Alla fine dell’ultimo giro di giostra, nell’elegante taschino della sua giacca di sartoria, il premier ritrovato Giuseppe Conte, al posto della pochette infila nell’ordine – stretti e infelici – Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio. Formalmente sono stati il segretario del Pd e il Capo politico del Movimento 5 Stelle a mettere in piedi questo fragile e ancora non definitivo accordo per mandare avanti la legislatura. Ma il governo che dovrebbe nascere sulle ceneri dell’esecutivo più breve e sgangherato della storia della Repubblica, sarà guidato da un sempre più autonomo Avvocato del Popolo. Per altro più propenso a guardare a sinistra che a destra come dimostra una sua antica attrazione cuperliana. Non sarà facile il lavoro di Conte. Che dovrà ricucire il rapporto slabbrato con Di Maio, guadagnarsi la fiducia dei ministri dem e soprattutto guardarsi le spalle dal senatore semplice Matteo Renzi, nelle cui mani finiscono, di fatto, il joy stick per condizionare gli umori di Palazzo e il bottone per far saltare in aria – quando avrà pronta una sua squadra alternativa da presentare al Paese – il nuovo instabile universo giallorosso. Prima, però, Conte dovrà sistemare le pedine sulla nuova scacchiera. Non sarà semplice, perché il Pd reclama la vicepresidenza del Consiglio in solitudine (considerando il premier in quota M5S) e si oppone alla nomina di Di Maio non solo al ruolo di numero due, ma anche a quello di ministro dell’Interno. Nel confronto notturno a Palazzo Chigi è stata proprio la posizione del Capo pentastellato a esasperare la trattativa. È il governo delle retromarce, delle contraddizioni e della diffidenza quello che si sta formando su ispirazione di uomini apparentemente diversi da un punto di vista quasi antropologico come il Richelieu piddino Dario Franceschini e il Garante del Movimento Giuseppe Piero Grillo. Un governo tenuto assieme più dalla paura del nemico e dal terrore di perdere la poltrona, che da generici programmi che alludono a «ambiente, lavoro, Europa e ricerca». Uniti solo dagli sconfortanti risultati elettorali dell’ultimo anno, Pd e Cinque Stelle non hanno mai avuto chimica. La storia recente di Luigi Di Maio sembra una filastrocca per bambini: “Fai una giravolta, falla un’altra volta, guarda in su, guarda in giù, dai un bacio a chi vuoi tu”. Meno di 40 giorni fa registrava un video su Facebook nel quale diceva con altera determinazione: “Mai col Pd, mai con il partito di Bibbiano che in Emilia Romagna toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroschock”. Ha cambiato idea. Come ha cambiato idea sul decreto sicurezza-bis sul quale aveva messo la fiducia a inizio agosto. L’esperienza con il presidente Mattarella, di cui aveva chiesto l’impeachment un giorno salvo magnificarne le doti il giorno successivo, avrebbe dovuto insegnargli che è meglio essere schiavi dei propri silenzi che delle proprie parole. Ma l’impressione è che certi suggestivi slogan siano stati pronunciati prima ancora di capirne il significato. Non molto diverso il discorso per Zingaretti, assolutamente granitico nella sua incoerenza. Deciso a sfidare Lega e 5 Stelle nelle urne prima, risoluto nel rifiutare un governo Conte bis nel nome della discontinuità poi e risoltosi infine a bere l’amaro calice, e a rinunciare a qualunque tenue barlume di stile, in nome di un supposto bene superiore nel quale è il primo a non credere. Nell’incomprensibile logica al contrario in cui è precipitato il Paese, Pd e 5 Stelle continuano a millantare un sacrificio in nome del bene comune. Lo ripetono continuamente come infantili figurine di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll: “L’ho detto tre volte e se lo dico tre volte è vero”. In bocca al lupo. A loro, ma soprattutto a noi.

Sono, le consultazioni al Quirinale che riprendono oggi, il solo spettacolo di decoro della politica italiana nell’era del populismo di vaffa e di governo. La liturgia, che stordisce anche i sovranisti più maleducati, prova che lampadari, scale di marmo, specchi e corazzieri esprimono una “cultura” che disciplina il protagonismo e governa l’eccesso molto più e molto meglio dei commessi e dei questori che alla Camera e al Senato sono invece sopraffatti dalla “sottocultura” degli insulti, del disprezzo, della rissa. E dunque, come il mare difende le isole e attutisce quel che succede là fuori, lo smorza e lo media, così la sontuosità del Quirinale, che pure in passato ci parve sproporzionata, superata, antimoderna e bugiarda, è diventata oggi un’intercapedine di “resistenza, resistenza, resistenza” al vento sporco dell’eversione a cinque stelle e della fascisteria della Lega. E le lunghe, monotone inquadrature della Sala della Vetrata, che da oggi le tv ripropongono agli italiani senza mai annoiarli, arrivano come lezioni magistrali sulla forma che è sostanza, sull’abito che fa il monaco, sulla regola che consente il movimento, sulla stazione di posta che rifocilla il viandante più errabondo, sul monumento che argina lo scandalo, sulla tradizione che impaurisce la demagogia. Anche Salvini, in giacca e cravatta, già quando attraversa il cortile del Palazzo della Nazione perde l’aria del sequestratore di naufraghi e persino i grilllini più strampalati come Toninelli e Di Maio non sembrano più i tarantolati che di tanto in tanto insolentiscono chi capita: Mattarella, Macron, Merkel… e sotto a chi tocca. Nello studio del presidente pare quasi che anche loro credano nella democrazia e nell’Occidente. Dunque il Quirinale fa lo stesso effetto che nelle aule giudiziarie fanno le toghe dei giudici e degli avvocati. Danno almeno l’illusione che la giustizia possa mantenersi distante dalle tentazioni più vili e anche dalle grandi questioni più astratte. Un giudice senza la sua toga sarebbe come un medico senza lo stetoscopio, un cuoco senza il cucchiaio, un giardiniere senza le cesoie. È lo stesso ruolo che nei teatri d’opera — pensate alla prima della Scala — hanno gli abiti da sera, la grazia dei fregi e delle sculture dei palchi che hanno ospitato la storia, il graduale abbassarsi delle luci quando persino la tosse si ferma per rispetto della musica. Durante il rito delle consultazioni qualche volta tra i giornalisti e tra gli operatori si libera e si diffonde la solita allegria da Amici miei, l’aria scanzonata da commedia, ma qui non ci sono mai sgangheratezze e neppure zuffe per occupare lo spazio. Sorride Giovanni Grasso, che di Mattarella è il portavoce, ed è un sorriso protetto dalla barba istituzionale. Al massimo ci si dà di gomito e mai si muovono i corazzieri che sono maestri di contegno. Insomma, alla fine, l’estetica della dignità è l’ultimo filo al quale rimane appesa l’unità nazionale.

