben consapevole, tanto che non appena uno studente compra penne-laser, gli agenti in borghese lo arrestano, come è accaduto a Keith Fong Chung-yin, 20 anni, capo dell’associazione studenti della Baptist University. Fong ne aveva prese dieci, di penne. I poliziotti sostengono che sono strumenti da utilizzare contro di loro; durante gli scontri di piazza i ragazzi puntano i raggi laser negli occhi delle squadre antisommossa per disorientarle. CHI ABITAa Sham Shui Po non protesta “s ol o” per la legge sull’estradizione che permetterebbe a Pechino di portar via elementi ritenuti pericolosi e per le violenze della polizia che – accusano le donne –ora avrebbe anche connotazioni specifiche contro di loro, usando gli abusi sessuali come deterrente; in realtà a Sham Shui Po la rabbia cova da parecchio e fa parte di un disagio quotidiano. Una delle questioni sul tappeto è il mercato immobiliare. Una casetta di 13 metri quadrati è affittata a 750 dollari al mese. Lo stipendio di un praticante che ha appena iniziato a lavorare per uno studio di professionisti – dunque, non un operaio – è di 1.300 dollari al mese. La fascia più ricca è rappresentata dal 10% della popolazione: guadagna uno stipendio mensile dieci volte superiore. Per molti giovani di Hong Kong, possedere una casa – a r g omento centrale dell’identità del lavoratore medio post-1997 – è fuori portata. Esempio: nel quartiere c’è il progetto di un nuovo edificio di 22 piani: l’abitazione più grande sarà 20 metri quadrati, la più piccola 12. Il piano più basso è in vendita a circa 260 mila euro. L’edilizia popolare non risolve il problema; secondo le statistiche del governo, ci sono quasi 150.000 persone in lista d’attesa per un appartamento a canone agevolato e il tempo medio di attesa è di oltre 5 anni. L’obiettivo di costruire 280.000 nuovi appartamenti entro il 2027 non è fattibile e così sempre più persone sono costrette ad affittare minuscoli appartamenti da privati. NELLA STAGIONE degli arresti, a Sham Shui Po ci ridono sopra: la cella di una prigione di Hong Kong è grande in media 7 metri quadrati, non molto diversa da molte abitazioni. A Hong Kong, dunque, ci sono molti motivi per essere arrabbiati. Ieri la Cina ha di nuovo mostrato i muscoli con una “rotazione” di truppe. Pechino ha descritto questa fase come “ordinaria” ma di fatto ci sono 8-10.000 soldati in preallarme: rispetto ai mesi recenti, e l’attività è frenetica intorno alla base militare di Shek Kong. “Prima di arrivare, abbiamo studiato la situazione – ha detto il tenente colonnello Yang Zheng, in un video diffuso dai media cinesi – abbiamo rafforzato il nostro addestramento per adempiere ai nostri obblighi di difesa di Hong Kong”. La polizia ha negato il permesso al corteo di Civil Human Right Front, gruppo di mobilitazioni pacifiche pro-democrazia, che era in programma domani. L’itinerario prevedeva il raduno a Chater Garden, nel cuore della città, e poi corteo verso l’ufficio di rappresentanza della Cina. Le autorità hanno ritenuto che il corteo sarebbe passato vicino a “sedi sensibili”, come la Government House e la Court of Final Appeal. L’opposizione non se la passa bene: il leader di Civil Human Right Front, Jimmy Sham, ha denunciato di essere stato inseguito da due uomini armati di mazza da baseball e coltello; lui ne è uscito indenne ma un amico è rimasto ferito. Il movimento ha presentato appello per ottenere il permesso di fare il corteo. A Sham Shui Po, gli agenti tengono d’occhio i negozi e le bancarelle che vendono le penne-laser: le maschere antigas sono arrivate a 200 dollari l’una.

