“Guardi, ho pochissime capacità previsionali, ma l’ambito dal quale muovo il mio punto d’analisi è che la politica non potesse dare altra prova che la sua morte”. Fausto Bertinotti dice al Foglio che il possibile accordo per formare un nuovo governo fra Pd e Cinque stelle rientra in questa generale analisi di sistema, fortemente negativa, che, aggiunge Bertinotti sorridendo, “lo ammetto, non è né brillante né movimentata”. Tuttavia, “quello che vediamo sono davvero gli spasmi della morte della politica. E quando dico politica intendo quella forma di democrazia costituzionale per come l’abbiamo conosciuta nel secondo dopoguerra”.

Una democrazia, dice Bertinotti, “secondo la quale la politica si guadagnava una relativa autonomia attraverso il suo rapporto con il conflitto sociale con la società e con il popolo. Era l’ordinamento costituzionale a dettare la vocazione della politica”. E la vocazione della politica era “perseguire l’eguaglianza, questo lo diceva persino Norberto Bobbio che pure aveva un’idea diversa dalla mia. La politica, così generata e rigenerata, aveva un suo statuto di autonomia. Non solo, quella politica conteneva un’idea di società alternativa legittimamente iscritta nella politica medesima”. Molto bene, dice Bertinotti con franchezza, “ora quella politica è morta. E’ stata uccisa nell’ultimo quarto di secolo”. Il possibile accordo Pd-Cinque stelle ne è la testimonianza? “Non solo. Provo a dirla così: la politica deprivata di autonomia si è racchiusa nel governismo, cioè nella possibilità di apparire sullo schermo in possesso di una vita apparente, cioè attraverso il governo. E il governo è a sua volta eterodiretto”. Negli ultimi 25 anni prima c’è stata la rottura nel “rap – porto tra il parlamento e il paese, a partire dal suo rapporto con il conflitto sociale, poi il parlamento è stato a sua volta sequestrato dal governo. Non raccontiamocela: decretazione d’urgenza, voti di fiducia, un sistema maggioritario che ti chiede di scegliere il governo ma ti impedisce le politiche da fare. Il governo a sua volta viene cooptato in un sistema di governi. Mi viene da sorridere a dirlo, ma questa polemica contro l’Europa è ridicola. Il suo carattere oligarchico lo hanno costruito i governi nazionali, a partire da Maastricht”. In questa situazione, dice Bertinotti, “diven – ta sovrano chi stabilisce uno stato d’eccezio – ne, per dirla con Carl Schmitt, quando l’ecce – zione non c’è. E’ così che si manifesta la costruzione oligarchica che determina le politiche economiche e sociali. Il mercato diventa il vero sovrano, che ha riscoperto la sua vocazione in questa forma di capitalismo finanziario globale”. Per la politica non c’è dunque spazio, “è stata destrutturata ed è entrata in un percorso di eutanasia. Il conflitto tra destra e sinistra è stato sostituito da un altro: quello tra chi si candida a governare con queste regole, celebrato dai sacerdoti della governabilità o, per usare un’altra formula, della governamentalità, e chi fuori”. Il primo ad adattarsi a questo schema, dice l’ex presidente della Camera, è stato il centrosinistra. “Nel periodo nascente della globalizzazione i paesi europei erano governati dal centrosinistra. Per primi loro sono stati i protagonisti di questo processo di destrutturazione della democrazia. Non sono io a parlare di post-democrazia, ma Colin Crouch, che appartiene a una scuola diversa dalla mia. I partiti di centrosinistra hanno per primi scelto tra la legittimazione popolare e la legittimazione della governabilità. Ora, lei ricorderà quella formula di Eliot di fronte alle chiese vuote: ‘E’ l’umanità che ha abbandonato la Chiesa, o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?’. Sostituisca la parola chiesa con il centrosinistra ed è lo stesso. Mi ricordo ancora lo stupore, tanti anni fa, di fronte a sindacalisti della Fiom con in tasca la tessera della Lega. Chi si stupiva e chi si stupisce oggi non ha mai incontrato una fabbrica in vita sua. Noi lo studiammo a Brescia con i primissimi successi della Lega di Bossi e Maroni. Il direttore dell’ufficio per la pastorale sociale del lavoro mi disse di essere sconvolto dal fatto che tanta parte dei suoi parrocchiani manifestasse una propensione così individualista ed egoistica”. Ecco, il “carattere grottesco, caricaturale e deforme di ciò che vediamo sulla scena della politica oggi in Italia è una manifestazione un po’ estrema di una tendenza più generale. Perché, intendiamoci, non è che da altre parti ci sono Togliatti, Nenni, De Gasperi ed Einaudi”. In altre epoche le forze politiche non trattavano su Conte o perché l’Iva non dovesse subire modificazioni, in palio c’era altro. “Una volta Riccardo Lombardi ebbe un conflitto rilevante con l’uomo a lui più vicino, cioè Antonio Giolitti, quando rifiutò il dicastero di bilancio e programmazione. Dette un giudizio netto: le riforme che tu pensi e la programmazione che tu metti in campo, disse Lombardi a Giolitti, sono inaccettabili. E il tuo governo non è accettabile perché sta dentro l’ordine esistente e perché non compie il cambiamento del modello di sviluppo. Altro che Conte e Iva”. Persino nella Silicon Valley ci si interroga sul capitalismo e il modello di sviluppo, “die – ci giorni fa i manager delle principale imprese mondiali, molte delle quali appartenenti al settore della tecnologia, si sono incontrati per discutere del fatto che il capitalismo sta andando molto male e che non possiamo pensare solo al profitto, ma anche alle retribuzioni dei lavoratori, all’aumento delle possibilità del potere di acquisto e alla catastrofe ecologica. Resta naturalmente da chiedersi quanto di questo possa avere effetti pratici, ma dappertutto è diffusissima la percezione della crisi dell’attuale modello di sviluppo. Nell’accademia, nei movimenti. L’unica entità che non ne ha percezione è la politica, perché è morta”. Quindi anche i rivoluzionari a Cinque stelle hanno fallito? “I due populismi, uno sedicente trasversale – e in parte lo è davvero – dei Cinque stelle e l’altro reazionario, quello della Lega, si sono messi insieme e hanno tratto legittimazione solo perché dicevano di fare il contrario dei governi precedenti. Programmi diversi, fisionomia diversa, personale politico diverso. L’unica cosa in comune era l’intenzione di voler cambiare tutto. Tant’è vero che per mesi e mesi a ogni critica della loro politica disastrosa o comunque inefficace la risposta era dare la colpa a quelli di prima. Anche loro insomma, come i riformisti dell’ultimo quarto di secolo – e lo dico per segnare la differenza con i riformisti d’antan – vengono sussunti al governo. Questa situazione paradossale in cui tutti vogliono formare il governo è figlia di una certa idea del mondo: fuori dal governo non sei niente. Fuori dal governo non sai parlare, non sai articolare un discorso. Sei aggrappato a tutto ciò con cui credi di poter sopravvivere. I populisti, come i riformisti di oggi, di fronte al governo perdono la loro autonomia. La compatibilità è la loro Weltanschauung; la compatibilità delle nuove formazioni politiche deprivate di autonomia perché deprivate di ideologia e del rapporto con il conflitto di classe”. E’ la perfetta parabola di Calvino per la politica, dice Bertinotti: “Da Barone rampante a Visconte dimezzato a Cavaliere inesistente. Il Barone rampante è quello dei trent’anni gloriosi, dell’Europa da cambiare. Il Visconte dimezzato è il trapasso tra la prima e la seconda repubblica, con l’uccisione di Moro e, almeno dal punto di vista simbolico per me, con la morte di Berlinguer. Oggi siamo al Cavaliere inesistente, alle convulsioni sul vuoto”. Per Bertinotti, dunque, meglio il voto. “Le elezioni sono il terreno attraverso cui puoi avere l’ambizione di determinare la tua rinascita. Se sei ininfluente, devi trovare le parole per costruire coscienza e popolo. C’è il tempo della semina, non puoi sottrarti a un confronto che metta in luce anche le tue debolezze e le tue precarietà”. L’argomento è: se andiamo al voto vince Salvini. “Sono sconcertato. Non faccio le elezioni perché perdo. Ma le pare un argomento questo? In un libro molto amato dalla mia generazione, ‘L’orologio’ di Carlo Levi, un testo molto bello, Levi scrive pressapoco così: ci sono momenti in cui le persone sentono tutta l’incertezza della vita e i popoli sentono incertezza del proprio destino. In questi momenti di grande incertezza di indeterminazione, ci sono dei politici che giocano a scacchi e non si accorgono che è arrivato il momento di cercare le parole che animino le forze per rovesciare il tavolo”.

