Valfurva, Alta Valtellina, provincia di Sondrio, convive da oltre vent’anni con il dissesto del Ruinon. Monitorato dal 1997, è il più ampio movimento franoso della Lombardia e incombe sull’area creando quella che è ormai diventata un’emergenza quotidiana. Negli anni si sono susseguiti i progetti di interventi risolutivi, mai attuati e sostituiti da soluzioni temporanee messe in pratica nei momenti più critici. Dal giugno scorso, dopo la rilevazione di nuovi movimenti, la strada provinciale 29 che porta al passo del Gavia è stata aperta a singhiozzo fino alla chiusura definitiva dopo l’ennesima frana, il 20 agosto. Ora Santa Caterina è raggiungibile solo dal versante di Brescia, con danni incalcolabili al turismo. Sulla situazione del paese interviene una cittadina illustre, la sciatrice Deborah Compagnoni.

«Salvate la mia valle». La Valfurva isolata e in ginocchio: «Quella frana è monitorata dal ’97 ora serve una soluzione. Dal turismo agli scolari, così quella terra non ha futuro».

«Magnifica Terra et Honorate Valli», così fin dall’antichità veniva descritta Bormio con le sue valli, un capolavoro dove la natura ha dato il meglio di sé. Da sempre sono meta molto apprezzata peril turismo, con Santa Caterina e la Valfurva tra le migliori che questa vasta porzione di Valtellina possa offrire, tanto da essere completamente inclusa nel Parco nazionale dello Stelvio, l’area protetta più grande delle Alpi. Qui si trova il ghiacciaio vallivo più grande delle Alpi italiane, attorniato da un susseguirsi di cime oltrei3.500 metri, il leggendario Gran Zebrù, uno dei simboli dell’alpinismo sull’arco alpino; l’unico esempio di tundra artica in Italia, a pochi metri dal Passo Gavia, valico tra i più elevati d’Europa con i suoi 2.621 metri, meta tra le più gettonate dai ciclisti e non solo. La Val Zebrù, perla del Parco, dove foreste di abeti e larici sorvegliano dal basso magnifiche e possenti montagne di dolomia e calcare che segnano il confine con il Sudtirolo, teatro delle battaglie più alte della storia dell’umanità durante la prima guerra mondiale. Un piccolo gioiello La mia Santa Caterina è il centro turistico per eccellenza della valle, posto in una conca a 1.738 metri di altitudine; qui sono cresciuta e, con gli anni, mi piace pensare che questa natura meravigliosa abbia contribuitoafarmi diventare un’atleta di successo, forgiando il mio carattereelasciandomi segni indelebili. Quello che sono diventata lo devo anche a Santa Caterina e alla Valfurva. Con le sue piste da sci, teatro di due mondiali nel 1985 e nel 2005, tra le quali quella a me intitolata, o l’altrettanto famosa «Valtellina», tra le piste di fondo più tecniche delle Alpi, rappresenta un Paradiso per le attività invernali come quelle estive, con centinaia di chilometri di sentieri e mete alpinistiche di pregio. Insomma, la Valfurva per me, come per molti, rappresenta la vita, la mia infanzia, il luogo dove ho lasciato il cuore, dove mi sento a casa. Questo piccolo gioiello è purtroppo gravemente messo a rischio da una frana, il Ruinon, che minaccia oltre alla provinciale che lo raggiunge dal fondovalle, gli abitati sottostanti. Questa esiste da oltre 30 anni, è monitorata dal 1997 e, a oggi, è il fenomeno più pericoloso e potenzialmente distruttivo dell’intera regione Lombardia. Nonostante la gravità della situazione finora nulla è stato fatto. Questa frana si muove particolarmente durante il disgelo, tra maggio e luglio, quando i torrenti soprastanti si gonfiano e la riempiono di acqua, «benzina» per il corpo della frana che si mette in moto. Questa primavera anomala ha creato movimenti mai accaduti in passato, con conseguente peggioramento della frana stessa e chiusura totale della strada in data 22 giugno. L’allarme per l’inverno Un grosso masso si è staccato il 20 agosto, fortunatamente non ci sono state vittime ma solo gravi danni alla sede stradale, raggiunta dalla roccia per la prima volta in molti anni. Altre decine di massi potrebbero crollare da un momento all’altro, tutta l’area è quindi stata interdetta senza possibilità di risolvere la faccenda in tempi brevi a detta dei nostri amministratori. Adiacente alla strada passano anche i servizi del paese (corrente, fogne, telefono), che in caso di crolli importanti potrebbero essere danneggiati, con perdita di ogni servizio primario per il paese. Dopo oltre due mesi, la valle vive una situazione di grande disagio e preoccupazione per il suo futuro, essendo il turismo e Santa Caterina il cuore pulsante della propria sopravvivenza economica. Le attività turistiche sono in ginocchio con disdette e turisti che scappano, personale impossibilitatoaraggiungere il luogo di lavoro, senza pensare che con l’avvicinarsi dell’inizio delle scuole più di 50 bambini e ragazzi dovranno scendere a valle per le lezioni. Pericoli e disagi L’unica via di accesso ci è data dal Passo Gavia, dalla viabilità precaria e pericolosa, essendo una vecchia strada militare asfaltata e allargata in pochi punti, dove mezzi pesanti non possono transitare; una strada che molte persone non si sentono di percorrereeche, in ogni caso, chiuderà alle prime nevicate autunnali. Questo passo per gli abitanti del paese è raggiungibile solo con un lungo giro che richiede almeno due ore di auto. L’alternativa è una stretta strada forestale, adatta solo ai mezzi fuoristrada, costruita in quota sul versante opposto alla frana, con pochi scambi e dalla lenta percorrenza che in ogni caso, con l’arrivo delle prime gelate, diventerà impraticabile. Anche se l’arrivo dell’inverno aiutasse a rallentare la discesa della frana, rimane inaccettabile e pericoloso andare avanti così. Ora io mi chiedo se sia mai possibile in un Paese civile una cosa del genere. Una nazione seria deve avere cura del territorio e metterlo in sicurezza, perché molta della sua ricchezza deriva dalle proprie bellezze, che tutto il mondo invidia. La Valfurva non merita questo, non merita la morte di un paese, di una comunità, che negli anni si è sacrificata e ha voluto credere nella potenzialità del proprio territorio. Chiedo a gran voce, come semplice cittadina e amante di questa valle, che al più presto ci sia l’intervento delle autorità competenti nella realizzazione delle opere necessarie in via definitiva.