A Ravenna Romano Prodi viene accolto come una vecchia rock star. Sala piena, pubblico in piedi, standing ovation di due minuti. Non veniva a una festa dell ’Unità da 11 anni. L’et erno Professore non sembra poi tanto invecchiato dagli antichi fasti di Piazza Santissimi Apostoli (erano i gloriosi anni 90): è asciutto e abbronzato, ride, si toglie subito la giacca, saluta calorosamente la platea. È CONSIDERATO tra i principali artefici della svolta penta-governista del Pd: la necessità di un’alleanza con i detestati grillini l’ha scritta lui tra i primi, in un editoriale sul Me ssa gger o, parlando di “modello Orsola” (cioè la “versione italiana”di Ursula von der Leyen, commissaria europea baciata dai voti di Cinque Stelle e dem). Il professore non lo nasconde, anzi lo rivendica con un certo orgoglio: non è il “padre nobile”del governo che sta nascendo, ma per questioni anagrafiche. Però “nonno n ob i l e” sì, eccome. “Qual era l’alternativa?”, chiede, con una domanda retorica, a questo incontro forzato tra il Movimento e il Partito democratico?. D’altra parte, come spiega con una punta di civetteria, “Salvini mica l’ho fatto fuori io, s’è fatto fuori da solo: si riteneva simile a Dio…”. Il Professore è tornato in cattedra e non scende più: a Ravenna è venuto a dare la linea. “Serve un programma comune e questa esperienza deve durare, anche faticosamente, per tutta la legislatura”. Elargisce consigli: “Bi – sogna stare attenti alla formula. Grillo dice di fare un governo di tecnici… niente affatto! Non avrebbe forza. Va fatto un governo politico”. Ma non col “m anuale Cencelli, altrimenti è finita”. Invece servono ministri “di garanzia”, al di fuori delle correnti: “Tre o quattro. Ai miei tempi c’erano figure come quella di Ciampi. Non erano graditissime da tutti, ma erano credibili. Quando c’era tensione, sapevano mettere in sicurezza il governo”. Lancia un’altra proposta: “Serve un ministero che si occupi solo di immigrazione. Un ministero dell’Integrazione”. Anche se “lo Stato deve esercitare un controllo sulle Ong”. Poi indica gli argomenti dirimenti: “Distribuzione del reddito, nuovo rapporto con l’ambiente, sicurezza riguardo salute e scuola, ovvero il welfare. E basta: questi sono i punti. E poi serve una lotta spietata all’evasione fiscale”. LA LUNGA ALA protettiva di Prodi abbraccia Nicola Zingaretti: “Chi decide tra lui e Renzi? La cosa è semplicissima: nel Pd comanda il segretario”. Grande applauso della platea. E poi aggiunta ironica: “Ieri nel discorso conclusivo Zingaretti ha avuto un solo voto contro. Una roba sovietica. Per il Pd è incredibile”. A intervistarlo c’è Lucia Annunziata, la direttrice di Huffin – gton Post che si è schierata con nettezza per le elezioni. La prima domanda gli strappa un sorriso: “Le piace Conte?”. Risposta sardonica: “Vediamo”. Seconda domanda: “È il suo erede?”. Altra risata: “Auguro al suo governo di durare più dei miei”. Poi la giornalista lo chiede al pubblico: “A quanti di voi piace Conte?”. Le mani che si alzano sono pochine. Ma a Prodi nulla toglie il sorriso: “È una buona minoranza”. A Ravenna l’ex premier sembra uno dei pochi che ha idee imperturbabilmente chiare. Nell’estate del 2019, quella del grande compromesso con i Cinque Stelle (se sarà storico, lo dirà il tempo), “la grande comunità po liti ca” del Pd sembra aver smarrito i punti cardinali. Così succede che prima di Prodi, uno degli applausi più fragorosi della serata se lo prenda Oscar Giannino, speaker radiofonico, vecchio repubblicano, vivace intellettuale di (centro)destra: “Vi mando un forte abbraccio perché la prova che vi aspetta è fondamentale per la tenuta civile. Sarà cruciale per non consegnare Italia a un autoritarismo pericoloso per la libertà”. Giannino è uno degli ospiti della festa del Pd in un dibattito in memoria di Massimo Bordin, la voce di Radio Radicale che se n’è andata ad aprile. Bordin, come Giannino, detestava cordialmente il Movimento Cinque Stelle. Quel Movimento Cinque Stelle che ha provato, ed è quasi riuscito, a chiudere Radio Radicale. SUL PALCO c’è anche Roberto Giachetti. Era il candidato di Renzi contro Zingaretti alle primarie dem. Il suo programma consisteva in sostanza in un solo punto: mai alleanze con i Cinque Stelle (“il Pd muore se va con loro”). Nel frattempo Renzi è diventato l’uomo che ispira e rivendica il patto con i grillini e Giachetti – mentre omaggia l’an – tigrillino Bordin e la radio che i grillini volevano spegnere – non si sente tanto bene. “Il momento – dice – è molto particolare. Ma abbiamo dimostrato una grande capacità di lettura degli eventi”. Dice proprio così: è la più creativa definizione della grande giravolta del Pd e dei Cinque Stelle. “Una grande capacità di lettura degli eventi”. Beato il popolo che non ha bisogno di Prodi.

