«È mio proposito cantare il mutamento di corpi in altri nuovi». Così cominciano Le Metamorfosi, composte dal poeta Ovidio nei primi anni del 1° secolo dopo Cristo. Da quando il Pd e i 5 Stelle hanno cominciato le trattative per la formazione dell’attuale governo siamo in molti, presumibilmente, a domandarci: come è stata possibile la repentina trasformazione di un partito antisistema, nato per fare la rivoluzione, in un club di rispettabili ed eleganti gentiluomini in tight? Come è potuta avvenire una parabola così rapida: dal «vaffa» al «prego, scusi, dopo di lei»? Deve esserci stato l’intervento di qualche potenza magica. Nel Medio Evo i sudditi attribuivano virtù taumaturgiche ai re. È noto che qualcosa di simile pensavano del Partito comunista italiano alcuni dei suoi più acritici seguaci nel corso del Novecento. Ma non ci si immaginava che qualcuno potesse trasferire anche sui suoi eredi quelle supposte qualità. Nel periodo delle tante chiacchiere in libertà, quello che, nei salotti televisivi, sempre accompagna le crisi di governo, si è sentito persino gente sfidare coraggiosamente il ridicolo definendo i 5 Stelle un «partito di centro». Nella migliore delle ipotesi, chi crede possibili simili metamorfosi difetta di senso storico. Più credibili e realisti sono coloro che dicono: «Non raccontiamoci favole: noi non vogliamo le elezioni e temiamo Salvini più dei 5 Stelle.

Però non crediamo che basti baciare il ranocchio per trasformarlo in un principe». I gruppi, e anche i gruppi politici, proprio come le persone, sono condizionati dalla loro storia pregressa. Come le persone, anche i gruppi qualche volta cambiano. Ma non possono mai cambiare completamente. Né la natura né la storia (individuale o collettiva ) «fanno salti». Ma — si dice — Giuseppe Conte è cambiato. Non c’è dubbio che sopravvivere politicamente a un rivolgimento parlamentare di questa portata riuscendo a conservare la premiership ha rivelato qualità politiche che nessuno un tempo immaginava che egli possedesse. Forse, una tale impresa resterà negli annali della democrazia parlamentare. Ciò però non contraddice quanto sto sostenendo, ossia che persone e gruppi sono comunque prigionieri della loro storia e i loro cambiamenti, se ci sono, possono essere solo parziali. I mutamenti di fronte, il trasformismo, il formarsi e il disfarsi delle alleanze che la vita parlamentare abitualmente conosce non possono spezzare le continuità culturali e politiche, non cambiano le identità (o meglio: possono cambiarle parzialmente ma, per lo più, solo quando si affaccia una nuova generazione). L ’alleanza fra 5 Stelle e Pd sarà una cosa in parte diversa da quella fra 5 Stelle e Lega. Ma ci sarà anche molta continuità, garantita dalla presenza (maggioritaria) dei 5 Stelle. Non si sa se per merito di Conte o di Grillo o di entrambi, dopo il devastante risultato delle elezioni europee, i dirigenti 5 Stelle hanno capito che, per salvare il salvabile, bisognava ridefinire il profilo internazionale del partito. L’attuale governo esiste perché i grillini, rompendo il fronte con la Lega, hanno contribuito con il proprio voto alla elezione del presidente della Commissione europea. È stata quella la singola mossa vincente grazie alla quale hanno di colpo conquistato «rispettabilità» in Europa e permesso al Pd di allearsi con loro. Sicuramente miti e suggestioni terzomondiste continueranno a circolare dentro il partito e torneranno a manifestarsi pubblicamente, forse anche riprendendo il sopravvento, il giorno in cui esso andrà all’opposizione. Ma per ora, e finché il governo durerà —èla novità giustamente apprezzata da Alesina e Giavazzi sul Corriere di ieri — la tradizionale collocazione internazionale dell’Italia non verrà messa in discussione dai 5 Stelle: sempre che, naturalmente, il neoministro degli Esteri Luigi Di Maio, l’ex amico dei gilet gialli francesi, accetti di obbedire, senza discutere, agli ordini dei nostri diplomatici di professione. Quindi ci attende un futuro luminoso di stabilità e di progresso? Per niente. I conflitti entro la coalizione cominceranno molto presto (e metteranno a dura prova le celebrate capacità di mediazione di Dario Franceschini). Cito solo due temi: giustizia ed economia. Il fatto che il titolare della giustizia sia lo stesso del precedente governo prova che il giustizialismo esagitato dei 5 Stelle («buona galera a tutti») e il giustizialismo un po’ più sobrio, in doppio petto, di una parte del Pd possono felicemente convivere. Ma ci sono anche molti del Partito democratico che non ci stanno. Si attendono scintille e botte. Il secondo tema riguarda l’economia. Un governo per la crescita economica? Ma come può esserlo un esecutivo espressione di una coalizione nella quale la componente maggioritaria è formata da nemici giurati della crescita, per i quali la crescita è un disvalore? Tanto il ministro dell’economia Roberto Gualtieri quanto il neocommissario europeo Paolo Gentiloni avranno il loro daffare per contrastare le pulsioni «peroniste» (assistenzialismo mediante tosatura economica dei ceti medi: altro che crescita) dei 5 Stelle. Sia perché costoro controllano ministeri (Ambiente, Lavoro, e altri) in grado di porre veti potenti sulle misure pro crescita sia perché il Parlamento conta e i 5 Stelle sono la parte maggioritaria della coalizione di governo. Si aggiunga che il Pd ha recuperato per l’occasione anche i suoi (ex) fuoriusciti «da sinistra», affini, per ricette economiche, ai 5 Stelle. Per certi versi non è cambiato nulla. Siamo, come siamo sempre stati, una «democrazia difficile», costantemente a rischio di fare una brutta fine per l’opera di forze illiberali. Di destra e di sinistra. Per giunta, avendo gettato via, nel trentennio passato, ogni occasione per dare a questo Paese forti istituzioni, per farne un’autentica democrazia governante, ora che il mondo è entrato in acque internazionali assai agitate, arriviamo nudi alla meta, non siamo attrezzati per fronteggiare la doppia sfida: quella che viene dall’indebolimento dei tradizionali ancoraggi internazionali dell’Italia e quella che proviene dall’interno (dall’azione di forze illiberali di destra e di sinistra). Non resta che affidarsi alla magia. Quella faccenda dei ranocchi trasformati in principi.