 

La biografia di una nazione di norma si affronta attraverso le vite degli uomini illustri che l’hanno fondata o cambiata irrimediabilmente, ma se i casi classici delle biografie di Napoleone scritta da Max Gallo o quella di Garibaldi scritta da Denis Mack Smith o anche l’opera in tre volumi di Renzo De Felice su Mussolini sono, alla fine dei conti, storie nazionali narrate in modo piuttosto ovvio, quella invece pubblicata da Paolo Nicoloso, Marcello Piacentini. Architettura e potere: una biografia (Gaspari Editore, Udine, euro 24,50) riesce per una volta a riempire di significato quell’aggettivo svuotato che è oggi il termine “straordinario”. Nicoloso infatti, che da moti anni studia a fondo la storia dell’ar – chitettura e dell’urbanistica comprese fra le due guerre mondiali, ha voluto rovesciare il suo precedente Mussolini architetto (Einaudi 2008) – una storia dei lavori pubblici del ventennio fascista – nella biografia dell’architetto che più di tutti ha lavorato allora e che – questa la tesi di fondo – ha voluto illudere il duce di essere lui l’ar – chitetto supremo, facendo propri i suoi slogan e idee di città per ingraziarselo ottenendo così il massimo riconoscimento pubblico, mentre viceversa quasi tutto restava nelle saldissime mani piacentiniane. Nel farsi interprete di Mussolini, cui permetteva di aggiungere segni e schizzi ai suoi progetti in bella copia, Piacentini si faceva interprete non già della tanto mitizzata politica culturale del fascismo, quanto piuttosto di tutte le oscillazioni opportunistiche e propagandistiche di un regime camaleontico in cui la “camaleontesca adattabilità” piacentiniana (definizione di Roberto Farinacci che lo attaccava da destra, come anche gli strapaesani Maccari e Longanesi) ha brillato più di tutte. Di conseguenza, avendo vissuto in un periodo storico in cui l’architettura rivestiva un ruolo centrale nell’organizzazione del consenso politico e della costruzione identitaria di uno stato ancora giovane, la sua azione instancabile in ben 28 città italiane, senza uguali per capacità organizzative, il suo trasformismo professionale e stilistico si sono imposti con una potenza tale da incarnare la biografia di tutta la nazione, specie i difetti: conflitto d’interessi, traffico d’influenze, furbizia professionale, opportunismo politico, nepotismo, mancanza di idealismo, corruzione. Colpe che non sono appartenute solo al fascismo: tra i meriti del volume c’è infatti anche quello di dimostrare che Piacentini non ha fatto altro che adattarsi alle condizioni di tutti i regimi politici, da quello monarchico liberale precedente fino a quello repubblicano a guida Dc successivo. Nonostante qualche rara sbavatura moralistica, Nicoloso segue in questo il suo maestro Giorgio Ciucci, che oltre trent’anni or sono si proponeva di indagare più le ragioni che hanno permesso l’affermazione di questo tipo di professionalità, senza esprimere un giudizio morale sul suo operato. Analogamente a quanto ha fatto Mario Lupano, autore nel 1991 della prima e finora unica monografia sull’architetto romano, responsabile inoltre della donazione di tutto il fondo Piacentini all’Università di Firenze per ottemperare a un’antica battuta di Aldo Rossi, che dopo la sua Triennale del 1973 stroncata da Bruno Zevi sull’Espresso proprio per la presenza di un disegno raffigurante un edificio milanese del nostro, disse “bisognerebbe piuttosto studiarlo, Piacentini”. Nato a Roma nel 1881 (due anni prima del duce), Marcello Piacentini viene avviato alla professione dal padre architetto Pio, già autore del Palazzo delle Esposizioni e del ministero della Giustizia in via Arenula. Nel 1906, 1911 e 1915 già realizza padiglioni che rappresentano l’Italia in grandi esposizioni celebrative a Bruxelles, Roma e San Francisco: negli Usa subisce una contestazione degli italoamericani cattolici perché si era già sparsa la voce che fosse massone, il che era verissimo. Massone erano ad esempio il sindaco di Roma Ernesto Nathan ed Ettore Ferrari che sarà presidente del Grande Oriente d’Italia dopo di lui e che, essendo amico e collaboratore di Pio, aiuterà Marcello in tutte le commissioni giudicanti in cui lo incontrerà. Ma non basta: nel 1912, per ottenere il titolo di architetto-ingegnere e svolgere pienamente la professione, ottiene da Vittorio Emanuele III un regio decreto ad personam che ne dichiara l’equi – pollenza con il titolo di professore di disegno. Nella Libia occupata dagli italiani è console suo fratello Renato: ecco che arriva Marcello dapprima per realizzare un monumento ai caduti e, già che c’è, anche il municipio di Bengasi, l’albergo Roma, il Banco di Roma e il palazzo dei Telefoni. Ecco che si manifesta il suo talento principale: quello di aggirare in concorsi pubblici, con contatti diretti e persuasivi con il ceto politico e non solo. Ad esempio, fa credere di ispirarsi al barocco romano in varie lettere sussiegose alla firma principale del Corriere della Sera di allora, Ugo Ojetti, mentre in altre lettere private afferma di guardare direttamente all’antico. Ojetti, come molti altri, compreso il duce, appoggerà pubblicamente Piacentini credendo di poterlo guidare, come una mosca cocchiera. In realtà sarà l’architetto a giovarsene di più, specie quando Ojetti sarà suo collega nelle numerose giurie di concorso sia quando diventerà direttore del Corsera nel ’26. Altro fronte d’azione è quello universitario, dove Piacentini si accoda a Gustavo Giovannoni, storico e architetto carismatico per le sue idee conservatrici verso i monumenti e il loro contesto urbano, ma lentamente gli farà le scarpe, mai opponendosi a viso aperto. Nel 1928 riuscirà a spuntarla per essere nominato professore ordinario “per chiara fama” nonostante la strenua opposizione giovannoniana che pretendeva un concorso regolare. Piacentini però aveva già bruciato ogni tappa: nel 1925, un Mussolini in difficoltà per il delitto Matteotti e la svolta autoritaria decide di presenziare all’inau – gurazione della nuova piazza di Bergamo piacentiniana salutandola come esempio di romanità e amor patrio, specie per la torre quadrata dei caduti, qualche tempo dopo la inaugura anche il Re, ma Piacentini è assente entrambe le volte perché impegnato all’esposizione internazionale di Parigi dove si confronta con Le Corbusier. Per nulla provinciale, l’architetto romano dispone di una vasta cultura e di una fornita biblioteca, oltre che di una rivista e di uno studio professionale sempre più nutrito e di una fama in crescita che lo portano nel 1928 a diventare giovane Accademico d’Italia (solo Marinetti si oppone alla sua nomina) insieme con Armando Brasini e Cesare Bazzani che però negli anni ’30 diventano marginali figure di rappresentanza. Nessuno gli resiste, potendo aggirare qualsiasi opposizione e sfruttando ogni occasione per conoscere il paese e farsi conoscere a sua volta. Quando nel 1927 è chiamato come consulente dal comune di Brescia per la nuova piazza della Vittoria convince Augusto Turati che non è il caso di procedere con il concorso perché il progetto può senz’altro farlo lui e con maggior efficacia. Questo avviene puntualmente e l’efficacia è fuor di dubbio perché fa in modo di far costruire un edificio di rappresentanza nella piazza anche alla Banca d’Italia, a varie assicurazioni e ad altri istituti capaci di immettere il denaro necessario, oltre a quello comunale. Il fatto che Turati fosse anche il segretario del Partito nazionale fascista non è un dettaglio, e l’essere un punto di riferimento di Piacentini sarà anche alla base dei suoi plurimi conflitti d’interesse. Anche se si presenta pubblicamente come un artista in cerca di ispirazione, un po’ come le archistar di oggi che sembrano pensare solo alle nuvole o alla leggerezza, un articolo scritto nel suo studio rivela che in una sola mattina riceve telefonate da tre gerarchi, cinque imprenditori, quattro banchieri ecc., altro che artista