S e fossi Giorgia Meloni sarei incazzata nera con Matteo Salvini per avermi di fatto ignorata quando ha deciso di mandare a gambe all’aria, da un mojito all’altro, e nel momento sbagliato, il governo gialloverde. E se pure qualcosa mi aveva fatto capire, non gli perdonerei di non avere tenuto in debita considerazione i miei inviti alla cautela. SAREI MOLTO arrabbiata con lui per aver considerato Fratelli d’Italia una specie di ruota di scorta del Carroccio. Di non averne apprezzato coerenza e lealtà. Di essersi fidato più di quello Zinga lì che del mio intuito politico (femminile). Per esempio, quando il segretario Pd gli prometteva elezioni subito, e io non escludo conoscendo la doppiezza sinistra che fosse pure lui d’a c c or d o con Matteo Renzi per fare il governo con i grillini e un pacco a Salvini. Ma, soprattutto, non gli perdono di aver mandato a puttane (scusate ma quanno ce vò ce vò) il progetto del primo governo sovranista d’Italia (lui a Palazzo Chigi e io perché no al Viminale) che era una pera matura che andava solo raccolta. E invece lui che ha fatto? Se l’è mangiata. Se fossi Giancarlo Giorgetti (o Luca Zaia, o una delle tante persone serie della Lega) sarei imbufalito con Matteo per non averci dato retta quando gli dicevamo di staccare la spina a quegli incapaci dei nostri alleati immediatamente il 26 maggio, dopo che li avevamo doppiati alle Europee e barcollavano come pugili suonati. Se fossi il capogruppo leghista al Senato, Massimiliano Romeo (o quello della Camera Riccardo Molinari) sarei rispettosamente perplesso (ma solo un pochino) per la decisione del nostro amatissimo Capitano di aprire la crisi ricacciandoci nell’oscurità sfigata dell’opposizione. Ma avrà avuto sicuramente le sue ragioni né possiamo pretendere che ce le venga a dire a noi e ci accontentiamo che ci consenta qualche comparsata da Mentana o ad Agoràcosicché i nostri cari, a Monza e ad Alessandria, sappiano che esistiamo ancora. Se fossi Gian Marco Centinaio, gli chiederei: aho ma che ti è saltato in testa di aprire la crisi proprio quando giravo in moto per la Sardegna, abbronzatissimo e con le basette fighe, e mi hai fatto tornare di corsa e ora non ho più neanche quello straccio di ministero agricolo, ma porcaccia di quella miseria! Se fossi Silvio Berlusconi metterei un’altra tacca sulla spalliera del lettone di Putin, accanto a quelle di Fini, Follini, Bondi, Cicchitto, Alfano e di tutti gli scappati di casa che hanno tentato di farmi le scarpe invece di lucidarmele. Indovinate a chi sto pensando? Se fossi Luigi Di Maio mi sentirei profondamente deluso, perché ho imparato a conoscere il cinismo della politica, ma non avrei mai pensato al cinismo di chi si dichiara tuo amico e poi ti accoltella alle spalle. SE FOSSI GIUSEPPE Conte sarei riconoscente a quel pirla del mio ex vicepremier (a Volturara Appula si dice qualcosa di più forte) che pensava di liquidarmi e invece, grazie grazie, ha fatto la mia fortuna. Dandomi perfino l’opportuni – tà di esprimere davanti all’Ita – lia tutta che cosa penso realmente di lui, tra gli applausi scroscianti del Senato. Poiché non serbo rancore (ah ah) lo invito a venirmi a trovare a Palazzo Chigi, così magari ci riconciliamo sorseggiando un bel mojito (ah ah ah). Se fossi Matteo Salvini non saprei capacitarmi della gigantesca cazzata che ho fatto e penserei seriamente di ritirarmi della politica e di accettare una poltrona, anzi un trespolo, da addetto alla sicurezza con pieni poteri su parco giochi e karaoke, da parte dei miei fedeli amici di Milano Marittima. Pronto? Come? Niente da fare? Che diavolo significa che la pacchia è finita?