 

K È una sentenza destinata a fare storia, e prima ancora scuola in tutti gli Stati Uniti dove stanno per partire migliaia di cause come questa. Un giudice del Cleveland County District, Thad Balkman, ha condannato la multinazionale Johnson & Johnson al pagamento di 572 milioni di dollari, ritenendola responsabile di aver contribuito all’esplosione dell’epidemia di oppioidi dello Stato, descritta dal procuratore come «la più grande crisi sanitaria mai affrontata dall’Oklahoma». Una piaga che tocca tutti gli Stati Uniti: solo nel 2017 ha ucciso 47 mila americani (circa 400 mila dal 1999) diventando la quinta causa di morte del Paese, prima ancora degli incidenti stradali. Una emergenza nazionale che coinvolge direttamenteoindirettamente un cittadino su tre. Il procuratore generale Mike Hunter ha costruito la sua accusa sul fatto che la Johnson & Johnson — la quale fornisce il 60 per cento degli ingredienti per la produzione di oppioidi e attraverso la sua sussidiaria farmaceutica Janssen ne produce due, il Duragesic e Nucynta — avesse diffuso notizie incomplete e fuorvianti a medici e cittadini, usando tecniche di marketing aggressiveeingannevoli per vendereipotenti antidolorifici, nascondendone gli alti rischi di dipendenza. Il risultato è che gli oppioidi sono stati prescritti in numeri da record (18 milioni di ricette in tre anni per una popolazione di 3,9 milioni), portando a migliaia di overdosi, morti (seimila nello Stato dal 2000, secondo i legali) e tossicodipendenze. «Quello che è veramente senza precedenti — aveva detto Hunter nella sua arringa finale a luglio, dopo sette settimane di dibattimento — è come gli imputati si siano imbarcati in uno schema subdolo, disonesto e cinico per creare il bisogno di oppioidi». «Non ditemi che i dottori non fossero consapevoli del rischio», aveva ribattuto con freddezza il capo della difesa di Johnson & Johnson, Larry Ottawa. La compagnia, già condannata a un risarcimento di 4,7 miliardi di dollari per il suo baby talco, che si era scoperto cancerogeno, ha sulle spalle 50mila cause civili su tutta una serie di prodotti. Ieri però i titoli del marchio dopo la sentenza sono saliti a Wall Street, che temeva una pena più dura. La cifra richiesta dal procuratore era infatti di 17 miliardi di dollari, da investire lungo trent’anni in fondi per il trattamento delle dipendenze e programmi di prevenzione. Nella scelta del giudice ha pesato che le altre due multinazionali coinvolte nella causa — Purdue Pharma — di proprietà della famiglia Sackler, i produttori di OxyContin e veri «bad boy» di questa tragedia nazionale —eTeva Pharmaceuticals, avevano entrambi patteggiato per cifre ridotte: 270 milioni Purdue e 85 Teva. Al di là dei numeri del risarcimento, la decisione di un giudice in Oklahoma avrà ora ripercussioni in tutti gli Stati Uniti. Questo era il primo caso del genere ad andareaprocesso, ma in coda ci sono duemila di cause intentate da stati, città, contee, tribù indiane. Uno scenario simile a quello che accadde negli anni Novanta con gli stati contro i big del tabacco, battaglia giuridica che si concluse nel 1998 con un accordo del valore complessivo di 246 miliardi.