L’ipotesi che l’alleanza M5S-Pd nel governo nazionale si traduca in patti per le elezioni a livello locale aleggia in una nuvola di inevitabilità ma soprattutto di scetticismo. Una cosa è salvare la legislatura per non regalare il voto anticipato alla Lega. Un’altra è passare da un’intesa di necessità a un «cartello» destinato a presentarsi fin dalle Regionali di ottobre in Umbria: almeno per il Movimento Cinque Stelle. Dalle risposte fredde dei grillini al Pd si intuisce un partito ansioso di allargare le alleanze per scongiurare una vittoria del centrodestra. Ma non il contrario. Emerge una resistenza d’ufficio del Movimento a spendersi per la forza guidata da Nicola Zingaretti, tuttora prudente. Almeno esplicitamente, i seguaci di Luigi Di Maio, già divisi sul governo, si trincerano dietro lo statuto che prevede solo intese con liste civiche. Questo fa pensare che al massimo possa esserci un appoggio non dichiarato, o la rinuncia a presentare propri candidati. L’elettorato grillino non è facilmente controllabile. Le Europee hanno mostrato un travaso di voti verso la Lega. Tra qualche mese, però, potrebbe emergere una strategia diversa per battere il centrodestra. Per ora, lo schermo dello statuto è provvidenziale per evitare ai Cinque Stelle di schierarsi con un Pd che in Umbria è stato colpito da scandali additati fino a ieri come indizi di una forza corrotta. Un appoggio aperto creerebbe nuove fratture e non sarebbe comunque una garanzia di vittoria. E in caso di sconfitta metterebbe in mora il patto Pd-M5S a Palazzo Chigi. Ma la prospettiva di un’alleanza di tutti contro la Lega di Matteo Salvini, rilanciata dal capo della delegazione dem al governo, Dario Franceschini, è ricorrente. Ha avuto la prima applicazione pratica col secondo esecutivo guidato da Giuseppe Conte. Le incognite di un’operazione del genere estesa ad altri livelli sono evidenti, però. Può nascere e affermarsi solo col tempo, se regge il governo. E comunque consegnerebbe al leader del Carroccio ed ex ministro dell’Interno la bandiera dell’intera opposizione. Non per nulla Salvini sfida gli avversari a unirsi. E definisce il voto in Umbria di «legittima difesa» contro l’esecutivo giallorosso. Dicendo che l’alleanza col Pd «non è all’ordine del giorno», il M5S si tira dunque fuori almeno da questa partita. La considera di altri, non sua. E teme di bruciarsi forzando i tempi. Ma di qui a qualche mese, per altre scadenze come il voto in Emilia-Romagna, la situazione potrebbe cambiare. Al momento, le priorità grilline sono altre. Il rinvio delle nomine dei sottosegretari di Conte, forse a oggi, conferma una corsa al sottogoverno ministeriale nella quale il M5S, più del Pd, mostra un numero debordante di candidati.

Mario Draghi ha fatto Mario Draghi. Ancora una volta di fronte ai segnali di debolezza delle economie europee ha agito secondo il buon senso e ha usato le uniche leve a sua disposizione, quelle di politica monetaria. Ha varato nuove misure che potessero funzionare da stimoli alla crescita.

Dietro azioni e sigle come il taglio dei tassi di deposito, il rinnovato «quantitative easing», il Tltro, non c’è altro che l’unico intento di dare stabilità all’economia europea rafforzandone il cammino. La migliore prova che si è trattato di mosse giuste l’ha data Donald Trump. Ha atteso pochi minuti e in un tweet ha espresso alla sua maniera l’irritazione per la rapidità e tempestività nell’azione della Banca centrale europea opponendola a quella della Federal Reserve americana. Dimenticando forse che l’indipendenza è il principale valore delle banche centrali, dovunque esse agiscano. Draghi si appresta così a chiudere (quella di ieri era la sua penultima riunione mensile a capo della Bce prima di lasciare il posto a Christine Lagarde), gli otto anni alla guida dell’istituzione europea che più di ogni altra viene considerata come fondamentale per difendere e sostenere l’Unione. Non è stato facile. Nemmeno ieri. Tagliare il tasso dei depositi significa dire alle banche: se vuoi tenere i soldi inoperativi sui conti della Bce ti costerà ancora più caro. Un chiaro invito agli istituti a fare quello per cui sono nati: dare credito a famiglie e imprese aiutandole così nelle loro scelte. E lo stesso si può dire per il «quantitative easing» che si traduce in acquisto di titoli di Stato affinché i governi possano con maggiore tranquillità avviare politiche di bilancio orientate alla crescita. C’è chi nel Nord Europa vede tutto ciò come aiuti non necessari agli Stati che dovrebbero imparare a fare da soli. E Mario Draghi ha dovuto usare tutte le sue abilità di persuasione per convincere i suoi colleghi che era l’Europa ad averne bisogno, non questo o quello Stato.