La Mare Jonio dovrebbe sbarcare e il decreto Sicurezza bis dovrebbe essere “abolito” o comunque “profon – damente modificato”. Sia perché è in “più punti “inco – stituzionale”, sia perché “non corrisponde alla cultura e ai valori del nostro Paese”. Con queste parole, nell’intervista pubblicata ieri dal F at to , il prefetto Mario Morcone –tra i papabili nel ruolo di futuro ministro dell’Interno – ha messo le cose in chiaro: se mai dovesse ricoprire il ruolo di Matteo Salvini, esistono paletti non negoziabili. ATTUALE direttore del Consiglio italiano rifugiati, da capo di gabinetto di Marco Minniti al Viminale, Morcone s’è occupato del codice di condotta per le Ong. Ma il superamento del decreto Sicurezza bis varato dal governo Conte, a suo dire, è necessario non solo per le politiche migratorie. Non si tratta di paletti da poco, considerato che il M5S ha approvato con convinzione i passaggi messi in discussione. Di certo, la posizione di Morcone, visto che è la sua area politica, incontra i favori del Pd. Ma con qualche novità, se stiamo alle poche ma incisive parole pronunciate ieri da Graziano Delrio, capogruppo Pd a Mon tecito rio: “Sui migranti bisogna partire da una nuova legge quadro che contempli flussi regolari”. La vera novità è che, secondo Delrio, ci sarebbe già un accordo col M5S per una profonda revisione o cancellazione dei decreti Sicurezza promossi da Salvini. Ipotesi probabile se alle parole di Delrio associamo quelle che Francesco D’Uva, seppur timidamente, ha pronunciato sullo stesso argomento. Il capogruppo M5S alla Camera ieri ha dichiarato: “Ci sono rilievi fatti dal capo dello Stato che non possono essere ignorati. Si può lavorare su quello”. Un’apertura vestita dall’o p p o rtuno rispetto istituzionale, che lascia intravedere modifiche sostanziali sull’a pproccio alle politiche migratorie e ai rapporti con le Ong. E infatti Salvini commenta: “Leggo che le prime leggi saranno sui decreti Sicurezza. Faranno un torto agli italiani, non a Salvini. Qualcuno vuol far ripartire il business del l’immigrazione clandestina?”. Tra i rilievi avanzati dal presidente Mattarella nelle sue due lettere di richiamo, quello che riguarda migranti, soccorsi e Ong è piuttosto pesante. Si parte dall’ammenda prevista per le Ong che non rispettano le regole imposte dal decreto. Ammenda che può arrivare fino a 1 milione di euro. Secondo il Colle si tratta di una pena che non rispetta “la necessaria proporzionalità tra sanzioni e comportamenti”. Se non bastasse, Mattarella ha sottolineato che l’Italia deve rispettare i trattati internazionali e, di conseguenza, non può ignorare l’obbligo di salvare le vite umane. RECEPIRE la posizione del Colle, dall’ammenda al rispetto delle norme internazionali, non soltanto significa rimettere pesantemente mano al decreto Sicurezza bis ma, anche alla luce della nuova alleanza con il Pd, rivedere radicalmente l’a pp r oc ci o all’intera politica sui flussi migratori e i soccorsi, con il quale la linea dei “porti chiusi” non sembra compatibile. L’argomento è scomodo, anche perché i ministri della Difesa e dei Trasporti, Elisabetta Trenta e Danilo Toninelli, entrambi M5S, due giorni fa hanno controfirmato il divieto d’ingresso anche per la Mare Jonio, che batte bandiera italiana. Trenta ieri ha tentato qualche distinguo: “Credo che il ministro dell’In – terno non possa azzerare il diritto di bambini, donne in gravidanza e ammalati d’es s er e soccorsi. Il loro soccorso diventa diritto di ingresso: a fianco del decreto Sicurezza sono vigenti, per fortuna, norme internazionali e interne che lo impongono”.