«Il manifesto politico di Cairo», è il titolo che «Il Foglio» ha dato ieri alla lunga intervista all’imprenditore Urbano Cairo: presidente di Cairo Communication, di Rcs (di cui è anche amministratore delegato), che edita tra l’altro il «Corriere della Sera», e del Torino Calcio. Intervista che ha suscitato diverse reazioni politiche. Più volte, rispondendo all’incalzare di Annalisa Chirico, Cairo afferma: «Al momento l’idea non mi sfiora» mentre per il futuro «non si può mai sapere che cosa la vita ti riserva». L’imprenditore ricorda: «Progettavo la scalata a Rcs da dieci anni senza farne mai parola con nessuno, nell’assoluto riserbo. Un giorno l’ho realizzata. I sogni non si svelano in anticipo: si mettono in pratica». Cairo sottolinea di non aver mai praticato la politica, ma «sono un imprenditore e seguo le cose della politica». «Grillini e leghisti hanno fallito», afferma. «Salvini e Di Maio avevano agende inconciliabili», «ci hanno fatto perdere 15 mesi, nel frattempo l’economia è entrata in stagnazione, e pure in politica estera non abbiamo fatto un figurone». Salvini? «È perfetto per le campagne elettorali (…) ma governareètutt’altra cosa». Di Maio ei5Stelle? «Non sempre essere giovani è la soluzione: la competenza è fondamentale». Cairo pensa che «alla gente vada raccontata la verità: il momentoècomplicato (…) dal 2008 a oggi la condizione della classe media è obiettivamente peggiorata». L’imprenditore boccia ilreddito di cittadinanza («un incentivo a non fare, o a fare nel sommerso»), quota 100, che manda in pensione prima ma molti non vengono rimpiazzati, e il decreto dignità, che scoraggia la flessibilità. Propone invece «un piano di robuste agevolazioni fiscali per le imprese che investono in beni produttivi», sostegno al credito, taglio del cuneo fiscale («non è logico che un dipendente guadagni meno della metà di quanto costa all’azienda») e «una seria riforma fiscale che allenti il peso sulle famiglie del ceto medio». Per l’immediato afferma che si potrebbe tagliare prima il 25% dei 180 miliardi l’anno che lo Stato spende «con poca efficienza» per l’acquisto di beni e servizi e poi fare «un robusto taglio delle tasse che avrebbe un effetto espansivo». E sui flussi migratori pensa che la soluzione vada trovata con l’Europa, «un conto sono i migranti politici , un altro quelli economici». «Io — dice Cairo — ho chiaro in testa quello che va fatto. Al momento, però non sono nelle condizioni di poter assumere ulteriori impegni». E rispetto a chi lo vede come un nuovo Berlusconi dice non avere intenzione di «assumere la guida di partiti già esistenti che hanno attraversato una parabola puntellata di successi e fallimenti. Nella vita non si prende il posto di qualcun altro… Se si vuole compiere il grande passo, si dà vita a una creatura inedita». Scettico, infine, sul tentativo in corso di un accordo tra 5 Stelle e Pd per il governo: «Le formule di palazzo non mi convincono, anche se andare a votare in autunno è una follia». Dal fronte politico la prima reazione, negativa, è arrivata da Gianluigi Paragone che nei 5Stelle lavora per una ricucitura con la Lega: «Il blocco moderato, il vecchio sistema, si coagulerà intorno a figure come Cairo». Per Giovanni Toti, uscito da FI per fondare Cambiamento, l’eventuale discesa in campo di Cairo «sarà utile se rafforzerà il centrodestra». Ricorre a una battuta, infine, Pierluigi Bersani (Leu), tifoso bianconero: «Leggendo Urbano Cairo mi viene il rammarico che non sia juventino…».

A L’incertezza dura fino a sera, per le difficoltà delle trattative ma anche perché il voto su Rousseau è considerato un pericolo. Davide Casaleggio preme fino all’ultimo (e del resto gioca in casa, con il suo Rousseau), spiegando che non consultare la base sarebbe un boomerang ben più rischioso del voto, visto lo spericolato transito dalla Lega al Pd e visti gli umori inviperiti dei militanti che si sentono traditi. Meglio affrontare la sfida a viso aperto, forti della continuità (almeno di nome) offerta da Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Ma l’incertezza riguarda anche i tempi, visto che per regolamento bisogna indire la consultazione 24 ore prima e si vuole arrivareaun esito il giorno prima di salire al Quirinale (domani alle 19 tocca ai 5 Stelle). Il vertice serale, con la serratissima trattativa sui nomi, ha rallentato la decisione, mettendo in dubbio il voto sulla piattaforma informatica del Movimento. Luigi Di Maio, che tanto ha peccato in ingenuità negli scorsi mesi, sta lavorando con forza per vincere la partita. Sta alzando il prezzo e forzando il limite della negoziazione con il Pd. C’è chi dice che si tratti di una forzatura con l’evidente intenzione di far saltare tutto, perché in fondo il vicepremier del governo con la Lega non è mai stato convinto dell’alleanza con il Pd. Tesi sostenuta anche dai suoi avversari all’interno del Movimento. La tesi opposta, ugualmente sostenibile, è che stia solo puntando a ottenere un ruolo di peso nell’esecutivo, per prestigio personale e per non essere schiacciato dalla figura di Giuseppe Conte. Premier osannato e lodato in maniera quasi imbarazzante (lo ha definito «una perla rara»), ma che sta finendo per ottenere riconoscimenti