In un editoriale rabbioso pubblicato ieri sul Corriere della Sera, il professore Ernesto Galli della Loggia ha scelto di dedicare un lungo ragionamento a un tema per così dire jolly, solitamente pescato da molti osservatori quando si conclude con un esito negativo il tentativo di trovare un’idea brillante per spiegare ai lettori una nuova fase politica. Nel suo fondo di ieri, Galli della Loggia ha scelto di attaccare con robuste argomentazioni anticasta – i primi amori non si scordano mai – la nuova maggioranza di governo criticando l’esecutivo rossogiallo per essere il simbolo di un sistema politico nato da un “disfacimento” che avviene “sotto il segno del trasformismo”. La tesi dell’Italia gravemente malata di trasformismo è un grande classico del dibattito pubblico italiano – ogni Vaffa day di Grillo si concludeva con un bel vaffanculo alla casta dei trasformisti – e intorno a questo sofferto grido d’allarme, negli anni, si è andato a sedimentare un vocabolario tendente a demonizzare ogni esercizio di libertà parlamentare: la Camera diventa casta, il compromesso diventa inciucio, il diritto a rappresentare il paese senza vincolo di mandato diventa inevitabilmente transumanza. La pratica del trasformismo, come in fondo capita a tutte le libertà, non sempre è stata utilizzata in modo nobile e non sono mancate le occasioni in cui il trasformismo sia stato legato a fenomeni di degrado politico e di corruzione materiale. Ma ciò che un intellettuale come Galli della Loggia avrebbe forse il dovere di ricordare è che la storia delle moderne democrazie parlamentari ci dice che i paesi in cui è possibile esercitare il trasformismo sono quelli in cui è possibile esercitare la libertà. E di conseguenza, coloro che demonizzano il trasformismo stanno (involontariamente?) demonizzando uno dei pilastri su cui si fonda la libertà di un Parlamento. Nella grammatica anticasta, essere trasformisti significa essere incoerenti con la propria storia e significa essere disposti a tradire le proprie idee per salvare una legislatura. E in questo senso, i sistemi politici che permettono queste atrocità, seguendo il ragionamento, non fanno altro che delegittimare i parlamenti e indebolire le democrazie. Con garbo e cortesia ci permettiamo di far notare al Corriere che la tesi sostenuta da Galli della Loggia non è solo sbagliata ma è anche pericolosa. I paesi in cui il trasformismo è vietato sono quelli in cui i parlamentari vengono eletti senza poter esercitare il proprio ruolo senza vincolo di mandato e solitamente le democrazie che lavorano per impedire ai parlamentari di essere eletti per rappresentare la propria nazione sono democrazie che tendono ad assumere connotati sempre meno liberali, sempre più illiberali e sempre più fascisti. “Il Parlamento –disse Edmund Burke nel famoso discorso agli elettori di Bristol del 3 novembre 1774 – non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi, interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il Parlamento è assemblea deliberante di una nazione, con un solo interesse, quello dell’intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale”. Il trasformismo è uno dei pilastri della democrazia, oltre che essere in un certo senso carattere e struttura della politica italiana, e un bravo storico dovrebbe forse avere la capacità di capire se la trasformazione del pensiero di un singolo politico o di un intero ceto dirigente risponde o no a quella che Max Weber avrebbe chiamato, contrapponendola all’etica dei princìpi, l’etica della responsabilità. Chiediamo dunque all’editorialista del Corriere: si può o no considerare irresponsabile quel ceto politico che, da Cavour a Giolitti, nei primi cinquant’an – ni della storia dell’Italia unita, creò le condizioni per allargare il suffragio universale grazie soprattutto a formidabili politiche trasformiste? E ancora: si può o no considerare irresponsabile un ceto politico che, come succede oggi in Italia, sceglie di mettere da parte alcuni pregiudizi nei confronti dell’avver – sario per tenere un paese più vicino all’Europa e più lontano dai politici antieuropeisti? E ancora: si può o no considerare irresponsabile un ceto politico che, come succede oggi in Inghilterra all’interno del partito conservatore, sceglie di non essere coerente con la propria storia e di tradire il proprio partito per non tradire il proprio paese? E poi: si può o no considerare irresponsabile un ceto politico che, come successe nel 1976 in Italia, per affrontare una fase difficile vissuta dal nostro paese scelse di tradire le proprie promesse elettorali, Aldo Moro andò alle elezioni promettendo di essere l’argine giusto per non portare i comunisti al governo, dando vita a un governo di solidarietà nazionale? E infine: si può o no considerare irresponsabile un ceto politico che, come successo in Germania un anno e mezzo fa, sceglie di non essere coerente con le proprie promesse, sia la Cdu sia l’Spd avevano promesso in campagna elettorale di non allearsi l’una con l’altra, per offrire al proprio paese un governo capace di essere all’altezza delle sfide con l’Eu – ropa? La presenza del trasformismo, in nome del quale anche un partito come il M5s si è allontanato dalle prassi eversive riscoprendo alcune virtù della democrazia rappresentativa, è la spia di un sistema democratico dotato di anticorpi capaci di combattere i virus veicolati dagli estremismi a volte sfascisti e a volte fascisti – e senza trasformismo l’Italia al posto di avere un governo a trazione europeista avrebbe presto sperimentato l’ebbrezza di un governo a trazione Papeete. Tra il rischio di leggere editoriali come quello di Galli della Loggia e avere un governo a trazione Papeete noi preferiamo correre il primo rischio e ringraziare con il cuore, per il presente e per il passato, le splendide riserve della democratica repubblica del trasformismo.