Fino a poche ore fa, sulla parete di un grande edificio di Dover, era dipinto un operaio che cancellava una stella dalla bandiera europea: quale sintesi migliore per tradurre in arte la Brexit? Già. Peccato che adesso le stelle siano letteralmente scomparse tutte. O meglio: è scomparso pure l’operaio. Cancellazione radicale: è rimasto un ponteggio. Certo, trattandosi di un murale di Banksy, nessun colpo di scena è escluso e tutte le opzioni sono al vaglio, dalla vendita alla rimozione, senza escludere la provocazione (ennesima) dell’autore. Comunque sia, l’improvvisa sparizione di quelle dodici stelle si presta a mio vedere a più di una riflessione. Tanto per cominciare, per quale motivo le istituzioni europee decisero di darsi come simbolo proprio le stelle, nei primi anni Cinquanta? Eppure di idee ce n’erano altre, tutte assennate, da chi proponeva l’antica croce dei vessilli medievali a chi teorizzava una “E” di Europa grande come un abbraccio. A far convergere sulle stelle non giocò soltanto il modello americano (anche lì una federazione di Stati, come si auspicava divenisse il Vecchio Continente), quanto il fatto che le stelle sono da sempre il simbolo della luce nel buio. Sono la guida che non difetta ai marinai, e quindi — per ogni essere umano — il segno armonioso di un argine allo sbando (così le definiva, non per nulla, lo stesso Kant). Noi necessitiamo degli astri, per non smarrirci: in essi abbiamo riposto metafore antiche fino dall’inizio dei tempi, per cui non solo la stella di David sigilla l’ebraismo, ma una cometa brillava anche sul presepe di Betlemme, mentre la stella che salvò Bisanzio dai Macedoni svetta ancora su tante bandiere islamiche, accanto alla mezzaluna. Ebbene, a quell’Europa che usciva stravolta dal tunnel dei regimi, dalle macerie reali ed emotive di due conflitti mondiali, sembrò non esserci migliore auspicio che rappresentarsi anche lei così, con un cerchio di stelle di luce, quelle che nelle tenebre ti proibiscono di perderti. A distanza di quasi settant’anni, colpisce allora che qualcuno le stelle le cancelli. Meglio il buio? Sembrerebbe di sì. E dire che negli Stati Uniti, l’aggiunta di nuove stelle alla bandiera era considerata un’occasione di festa: «Più stelle avremo, e più luminoso sarà il cielo» commentò uno dei presidenti, per cui a Filadelfia, il 4 luglio, si teneva una gioiosa cerimonia per accogliere le new stars, che fossero l’Alaska (nel 1959), le Hawaii (nel 1960) o la Groenlandia nel 2020 come tanto sarebbe piaciuto a Trump. Viceversa, nel 2019 dei Boris Johnson, degli Orbán, dei Salvini e vari altri ringhiatori euroscettici, si preferisce la via del buio alla via lattea. Missing the stars. Sbaglierò, ma non mi sorprende affatto: sono anni che al camminare preferiamo il brancolare, pronti a fare a pezzi per principio chiunque si proponga come guida. Una luce? No, grazie: interruttore spento, off. Per questo, tanto più, non può non far riflettere che questa cancellazione di stelle avvenga su un’opera d’arte. Sarà che un tempo la morte di un’opera prevedeva quasi sempre l’incendio o il furto, se non il bombardamento guerresco dei musei o tutt’al più l’evenienza rara del gesto vandalico. Oggi non più: nel buio — in assenza di stelle polari — è endemica una smania collettiva distruggere, una passione insana per il pulsante “canc”, da cui non si salva neppure quello che in passato meritò il nome di monumento, ovvero “ciò che resterà”. Niente più rimane: tutto è limitato e circoscritto, tutto deve brillare per il tempo miserrimo di un like, è proibita la luce siderale che si spande nei secoli, così come la racconta va Flaubert per Bouvard e Pécuchet. E così come dagli smartphone cancelliamo di continuo foto e messaggi “per liberare memoria”, così la procedura si è estesa a qualsiasi ambito, sempre col terrore che il passato tolga spazio al presente. “Liberare memoria” è un’espressione odiosa, la detesto. “Riempirci di memoria”, semmai. Ma non va di moda. La cancellazione è il vero sport del terzo millennio, declinata nelle diverse gradazioni della sottrazione, dell’irreperibilità, della demolizione. E dunque perfino un’opera d’arte può svanire, senza che un’immensa impalcatura crei alcun disagio. Perché dovrebbe? La morte della bellezza è regolare, e chi ne sta al capezzale non la vive come un trauma: siamo talmente assuefatti all’idea della produzione seriale che tutto ormai ci appare ripetibile, o nel peggiore dei casi ricostruibile con illusoria affinità all’originale. Perché disperarsi, allora, se l’Isis distrugge a picconate le statue dei musei siriani? Le rifaremo. E il sito romano di Palmira? I jihadisti erano ancora impegnatissimi a farlo esplodere, che già una stampante 3d ne ricreava a centinaia di chilometri l’arco monumentale. Va in fiamme Notre-Dame? Pensiamo a una montatura di Macron. Tutto qui? Tutto qui. Dura sopravvivere, quando cancelli le stelle. Come scrisse Stephen Hawking: con lo sguardo fisso a terra, non c’è più l’uomo.