politici e una credibilità tale da mettere a rischio la leadership futura del Movimento. Il resto della partita, se andrà davvero in porto il governo, Di Maio l’ha già vinta. Perché, lui che di certo non viene da sinistra, lui che il Pd l’ha visto come il fumo negli occhi fino a pochi giorni, lui che ha puntato tutto su Salvini e ha perso, ora potrebbe evitare il tracollo suo e del Movimento e tornare protagonista della nuova fase. Con i vertici spaccati — Grillo favorevole all’accordo con i dem, Casaleggio scettico — e con pressioni che arrivavano da ogni dove, Di Maio sta riuscendo a mettere nell’angolo due avversari interni: il presidente della Camera Roberto Fico e Alessandro Di Battista. Nel vertice pomeridiano, Di Maio, ha dovuto affrontare i dubbi di Casaleggio e la contrarietà all’accordo di due uomini importanti nel Movimento: Massimo Bugani, vicino a Casaleggio, nonché socio di Rousseau, che avrebbe preferito il voto; e Di Battista, che notoriamente ha molti dubbi sull’alleanza con il «partito di Bibbiano» (a breve uscirà anche un libro da lui curato per Fazi sulla vicenda che ha sfiorato il Pd). Ma a mettere a dura prova Di Maio sono anche le trattative con Zingaretti. Il leader politico M5S avrebbe chiestoeottenuto una poltrona al governo per i due fedelissimi, già presenti nel Conte uno, Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro. Ma sarebbe stata respinta, almeno all’inizio, una sua richiesta di diventare vicepremier e ottenere il Viminale. Tutto falso, giurano i 5 Stelle. Che avvertono: «Zingaretti sta tirando troppo la corda. È venuto solo a parlarci di poltrone e ne vorrebbe anche una per sé. Non si fa così».

«Il confronto parte dalle idee e dai programmi e per questo siamo sulla strada giusta anche se il nodo sul premier ancora non è stato definitivamente sciolto». Per tutta la giornata dal portone sempre aperto del Nazareno, sede nazionale del Pd, entrano ed escono i dirigenti che si adeguano al metodo «una sola voce a parlare per il partito» chiesta dal segretario Nicola Zingaretti, rilanciata da Dario Franceschini e, infine, sposata anche da Matteo Renzi. La linea del leader, dunque, tiene sulla comunicazione di questa crisi agostana ma, in buona sostanza, passo dopo passo articolata sul merito e sugli esiti probabili della trattativa con il M5S. È il momento della stretta su un percorso iniziato con l’intervista di Renzi al Corriere, che ha aperto al Movimento 5 Stelle proponendo un governo per mettere a posto i conti e per votare in primavera. Proposta poi rilanciata e cambiata dalla segreteria pd, che si è detta disponibile a valutare un percorso solo per un governo di legislatura. Lo sblocco sulla scelta del premier era indispensabile per rendere credibile il progetto agli occhi del capo dello Stato e anche perl’attivismo e i «consigli» di tutti i capi in cui si articola la galassia dem (da Romano Prodi a Matteo Renzi, passando per Dario Franceschini e Pierluigi Castagnetti), la strada dell’accordo con il M5S su Conte premier è segnata da giorni, anche per la segreteria del Pd. Zingaretti è comunque impegnato a imporre la sua regia all’operazione di aggancio del M5S e di Conte, che per il segretario ha bisogno di paletti chiari: «Abbiamo al centro gli interessi degli italiani, di chi torna a scuola tra qualche giorno, dei lavoratori, di una manovra che ha bisogno di un governo serio autorevole di svolta», dice Zingaretti dopo il primo incontro «interlocutorio» con Luigi Di Maio a Palazzo Chigi. Eppure, dal portone del Nazareno — dove la direzione convocata per oggi alle 18 potrebbe anche slittare a domani mattina, per precedere di appena un’ora l’appuntamento tra il capo dello Statoela delegazione del Pd — per tutta la giornata sono entrati ed usciti alcuni membri della segreteria non proprio entusiasti di come sta evolvendo la partita. «Ma quanto può durare un governo del genereeun accordo politico con i5Stelle che ancora non vogliono confrontarsi sui punti programmatici? Sei mesi, sette mesi?», confida un parlamentare di stretta fede zingarettiana che segue da vicino la trattativa. E ora che il governo con M5S sembra un’ipotesi più concreta, irenziani, che invocavano un «esecutivo lampo», hanno una percezione diversa del calendario: «Durerà almeno fino al 2022 quando si eleggerà il nuovo capo dello Stato», pronostica un parlamentare di quell’area, che rivendica il suo ruolo d’avanguardia sia sull’apertura ai grillini che sulla scelta del premier. La squadra di Renzi, che non parteciperà in prima linea all’operazione giallo rossa ma appoggerà l’eventuale governo Conte bis, o meglio Conte due, ora tifa per l’orizzonte lungo. Ma proprio ieri l’ex premier ha confermato per il 18- 20 ottobre la convocazione della Leopolda, il cuore pulsante del suo «partito», che sulla carta rappresenta un giro di boa per la minoranza del Partito democratico sempre pronta alla scissione. Una coincidenza, quella della conferma della Leopolda, che non è piaciuta alla squadra di Zingaretti che vede nell’attivismo dell’ex premier un eterno contraltare alla segreteria. Ma adesso l’ipotesi di un Conte2sostenuto da M5S e Pd sta andando avanti. E al Nazareno, almeno per ora, la resa dei conti è rinviata.