sospirante. E’ membro della commissione per i Beni storici, ma va in sopralluogo solo dove ha già un cantiere in corso. Per fare alcuni lavori particolarmente complicati come la sistemazione della centralissima piazza Diaz a Milano, è al contempo Consulente del comune, dell’impresa privata proprietaria dell’area e della stessa commissione nazionale dei beni storici. Non è un caso che sin dall’ini – zio abbia sempre voluto insegnare urbanistica, la disciplina più vocata al confronto politico e imprenditoriale. Piacentini è uno, nessuno e centomila: progettista, storico, restauratore, critico, tecnico, persino sindacalista grazie allo strettissimo legame con Alberto Calza Bini, segretario del sindacato nazionale fascista degli architetti. E’ anche amante delle altre arti, avendo peraltro sposato una pittrice, ma in realtà crea un sistema di sudditanza con gli artisti che di norma faticano a sbarcare il lunario e invece grazie a lui trovano un’enorme mole di lavoro. Di certo ha un talento insuperato nello scegliersi i collaboratori, in studio o all’università. Fra i suoi assistenti spiccano Giuseppe Vaccaro, Adalberto Libera e Luigi Piccinato; fra gli artisti che frequenta e fa lavorare ci sono tutti i migliori: Mario Sironi, Gino Severini, Corrado Cagli, Achille Funi e gli scultori come Arturo Martini. Il trio Piacentini, Sironi, Martini partorisce il Palazzo di Giustizia di Milano come una sintesi delle arti operata dai primatisti ognuno nel proprio campo – per questo chiede una tangente sulla fornitura dei marmi doppia per lo standard di allora, il 10 per cento. La corruzione sarà l’argomento dei suoi pochi nemici, tutti duri e puri (cioè si consideravano tutti più autenticamente fascisti di lui): il giornalista e gallerista Pier Maria Bardi, Carlo Belli, Alberto Sartoris, Giuseppe Terragni e, con una parentesi collaborativa durata solo per la città universitaria alla Sapienza, Giuseppe Pagano. Se un uomo si giudica dai suoi avversari, allora Piacentini è certo una stella di prima grandezza. Unica anche la sua capacità di dividere il fronte avversario promuovendo un elemento come Libera (che era stato nel Gruppo 7 insieme con Terragni e Figini & Pollini) o appunto il direttore di Casabella, Pagano. Con i suoi più grandi progetti, impossibili da gestire con un singolo studio per vastità di scala, aumenta ancora il suo ascendente: gli archi e le colonne dell’E42, poi EUR, e gli obelischi di via della Conciliazione lo aiutano a scavalcare i drammi della guerra e l’epurazione grazie a questi cantieri infiniti che sia la Dc sia il Vaticano vogliono portare a termine per il Giubileo del 1950 – in questo è aiutato direttamente dal giovane Andreotti. Ed ecco allora Piacentini di nuovo preside della facoltà di Architettura, avendo avuto l’accortezza di non aderire alla Repubblica di Salò così come non aderì al primo fascismo – e per questo fu vittima di un’aggressione all’olio di ricino nel 1923 in quanto massone, fatto che all’epoca non denunciò, ma invece farà pesare eccome nel 1945. La sua autorità è invocata anche dalle amministrazioni rosse come a Ferrara, il condizionamento dei lavori pubblici e dell’università sono un dato di fatto visti i ruoli cardine rivestiti dai sui protetti Aschieri all’Ina Casa e praticamente da tutti i presidi delle poche facoltà di allora: la sua idea di progetto urbano associato a un linguaggio sempre più asciutto e metafisico verrà tramandata, sotto varie forme, dai suoi allievi diretti Samonà, Quaroni, Muratori fino ai comunisti Aymonino (suo nipote) e Aldo Rossi. Il metodo della mediazione piacentiniana funziona sia durante il regime sia dopo perché in entrambi i casi così si evitano i conflitti interni allo Stato. La sua spina nel fianco nel Dopoguerra è praticamente solo Bruno Zevi, suo ex studente costretto a emigrare per le leggi razziali (Persico, Pagano e Terragni erano morti nel frattempo, Bardi fuggito in Brasile con sua moglie Lina Bo, ex studentessa di Piacentini nonché ex amante): nel necrologio del 1960 sull’Espresso Zevi lo definisce come il più nefasto architetto della storia d’Italia che ne ha incarnato ogni piega corruttiva. Piacentini, che fa in tempo a collaborare con Nervi al palazzetto dello sport che completa l’Eur, nelle lettere private lo definisce “porco ebreo” (nel frattempo ha ripreso contatti con i neofascisti), ma dopo la guerra ha richiamato in studio il suo più fidato collaboratore di sempre Vittorio Ballio Morpurgo, e recuperato il legame con Margherita Sarfatti che l’aveva aiutato nei rapporti con suo cugino triestino Edgardo Morpurgo, presidente delle Generali che gli commissionò edifici enormi anche all’estero (persino a Gerusalemme, Zagabria e Alessandria d’Egitto). Ancora oggi quasi nessuno ha digerito l’opera di Piacentini per il suo intreccio con il potere e la politica, ma studiarlo è gustoso come mangiare il lampredotto: come dice un detto francese, “La politique, c’est comme l’andouillette: il faut que ça sente un peu la merde, mais pas trop”.

Per favore, dello scandalo che stiamo per raccontarvi non dite nulla ad Alfonso Bonafede, il ministro di Giustizia che con il decreto “spazzacorrotti” credeva di avere debellato inganni e malversazioni, truffe e ruberie, peculati e sopraffazioni. Non ditegli nulla perché finirebbe per abbattersi o, peggio ancora, per sprofondare in una irredimibile malinconia. Lui ce l’ha messa tutta. Ha sradicato tutele e garanzie. Ha incoraggiato, eccome, le teorie giustizialiste secondo le quali non esistono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti dagli intrepidi magistrati. Ha persino introdotto nell’ordinamento il famigerato trojan, uno strumento inquisitorio capace di intercettare non solo le conversazioni degli indiziati ma anche parole, umori e rumori di tutti quelli che si trovano nei paraggi e che con l’indiziato non hanno magari nulla a che spartire. Siate buoni con Bonafede. Risparmiategli il colpo al cuore. Non ditegli che in Sicilia – nella sua Sicilia – uno dei tanti predatori arrivati qui, nei saloni dorati di Palazzo d’Orleans, per vendere fumo è riuscito a mettere a segno l’affare del secolo: un colpo grosso da 91 milioni di euro. Pagati dalla Regione e – scandalo nello scandalo – finiti poi, attraverso un immancabile giro di società, nei paradisi fiscali del Lussemburgo. E’ successo tutto nel 2007, quando Totò Cuffaro, governatore della Sicilia, conferì a Ezio Bigotti, un avventuriero venuto da Pinerolo, l’incarico di preparare un censimento dei beni immobili riconducibili alla Regione. Bigotti, va da sé, promette mare e monti. E per meglio aggirare intoppi burocratici e questuanti della politica ingaggia un consulente di tutto rispetto: Gaetano Armao, un mestolo buono per tutte le pentole. Il quale, tre anni dopo, diventa assessore al Bilancio di Raffaele Lombardo, il presidente succeduto a Cuffaro. Armao è un uomo di mondo. Ma appena si accorge che Repubblica comincia a svelare le malefatte nascoste sotto il fantomatico censimento, apparecchia sul palcoscenico della politica un moralismo dirompente, almeno per la Sicilia: sbandiera un elenco di inadempienze; mette in mora il suo fraternissimo amico Bigotti e, manco a dirlo, blocca – proprio lui, l’ex consulente – i pagamenti alla società “Sicilia Patrimonio Immobiliare”, controllata dall’immobilia – rista piemontese. Blocca i pagamenti ma non lo trascina in giudizio. E da questa discrasia nasce ovviamente una vertenza grande quanto una casa. Che, manco a dirlo, consente all’avventuriero di Pinerolo di chiedere e ottenere risarcimenti per 91 milioni e, all’un tempo, di risparmiarsi le spese e la fatica di portare al termine il censimento. Una manna dal cielo. Dopo la cacciata di Lombardo, finito come Cuffaro nel vicolo cieco di una implacabile inchiesta giudiziaria, arriva a Palazzo d’Orleans un nuovo presidente, Rosario Crocetta, una macchietta della politica. Che dopo essersi