Fatto il premier, ora bisogna fare il programma e i ministri. E sarà lì, come avverte Beppe Grillo, che si misurerà il tasso di discontinuità del Conte-2 in salsa Aurora. Il premier, che un anno fa era descritto dai giornaloni come un mezzo impostore e un totale burattino e ora nuota nella bava e nella saliva degli stessi che lo insultavano, cita spesso l’articolo 54 della Costituzione: “…I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore…”. È il fondamento della questione morale in aggiunta a quella penale, sempre ignorato dai premier precedenti, anche perché le loro squadre ministeriali erano zeppe di inquisiti, condannati e chiacchierati senza disciplina né onore. Fece eccezione il Conte-1, che non aveva ministri nei guai con la giustizia, anche se poi Salvini impose come sottosegretari Siri (che aveva patteggiato per bancarotta fraudolenta) e alcuni imputati. Stavolta, stando al Toto-ministri, almeno quel pericolo pare sventato. E sarebbe già un bell’elemento di discontinuità. Però non basta, perché ci sono personaggi che, pur intonsi sul piano penale, dovrebbero restare fuori per motivi etici o di opportunità: Conte dovrà fare una sana raccolta differenziata. Tutti parlano del o dei vicepremier (carica inesistente nel nostro ordinamento) e dell’In – terno, degli Esteri, dell’Econo – mia. Ma non vorremmo si trascurassero i nodi delle Infrastrutture e dell’Ambiente, fondamentali per un governo che voglia imboccare la strada dell’economia greene circolare, con l’obiettivo dei rifiuti zero e delle energie rinnovabili. Lì un disarmo bilaterale sarebbe opportuno. Delrio, brava persona, non ha brillato (per usare un eufemismo) su grandi opere, concessioni autostradali e controlli su strutture pericolanti come il Ponte Morandi: meglio che si tenga alla larga. Idem Toninelli, non tanto per le gaffe, quanto perché a dispetto della retorica sul Partito del No ha detto fin troppi Sì: a opere inutili, costose, dannose e pure bocciate dalle analisi costi-benefici da lui stesso disposte. Grillo invoca grandi “es pe rt i”: se insieme a Conte riuscisse a convincere Renzo Piano, Carlo Rubbia, Salvatore Settis o figure del loro calibro a mettersi in gioco per le politiche del territorio, del decoro, dell’energia e della cultura, si eviterebbero le solite facce ammuffite e tutti capirebbero il senso della parola “discontinuità”. Invece chi ha già fatto bene, come Gentiloni agli Esteri, Minniti all’Interno, Di Maio al Lavoro, Bonafede alla Giustizia e pochi altri, dovrebbe completare l’opera. Dell’ultimo governo non tutto è da buttare. E neppure del penultimo.