Ha avuto un collaudo di quasi due millenni: dieci volte più lungo dell’esperimento democratico. Voltaire fu uno dei più noti ammiratori occidentali dell’Impero Celeste, prima amministrazione pubblica a selezionare i dirigenti in base alle competenze (gli esami per mandarini). Il “modello Cina” 2.0, con qualche prestito da Singapore, nell’ultimo quarto di secolo ha esibito risultati più che rispettabili: crescita, lavoro, benessere, modernità, innovazione. E ora il sorpasso sull’America è già realtà in alcuni settori. Con quali regole? Autoritarismo è un termine incompleto. Comunismo, è una finzione. Un grande studioso di Confucio ci propone di considerarlo come un sistema “meritocratico”. Daniel A. Bell, canadese, ha fatto scalpore negli Stati Uniti con le sue tesi. Qualcuno lo ha accusato di essere un’apologeta di Xi Jinping. Ma in una fase in cui le liberaldemocrazie perdono sia “performance” che consensi popolari, la sua analisi della meritocrazia applicata alla politica merita attenzione. Lo intervisto a distanza, inseguendolo in viaggio tra la Cina e l’America, mentre esce in Italia il suo Il modello Cina edito dalla Luiss University Press. Putin ha detto che le liberaldemocrazie occidentali sono condannate, perché non forniscono i risultati che la maggioranza dei cittadini desidera. Questa critica sarebbe più credibile se venisse da Xi Jinping. Il governo cinese ottiene da tempo risultati assai superiori a quello russo. Perché Xi non è altrettanto esplicito? «Xi, a differenza di Putin, non sente una minaccia politica diretta dall’Occidente. Inoltre Xi riconosce che diversi sistemi politici sono adatti a seconda dei rispettivi paesi, in base alle dimensioni delle nazioni, alla loro cultura politica, alle specifiche condizioni nazionali. Le nazioni occidentali con una lunga storia di democrazia liberale possono usare le elezioni per scegliersi i leader; la Cina con la sua lunga storia di meritocrazia politica può usare meccanismi meritocratici per selezionare e promuovere i suoi leader. Perciò i leader cinesi non fanno il tifo per la caduta delle liberaldemocrazie, finché l’Occidente non interferisce sulle loro scelte». Nel libro lei difende i sistemi di governo dove i leader vengono selezionati in base alla loro competenza. In alcune democrazie occidentali — Stati Uniti, Regno Unito, Italia — delle maggioranze assolute o relative di elettori hanno gli esperti, i tecnocrati, le élite. Chi ha eletto Donald Trump, Boris Johnson o Matteo Salvini non sembra cercare la professionalità o l’esperienza. L’Occidente va nella direzione opposta rispetto al modello cinese? «Si può parlare di un modello cinese solo in un contesto cinese o asiatico. Io lo collego all’ideale di una meritocrazia “vertical-democratica”: dove la democrazia prevale ai livelli inferiori di governo, la meritocrazia prevale al vertice, e tra i due livelli possono esserci degli esperimenti. Detto questo, anche nelle liberaldemocrazie occidentali esistono elementi meritocratici e sono stati effettivamente indeboliti negli ultimi anni. In Europa, l’Ue fu concepita in modo da assicurare un governo meritocratico a livello centrale, ma quei meccanismi non funzionano più. E con l’ascesa del populismo ci sono ancora meno tutele per prevenire “il popolo” dallo scegliersi leader senza esperienza e senza un curriculum di scelte politiche competenti». Lei vive e lavora in Cina. Quanto è stato discusso il suo libro, incluse le parti più critiche? Quanto è aperto il dibattito politico dopo anni di “cura Xi Jinping”? «Il mio libro è stato recensito e dibattuto. La reazione è diametralmente opposta rispetto a quella che ho sollevato in Occidente. Poiché io difendo un ideale sistema cinese in cui c’è democrazia ai livelli di governo locale, e meritocrazia nelle sfere più alte del governo centrale, la critica più diffusa in Occidente è che ci vorrebbe più democrazia ai vertici di Pechino. Al contrario tra i lettori cinesi la reazione più diffusa è la richiesta di maggiore meritocrazia in basso. Perché le elezioni nei villaggi spesso sono segnate dalla corruzione e i cittadini non ne ricavano benefici». Le proteste a Hong Kong sembrano dare torto ai sostenitori del modello cinese. Anzitutto, i cittadini di Hong Kong pur essendo cinesi quel modello non lo vogliono. In secondo luogo, se i governanti di Pechino sono davvero esperti e competenti, perché sono stati spiazzati dalla protesta? «I leader politici nel mondo reale non possono prevedere il futuro. Né prepararsi per tutti gli scenari. Quello che possono fare è imparare dai propri errori e una meritocrazia funziona pienamente se i governanti sanno trarre lezioni dagli sbagli e dagli incidenti. Finora per fortuna i leader cinesi non hanno usato una repressione brutale — nello stile di Piazza Tienanmen 1989 — nei confronti delle agitazioni di Hong Kong. All’epoca della precedente ondata di contestazione, il cosiddetto “movimento degli ombrelli” in favore della democrazia, i governanti lasciarono che gli studenti si stancassero e disturbassero il resto della cittadinanza, fino a quando le proteste si esaurirono da sole. Dobbiamo sperare che accada anche stavolta, benché le proteste quest’anno siano diventate più violente e possono rendere necessarie misure più energiche». Come fa un sistema politico meritocratico a evitare di isolarsi dalle critiche dei suoi cittadini, quando commette degli errori? Come fa a non trasformarsi in un’oligarchia che si autoperpetua, impedendo ai cittadini di eliminarla se ne sono scontenti? «Quando scrissi la prima edizione del mio libro il problema numero uno era l’abuso di potere a fini di guadagno. Dopo di allora, le forti misure anticorruzione sono riuscite a ridurla in modo significativo. Tuttavia la campagna anticorruzione ha colpito così tanti dirigenti governativi, che oggi non mancano gli avversari politici in cerca di rivalsa contro l’attuale governo. A sua volta questo ha reso l’attuale leadership più paranoica, e spiega l’eliminazione di limiti temporali al mandato di Xi Jinping. Dunque siamo daccapo, alle prese col rischio che i leader non vogliano mollare il potere. Per fortuna esiste ancora un sistema collegiale che impedisce una dittatura personale sullo stile di Mao». Sembra che stiamo avanzando verso un nuovo tipo di guerra fredda, uno scontro geoeconomico frontale fra Stati Uniti e Cina. Lei cosa pensa dello scenario “trappola di Tucidide”, spesso citato come ammonimento da Xi? «Questa America sembra decisa a non concedere spazio a una potenza in ascesa come la Cina. Nessuna potenza può rimanere la “numero uno” economicamente, politicamente, culturalmente, per sempre».