intestato, pure lui, “un governo del cambiamento” finisce per recitare nei talk-show solo una chiassosa antimafia da avanspettacolo. E lo scandalo del censimento farlocco rimane lì, ingrottato nei sotterranei della Regione. Non indaga la procura della Repubblica né la procura della Corte dei Conti. Non si agitano i magistrati coraggiosi né i comitati per la legalità. Non si affannano i giornalisti da premio Pulitzer né le avanguardie della cosiddetta società civile. Non si allarma nemmeno la commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi, sempre così attenta a cogliere dai piani alti di palazzo San Macuto anche il più tenue venticello proveniente da un qualunque scandalo politico. Arriviamo così ai nostri giorni. Sconfitto il Pd e il partito di Crocetta, alla Regione si insedia Nello Musumeci, eletto da una coalizione di centrodestra. Che come assessore al Bilancio chiama al suo fianco proprio Gaetano Armao, l’ex consulente di Bigotti, l’avvocato dalle mille risorse, l’uo – mo che conosce le strade di Arcore e gode dell’affettuosa amicizia di Licia Ronzulli, la straripante segretaria del Cavaliere. Ma per l’avventuriero di Pinerolo il destino non è più rose e fiori. E lo dimostra il fatto che il procuratore di Messina, Maurizio De Lucia, lo manda agli arresti domiciliari con l’accusa di corruzione in atti giudiziari: avrebbe avuto un ruolo un ruolo non secondario nelle trame di Piero Amara, l’avvocato siracusano specializzato nella compravendita di magistrati, in particolare di quelli che, al Consiglio di Stato, si prestavano ad aggiustare e manipolare le sentenze. Pur essendo stato l’unico ad adottare il pugno duro, neppure De Lucia chiede però a Bigotti una convincente spiegazione sullo sporco affare dei 91 milioni pagati dalla Regione per un censimento che nessuno ha mai visto. E se ne guarda bene anche la Corte dei Conti che, pur manifestando la necessità di avere un quadro degli immobili – adempimento indispensabile per arrivare alla definizione del patrimonio e alla parificazione del bilancio regionale – chiede ufficialmente a Musumeci di fornire comunque un elenco. Ma l’elen – co non c’è. Perché, nonostante i 91 milioni versati profumatamente a Bigotti e poi finiti in Lussemburgo, il censimento non è stato mai fatto e i pochi dati inseriti nei computer – prima che Armao sospendesse i pagamenti e aprisse la redditizia vertenza – sono protetti da una password che il funambolo di Pinerolo non sgancia. Anzi, fa sapere che, oltre alla montagna di soldi già incassati, pretende altri 49 milioni: i danni che la Regione deve risarcirgli andrebbero, a suo avviso, ben oltre la cifra già pagata. Sarà un brutto colpo per l’autostima del ministro Bonafede ma la situazione è ancora ferma al punto zero: dalle casse della Regione sono volati via 91 milioni ma sul colossale scandalo non c’è una verità, non c’è un responsabile, non c’è un indiziato, non c’è un imputato, non c’è nemmeno un fascicolo aperto e intestato a ignoti. Altro che “Spazzacorrotti”: la legge che il Guardasigilli si è appuntata al petto come una medaglia non ha dato, almeno su questo caso, i risultati sperati. Il messaggio che la Sicilia manda a Roma, in via Arenula, è a dir poco devastante. Pur con un ordinamento giudiziario basato sull’obbligatorie – tà dell’azione penale – uno strumento giurisprudenziale a volte anche spietato: se rubi una mela o un paio di calze finisci in galera – succede che un predatore arriva a Palazzo d’Orleans, arruola una comitiva di ascari, congegna una stangata da cento milioni e scappa con il malloppo senza che ci sia un uomo di legge che gli chieda conto e ragione; senza che nel codice si trovi una norma che possa incastrarlo; senza che un magistrato o un inquisitore gli dica: “Scusa Bigotti: se nessuno ha mai visto il censimento che tu avresti dovuto fare, a che titolo hai incassato 91 milioni di euro? E quei soldi sono finiti per intero nelle tue tasche o li hai divisi con amici, parenti e consulenti?”. Se ne lamenta a ragione Antonio Fraschilla, il cronista che anni fa ha scoperchiato gli intrecci di questo scandalo. “Su Repubblica in questi anni abbiamo scritto di tutto su questa vicenda nata con il governo Cuffaro, ma nessun partito e nessuna procura è mai intervenuta veramente”, ha scritto l’altro giorno sulla sua pagina Facebook. “Potevano aprire un’indagine, anche a costo di archiviare. Niente. Solo un muro di gomma. Ma come è possibile che in una Regione dove si grida giustamente allo scandalo anche per consulenze di pochi euro, poi su un censimento costato 90 milioni, e mai utilizzato né visto, nessuno dica nulla? Come è possibile?”. Fraschilla, sant’uomo, si meraviglia anche e soprattutto del silenzio della Regione. Che su questo scandalo, va ricordato, non ha proferito nemmeno una parola, neppure un sibilo, nemmeno un mugugno. Bocche cucite, si scriveva sui giornali al tempo della mafia e dell’omertà. Non ha parlato il presidente Musumeci che, da vecchio uomo di legge e ordine, aveva pur fatto dell’onestà il tema dominante della sua campagna elettorale: teme che un suo passo falso possa impropriamente tirare in ballo Armao, che vanta stretti legami con Berlusconi, e compromettere la vita, già traballante, del suo governo. Più muti che mai i partiti, fatta eccezione per due o tre incursioni a mezzo stampa dei Cinque stelle, tanto bravi nell’abbaiare alla luna ma poco pratici nell’assumere decisioni conseguenti. E ha risposto dicendo che ci penserà su ma non ora, tanto non c’è urgenza, anche il presidente della commissione regionale Antimafia, Claudio Fava, che pure ha avuto il coraggio di rivoltare come un calzino il cosiddetto “sistema Montante”, tutti gli intrecci di potere cioè costruiti in nome di una finta antimafia dall’ex presidente della Sicindustria, finito poi in carcere per le sue avventate operazioni di spionaggio e dossieraggio a carico di chi ostacolava i suoi progetti e la sua ascesa nei palazzi della politica. Povero, Bonafede. Credeva che lo “Spaz – zacorrotti” avrebbe portato giustizia là dove non c’era riuscita né la norma sull’abu – so di ufficio, né quella sul voto di scambio né tantomeno quella sul traffico d’influen – ze. Credeva che il trojan, consegnato nelle mani dei nuovi inquisitori incaricati di radere al suolo i corrotti o i presunti tali, fosse lo strumento più adatto per illuminare le stanze opache del potere, per spargere terrore e gogna ovunque ci fosse un appalto, per sputtanare chiunque avesse anche involontariamente avvicinato un consulente o un amministratore caduto nella trappola dei sospetti. Invece in Sicilia – nella sua Sicilia: il ministro arriva da Mazara del Vallo – il Trojan e lo “Spazzacor – rotti” hanno subito finora solo uno smacco. E che smacco. Qui pure le pietre sanno che un clan di spregiudicati avventurieri ha realizzato uno sporco affare di 91 milioni: quelli che si scrivono con sei zeri, quelli che al tempo della lira si sarebbero chiamati 170 miliardi. Ma non c’è la traccia di un avviso di garanzia, di un ordine di perquisizione, di un mandato a comparire, di un blitz della guardia finanza, di un’irru – zione dei carabinieri, di una rogatoria in Lussemburgo, di un impiegato ascoltato come testimone, di un perito chiamato ad accertare, a valutare, a verificare e riferire. Niente di niente. Al tempo di Giovanni Falcone i magistrati che sapevano come condurre un’indagine seguivano i flussi del denaro e riuscivano quasi sempre a capire in quale palude sfociavano i fiumi della corruzione e del malaffare. Al tempo dell’onestà-tà-tà invece l’unica tirannia che si è imposta è quella del silenzio, della rassegnazione, del tirare a campare, del calati junco che passa la china. Non c’è trojan che la possa scalfire e non c’è “Spazza – corrotti” che la possa intaccare. Ma non ditelo a Bonafede, per favore. Con la crisi di governo vive già un momento difficile. Risparmiategli almeno quest’altra oltraggiosa delusione.