Sotto al monumento di Karl Marx, nella città tedesca di Chemnitz, al confine con la Repubblica ceca, il 15 agosto c’erano centinaia di persone ad aspettare il comizio di Robert Habeck, leader, assieme ad Annalena Baerbock, dei Verdi tedeschi. Quello stesso luogo, la scorsa estate era stato il punto di ritrovo dei manifestanti di estrema destra, protagonisti delle proteste anti immigrazione che hanno trasformato la città nel simbolo del ritorno dell’intolleranza e della violenza razzista. Fino a poco tempo fa sembrava impossibile che il comizio di un politico di sinistra potesse invece riscuotere successo, essere ascoltato e applaudito proprio lì. Ma mentre i Verdi nelle zone orientali della Germania pensavano di non poter ottenere granché, si accontentavano anzi di superare la soglia di sbarramento per accedere ai parlamenti dei Länder, stava succedendo qualcosa: anche l’est iniziava interessarsi alla loro politica. Racconta l’Atlantic che qualche giorno prima, a Zwickau, sempre in Sassonia, Habeck aveva tenuto un altro comizio, questa volta in un ex deposito di gas e gli organizzatori, avevano preparato la stanza per 250 persone, ma non era stato sufficiente, e più ci si avvicinava all’orario del comizio, più la gente continuava ad arrivare, stava in piedi, si accalcava sulla porta, lo stesso Habeck era sorpreso, tanto che prima di iniziare l’evento si era assicurato che le persone avessero capito che quello fosse un evento dei Verdi. Infatti il partito, che negli ultimi anni sta conoscendo un’ascesa politica molto rapida, finora contava soprattutto sul voto della parte orientale della Germania, dalle grandi città, con un elettorato urbano, benestante, di sinistra. Invece i sondaggi hanno iniziato a mostrare che in Sassonia i Verdi sono arrivati all’11 per cento e in Brandeburgo al 14, più del doppio rispetto a cinque anni fa. Domenica nei due Länder ci saranno le elezioni e le statistiche danno in vantaggio l’AfD, il partito di estrema destra fondato nel 2013, ma nonostante i voti ha poche speranze di governare. Per farlo dovrebbe entrare in coalizione con altri partiti, che però hanno già tutti escluso la possibilità di formare dei governi di coalizione con l’estrema destra. I Verdi, invece, potrebbero entrare a far parte dei governi di tutte e due le regioni. Robert Habeck è un politico molto popolare, secondo alcuni sondaggi è il più popolare del paese, anche più della cancelliera Angela Merkel, ed è stato proprio lui a prendersi a cuore la causa orientale e la passione dell’ex Germania comunista per i problemi legati all’ambiente. L’ex scrittore convertito alla politica, secondo alcuni potrebbe diventare il futuro cancelliere, c’è chi invece rimane scettico, come il quotidiano Spiegel, secondo il quale, Habeck piace, e anche tanto, ma è la sua forma che cattura, la sua capacità di trasformare in performance i comizi e gli eventi, non tanto i contenuti. Le differenze tra l’est e l’ovest, dall’unificazione della Germania, stanno aumentando. Studi e sondaggi dimostrano come le due parti votano, ragionano, lavorano in modo diverso. Ma nei Länder orientali dove almeno un elettore su quattro vota AfD, è strano notare l’ascesa di un partito come quello dei Verdi che propongono una politica di apertura e di accoglienza con l’immigrazione e accelerare la chiusura delle centrali inquinanti a carbone, la maggior parte delle quali si trova proprio nella parte orientale.

I satelliti per vedere la monnezza Ogni aiuto a Roma è bene accetto, ma servono soluzioni terra terra.

E’ stato appena lanciato un progetto pilota tra l’Ama, l’azienda municipalizzata che si occupa della nettezza urbana a Roma – meglio: che si dovrebbe occupare della nettezza urbana a Roma – e Telespazio per monitorare i rifiuti con CosmoSkyMed. In parole povere: le immagini fornite da un satellite aiuteranno il Comune a capire dove sono i rifiuti a Roma. Ora, per carità, qualsiasi aiuto è benvenuto pure dallo spazio per la capitale, ma dove sono i rifiuti possiamo pure dirlo noi. Sono ovunque. E’ sufficiente girare per le strade e guardare attorno ai cassonetti. E’ suf – ficiente ascoltare i cittadini. Sarebbe sufficiente una coppia di vigili urbani su una Fiat Panda del 1994 per individuare la monnezza a Roma. Il problema è poi raccoglierla ed eliminarla e il satellite non può farci nulla. Apprezziamo la voglia di innovazione, non vediamo l’ora che il Comune metta in campo i siluri fotonici contro i ratti e acquisti una flotta di autobus ignifughi, ma ci bastano soluzioni più terra terra. Invece tra gli addetti comunali che vietano ai turisti di sedersi sulla scalinata di Piazza di Spagna mentre il resto di Roma è messo come è messo e le immagini satellitari usate per individuare la monnezza anche se tutti sanno dire dov’è – pure a occhi chiusi – è come se ci fosse il sospetto di essere presi per i fondelli. E tra poco arriveranno le piogge autunnali, che con i tombini otturati da foglie e sporcizia rischiano di trasformare le strade in canali. Perlomeno saranno foto satellitari spettacolari. Piccolo consiglio: quando i cumuli della spazzatura li vedi dallo spazio, vuol dire che qualcosa a terra non sta andando per il verso giusto.