Quella di ieri poteva essere una bella giornata per il Conte 2, fra i dati Istat sul lavoro e le novità sui migranti. L’Istat conferma che il Conte 1 non è stato il disastro totale che i trombettieri da talk raccontano: nel secondo trimestre 2019, pur nel calo delle ore lavorate, la disoccupazione è scesa al 9,9% (-0,4: il dato più basso da fine 2011) e gli occupati sono stati 130 mila in più, soprattutto i dipendenti permanenti (+97 mila). Segno che, in barba ai profeti di sventura, il dl Dignità ha funzionato e il Reddito di cittadinanza non ha aumentato la disoccupazione, anzi. Quanto ai migranti, si avvia a conclusione l’odissea degli 82 a bordo della Ocean Viking, la nave di due Ong che attende un porto sicuro a Malta o in Italia. E presto potrà sbarcare, visto che diversi Paesi Ue si sono detti disponibili alla “r i p a r t i z i one”: per fortuna, la neoministra Lamorgese ci ha risparmiato sia i rutti razzisti di Salvini, sia la faciloneria di chi ora vorrebbe spalancare i porti alle navi di tutte le Ong senza freni né controlli né condivisione europea. Vedremo nelle prossime settimane se le aperture strappate da Conte alla Von der Leyen si tradurranno in una cabina di regia europea che gestisca in automatico ogni sbarco, con distribuzione simultanea dei migranti e multe ai Paesi che rifiutano: solo così si uscirà dall’emergenza e si prosciugherà un bel po’di acqua dal pescoso laghetto salviniano. Purtroppo le buone notizie sono state oscurate dallo spettacolo inverecondo dei postulanti che fanno la posta a Di Maio e Zinga per un posto di viceministro e sottosegretario. C’è molta retorica sulle “poltrone”, come se esistessero governi composti da esseri incorporei. E i leghisti che ironizzano sulle cadreghe giallo-rosa dovrebbero ricordare che nel 2018, quando toccò a loro, fra il giuramento dei ministri e quello dei sottosegretari trascorsero ben 13 giorni (in aggiunta ai 40 concessi dal Colle per il programma). Nei governi di coalizione funziona così. Ma la ressa-rissa dei 100 mendicanti per 42 caselle resta vergognosa. Ed è sconcertante che vi partecipino festosamente i 5Stelle anti-casta che si accingono a incassare il sacrosanto taglio di 345 parlamentari su 945. Conte aveva chiesto la lista entro ieri. Invece solo in serata Pd e M5S si sono accordati sulle deleghe e oggi la processione continuerà per le attribuzioni a tizio o caio. Pensando di fare cosa gradita, il Fattoindica a pag. 2 i nomi sconsigliabili per motivi giudiziari o di opportunità. Di riciclati come Legnini e Stefàno, indagati come D’Alfonso e De Luca jr., chiacchierati come Margiotta, portatori insani di conflitti d’interessi come la Paita, gaffeur come la Ascani e Sibilia si può fare tranquillamente a meno.

P er spiegare la crisi di governo appena conclusa in tanti siamo ricorsi al fenomeno dell’hybris, scomodando addirittura Eschilo, Erodoto e Aristotele. Troppa grazia, per la piccola disgrazia italiana. Ma indubbiamente c’è qualcosa di epico nell’uomo che costruisce con le sue stesse mani la sua sfortuna, rovesciando il breve ciclo della storia di cui è protagonista, fino a passare dalla gloria alla tragedia. E lo fa – questo è il punto – perché è dominato dalla passione per il comando, fino a trasformarlo in un totem da conquistare nella sua integralità, simboli e sostanza compresi. In questo senso, nella tradizione, l’hybris è il passaggio del limite, la fuoruscita dal lecito, la proiezione oltre il confine del consentito e del legittimo. È la tentazione dell’eccesso e della dismisura. Gli antichi parlavano dell’insolenza politica di un orgoglio che va oltre la fortuna, il successo, la vittoria, e come tale diventa una colpa agli occhi degli dei, che si vendicano. Protervia, superbia? C’è in realtà in questo stato d’animo qualcosa di meno ovvio: il senso infinito di una incompletezza, quasi un’insufficienza, il sentimento di una potenza fragile che invece di governare cerca di rassicurarsi appropriandosi di altri spazi di potestà, perché confusamente sente di non riuscire a utilizzare appieno gli strumenti politici che possiede. È dunque un inseguimento continuo del mistero del potere, sperando che un giorno si riveli, svelando infine quel segreto che inquieta chi comanda, e non sa farlo.