Oscar Farinetti, come le sembra questo possibile governo Pd-Cinque stelle? “Qualsiasi cosa (nel rispetto della Costituzione e delle leggi) pur di rientrare tra le nazioni normali: che si sentono in Europa, in armonia con il mondo e che sanno ancora provare il sentimento della pietà. Dunque evviva questo possibile governo. Spero che si faccia”, dice al Foglio. Ma dei Cinque stelle che ne pensa? Sono un rischio o possono essere “romanizza – ti”? “Penso che chiunque conquisti la vittoria sulla base della protesta clamorosa, poi quando va a governare si trova in difficoltà. Come mettere a fare l’allenatore un ultras”. “Ma forse – continua Farinetti – è anche il modo più rapido per diventare normali. Cioè con dei dubbi e smettendo di pensare che son tutti disonesti o incapaci tranne sé stesso”. E da imprenditore pensa che questo governo farebbe bene alle imprese? “Lo spero. Per quelle come la mia che operano soprattutto all’estero non sarà difficile. E’ già molto smetterla di parlare male dell’Europa. Infine le dico questo: i nostri ‘balletti’ sono nulla rispetto a ciò che avverrà a novembre del 2020 in America. Se tornerà a vincere Trump saranno problemi seri per tutti. I vari ducetti sovranisti sparsi per il mondo riprenderanno fiato, trovando una strada facile per affermarsi. Se invece vincerà un democratico il mondo avrà modo di incamminarsi verso i sentimenti buoni. Ancora una volta, dopo settantacinque anni, sarà vitale uno ‘sbar – co’ degli americani. Ma di quelli buoni”. E Giuseppe Conte come le pare? “Mi sembra un tipo normale, per bene. Personalmente ho apprezzato il suo stile. Tenendo conto che è partito molto svantaggiato, apparendo come un burattino in mano ai due capitani, ora possiamo dire che se l’è cavata. Fossi al posto di Nicola Zingaretti me lo farei piacere”. Il proprietario di Eataly apre dunque, senza dubbi, al governo fra Pd e Cinque stelle. Già l’anno scorso, parlando sempre con il Foglio, aveva suggerito ai Democratici di avviare un dialogo con i grillini. “Sembra che i 5 stelle abbiano compiuto una svolta epocale: dichiarano disponibilità al compromesso, a collaborare, a rinunciare a parte del proprio programma annunciato, a sentire le ragioni altrui. Comprendo bene le resistenze di chi si è sentito insultato e mandato a ‘quel paese’ per anni”. Tuttavia, disse Farinetti nell’aprile 2018, “occorre tenere conto della loro svolta”. In quell’occasione, il mondo renziano andò in subbuglio. E anche oggi è così, basta leggere cosa twitta Giuliano da Empoli, che agli “Ingegneri del caos” ha dedicato il suo ultimo libro per Marsilio. “Quest’idea che nel M5s ci siano diverse ‘anime’ in conflitto tra loro fa ridere. L’unica anima del Movimento è un algoritmo di proprietà della Casaleggio Associati, che si avvale, di volta in volta, degli ‘avatar in carne ed ossa’ (cit. Supernova) utili a raggiungere i suoi scopi”, scrive l’i n t e l l e ttuale vicino a Renzi. E ancora: “C’è una linea piuttosto sottile (ma essenziale) che separa l’esercizio del senso di responsabilità dall’harakiri”. Evidentemente, il Pd è disponibile a valicarla. D’al – tronde, “i Cinque stelle hanno svoltato”. Dice Farinetti. (da)

Il curriculum vitae dell’avvocato Conte era scarsino e ridondante quanto ai severi studi alla New York University, sebbene la NYU sia una scuola come un’altra, uno dei tanti rinomati ma non così eccellenti ristoranti di Manhattan. Era comunque uno sconosciuto, se perfetto non si sa. Divenuto pres. del. con., pare per segnalazione dell’astuto dottor Zampetti, segretario generale del Quirinale (carica che andrebbe abolita ma stavolta risultò utile), l’avvocato del bobolo ha sottoscritto tutti i fallimenti e le insulsaggini o soperchierie di un governo balordo per un anno e mezzo, standosene nel suo non invidiabile ruolo di vice dei vice e interpretandolo con il timbro di voce, come mi ha suggerito un’amica geniale, di Tina Pica. Però ha fatto anche qualcos’altro, tra il lusco e il brusco di un anno bellissimo e mezzo. Ha evitato lo sforamento baldorioso del deficit a livelli extraeuro, raccordandosi con il ministro Tria e il ministro Moavero Milanesi (un altro multinome); ha evitato un paio di procedure d’infrazione contro l’Italia, avvalendosi della fatturazione elettronica della Leopolda renziana; ha fatto sbarcare qualche minore e qualche altro disgraziato nei porti chiusi, connettendosi con il ministro della Difesa che manovrava i cacciatorpedinieri con miglior grazia delle imbarcazioni controllate dal Viminale; ha spiegato alla Merkel in un video fatale che il Truce era un rompicoglioni controllabile. Alla fine delle fini, quando è diventato incontrollabile, il Truce, e ha cercato goffamente di impallinarlo con la pistola a acqua del Papeete, se lo è cucinato a puntino, mettendo il limone al posto giusto nella sublime porchetta: un discorsetto nell’aula del Senato in cui gli ha detto in faccia tutto quello che gli aveva taciuto alle spalle e un soave: “con la Lega è stagione finita”, gutturalizzato a Biarritz, dove i grandi d’Europa gli mostrano una considerazione che nella sua corposità deve essere effetto tanto della sua virtù di mediatore quanto della loro lontananza dal teatrino italiano e delle buone informazioni dei loro servizi segreti. Ora non so se lo nobiliteranno con il titolo di Bisconte di San Giovanni Rotondo, ma lo meriterebbe ampiamente. Infatti il suo comportamento, subito bollato dal Cretino Collettivo come opportunismo e voltagabbanismo, è stato la perfetta espressione del discrimine che in politica e nell’esperienza comune delle relazioni di potere (tutte le relazioni) separa la coerenza cosiddetta dal masochismo. La coerenza è affare complicato, richiede studio e cuore e cultura, passa per le vie meno battute (tutti lo sanno tranne, che so, un qualsiasi Capezzone o una Madonna del Truce Piangente, con tante scuse per la citazione sarcastica a Nostra Signora tirata in ballo dallo sconocchiato), oppure è l’ultimo rifugio delle canaglie, come certo Patriottismo. Mentre il masochismo non è concetto equivoco ma dimensione univoca dell’autodifesa: uno più prepotente di te intende bastonarti e tu sguaini la spada, sebbene non sia fiammeggiante visti i precedenti, e lo trafiggi. Il bello e l’utile della politica italiana classica è che impartisce continue lezioni, di Monarchia in Repubblica, e oltre avanti e indietro nel tempo, essendo notoriamente una sequela rinascimentale o postmoderna di miserabili agguati e tradimenti e vendette, in corrispondenza con l’affabile, spensierato e sapiente immoralismo delle sue premesse (il principato ecclesiastico o clericale famoso, immune dal calvinismo ereticale una volta per tutte marginalizzato dal Concilio di Trento: sono banalità diverse da quelle del Saviano, sono utili alla comprensione dei fatti). In tutta questa cattiveria e bugiarderia tipicamente giolittiana (Giolitti fu un liberale ministro della malavita, ma non della truceria), ribalderia alla quale per il vero furono e sono parzialmente inclini anche altre nazioni e altri regni, l’Italia eccelle perché rende visibile e chiara la prospettiva, l’orizzonte della politica. Che non è l’immobilismo, il longanesiano “appoggiarsi ai principi” che poi si piegano, ma movimento, scaltrezza e caleidoscopio. Muovendosi, la politica indica una direzione di marcia, raramente in modo eroico o allegro, spesso in modalità meschine e triste, ma una direzione ci vuole, a un paese così. Confido sul fatto che molto rapidamente, se questo hidalgo di studio legale sarà fatto governatore dell’isola di Barataria, come avvenne per Sancio Panza, quel paese perbene, grossolano, arruffone e semplicistico innamoratosi anche per comprensibili ragioni di un pessimo bravaccio e del suo minaccioso tortore, si farà passare una cotta che avrebbe potuto costargli cara. Giuliano Ferrara

P. s. Questo articoletto è pagato doppio, come tutti quelli della mia carriera, dall’editore e dai poteri forti. Mi aspetto una prebenda, roso dalla voglia di tornare trionfalmente in televisione, corrispondente in quantità e qualità. Ho optato per il segnale orario con Buttafuoco, che però preferisce, nella sua modestia, “Aspetta si fa sera” (se lo annoti il forse bispres. del. con.). Vabbè.