«Vabbe’, proviamo a ricominciare?». Mezzanotte, Palazzo Chigi, è il primo vertice di una maggioranza che forse nasce ma potrebbe ancora non arrivare al traguardo. L’ultima curva è la più rischiosa. Nicola Zingaretti e Andrea Orlando lasciano la riunione dopo che il primo ha resistitoaquattro ore di pressing di Giuseppe Conte. Il premier in pectore chiede a più riprese al segretario del Pd di entrare come suo vice nell’esecutivo, insieme a Luigi di Maio. «Non se ne parla proprio», è la replica. Peri democratici c’è la soluzione del vicepremier unico, che dovrebbe essere Orlando. E la garanzia che l’«accordone», nel suo complesso, venga chiuso prima dell’indicazione del presidente del Consiglio. «Facciamo intanto Giuseppe premier incaricato, poi vediamo il resto. Mi faccio io garante…», insiste Di Maio. «Non se ne parla», risponde la controparte. La situazione viene ricomposta cinque minuti dopo la mezzanotte, Zingaretti e Orlando riprendono posto di fronteaConteeDi Maio. La riunione ricomincia ma l’esito dell’aggiornamento notturno, se possibile, è ancora peggiore. Il semaforo verde a Conte diventa semaforo giallo. Il Pd incassa il ministero dell’Economia ma «è quello che dovrà mettere la firma sulla manovra», e quindi senza un accordo complessivo non se ne parla. All’una la riunione finisce. Là dove c’era il sereno ora ci sono le nubi. Che potrebbero diradarsi oggi oppure mai. «La pazienza ha un limite», fa dire Di Maio ai suoi spin doctor. Il prequel di questo film era andato in scena qualche ora prima. «Ma come? Solo venti minuti? Ma che sta succedendo?». Le 18 e 29 minuti sono l’ora esatta in cui il cuore di tutti quelli che hanno confezionato l’operazione Conte bis si ferma per un istante. Venti minuti sono pochi, troppo pochi, perché l’incontro tra Zingaretti e Di Maio sia andato liscio come da copione. E dire che, sul copione, al Nazareno ci lavoravano dalle undici di mattina, quando l’ultima telefonata tra i due leader aveva fissato un faccia a faccia da tenersi il pomeriggio. Il Quirinale aspetta un segnale e allora quel segnale, visto che le liturgie in una crisi di governo sono sostanza e non forma, è la location dell’incontro. «Vediamoci a Palazzo Chigi». La scelta del luogo è la spia che la strada verso la nascita del governo giallorosso è ormai in discesa. Zingaretti ha lasciato cadere il veto su Conte in cambio di una grossa discontinuità che dovrà materializzarsi nella distribuzione dei ministeri, sbilanciata in favore del Pd. Il vertice delle 18 a Palazzo Chigi serve per apporre la ceralacca all’ideale busta chiusa che va recapitata a tutti. Il governo si fa, lo guida Conte. Ma quando Zingaretti e Di Maio si ritrovano faccia a faccia si fermano alla prima curva. «Conte chiede che io e te facciamo i suoi vicepremier, così da dare più forza al governo», azzarda il capo politico dei 5 Stelle. «Ma cos’è uno scherzo, Luigi? I patti non erano questi. Io non entro nel governo e tu non puoi fare il vicepremier», avverte segretario del Pd. E quando Di Maio allarga il bouquet delle pretese fino alla nomina del commissario europeo, il round finisce con largo anticipo. «Chiamiamo Conte. Ma sappi che così salta tutto», è la chiosa del leader pd. Conte atterra a Ciampino e si precipita a Palazzo Chigi. È la prima riunione di un governo che deve ancora nascere o l’ultima di un progetto che non nascerà mai? A notte fonda la risposta non c’è ancora. Almeno quella definitiva.