I n questo senso potremmo dire che Salvini ha decretato lo stato d’eccezione. Non ha innescato una normale crisi di governo, ha tentato di costruire una crisi di sistema. Sapendo d’istinto, come teorizza Carl Schmitt, che è sovrano chi ha il potere di decidere sullo stato d’eccezione, cioè chi ha la potestà – invece di garantire l’ordinamento – di spezzarlo e di ricrearlo in questo passaggio decisivo, rinnovando il sistema in base alla propria investitura, e ottenendo obbedienza. Cos’è accaduto in questo mese? Salvini prima di tutto ha decretato lo scioglimento delle Camere, con un’appropriazione indebita di prerogative altrui. Non ha infatti chiesto le elezioni anticipate: le ha pretese, come se da parte fosse diventato tutto, minacciando anche il ricorso alla piazza. Lo ha fatto, tutto questo, schioccando le dita dalla spiaggia del Papeete, invitando i parlamentari ad “alzare il culo” per rispondere immediatamente in Aula ai suoi voleri. Non è facile rintracciare nella storia della Repubblica una simile dichiarazione di disprezzo di un uomo di governo nei confronti dell’istituzione parlamentare, coi deputati e i senatori dileggiati come perdigiorno da un ministro a torso nudo e portati in Aula a spintoni. Poi il leader leghista ha immediatamente fissato una posta eccezionale per le elezioni, chiedendo “i pieni poteri”, con una formula perfettamente coerente col suo modo di procedere: una ripetuta allusione a mondi autoritari evocati per suggestione, sfiorando a uno a uno tutti i tabù della Repubblica, quasi si volesse saggiare la tenuta dei muri maestri del sistema, con una spinta subliminale che suggerisce la possibilità di andare oltre. C’è dunque un leader che non si accontenta del potere legittimo e costituzionalmente regolato che si è conquistato democraticamente, e cerca un potere supplementare e improprio che può derivargli solo da una malintesa interpretazione della sovranità popolare. Cosa vuol dire infatti quella frase? Sono stato vicepresidente del Consiglio per 14 mesi, ma non sono riuscito a governare. Un primo ostacolo erano i miei partner a Cinque Stelle, con cui ho già regolato i conti. Adesso chiedo il voto per abbattere il secondo ostacolo: non più la coalizione ma la costrizione delle regole, l’equilibrio tra i poteri, i controlli di legittimità e di legalità, i vincoli costituzionali. Datemi non solo un consenso ma un’investitura per forzare questo confine. Trasformerò il governo in un premierato, poi al momento giusto non escludo di candidarmi al Quirinale, per trasformare il Paese in una repubblica presidenziale di fatto. La Costituzione seguirà. Questa è l’unica logica possibile della pretesa dei pieni poteri. Non è difficile vedere come questo passaggio s’incastri perfettamente nella predicazione e nella politica che la destra al governo (la Lega naturalmente, ma anche i Cinque Stelle) ha fatto in questa lunga fase. Da anni infatti si è scelto di cavalcare il risentimento e la rabbia dei cittadini spiaggiati dall’onda alta della mondializzazione, senza filtrare politicamente questo stato d’animo ma anzi trasformandolo in odio, ripulsa, rigetto, cioè antipolitica. Con due bersagli: prima di tutto il migrante, che paga le tre colpe della povertà, del colore della pelle, e del peccato d’origine come straniero, dunque è perfetto per diventare il nemico universale sulle cui spalle caricare tutte le colpe del mondo. Poi il meccanismo democratico che si articola nel libero gioco dei diritti, del diritto, delle istituzioni, nel divenire della storia civile del Paese. È in questa rottura dello spirito repubblicano che s’inserisce la proposta di un potere finalmente pieno, totale, saturo di sé che cambi nei fatti le regole del gioco. Siamo dentro lo schema autocratico annunciato da Putin: la democrazia liberale non è l’unico modello possibile e nemmeno il più efficace, anzi probabilmente funziona soltanto in anni di abbondanza delle risorse, mentre esistono altre forme di rapporto tra la leadership e il popolo sperimentati nel consenso e con successo. È la teoria Orbán: si può rispettare la forma esteriore della democrazia modificando la sua sostanza, riducendola a un guscio vuoto. Non per caso questo modello ha bisogno di fuoruscire dall’Unione europea, o almeno di passare all’opposizione in Europa. Saldando l’odio di Stato contro il migrante con l’attacco ai principi liberali della democrazia dei diritti e delle istituzioni, si disegna una nuova identità nazionale recintata dalla paura e dall’avversione, minacciata da un’emergenza continua, che ci rende sicuri solo dentro i confini murati di una contro-storia egoista. Basta dunque col multilateralismo e il cosmopolitismo, la Ue e la Nato, basta con l’Occidente, sostituiti da un iper-nazionalismo chiuso su se stesso. Tutto questo è avvenuto nei mesi del governo giallo-verde, con politiche xenofobe, teorizzazioni razziste, pratiche repressive, circondato ed estremizzato da un linguaggio di intolleranza e di ferocia che i francesi chiamano “delinquenza del pensiero”. Pericoli esagerati? Ma nella teoria politica il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento dei poteri concorrenti si chiama dovunque assolutismo; il potere che istituzionalizza il carisma è bonapartismo, il potere che vuole superare i suoi limiti è autoritarismo. Ecco cosa c’è dietro la formula dei pieni poteri. Tutto questo sarebbe sufficiente per spiegare il voltafaccia reciproco che ha portato all’alleanza tra il Pd e i grillini. Ma non è così. I Cinque Stelle non hanno formulato un giudizio compiuto sulla politica di Salvini, sulla sua teoria del potere, sulla loro alleanza, salvo il caso isolato di Conte: però solo un minuto dopo che la Lega lo aveva sfrattato dal governo. Molte di quelle politiche sono state condivise, tutte sono state controfirmate e la svolta si è realizzata non per una scelta autonoma spiegata al Paese, ma perché Salvini l’ha maldestramente determinata. Così oggi il governo è partito, ma per forza di cose è già davanti a un bivio. È un’alleanza tecnica tra due movimenti costretti a incontrarsi per pura necessità o è un’intesa politica che vuole chiudere col passato e aprire una fase nuova per il Paese? Anche davanti alla forzatura di Salvini, che hanno sperimentato a caro prezzo, i grillini continuano a ripetere che destra e sinistra per loro sono uguali, anzi non esistono, come fosse possibile non scegliere: puntando su un fascio indifferenziato di consensi, e rischiando di contrapporre ai pieni poteri un potere vuoto, perché senz’anima.

L’ epitaffio digitale è arrivato da Washington una settimana fa. «Steve Bannon, il crociato fallito», ha scritto il settimanale online filoeuropeo The Globalist.

P rima ancora che la Commissione Ue si costituisse, come grande sconfitto anche simbolico del voto del 26 maggio è stato additato l’ex stratega di Donald Trump, regista poco occulto del tentativo di disgregare l’Unione europea. E con lui, nel girone dei reietti politici è stata messa l’intera filiera dei partiti, movimenti e leader che sognavano di scardinare gli equilibri continentali; e di sostituirli con un nazionalismo eurofobico destinato in realtà a coprire la doppia subalternità a Russia e Stati Uniti. Il messaggio che proviene dal nuovo esecutivo continentale guidato da Ursula von der Leyen è la ricomposizione dell’Europa, dei suoi interessi minacciati mai così da vicino come negli ultimi tre anni, e di un’identità che ha bisogno di compattezza e ripresa economica per rilegittimarsi. Per vincere la sfida mancava l’Italia. Ma la mossa del premier Giuseppe Conte di appoggiare l’elezione di von der Leyen, e il maldestro suicidio politico agostano del capo leghista Matteo Salvini, ammiratoreeseguace delle teorie di Bannon, stanno chiudendo il cerchio. Si aspetta la sorte del britannico Boris Johnson, ma il caos nel Regno unito della Brexit è già uno spot involontario a favore dell’Europa. L’esclusione da qualunque carica governativa e dai vertici delle commissioni di quest’area culturale e politica promette di essere qualcosa di più di una ritorsione per le minacce e lo spavento di una propaganda agguerrita. Va letta insieme alla sospensione dal Ppe alla vigilia del voto del 26 maggio del presidente ungherese Viktor Orbán, che ha civettato con l’eurofobia e con gli altri sovranismi: tranne poi tornare a Canossa dalla cancelliera tedesca Angela Merkel subito dopo il voto. In realtà, si profila una strategia tesa a escludere il più a lungo possibile i «cloni» europei di Bannon, con le loro opache connessioni internazionali, dai governi nazionali e dalle istituzioni di Bruxelles. Una sorta di aggiornamento della «cortina di ferro» calata non, come durante la Guerra fredda, sui partiti comunisti nell’orbita dell’Unione sovietica, ma su una destra sospettata di essere satellite della Russia di Vladimir Putin, e di qualche potere statunitense anti Ue. Denis MacShane, ex ministro britannico per gli Affari europei tra 2002 e 2005, lo ha teorizzato proprio sul Globalist. «Dopo il 1945», ha osservato, «in Francia e Italia ci sono stati grandi partiti comunisti anti establishment, anti europei e anti immigrazione che hanno preso oltre il 30 per cento dei voti. Ma non sono mai andati al governo. Adesso, almeno finora, i populisti xenofobi potrebbero raggiungere gli stessi livelli di consenso, ma sono stati fermati…». Da noi la Lega al governo c’è andata, per quattordici mesi. E se oggi è fuori, lo deve soprattutto ai propri errori. Ilragionamento, tuttavia, enuncia uno schema chiaro. Per ora rimane solo un’indicazione. Presto, però, senza un chiarimento della collocazione internazionale di molte formazioni sovraniste, potrebbe trasformarsi in una «conventio ad excludendum» non scritta ma rigida quanto quelle del passato: soprattutto se l’opposizione si esaurisse in proteste antisistema e di piazza tali da confinarla su posizioni estremistiche. È significativo lo smarcamento in Italia di Silvio Berlusconi da questo approccio, scelto almeno per ora dalla Lega e da Fratelli d’Italia. La Commissione von der Leyen viene definita «geopolitica». E nella scelta della danese Margrethe Verstager come commissario alle tecnologie digitali e dell’irlandese Phil Hogan al commercio, il