La giornata di ieri si è conclusa con la consapevolezza che le distanze che esistono oggi tra il Partito democratico e il Movimento 5 stelle non sono insormontabili a tal punto da rendere possibili gli unici due scenari alternativi al pazzo governo rosso-giallo: il ritorno alle elezioni, con possibile vittoria di Matteo Salvini, e il ritorno dell’amore tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio, che la Lega vorrebbe ma che il M5s no. Salvo sorprese delle ultime ore, tra oggi e domani il capo politico del M5s, Luigi Di Maio, e il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, troveranno la quadra definitiva tanto sul programma quanto sulla squadra di governo. Nicola Zingaretti, dopo aver fatto cadere il suo veto sulla possibilità di costruire un governo con il M5s, ha fatto cadere il veto anche sulla premiership di Giuseppe Conte. E specularmente Luigi Di Maio, dopo aver ottenuto dal Pd garanzie sulla premiership per Conte e sul taglio del numero dei parlamentari, dovrà accettare un ridimensionamento del suo ruolo al governo (possibile resti solo ministro del Lavoro) e dovrà digerire una cessione dei ministri più pesanti (o Ambiente o Giustizia) al Partito democratico (al Mef il candidato numero uno per il dopo Giovanni Tria è Roberto Gualtieri, apprezzatissimo presidente della commissione problemi economici e monetari del Parlamento europeo). Non sappiamo ancora se il mostruoso esecutivo rosso giallo nascerà davvero. Ma se mai la pazza alleanza dovesse prendere forma potremmo dire che la nuova maggioranza è destinata a dar vita a un governo sbagliato nato per fare una cosa giusta: fermare il salvinismo. Si potrà giustamente dire che un’alleanza di governo tra il Pd e il M5s ha buone possibilità di essere una truffa politica, un errore strategico, un’alleanza da barzelletta, un accrocchio capace di tirare fuori il peggio sia del Pd sia del M5s (ma quale alleanza con un partito populista non lo sarebbe, vero Cav.?). E si potrà anche ricordare che fare compromessi su princìpi non negoziabili come possono essere il rispetto del garantismo, la difesa della globalizzazione, la sburocratizzazione dell’Italia, la collocazione del nostro paese nel mondo e la lotta contro i nemici della democrazia rappresentativa significherebbe fare di tutto per regalare all’Ita – lia un governo capace di competere in mediocrità e pericolosità con quello che per fortuna ci ha lasciato lo scorso 20 agosto. Eppure il governo sbagliato potrebbe riuscire nell’impresa giusta di arginare il populismo impegnandosi a non essere più una minaccia per la moneta unica, a non essere più un alleato dei paesi che sognano di distruggere l’Europa, a far tornare l’Italia un paese affidabile per gli investitori, a ridare all’Italia una politica estera non ostaggio degli amici di Maduro, a costruire all’interno di questo Parlamento un patto per avere un successore di Mattarella che sappia sentirsi a casa più a Bruxelles che a Mosca, a occuparsi di sicurezza non cancellando ciò che è stato fatto nel passato ma semplicemente ricordando che i trattati internazionali, e il diritto del mare, valgono più dei capricci di un ministro. Fare tutto questo con il M5s, un partito cioè che ha nel suo codice genetico la violazione dello stato di diritto, la passione per la decrescita felice, l’odio per le libertà economiche, la tentazione di dare un tocco di maoismo digitale alla nostra democrazia rappresentativa, risulta difficile immaginarlo. Ed è possibile che l’effetto del governo rosso-giallo (l’alleanza tra Pd e M5s, oggi, è una resa più per il M5s che per il Pd, un anno fa sarebbe stato il contrario) sia quello di tirare fuori non il meglio ma il peggio del primo e del terzo gruppo parlamentare di questa legislatura. Eppure il Movimento 5 stelle negli ultimi mesi, guidato più da Giuseppe Conte che da Luigi Di Maio, ha capito che per poter tentare di sopravvivere al fallimento generato dal governo gialloverde aveva bisogno di iscriversi al partito del tutto tranne che il sovranismo. Nasce così la svolta in Europa (da partito a favore dei gilet gialli a partito a favore dell’europeista Ursula Von der Leyen). Nasce così la svolta con la Russia (da partito putiniano e putinista a partito indignato per l’ambi – guità della Lega con i rubli di Savoini). Nasce così, con la parlamentarizzazione della crisi, la trasformazione di Camera e Senato nelle istituzioni simbolo del rispetto della democrazia (e non più in scatolette di tonno da aprire con le bombe). E nasce così, infine, anche la trasformazione di Giuseppe Conte, per gli amici Gonde, da avvocato del populismo ad accusatore del sovranismo. Le svolte del Movimento 5 stelle sono svolte maturate per opportunismo – e antisalvinismo – più che per realismo o, come si dice, per senso di responsabilità. Ma se l’opportunismo dovesse costringere Pd e M5s a fare quello che oggi sembra impossibile, ovvero tirare fuori il meglio e non il peggio dei due partiti, sperare che il governo sbagliato (ma non meno sbagliato di uno guidato dalle cubiste antieuro Borghi e Bagnai) nasca per fare anche delle cose giuste potrebbe essere un azzardo, ma forse non una previsione sbagliata. Altri popcorn, grazie.

Pare incredibile. Ma, salvo sorprese, la crisi più pazza del mondo sta per concludersi all’insegna del buonsenso. Che purtroppo era mancato un anno fa, quando i 5Stelle proposero il contratto al Pd e, all’ultimo miglio, Renzi lo stracciò. Il fatto che ora Renzi sia stato il primo sponsor del patto giallo-rosa e che tutto il partito si sia convinto nel giro di una settimana aumenta il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato in questi 14 mesi, che hanno regalato a Salvini una vetrina insperata per gonfiarsi come un tacchino nella sua resistibilissima ascesa. Non era scontato che M5S e Pd trovassero uno straccio di linguaggio comune in così poco tempo, visto che dal 4 marzo 2018 il fossato fra loro si era vieppiù allargato. Ma alla fine, complice la paura di votare nella data e nelle condizioni imposte dalla Lega, la ragione e il realismo hanno prevalso. Di Maio è stato abile (e generoso, come Fico) a giocarsi l’unico asso in mano, cioè Conte, che compatta il M5S, garantisce i militanti in una svolta così ardua, allarga la platea degli elettori e accompagna il movimento all’esame di maturità. Zingaretti è stato onesto (e pure lui generoso) a ritirare l’as – surdo veto su Conte, che nessuno (nemmeno tra i suoi) avrebbe capito, per salvare per un altro po’l’unità del Pd. Ora si spera che i ministri siano all’altezza. E magari che si intraveda un programma, che è –insieme al tasso di litigiosità – il vero banco di prova di un governo che potrebbe rimettere a cuccia Salvini, ma anche resuscitarlo. Ora i 5Stelle temono il voto degli iscritti su Rousseau (allora forse non è truccato). Ma sarebbe stupefacente se fosse negativo: Rousseau, quello vero, ragionava. Cos’è il Pd lo sappiamo tutti, ma pure cos’è la Lega. Anche un anno fa, nel voto sul contratto con Salvini, si parlò di “rivolta sul web”. E il programma del Pd – per quanto vago e cangiante – è meno distante da quello grillino di quello leghista. Chi ha il maldipancia va capito, ma deve sapere che il Conte 2 o 2.0 in salsa giallo-rosa è la peggiore soluzione eccettuate tutte le altre. Che sarebbero solo due. 1) Il voto subito, cioè un governo Salvini-Meloni-B. che cancellerebbe le leggi-bandiera del M5S. Anche se il M5S passasse dal 17 al 24%, il Rosatellum regalerebbe il cappotto alla destra, al Nord e nei collegi del Sud. E per il proporzionale puro ci vuole un governo, e un governo che lo voglia. 2) Il ritorno con la Lega, oltre a spaccare i grillini che Di Maio ha riunito sotto le ali di Conte, segnerebbe il loro divorzio dal premier per ora e per sempre; e li esporrebbe all’ennesima fregatura da quel campione di slealtà che è Salvini. Il Cazzaro Verde è come lo scorpione: non è cattivo, è proprio fatto così.