La svolta è maturata in extremis. Ventiquattr’ore prima che abbia inizio il gran consulto fissato al Quirinale per oggi e dopo che Sergio Mattarella aveva fatto sapere che non avrebbe concesso spazio a veti incrociati, doppi forni, tatticismi, incertezze e, insomma, a quello scenario di dilazioni infinite trascinatosi per 89 giorni, nel 2018, quando nacque il governo gialloverde annichilito l’8 agosto dalla Lega di Salvini. Ecco spiegata la fretta imposta dal Colle ieri, che qualcuno ha interpretato come un brutale ultimatum piuttosto che come un termine ragionevole, date le emergenze da cui è stretta l’Italia. Il capo dello Stato voleva infatti capire se, e quanto, 5 Stelle e Pd stanno facendo sul serio. La risposta lo ha tranquillizzato e gli ha permesso la stesura di un calendario di incontri cadenzati con il ritmo necessario a chiudere il negoziato appena instradato. Un ritmo che posticipa a domani sera, davanti a lui, l’accordo definitivo tra i due potenziali alleati. Altrimenti il presidente avrebbe aperto e chiuso veloci e platoniche consultazioni in un solo giorno, prendendo atto dell’inesistenza di maggioranze alternative, formando un governo di garanzia elettorale (che andrà a farsi votare la sfiducia in Parlamento) e sciogliendo subito la legislatura. La garanzia fondamentale, per Mattarella, è ovviamente venuta dall’intesa sul nome di Giuseppe Conte per Palazzo Chigi. Sarà lui, d’ora in poi, a doversi preoccupare dei ministri e della parte programmatica, elevandosi dal ruolo di «avvocato del popolo» a quello di negoziatore in proprio. Tutto lascia prevedere che si torni all’antico, dando una prova di «discontinuità» che probabilmente non dispiacerebbe al Colle. Sarebbe dunque superato il modello del «contratto» (oggetto di quelle tignose interpretazioni fra partner che hanno stressato il Paese e pure il Quirinale), mentreèprobabile che, com’è sempre stato, siano fissate nel patto soltanto le grandi questioni e la filosofia generale per affrontarle di volta in volta. Sul tema immigrazione, per esempio, è pensabile che la durissima politica salviniana venga corretta in senso umanitario. Ma moderatamente, senza esagerare. L’altro nodo critico che 5 Stelle e Pd dovranno sciogliere davanti al capo dello Stato, per trasmettergli un’idea di solidità e una prospettiva di lunga durata, è quello della composizione dell’esecutivo. E qui si naviga ancora a vista. Si vorrà insistere sullo schema dei due vicepremier, il tandem Di Maio-Salvini che con il Conte-1 avevano un po’ ilruolo da «guardiani del premier»? Oppure ci si accontenterà di un sottosegretario unico, che riassumerebbe su di sé un grande potere?Eper i dicasteri chiave, dall’Economia agli Esteri agli Interni, si pensa a figure adeguate? Sono aspetti sui quali il futuro governo andrà domani alla prova del Quirinale. Dove, per inciso, è già stata messa in conto la minaccia della piazza agitata ieri sera da alcune forze della destra. Dopo le follie delle scorse settimane, è la cosa che preoccupa meno.

Non sappiamo come finirà, se il lungo odio tra 5 Stelle e Pd diventerà un matrimonio d’amore o almeno d’interesse. Sappiamo qual è la priorità: i posti. Posti, non poltrone, parola che andrebbe abolita: la presidenza del Consiglio e i ministeri non sono pezzi d’arredamento. Ma di questo finora si è parlato. Chi fa il premier, chi fa il commissario europeo. A me l’Economia, a te gli Interni. Ma per fare cosa? Aumentare o abbassare le tasse? Rendere il lavoro più o meno flessibile?

Fare o bloccare le grandi opere? Rifinanziare le missioni di pace o ritirarle? Il riferimento ai soldati italiani impegnati nel mondo non è casuale. «Non esistono missioni di pace!» proclamò Beppe Grillo la sera del 22 febbraio 2013, davanti a migliaia di militanti riuniti a San Giovanni, un tempo piazza-simbolo della sinistra. Alla vigilia di quelle elezioni il fondatore del Movimento indicò nel Partito democratico il vero nemico, il simbolo del sistema da abbattere. Seguirono l’umiliazione di Bersani in streaming, lo scontro durissimo con Renzi — «Beppe, esci da questo blog!» — e sei anni di polemiche ininterrotte su ogni cosa, vaccini e Tav, scuola e precari, financo sull’autenticità dell’allunaggio e sull’esistenza delle sirene, quelle di Ulisse. Ora, in politica nulla è per sempre e tutto può succedere. Il clamoroso errore di Salvini, che ha mostrato chiaramente i suoi limiti, il voltafaccia di Renzi e la pertinace resistenza dei parlamentari hanno prodotto in pochi giorni una svolta che avrebbe richiesto mesi di dialogo, come quelli che in Germania hanno partorito la Grande Coalizione tra la Merkel e i socialdemocratici (che è in realtà un centrosinistra). Pd e 5 Stelle non hanno tutto questo tempo. Ma più sono distanti le posizioni di partenza tra i due partiti che stanno trattando il nuovo governo, più dovrebbero essere precisi i termini di un accordo. Invece finora si sono sentiti punti talmente vaghi che chiunque potrebbe farli propri. Democrazia parlamentare, ambiente, bene comune: come ha notato Paola Taverna, grillina verace, «manca solo la pace nel mondo». Anche sulla manovra, che pure non sarà una passeggiata, non