L a guerriglia delle forze sovraniste contro l’Unione europea sta perdendo posizioni su più di un versante. Anche in Italia con l’harakiri politico di Matteo Salvini, ma il segnale più significativo di una difficoltà strategica insormontabile giunge dal fronte della Brexit, che ha rappresentato finora l’offensiva più insidiosa per la tenuta del progetto europeo. Più i giorni passano e più l’aura di tragedia che circondava la prospettiva di un abbandono dell’Europa da parte di Londra si stempera in un clima da farsa. Già Theresa May in più di un passaggio aveva sfidato il senso del ridicolo insistendo con cieca testardaggine a chiedere ai partner europei concessioni che ben sapeva di non poter ottenere. Ora Boris Johnson, insediato a Downing Street, sta stucchevolmente ripetendo lo stesso copione solo con voce più alta e boriosa. Forse nella speranza di far dimenticare che la sua maggioranza (un solo seggio) al parlamento di Westminster è inferiore perfino a quella risicata di cui godeva la May. Non si può spiegare la ragione di questo cul di sacco in cui si è infilato un Paese maestro nei grandi giochi diplomatici se non si guarda alle radici del fenomeno Brexit. In particolare al fatto che il non poi così clamoroso 52% di voti favorevoli all’uscita dalla Ue è stato cavalcato dalle forze sovraniste nella presuntuosa convinzione di poter innescare un ben più ampio “rompete le righe” all’interno dell’Unione. Non va dimenticato, infatti, che Londra più di ogni altra capitale europea ha premuto per il tumultuoso ingresso in massa dei Paesi dell’Est. Con il proposito inconfessabile di gettare sabbia negli organismi comunitari in modo da bloccare quel processo di maggiore integrazione sovranazionale che il Regno Unito non ha mai amato. Ma la speranza di avviare una diaspora continentale sull’onda della Brexit si è ormai rivelata un’illusione. Perfino i nazionalisti più scatenati, come l’ungherese Orbán, si sono guardati bene dal seguire l’esempio inglese: la sirena sovranista non vale il peso di qualche grosso impianto tedesco in Ungheria. E così, di presunzione in presunzione sempre sbagliate, ora Boris Johnson è passato dagli scacchi al poker brandendo una sola arma: quella di un divorzio senza accordo. Che però è a doppio taglio perché provocherebbe ben più danni al Regno Unito di quelli che patirebbe il resto d’Europa. E non soltanto sul terreno dei pur rilevanti scambi economici. Peggio, molto peggio rischia di accadere sul versante politico dato che il ripristino di un confine fra Ulster e Repubblica d’Irlanda come vorrebbe Johnson sarebbe benzina per riattizzare le fiamme di conflitti sanguinosi appena sopiti. Per non dire delle pulsioni scismatiche che agitano la Scozia dove ci si è pronunciati per il “remain” in Europa e mal si tollera da tempo un governo di Londra nelle mani di una cricca oxfordiana di rito spocchiosamente inglese. Il nuovo inquilino di Downing Street fa lo spiritoso e promette “la botte piena e la moglie ubriaca”. Una versione del sovranismo che rientra a pieno titolo nella terza fra le celebri leggi di Carlo M. Cipolla sulla stupidità umana. Quella che dice: «Una persona stupida è chi causa un danno a un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita». Dato che le persone stupide sono anche le più pericolose, sta ora a Bruxelles fare l’unica scelta sensata: andare a vedere il bluff di Johnson. Il beneficio politico della chiusura di questa partita è superiore a qualunque costo economico.