«Siamo costretti a rivelareche ilpunto e virgola ha dei nemici. In questomondononc’èpace pernessuno.E queinemicisonoferociatalsegnoche vorrebberomorto e sepolto il povero punto e virgola». Se ne rammaricava in un saggio sull’interpunzione manzoniana, nel lontano 1939, l’erudito ravennate Piero Zama. Cinque anni primaAngeloBarile,inun redazionale scritto per una rivista di poesia (Circoli), aveva preso spunto da un disegno di Leo Longanesi per rovesciarne il senso. Il disegno – con riferimentoalla linguafrancese–raffiguravaunavirgolasul letto dimorte. Con lamoribonda, in attesa del decesso, c’era il punto e virgola, e ilpoeta savonese aveva invertito i due ruoli e fatto agonizzare quest’ultimo: «Amore di Leopardi, croce e delizia dei nostri scrittori di frammento, il punto e virgola cede terreno. Salutiamolo con molto rispettomasenzatropporimpianto». GLI AUTORI Henry James lo apprezzava, e per Herman Melville era una tecnica di digressione (per rallentare il tempo narrativo, così da distrarre il lettore dai contenuti realistici che in quel momento poteva immaginare gli scorressero davanti),ma sono stati tanti ad averlo snobbato, disprezzato, aborrito, maledetto. George Orwell non lo sopportava; Kurt Vonnegut esortò a sbarazzarsene perché inutile (l’unica sua funzione, scrisse in un saggio confluito in una raccolta del 2005, è di «mostrare che sei andato al college»); Cormac McCarthy, minimalista convinto (e, anche per questo, seguace dichiarato di James Joyce), non ne fa uso perché l’eccesso di segni di punteggiatura “paralizza” la pagina. È solo un assaggio di quel che potrebbe riservare la lettura di un volume fresco di stampa, impetuoso ed effervescente: Semicolon.HowaMisunderstoodPunctuationMarkCanImproveYourWriting, Enrich Your Reading and Even ChangeYourLife,4thEstate).L’autrice,CeceliaWatson, storica e filosofa della scienza, insegna discipline umanistiche al Bard College dello StatodiNewYork,dove tiene anche corsidiscrittura. PLATONICI «Il punto e virgola mi è diventato così odioso da sentirmi quasi moralmente compromesso quando lo uso». L’affermazione è in un articolo firmato per ilThe NewRepublic (26 aprile 1980) da Paul Robinson, al tempo anche lui docente di Humanities (Stanford University) e ora emerito. Nell’interpunzione,controiplatonici che tentano di utilizzarla “a orecchio”, piegandola allo scopo di trasferire sulla pagina scritta ritmi e pause del parlato, il professore americano si proclamavaperentoriamentearistotelico,salvo poi però giudicare pretenzioso e iperaccademicoproprio quelpunto evirgolachesiadatta inrealtàpiùal “freddo” e impersonale Aristotele che al polemista e “passionale” Platone.PerRobinson isegnidipunteggiaturadovevano essere l’espressione invisibile di una linearità e una chiarezzaportatricidirisposteemotive, la cui assenza avrebbe spiegato glierrori interpuntivicommessidalla maggior parte degli scrittori. Accarezzando l’ideadellastesuradiun saggioscanditosolodaipuntiedalle virgole, nei confronti dei quali confessava di nutrire un’autentica passione, smisurata per i primi (meno ambigui delle seconde,che riteneva comunquesottoutilizzate),lostudioso americano non si limitava a dichiararelasuaavversioneper ilpunto e virgola: i due punti rimedierebbero alla debolezza o all’approssimazione di una connessione logica; parentesietrattinisonosconfittesintattiche, per l’incapacità che attestanodiun’espressione linearedelpropriopensiero (ancor piùmicidiali le note a piè di pagina, epifania di una “menteabrandelli”); le virgolette sono la manifestazione di un distanziamento da parole ed espressioni (usate, sì, ma con le debite distanze) frutto di un atteggiamento snob o aristocratico; il corsivo è spesso un’offesa all’intelligenzadeilettori. TEMPI COMPLESSI Quanto al punto interrogativo e a quello esclamativo, continuava Robinson, versano come la virgola in una condizione di sofferenza per il loro scarso uso: il primo per la tendenza a farsi sempre meno domande (in molti casi sarebbero retoriche, in altri apparirebbero pericolosamente inquisitorie), il secondo per l’obsolescenza di toni infantilmente meravigliati in tempi raziocinanti, complessi, sofisticati (Internet e i social erano ancora di là da venire). Oggi il punto e virgola non è certo “epidemico” come parve a Paul Robinson, e sembra anzi essere nuovamente prossimo alla dipartita. Al suo capezzale, in trepidante attesa, c’è il punto fermo. Robinson pensò potesse subentrargli per più della metà dei casi (a un altro buon quarto di sostituzioni avrebbe provveduto la virgola), con buona pace di Pietro Bembo e AldoManuzio. Il punto e virgola, insieme all’apostrofo (e alla virgola e al punto interrogativo nella loro foggia moderna), è comparso per la prima volta in un’aldina. Conteneva il De Aetna (1496; stile veneto: 1495),undialogodelcelebratoautore delle Prose della volgar lingua (1525) che, a leggere il pezzo dell’umanista americano, avrebbe fattofuocoefiamme.