si è sentito molto, oltre alle solite formule: evitare l’aumento dell’Iva, rilanciare gli investimenti, tagliare gli sprechi. Sì, ma quali? E come? Il Pd fa sapere di avere pronta la sua legge di bilancio, e pure i grillini sono a buon punto con la loro. Però, se davvero stringeranno il patto, ne dovranno fare una sola. Insieme. L’esperienza fallimentare dei gialloverdi è lì a dimostrare che non si governa il Paese con un contratto, in cui ognuno fa confluire i propri desideri chiamandoli programmi. Tra la sinistra riformista e il Movimento populista (ma lo si potrà ancora definire così?) i motivi di contrasto sono molti. E non riguardano soltanto la Gronda o l’accoglienza dei migranti (sui quali finora Di Maio aveva votato e talora parlato come Salvini). C’è una distanza di linguaggio e di cultura politica, che i 15 voti grillini all’Europarlamento decisivi per l’investitura di Ursula von der Leyen hanno accorciato ma non colmato. A dire il vero, un terreno di incontro si va profilando. È quello della spesa pubblica. A partire ovviamente dal reddito di cittadinanza. Tanto — è il ragionamento — l’Europa chiuderà un occhio, visto che in cambio noi terremo lontano Salvini. Ma i mercati, e probabilmente anche la Germania, non si accontenteranno di questa garanzia. C’è da augurarsi che un eventuale governo orientato a sinistra (vale a dire in controtendenza rispetto agli ultimi test elettorali) non pensi di finanziare la sua politica economica, e di ripianare i dissidi interni, aumentando la pressione fiscale sul ceto medio. Già stare al governo con un’opposizione di centrodestra ben oltre il 40% non sarebbe facile. Se poi, a suon di tasse, all’opposizione passassero tutti i produttori del Nord — già adesso non molto ben disposti —, allora il Salvini oggi caduto nella sua stessa trappola troverebbe un facile appiglio per uscirne.

Con prudenza, molta diffidenza e una forzata rapidità si sta delineando una maggioranza tra M5S e Pd, guidata dal premier dimissionario Giuseppe Conte. Ma resta un’incognita pesante sul significato che il Movimento di Beppe Grillo e il partito di Nicola Zingaretti vogliono attribuirle. Se si tratta solo di una manovra per evitare le elezioni anticipate chieste maldestramente dal capo leghista Matteo Salvini, il governo magari avrà una vita più o meno lunga, ma litigiosa e sterile.

S e invece si tenta un’operazione di legislatura in raccordo con l’Europa, allora si può azzardare una prospettiva più solida. Per ora prevalgono cautela e sospetti residui. L’insistenza quasi disperata con la quale Salvini offre a Luigi Di Maio la presidenza del Consiglio dice due cose. La prima è che il ministro dell’Interno dimissionario sta cercando di rimediare al disastro costruito con le sue stesse mani. La seconda è che il suo omologo del M5S è considerato l’anello debole della maggioranza in embrione tra grillini e Pd. E dunque è a lui e al suo elettorato, in nome della vecchia alleanza giallo-verde, che Salvini continua a rivolgersi fino all’ultimo per fermare un’operazione già non facile, e indigesta a pezzi non piccoli di opinione pubblica. I due incontri di ieri sera tra Di Maio, Zingaretti e poi il premier dimissionario Conte hanno confermato una forte tensione: soprattutto il primo tra di Maio e il segretario del Pd, finito in pochi minuti per le richieste esagerate di posti da parte del leader grillino. Quell’approccio ha fatto rispuntare il sospetto che proprio il vicepremier dei Cinque Stelle sia uno degli avversari sotterranei dell’intesa. La sua identificazione con l’alleato leghista e con il disastro alle Europee di maggio lo hanno esposto al «fuoco amico». E nella nuova maggioranza rischia un ulteriore ridimensionamento. Per questo, i colloqui confermano che la trattativa è in fase avanzata; ma anche che, pur essendo gestita formalmente da Di Maio, per chiuderla è necessaria la presenza di Conte. Stavolta, se l’esecutivo parte, il premier non sarà solo esecutore e ostaggio della maggioranza, come con M5S e Lega: sarà capo del governo a tutti gli effetti. D’altronde, il Quirinale non è disposto a concedere tempo e a avallare pasticci. Il fatto che venga considerata in forse l’approvazione dell’accordo col Pd sulla mitica piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio, è la conferma di una scelta tormentata. Di solito, quelle votazioni servono a ratificare decisioni già prese dal vertice. Sostenere che in questo caso non si sa come finirà immortala la spaccatura tra i Cinque Stelle. Si tratta di un contrasto in parte alimentato da alcuni settori del Movimento, per placare il dissenso e alzare le richieste di ministeri; in parte usato per dirottare l’attenzione sulle divergenze nel Pd, pure vistose, tra Zingaretti e l’ala renziana. Anche il calendario delle consultazioni tra oggi e domani comunicato dal Quirinale lascia presumere che un accordo sia probabile. Altrimenti il capo dello Stato, Sergio Mattarella, le avrebbe accorciate. E il silenzio di Conte dopo il vertice del G7 a Biarritz, in Francia,rivela la cautela di chi non esclude dirimanere a Palazzo Chigi. Su questo sfondo, le ultime schermaglie sarebbero un modo per spuntare