La camminata nel deserto, per lui, comincia qui. Lunga o corta, si vedrà. La foto postata dal Viminale – mai presidiato come in questi ultimi giorni di passione – sarà anche l’ultima o quasi. Nuovo governo, nuovo ministro alla scrivania che fu di Scelba e Cossiga. L’uomo che ancora venti giorni fa, al rientro dal Papeete, aveva in mano l’Italia, si ritrova d’incanto capo dell’opposizione. Matteo Salvini è un uomo che non si capacita ancora di quanto gli abbia riservato il destino nel giro di tre settimane. Luigi Di Maio che si nega, proprio nel giorno cruciale, è solo l’ultimo affronto. Forse una telefonata d’addio, si dice. Ma salta il faccia a faccia che per giorni il segretario leghista ha inseguito. Il capo del Movimento è ormai impegnato a poca distanza da lì, a Palazzo Chigi, ma con Nicola Zingaretti. Schiuma di rabbia, l’uomo che volava sulle onde del 34 per cento delle Europee e del 38 dei sondaggi di due settimane fa. Ha già davanti a sé la scena del suo successore – Gabrielli o Minniti o proprio Di Maio, chissà – che straccerà davanti alle telecamere i decreti sicurezza, sacre scritture del salvinismo già sacrificate sull’altare del nuovo patto col Pd. Sarà il destino che attenderà forse quota 100. E il dogma di punta della propaganda, quello puntualmente disatteso dei “porti chiusi”. Eccolo lo sconfitto indiscusso, entra in scena alle 20.05 al Senato, ma soprattutto irrompe ad apertura dei tg perché così esige la “Bestia” della comunicazione leghista. Giacca e cravatta, vezzo sopraggiunto al tramonto istituzionale, è in mezzo ai due capigruppo Morelli e Romeo. Manca il numero due del partito, Giancarlo Giorgetti. Ma solo «perché è appena atterrato, non ci sono dubbi su di lui», taglia corto il segretario soprassedendo sui dissidi su strategie e tempi della crisi. Ma tutto ormai si è compiuto, a cinquecento metri da lì. A Palazzo Chigi c’è un nuovo triumvirato riunito, con Conte e Di Maio ora c’è il segretario dem. Salvini appare davanti alle telecamere esausto, ancor più che adirato. È un fiume in piena di «inorridisco», «ora capiamo i tanti no», «restiamo increduli», ma «rifarei tutto». Denuncia il «ribaltone all’italiana, alla vecchia maniera». Eppure con toni per nulla incendiari. Nega quel che tutti a questo punto si attendono dal Nerone che è in lui: «Non facciamo appelli alle piazze», annuncia, contrariamente alla ministra Alessandra Locatelli e a Giorgia Meloni che nel pomeriggio avevano iniziato a evocarle. Il leader dice che no: «Ho lavorato al Viminale anche oggi, sono ministro dell’Interno e per 14 mesi mi sono occupato di tranquillità e sicurezza degli italiani, non pianifico insurrezioni popolari, quelle si facevano nel 1848». È il Salvini che indossa già i panni del capo del centrodestra, alla conquista dell’elettorato moderato, sarà la nuova strategia. Conferma che i contatti con Di Maio ci sono stati fino all’ultimo, che i rapporti con lui sono stati «sempre buoni». Neanche nell’ora suprema del tradimento Matteo infierisce sull’ex amico Luigi. «Ognuno fa le sue scelte, ma se chi fino a una settimana fa diceva mai col Pd ora preferisce fare il governo con quelli di Bibbiano e Banca Etruria, allora noi facciamo un passo avanti, auguri». Quel che nasce per il leader leghista è il «governo delle poltrone sulla pelle degli italiani, cha fa rientrare lo sconfitto Renzi dalla finestra: la nostra dignità non è in vendita, non vale mille poltrone». L’appello che sarà rivolto domani al capo dello Stato a questo punto è uno solo. «Fateci votare – dice – perché potete scappare dagli italiani per un mese, dieci, un anno, ma dare vita nei palazzi a un governo di tutti contro la Lega, contro Salvini, non vi porterà lontano. Chi scappa non ha mai la coscienza pulita». Al capo dello Stato solo una velata, indiretta stoccata, quando retoricamente chiede se era «questo il governo di largo respiro di cui parlava: che c’azzeccano i programmi di Pd, 5S e Leu? Noi non saremo mai complici». Addio Palazzo Chigi, la nuova scalata la tenterà dal basso. «Potete scappare dal voto nazionale – incalza – Ma dovrete fare i conti con la metà delle regioni italiane che andranno al rinnovo nei prossimi mesi, a cominciare dall’Umbria a ottobre, poi Emilia-Romagna, Calabria». E sarà ancora alleanza con Meloni e Berlusconi. «Gli altri faranno alleanza anche nei territori? Vorrà dire che il M5S si scoprirà costola della sinistra, bastava dirlo prima. Scappate pure, ma non potrete farlo per tutta la vita». Poi le telecamere si spengono, il quasi ex ministro torna a casa coi suoi, appare loro sfinito. Una maschera di smarrimento prende il posto di quella truce dei 14 mesi spazzati via da con un colpo di sole d’agosto.