Con la manovra “forte e strutturale” proposta nel mio articolo pubblicato sul Sole 24 Ore del 23 agosto, l’Italia uscirebbe dalla crisi e darebbe solido equilibrio ai propri conti pubblici. Ecco allora che avrebbe anche pieno titolo per partecipare da protagonista all’agenda per la nuova legislatura europea, non limitandosi a indicare un nome italiano per il pur importante ruolo di commissario europeo. A fronte dell’ineluttabile e ormai consolidato processo di globalizzazione, nell’Unione europea si è riaperto il dibattito fra “allargamento” e “approfondimento” (Widening and Deepening). Era evidente che, per partecipare da protagonista nella globalizzazione, l’Unione doveva diventare più “grande” in termini di popolazione, mercato e Pil e “più profonda”, cioè “più forte”, in termini di assetto istituzionale e di rappresentanza politica. Fino al 1995 l’Unione europea aveva 12 membri, oggi è partecipata da 28 Stati. L’allargamento è quindi avvenuto. Sull’approfondimento però i passi sono stati piccoli e lenti. Ancora oggi dobbiamo completare l’Unione bancaria e siamo ben lontani da un bilancio federale europeo, rimanendo con un bilancio “intergovernativo” che gestisce appena l’1% del Pil. Ecco perché l’agenda europea per la prossima legislatura deve essere “costituente”. Su almeno cinque grandi temi: difesa, sicurezza e immigrazione, politica estera, grandi infrastrutture, nuove tecnologie, ricerca e alta formazione di capitale umano, i singoli Stati europei hanno perso per sempre la loro sovranità nazionale. Sfido qualunque “nazional-sovranista” a dare risposte serie ai cittadini del proprio Stato agendo da soli. Questa sovranità decisionale possiamo riprendercela solo a livello di federazione europea. La costruzione di una Europa federale non è quindi una scelta, è una necessità se si vuole sul serio recuperare “sovranità” interna e partecipare al governo della globalizzazione con le altre grandi aree economiche e politiche del mondo. Per questo è urgente dare alla Bce e al Trattato di Maastricht “due occhi” ciascuno: due ciechi di un occhio non fanno infatti una persona sana. 1. Lo Statuto della Bce deve tenere conto, insieme al controllo dell’inflazione, anche dell’andamento della crescita economica e attribuire alla Banca centrale il ruolo di prestatore di ultima istanza. 2. Maastricht deve diventare “più rigoroso e meno stupido”. Occorre cioè che il 3% di deficit sia destinato solo a investimenti. Si tratta cioè di introdurre l’obiettivo dell’avanzo di parte corrente (che si chiama risparmio pubblico) e per ogni 1% di avanzo corrente (autofinanziamento) consentire 2-3% in più di investimenti pubblici. Una golden rule più rigorosa di quella proposta 60 anni fa da Robert Solow. Si tratta cioè di fare nel bilancio pubblico ciò che fanno da sempre le famiglie quando comprano una casa, anticipando un 30% e facendo un mutuo per il 70%, oppure le imprese quando usano i loro profitti per finanziare almeno il 30-40% dei loro investimenti, trovando il resto a prestito sul mercato. Sapendo entrambi che nessuna banca concederebbe un mutuo alla famiglia per andare in vacanza o all’impresa per pagare stipendi. Su questo occorre costruire una Europa a cerchi concentrici che veda al centro gli Stati federati d’Europa con un loro bilancio e cinque ministri per i cinque temi che servono a riprendersi la sovranità in modo collettivo europeo. Poi c’è il cerchio dell’Unione europea con il mercato unico e la libera circolazione di merci e persone. Infine deve esserci il cerchio largo dell’Eaftd (Europe-Africa free trade and development area), l’area di libero scambio e cooperazione allo sviluppo tra Europa e Africa. Tutto questo implica un patto istituzionale sul ruolo del Parlamento, della Commissione, su chi li vota, su chi viene eletto etc. Ma soprattutto implica affiancare, alla gamba della Banca centrale europea, quella di un bilancio federale europeo. Come proposto nel recente “Rapporto sull’Europa” del Movimento europeo Italia e dal Centro studi Economia reale, si potrebbe partire da un piccolo passo in avanti verso l’integrazione ipotizzando un “bilancio aggiuntivo di tipo federale” pari a circa l’1% del Pil dell’area euro (120 miliardi di euro all’anno) indicando sia la provenienza delle entrate sia la destinazione delle spese. Si tratterebbe pertanto di un bilancio aggiuntivo in pareggio senza alcun processo di indebitamento a livello sovranazionale europeo. Gli effetti sarebbero una maggiore crescita che, in quattro anni, sarebbe pari al +2,4% nell’Eurozona e al +2% nel totale dell’Unione, con effetti positivi anche sui Paesi non membri dell’euro. Questo “gioco a somma positiva per tutti” sarebbe virtuoso anche sul fronte della finanza pubblica. Il deficit pubblico in rapporto al Pil andrebbe a zero, sempre in quattro anni, per tutta l’area, con effetti di riduzione del deficit o di aumento dell’avanzo in tutti i Paesi membri. Il debito pubblico si ridurrebbe del 4,5% del Pil dell’Eurozona e questa riduzione si produrrebbe in tutti i Paesi, con in testa l’Italia. In sintesi, senza questi nuovi e urgenti assetti “politico-istituzionali”, l’Europa rischia di “implodere” nella garrota di un rigore senza speranza e di una protesta nazionalsovranista e, senza una nuova governance, l’economia mondiale rischia di “esplodere” in un nuova grande crisi globale.

Le crisi politiche, così come quelle economiche, creano spesso nuovi scenari. È quello che sta succedendo in questa fase convulsa della nostra vita politica. Il dato più importante del sondaggio pubblicato Domenica scorsa su questo giornale non è il calo di cinque punti nella stima delle intenzioni di voto della Lega. È il fatto che oggi la maggioranza assoluta degli elettori del Pd (62%) e la maggioranza relativa di quelli del M5s (43%) sono disponibili ad accettare un governo formato dai due partiti. Non era così fino a poco tempo fa. È la crisi e lo scontro con Salvini che hanno avvicinato i due elettorati. La stessa cosa però non è ancora avvenuta, quanto meno non nella stessa misura, a livello di militanti. Questo è vero soprattutto all’interno del Movimento. Su questo non abbiamo dati, ma solo dichiarazioni e impressioni ricavate dai social media. A differenza dei suoi elettori, la base militante del Movimento fa più fatica a digerire un accordo di governo con un partito che ha rappresentato per anni l’antitesi del Movimento. In un certo senso si può dire che il M5s è nato contro il Pd che era visto come parte integrante di un sistema da abbattere. Ma agli albori il M5s era un fenomeno di nicchia. Poi è diventato un movimento di massa. Una trasformazione così rapida che ha sorpreso i suoi stessi protagonisti. Alle elezioni del 2013 ha preso più di 8 milioni di voti, diventando di punto in bianco il primo partito italiano. Cinque anni dopo gli elettori sono diventati addirittura più di 10 milioni. Oggi sono molti meno, ma sempre tanti e più del 40% di loro preferisce un governo con il Pd ad altre soluzioni. Molti dei militanti però sono ancora quelli di una volta. L’imprinting iniziale è difficile da modificare. Per questo un voto tramite Rousseau su un eventuale accordo con il Pd è un problema. Sulla piattaforma non votano i milioni di elettori del M5s ma qualche migliaio di militanti. Elettori da una parte e militanti dall’altra. Per ogni organizzazione partitica che miri a conquistare un consenso ampio la contrapposizione è quasi sempre inevitabile. Mutatis mutandis, è il problema con cui è alle prese oggi il partito democratico negli USA dovendo scegliere un candidato alla presidenza che sia appetibile alla sua base progressista, ma che sia anche capace di raccogliere consensi tra gli elettori più moderati. Nel caso del M5s il candidato in grado di tenere insieme elettori e militanti sembra essere Giuseppe Conte. L’insistenza del Movimento sul suo nome non è solo una questione di principio. È una necessità legata alle divisioni che lo stanno lacerando. Grazie alla credibilità che si è conquistato e all’appoggio esplicito di Grillo, Conte rappresenta all’interno del Movimento un punto di equilibrio che nemmeno lo stesso Di Maio può più garantire. Tutto è ancora possibile in questo momento. Altre sorprese potrebbero essere dietro l’angolo. Ma intanto il Pd ha fatto cadere il veto su Conte. Se questa decisione verrà confermata, si realizzerà una condizione necessaria per la nascita del governo Pd-M5s. Quanto però questo governo possa durare è un’altra questione. Tra gli elettori del Pd e quelli del M5s su questo punto le opinioni sono molto divergenti. Infatti il 56% dei primi pensa che possa durare fino alla fine della legislatura, mentre solo il 34% dei secondi condivide questa opinione. Evidentemente molti elettori del Movimento, che pure preferiscono l’alleanza con il Pd ad altre soluzioni della crisi, si rendono conto delle difficoltà del progetto e del rischio che possa fallire in tempi brevi. Non c’è dubbio che questo rischio esista. Molti fattori giocano contro, a partire da una situazione economica che non promette nulla di buono. Ma ce ne sono altri che giocano a favore. Alcune delle questioni politiche più spinose, come la TAV, non sono più sul tappeto. Ed è molto probabile che la commissione europea dimostri nei confronti di un governo senza la Lega una maggiore disponibilità sui conti. Ma, in prospettiva, la durata dell’eventuale governo Pd-M5s è legata soprattutto al fatto che nessuno dei due alleati ne esca perdente a livello elettorale. Per questo sarà importante vedere in che misura il programma dell’eventuale esecutivo rappresenterà un punto di equilibrio tra i temi che “appartengono” al Pd e quelli che “appartengono” al M5s e ai suoi militanti. Se Conte verrà confermato presidente del consiglio sarà questo uno dei suoi compiti più delicati. Se ci riuscirà, potrebbe contribuire a gettare le basi di un nuovo bipolarismo.