il massimo. Indirettamente, lo confermano le minacce di uno scontro tra Stato e Regioni, di cui si fa portavoce il governatore della Liguria, Giovanni Toti, berlusconiano di fede salviniana. È come se negli enti locali del Nord, egemonizzati dal centrodestra e orfani dell’autonomia differenziata, ci si preparasse a una guerra di posizione contro un esecutivo M5S-Pd. Si annuncia perfino un appello discutibile alla «piazza» perché si ribelli al presunto «furto di democrazia». Nel centrodestra tutti sembrano dimenticare che quanto avviene nasce dalla crisi aperta da Salvini a ridosso di Ferragosto; e da una richiesta di «pieni poteri» e elezioni anticipate che esporrebbero l’Italia alla reazione dei mercati finanziari e a uno scontro con l’Europa e la sua nuova Commissione, guidata da Ursula von der Leyen. È stato sottovalutato il voto determinante a favore della presidente, dato dai Cinque Stelle su sollecitazione di Conte, al contrario della Lega che si è espressa contro. Non basta avere un grande successo il 26 maggio alle Europee, se l’intero fronte sovranista di cui il ministro dell’Interno voleva essere il capofila è stato ridimensionato e isolato. Se a questo si aggiunge la sovreccitazione e l’illusione di onnipotenza espresse da Salvini nelle sue esternazioni sulle spiagge italiane, quello che appare un mezzo suicidio politico diventa meno inspiegabile. Ieri il governo italiano ha dovuto chiedere un rinvio perindicare il suo commissario nell’Ue. Due settimane fa avrebbe dovuto e potuto farlo il capo del Carroccio. Adesso, diventa l’emblema di un’occasione unica buttata via nel momento di massimo potere virtuale.

La riduzione del numero dei parlamentari non è un «taglio delle poltrone» e non è una novità. I parlamentari in tutte le democrazie sono eletti dai cittadini per rappresentarli nell’assunzione delle decisioni più impegnative per tutto il Paese. Dalla fine del Settecento, in Europa e negli Stati Uniti, i parlamenti eletti dal popolo hanno sostituito le vecchie aristocrazie conservatrici che tenevano nelle loro mani le redini dello Stato, per ragioni di censo, di sangue, di forza militare. Da quel momento tutti i reazionari hanno sparato ad alzo zero controiparlamenti che erano subentrati alle vecchie aristocrazie. Il populismo, sempre presente nelle società democratiche, per acquisire facilmente il consenso popolare, si è appropriato dell’ argomento reazionario del parlamento inutile, fatto di parassiti e di fannulloni. Il tema si è riproposto recentemente, non solo con il governo uscente, ma anche con qualche governo precedente. La riduzione del numero di parlamentari, se è solo un escamotage propagandistico (tagliamo le poltrone), è immissione di veleno nella democrazia. Dire che si riduce il numero dei parlamentari per risparmiare significa negare il valore dei parlamenti come luogo della rappresentanza nazionale dei cittadini e aprire la strada all’altra domanda: perché non toglierne di più o addirittura non toglierli tutti? Basta leggere le pagine del Mein Kampf dedicate ai parlamentari per rendersi conto delle ascendenze della cultura antirappresentativa. D’altra parte uno dei leader che ha votato la riduzione del numero dei parlamentari ha chiesto per sé i pieni poteri, spero travolto dalla foga oratoria. La riduzione del numero dei parlamentari, come parte di un disegno di riforma complessiva del sistema parlamentareèstata invece approvata da tutti i progetti di riforma costituzionale, a partire dalla Commissione D’Alema. Tuttavia, mentre nei progetti precedenti la riduzione del numero dei parlamentari era accompagnata dalla revisione delle competenze del Senato, nel progetto attuale resta il bicameralismo paritario: le due Camere, cioè, continuano ad esercitare le stesse funzioni. Il Senato avrebbe particolari difficoltà a svolgere le funzioni attuali con duecento componenti invece che con 315. La strada maestra è il superamento del bicameralismo paritario. Le proposte non mancano e alcune sono soddisfacenti. Il voto definitivo della Camera sulla riduzione del numero dei parlamentari potrebbe essere rinviato per permettere la revisione del bicameralismo. Poi si dovrebbe fissare in contemporanea il voto finale tanto sulla riduzione del numero dei parlamentari quanto sulle nuove competenze di Camera e Senato. Il Parlamento, infine, ha approvato nel maggio scorso una delega al governo per la ridefini zione dei collegi, coerente con la riduzione del numero dei parlamentari. La legge, quindi c’è già. Basta attuarla, anche se il voto finale deve essere espresso dopo la riforma costituzionale. Ma non è l’unico problema. Oggi c’è un senatore ogni 188.424 abitanti, domani ce ne sarà uno ogni 302.420 (dati tratti dai dossier parlamentari). Solo 10 comuni superano i 300.000 abitanti e sono circa 6.000 i comuni con meno di 5.000 abitanti. Un collegio comprenderebbe circa 60 di questi comuni. Si é fatto il conto delle spese elettorali minime per coprire una popolazione distribuita in migliaia di medi e piccoli comuni? Se si vuole evitare che gli eletti vengano prima decisi e poi condizionati da grandi lobbisti sarà bene farsi venire qualche buona idea.