«Mezza Italia mi ha chiesto di fare questo governo con Conte premier. Ho ascoltato tutti e ho capito che dovevo arrendermi». Figuriamoci se un segretario per il quale il bene principale di un partito è l’unità, poteva rimanere sordo al coro quasi unanime: fermare Salvini e il voto anticipato. «Mi hanno chiamato persino i cantanti, gli attori, gli scrittori. Volevano solo una cosa». Niente nomi, ma non è difficile immaginare che il pressing sia arrivato da quel gruppo di artisti che lo aveva sostenuto pubblicamente alle primarie: Monica Guerritore, Fiorella Mannoia, Alessandro Gasmann, Maurizio De Giovanni, Tommaso Paradiso e tanti altri. Eppoi c’erano le pressioni dei dirigenti del Pd. Dei grandi vecchi come Romano Prodi. Di Walter Veltroni. Di Enrico Letta. Eppoi la voce dei sindacati, da Maurizio Landini ad Anna Maria Furlan. Si è mossa la Conferenza episcopale italiana, una trincea contro la deriva sovranista. Il leader dem non ha parlato con il presidente della Cei Bassetti, impegnato in una missione nello Sri Lanka, ma con un delegato della presidenza: «Vada avanti, ha anche l’incoraggiamento della segreteria di Stato», è stato il messaggio. Cioè della Santa sede. Livelli sempre più alti di persuasori hanno fatto breccia nel muro che Zingaretti aveva alzato all’inizio: no al Conte bis e no al suo ingresso nel governo. Ma le dichiarazioni del premier da Biarritz hanno cambiato tutto. «Mai più con la Lega». Da nuovo leader del Movimento, in sintonia con Beppe Grillo e Davide Casaleggio, Conte ha chiuso il forno che Luigi Di Maio aveva lasciato aperto. Così si è riconquistato la chanche di una conferma. E così Zingaretti ha cominciato a capire: doveva cambiare schema e prendere in mano la partita senza veti. Ha discusso, ha litigato anche con amici di una vita (Goffredo Bettini gli ha intimato di entrare al governo, ma quel no il segretario vorrebbe farlo vivere). Tutti dicevano che accettare Conte a Palazzo Chigi era trasformismo allo stato puro. Dieci giorni fa. Un rischio mortale per il Pd. Il segretario si è sentito tante volte con il presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Hanno condiviso l’analisi ma al dunque Zingaretti si è guardato indietro e ha visto il vuoto. Solo Luigi Zanda e Paolo Gentiloni erano pronti a correre il rischio di elezioni anticipate con l’idea di una clamorosa rimonta. Gli altri no. Bloccare la deriva autoritaria era un argomento tanto forte quanto convincente. Naturalmente hanno pesato i contatti con il Quirinale. E i segnali che arrivavano dalla Cancellerie europee. Ogni giorno Zingaretti ha sondato l’umore di Matteo Renzi per tenerlo dentro un percorso comune. «Alla fine — spiega Sassoli — Nicola ha gestito al meglio la partita. Con pazienza e mettendo l’unità del partito al primo posto». Lo hanno assediato, questo è vero. Lo hanno messo in difficoltà quando alla determinazione di Di Maio, peraltro isolato nel Movimento, è diventata un’impresa opporre altrettante determinazione senza il sostegno compatto del Pd. Però la sua ossessione unitaria ha avuto il merito di far tacere, nelle ultime ore, leader e leaderini dem che potevano sfasciare tutto con un tweet o con un’intervista. Ha chiamato di nuovo Casaleggio dopo la telefonata di Ferragosto. Ma dopo la prima cena con Di Maio, i contatti li ha avuti in esclusiva con il capo politico. Pur sapendo che il vicepremier uscente teneva la trattativa nell’ambiguità, non citava mai il Pd, continuava a chattare con Matteo Salvini e a organizzare incontri con Gianmarco Centinaio per riprendere il discorso interrotto dalla crisi. Una telefonata di ieri pomeriggio, prima del vertice notturno, ha rotto definitivamente il ghiaccio. All’altro capo del filo non c’era solo Di Maio ma anche Giuseppe Conte appena rientrato dal G7. «Vediamoci e parliamo io e te», gli ha proposto il premier. È stata la svolta. Una definizione di ruoli. Conte chiedeva il bis a nome dei 5 stelle e trattava direttamente programma e posti nei ministeri. Quindi una delegazione del M5S incontrava una delegazione del Pd. Come dire: è finita l’era del premier superpartes che Conte ha recitato soprattutto negli ultimi mesi. Sarà, se tutto fila, un presidente del Consiglio grillino con i contrappesi di un esecutivo di coalizione. E quindi senza un vicepremier (Di Maio) dello stesso partito. È stato, anche questo, un passo avanti imposto dalle mosse di Zingaretti. Un cedimento degli altri. A Conte il segretario ha chiesto di agire da leader, «di mettere un po’ d’ordine nel caos grillino». Può finire male non per i dubbi del segretario ma per la confusione grillina. Di Maio contro il Movimento e viceversa. Alla fine questo è il vero problema. Mentre il Pd ha mantenuto quel senso di comunità smarrito da tempo, che è la cifra, la bussola politica di Zingaretti. Anche se gli è costata qualche passo indietro.

In diciannove giorni di crisi, Luigi Di Maio non ha mai pronunciato la parola Pd. Non pubblicamente. Il capo politico del Movimento ha affrontato la crisi come una sfinge. «Non devo fare la prima mossa, devo scoprire il bluff di Salvini», diceva quando tutto era ancora confuso. Prima che Giuseppe Conte portasse la crisi in Parlamento e la rendesse irreversibile. Ed è andato avanti così, come un giocatore di poker che nasconde le sue carte, continuando ad alzare la posta. Proprio mentre il suo Movimento si divideva. Di Maio lo fa per rompere o perché crede che la corda non si spezzerà? Se lo chiede in queste ore il segretario dem Nicola Zingaretti. Se lo domandano anche esponenti dell’inner circle del vicepremier M5S, perché ci sono cose che non tornano: la richiesta del Viminale, prima di tutto. Una rivalsa nei confronti del leader della Lega, certo. Ma anche un segno di continuità con la faccia feroce nei confronti degli immigrati incarnata da sempre, tra i 5 stelle, proprio da Di Maio. «Farò quello che chiede il Movimento», ha detto il leader nel vertice che ha dato il via libera definitivo alla trattativa. Con i sì del ministro dei rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro, del guardasigilli Alfonso Bonafede, del capogruppo alla Camera Francesco D’Uva, perfino del sottosegretario Vito Crimi. Ma con i dubbi di Max Bugani, socio di Casaleggio nell’associazione Rousseau e ultimamente vicino alle posizioni e alla voglia di voto di Alessandro Di Battista. E con quelli, a sorpresa, del capogruppo al Senato Stefano Patuanelli, che ha escluso fin dal primo momento un possibile ritorno con la Lega, ma secondo cui «il male minore per il Movimento sarebbe il voto». Nella casa dei vertici segreti, quella con vista Castel Sant’Angelo del braccio destro di Davide Casaleggio, Pietro Dettori, c’era chiaramente anche il manager. Che vorrebbe il voto su Rousseau per consultare gli iscritti già oggi, prima della direzione Pd. E prima di andare a parlare con il capo dello Stato. Per sancire, ancora una volta, la supremazia della piattaforma