Financial Times già intravede la volontà di creare un chiaro spartiacque con la Russia, un contrasto allo strapotere delle multinazionali statunitensi ma anche eventuali pretese di un Regno unito che arrivasse alla Brexit. Si tratta di mosse in linea con la volontà di ricompattare le nazioni europee intorno ai Paesi fondatori e alle «famiglie» politiche storiche, per quanto sgualciteeinsidiate elettoralmente, con l’aggiunta dei Verdi. Rivedendo alrallentatore gli ultimi mesi, il fallimento del fronte sovranista assume contorni più nitidi: nonostante la consistenza di quello schieramento eterogeneo, cresciuto nella scia della crisi finanziaria del 2009, non sia affatto destinata a ridursi nel breve periodo. L’affermazione dell’estrema destra di Afd, interlocutrice di Salvini, nella Germania Est, non è riuscita a scalfire il primato di Cdu e Spd. La destra francese di Marine Le Pen è rimasta all’opposizione. La Danimarca ha un primo ministro socialdemocratico, come la Svezia. E gli scandali che hanno colpito gli esponenti sovranisti in Austria, Romania, Bulgaria e Repubblica Ceca hanno lasciato Orbán e il polacco Jaroslaw Kaczynski privi di influenza fuori dai rispettivi Paesi. Riguardando ora la foto di gruppo per la manifestazione di Milano voluta da Salvini nell’aprile scorso con l’ambizione di far diventare quello populista il primo gruppo a Bruxelles, sembra scattata un secolo fa. La politica europea e atlanticaèun pezzo fondamentale della politica interna. Non capirlo rischia di provocare un equivoco permanente tra voti presi e possibilità di farli pesare. A danno di tutti.

Con il permanere della crisi del Paese (vent’anni di crescita zero) e il conseguente aggravarsi del suo declino diviene sempre più veloce anche la trasformazione del nostro sistema politico. Una trasformazione di fatto della natura degli attori e dei contenuti, sebbene sia conservato l’involucro esteriore e formale delle regole. La trasformazione che a me sembra la più evidente e importante riguarda il Partito democratico.

Questo ha ormai compiuto la parabola avviatasi con l’inizio della seconda Repubblica, e assiste al completo rovesciamento del disegno del vecchio Partito comunista da cui in qualche modo esso discende. Laddove il togliattismo, infatti, prevedeva che alla lunga il Pciriuscisse e egemonizzare l’establishment italiano, oggi viceversa è l’establishment italiano che appare essere riuscito ad egemonizzare il Pd. Sotto l’etichetta della «difesa della Costituzione»iDemocratici sono diventati infatti il vero partito delle élite della penisola, quello che ne raccoglie in misura maggiore il consenso elettorale (basta vedere come votano i quartieri bene delle grandi città) .IDem sono il partito dell’europeismo ortodosso e dell’atlantismo ufficiale, di tutte le magistrature, dell’alta burocrazia, della «Civiltà cattolica» e delle alte gerarchie della Chiesa, dei «mercati» , del vasto stuolo dei professionisti della consulenza e degli incarichi pubblici ad personam, dei vertici dei sindacati, delle forze armate e degli apparati di sicurezza, nonché dell’assoluta maggioranza di coloro che operano nel settore dell’elaborazione delle idee e del consenso (letterati di successo, accademici con ambizioni più ampie, giornalisti, pubblicitari, gente del cinema, addetti di rango alla comunicazione di ogni tipo). In senso proprio può dirsi che oggi il Pd è per antonomasia «il partito dello Stato» . Questa è la sua autentica identità: qualcosa di analogo funzionalmente a quello che nel primo cinquantennio dell’Unità fu il «partito costituzionale», espressione del dominio politico liberale contro cattolici e socialisti . E infatti esattamente come quello anche il Pd trae il massimo motivo della sua esistenza non già da qualche precisa identità programmatica (ormai del tutto residuale e di tipo «nostalgico») ma dalla pura e semplice difesa, per l’appunto, degli equilibri e delle prassi esistenti dell’ «ordine costituzionale» . Nell’esercizio di tale difesa il Pd ha costantemente bisogno di trasformare il fondamento di quell’ordine, cioè la Costituzione , in un intangibile feticcio , nel non plus ultra della Carta del Buon Governo Democratico, e insieme, naturalmente, di enfatizzarne l’ispirazione «antifascista». Non per altro che per avere la possibilità di immaginare questa sotto la sempre risorgente minaccia della «Destra», in un clima perenne di «emergenza democratica». In tal modo, a cominciare dal ’92 il Pd è venuto istituendo a proprio vantaggio — esattamente come avvenne nel primo mezzo secolo del Regno da parte del partito costituzionale di allora — un’area di potenziale delegittimazione ideologica per tutte le forze politiche di volta in volta sue avversarie — sottolineo: di volta in volta; se infatti ci si allea con Pd da nemici si diventa ipso facto amici dell’«ordine costituzionale» (i 5 Stelle ne sanno qualcosa). Ovviamente il «partito dello Stato» e dell’establishment non può che avere un rapporto particolare con il capo dello stesso. Qui la trasformazione del Pd si è in qualche modo saldata con un’altra trasformazione di fondo intervenuta