digitale, che gestisce e per cui incassa 300 euro al mese a eletto, nei meccanismi decisionali del Movimento. Tanto che l’assemblea congiunta dei parlamentari è stata convocata solo stasera alle 19, a voto già avvenuto. Se davvero andrà come vuole Casaleggio. Perché se Di Maio è favorevole, ci sono forze che frenano e vorrebbero ritardare il momento della consultazione on line: quella del presidente del Consiglio Conte, ormai forte dell’appoggio incondizionato e ripetuto di Beppe Grillo. E quella del presidente della Camera Roberto Fico, che si è sfilato per favorire una soluzione e che lavora da settimane perché l’accordo si chiuda. «Ai tempi dell’intesa con la Lega abbiamo sottoposto alla base il contratto già fatto — ricorda un deputato — non si vede perché in questo caso si debba fare diversamente». A giudicare dal monitoraggio dei social, il voto su Rousseau è un rischio. Serve tempo, un accordo blindato, magari un nuovo intervento di Grillo, per far sì che non sia un azzardo. Di certo, in questa fase è stato messo nell’angolo chi remava decisamente contro l’intesa. Di Battista non era al vertice decisivo di ieri, la sua linea è stata sconfessata nel momento in cui il garante ha scelto la carta Conte. Senza alcun cedimento alle istanze barricadere dell’ex deputato. Il senatore Gianluigi Paragone ancora ieri rilanciava senza convinzione, e con un piede fuori dalla porta: «Vogliono discontinuità? Mettiamo Stefano Fassina all’economia». La vicepresidente del Senato Paola Taverna è in ferie, all’estero col figlio, e non ha potuto dire la sua — come Dibba — se non per telefono. Così, la partita continua a condurla Di Maio. Sempre sotto traccia, lasciando che le dichiarazioni pubbliche le facciano Zingaretti e gli esponenti del Pd, rifiutandosi di dire a chiunque, anche ai deputati più vicini, cosa pensa sia meglio davvero. Aveva scommesso sulla tenuta dell’alleanza con Salvini, se non altro per l’intesa personale che si era creata tra i due un anno e mezzo fa. Non si aspettava il voltafaccia, nonostante in molti l’avessero visto arrivare, e ora non vuole esporsi finché tutto non sarà deciso. Quel che vuole però è ottenere il massimo per sé: restare vicepremier. E magari, se non capo del Viminale, almeno ministro dello Sviluppo, per portare avanti il lavoro intrapreso e mostrare dedizione a quanto fatto finora. «Mi rimetto alla volontà del Movimento», ha detto più di una volta negli ultimi giorni. Senza alzarsi dal tavolo però. Cercando di non lasciare spazio agli altri giocatori.

La surreale crisi politica d’agosto ci offre una sola certezza: l’età dell’innocenza del Movimento Cinque Stelle si è del tutto esaurita. Nato per scardinare il decrepito sistema dei partiti rimpiazzando la democrazia rappresentativa con la democrazia diretta via web, e sbarcato in massa nel parlamento italiano con l’unico obiettivo di «aprirlo come una scatoletta di tonno», ha finito per integrarsi in pieno con il contenuto di quella scatoletta. Tonno, magari con qualche spina, ma sempre tonno. La storia dell’ultimo anno, e più ancora degli ultimi giorni, sta a dimostrare come il M5S sia ormai assimilato a quel sistema che si proponeva di mandare in pensione. Si tratta, a tutti gli effetti, di un partito come gli altri: sia pure al netto di alcune curiose stravaganze dai contorni mai chiariti fino in fondo, tipo la famosa piattaforma Rousseau e il ruolo dei signori privati che la controllano. Identici rituali. Medesimi codici nei rapporti interni, articolati in correnti governate da altrettanti capibastone. E quel che toglie definitivamente ogni dubbio, perfino gli stessi linguaggi. Dopo la batosta elettorale in Sardegna abbiamo sentito Luigi di Maio ripudiare prontamente la tesi della sconfitta, come hanno sempre fatto gli sconfitti: «È inutile confrontare il dato delle amministrative con quello delle politiche. Se si guarda agli altri partiti il M5S è in linea con tutte le altre forze politiche». Gli altri partiti… E all’indomani dell’indimenticabile scoppola presa alle Europee di fine maggio, ecco il capo politico grillino rifugiarsi in una pietosa giustificazione, tirando in ballo gli elettori: «Prendo atto che la nostra gente si è astenuta e attende risposte, e noi queste risposte gliele vogliamo dare. Restiamo comunque ago della bilancia in questo governo». Le dirette streaming? Un vecchio ricordo, e anche un po’ fastidioso. La trasparenza sbandierata nell’età dell’innocenza come regola aurea nelle relazioni con i diversi? Meglio i rassicuranti vertici di maggioranza, tali e quali rispetto a quelli delle maggioranze di un tempo. Magari a tarda sera, magari a casa di qualche amico, dove manca soltanto la crostata. Vertici estenuanti, tanto da far rimpiangere i caminetti democristiani, le melodrammatiche maratone uliviste, le litigate notturne fra Gianfranco Fini e Giulio Tremonti. Il dogma intangibile del limite ai due mandati per gli eletti del Movimento? Demolito dal “mandato zero” annunciato da Di Maio come la grande innovazione politica della terza (o quarta?) repubblica, ma già sperimentato con successo (nella seconda?) da Roberto Formigoni. Con qualche big grillino già corso ai ripari saltando un giro per assicurarsi la possibilità di correre al giro seguente con l’avversario fuori gioco: ma senza immaginare che proprio lui si sarebbe inventato il mandato zero. E la guerra alle poltrone? Evaporata silenziosamente nella selva di nomine pubbliche fatte seguendo senza troppe remore il manuale Cencelli nuova edizione. Per arrivare a rispolverare nelle trattative per fare un governo, al termine di una fulminea metamorfosi, la politica dei due forni in auge nella Prima Repubblica, ma quella vera. Formula che si deve, nientemeno, a Giulio Andreotti. Fu lui a coniarla, ormai più di mezzo secolo fa, al tempo del primo centrosinistra. La Democrazia cristiana era combattuta fra l’alleanza con i socialisti o con lo schieramento liberale e “il Divo” affrontò il dilemma spiegando che i cattolici avrebbero potuto produrre indifferentemente il pane nel forno con la sinistra o con la destra. Il partito docilmente si adeguò. Esattamente come avrebbero fatto i democristiani soltanto qualche anno dopo, cambiando radicalmente la strategia delle alleanze. Anche il segretario del Partito socialista Bettino Craxi non avrebbe avuto molti scrupoli, nel suo mitico decennio, nell’usare la tattica dei due forni brevettata dalla Dc: l’accordo con la destra democristiana per il governo e l’intesa con i comunisti nelle giunte di sinistra per il controllo delle amministrazioni locali. Da allora la politica italiana si è riempita letteralmente di doppi forni, con la complicità di leggi elettorali scriteriate: che sembravano fatte apposta. Così anche gli insospettabili hanno imparato molto bene l’adagio andreottiano, quello secondo cui “il potere logora chi non ce l’ha”. Con il risultato che l’età dell’innocenza se n’è definitamente andata.

Nelle intenzioni di tutti, soprattutto del presidente della Repubblica, doveva essere un governo “di legislatura” fondato su intese concrete, anzi su un “accordo dettagliatissimo” (Romano Prodi). Qualcuno ha evocato la Germania, dove peraltro il patto sul programma tra democristiani e socialdemocratici ha richiesto oltre due mesi di trattative serrate. Ora sappiamo che il possibile secondo governo Conte, fondato sulla maggioranza Pd-5S, sarà di legislatura solo se riuscirà a tirare avanti e a evitare trabocchetti nei prossimi tre anni; altrimenti farà la fine del precedente, come Conte sa bene, visto che anche quattordici mesi fa si promettevano cinque anni senza scossoni. Di sicuro nessuno ha perso il sonno per definire il programma dell’esecutivo nascituro: ci si è concentrati invece sui nomi, come sempre accade quando il vero nodo riguarda la spartizione del potere.

E sui nomi, chissà, il negoziato potrebbe ancora affondare. Considerando che i Cinque Stelle sono alquanto inaffidabili, oltre che mossi da logiche opache, forse non è stato saggio da parte di Zingaretti far cadere il veto all’ipotesi Conte prima di definire nero su bianco la squadra dei ministri e le relative poltrone. Ci si è adagiati nella rassicurazione grillina secondo la quale, in cambio del “sì” al premier uscente e rientrante, i ministeri importanti sarebbero stati appannaggio del Pd. A lato pratico non sembra che sia così e infatti l’unico negoziato che conta, quello sui ministri, è diventato il più insidioso. Non è il miglior passo d’inizio per un’avventura in cui è chiara la mancanza di passione civile. Un gioco politico spregiudicato, la cui posta in palio è tuttavia molto ambiziosa — la decapitazione del primo governo populista dell’Europa occidentale — , si svolge in modo ordinario e banale, esponendo al giudizio perplesso degli italiani la solita rissa sui posti a tavola. Così è ancora più evidente l’unica ragione per cui nasce la bizzarra alleanza: bloccare Salvini, smussare l’arma elettorale che il leghista ha tentato goffamente d’impugnare, costringerlo all’opposizione e accentuarne con ogni mezzo il declino. Fidando nella sua difficoltà di elaborare ulteriori proposte dopo i cavalli di battaglia dell’immigrazione clandestina (un successo di opinione pubblica), della sicurezza (due decreti destinati a essere smantellati) e della “flat tax” (un fallimento). Ne deriva che l’inedita maggioranza ha tutta la convenienza a durare nel tempo. Sempre in chiave anti-Salvini c’è da consolidare il rapporto con la nuova commissione Von der Leyen, definire una legge elettorale proporzionale dopo il taglio dei parlamentari e predisporre il terreno per l’elezione del capo dello Stato, nel ‘22, tenendo la Lega fuori dai giochi. Per ottenere questi risultati il Pd rischia oggi di accelerare il suo tramonto politico, pur addolcito da incarichi ministeriali di prima grandezza. Non a caso l’anziano Emanuele Macaluso ha battuto per giorni sullo stesso chiodo: «Non abbiate paura del popolo… la destra non si batte con una manovra di palazzo». Ovviamente nessuno lo ha ascoltato e oggi il Pd rischia di logorarsi nell’abbraccio con una forza illiberale come il M5S, senza nemmeno esser certo che stare all’opposizione faccia dimagrire la Lega. Del resto, anche i Cinque Stelle, contestati dai loro elettori e alle prese con il referendum Rousseau, hanno poco da stare tranquilli. In sostanza è una strana partita nella quale il sistema politico si consuma e i perdenti sono numerosi e ben individuati. Quanto ai vincenti, sono probabilmente solo due. Uno, Matteo Renzi, potrebbe non aver più bisogno di crearsi un partitino personale, visto come manovra il Pd. L’altro, l’avvocato del popolo, è l’autore di una straordinaria capriola politica. Non è nemmeno trasformismo, pratica comune in una democrazia parlamentare. Se il paragone non fosse assurdo per la statura del personaggio evocato, occorrerebbe risalire a Talleyrand che fu stretto collaboratore di Napoleone e poi riuscì con la restaurazione ad accreditarsi presso Luigi XVIII, fino a diventarne il primo ministro per qualche tempo. Ma è un paragone davvero eccessivo per Conte, almeno fino al prossimo salto mortale.