nel nostro sistema politico: vale a dire l’assoluta centralità che nella geografia dei pubblici poteri e del loro orientamento ha acquistato ormai la figura del Presidente della Repubblica, da molti anni vero dominus incontrastato (anche perché di fatto incontrastabile) di tutte le dinamiche politiche oltre che in vari modi dell’accesso alle maggiori cariche pubbliche. Non a caso ( non sto svelando certo un mistero) una delle principali motivazioni per la formazione della coalizione che si accinge a governare — peri poteri che davvero contano forse la motivazione principale, anche se proprio per questo mai esplicitata — è stata precisamente quella di impedire che l’ elezione del prossimo Presidente (nella primavera 2022) avvenga fuori dal circuito politico che vede il Pd in un ruolo determinante. È infatti di importanza essenziale per tutta la costruzione e il funzionamento del potere italiano che all’establishment e al suo partito di riferimento non sfugga una tale carica, divenuta oramai, di fatto, la massima autorità di governo del Paese. La storia lontana dell’Italia unita sembra ripetersi anche per un altro importante aspetto. Proprio come tanti decenni fa, infatti, oggi anche la presenza del combinato disposto partito dello Stato-delegittimazione di ogni identità diversa, ostacolando al massimo il funzionamento fisiologico del sistema politico parlamentare fondato sulle alternative elettorali, avvia un tale sistema al suo virtuale disfacimento sotto il segno del trasformismo. È ciò che sta accadendo oggi con la nuova maggioranza. Chi crede davvero che le sorti della democrazia italiana fossero a rischio , cioè che si fosse alla vigilia di non poter più tenere elezioni libere, stampare giornali contro il potere, che gli oppositori e gli organi costitu-zionali fossero sul punto di essere minacciati fisicamente, la magistratura manipolata e magari perfino sciolto il parlamento — perché questo significa «emergenza democratica», il resto sono chiacchiere — chi crede davvero ciò fa benissimo a giustificare tutto, e dunque anche il trasformismo. Ma chi non condivide l’allarme ora detto ha il dovere di dire che invece si tratta solo di semplice, banalissimo trasformismo. A cominciare da quello di un Presidente del Consiglio il quale aspetta la mozione di sfiducia presentata contro di lui dal partito del suo ministro degli Interni per cominciarearimproverare violentementeaquest’ultimo per una lunga serie di gravi malefatteaproposito delle quali, però, non si ricorda che fino a quel momento egli come capo del governo abbia mai avuto nulla da ridire, neppure una parola. Non solo, ma subito dopo fa un nuovo governo di segno oppostoein polemica frontale con quello da lui presieduto fino al giorno prima! E così dopo poco più di un anno l’establishment italiano ha riportato la vittoria sulla dabbenaggine e sulla pochezza politica della coalizione giallo-verde, sul fare inutilmente smargiasso del capo della Lega e le velleità inconcludenti dei 5 Stelle. Ma è una vittoria che non contiene la promessa di niente. Che inalbera un programma per il futuro che è un patetico libro dei sogni dove è elencato di tutto tranne i modi e i mezzi per fare qualsiasi cosa, e che è facile prevedere che non farà nulla. In un sistema politico paralizzato dal trasformismo e di cui l’establishment non cessa di tenere ben salde le redini, il segno distintivo diventa sempre di più l’immobilismo. Quell’immobilismo di cui il Paese sta lentamente morendo.

P otrebbe essersi aperto un periodo relativamente positivo per il nostro Paese, senza alcun dubbio migliore dell’ultimo anno e mezzo. Il detonatore della crisi di governo di agosto era stata la decisione del M5S di distinguersi dalla Lega e votare con Merkel e Macron a favore di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione europea. Straordinario, visto che solo sei mesi prima Luigi Di Maio si era recato in Francia per incoraggiare la corrente più estrema dei Gilet gialli, un incontro che il governo francese definì a ragione «un’inaccettabile provocazione», tale da giustificare il richiamo del loro ambasciatore a Roma. Sia chiaro: i seri problemi del nostro Paese rimangono inalterati. La maggioranza che sostiene il governo ha mostrato, nel dibattito parlamentare sulla fiducia, un grado preoccupante di diffidenza reciproca. È possibile, forse probabile, che si ritorni ad una situazione «bloccata» anche se magari con toni meno «urlati» che nel governo precedente. Ma qualche segnale positivo c’è. La personalità di alcuni ministri fa ben sperare. Luciana Lamorgese, chiamata per restituire autorevolezza e prestigio al ministero degli Interni, è stata uno dei migliori prefetti che Milano abbia avuto negli ultimi decenni. Il fatto che sia una donna a ricoprire per la prima volta questo importante incarico è anch’esso un segnale nella giusta direzione.

I l nuovo ministro dell’economia, Roberto Gualtieri, è stato votato per due legislature uno degli eurodeputati più influenti, ed è un politico di peso, in un ruolo dove il peso e l’abilità politica sono ancor più importanti della competenza tecnica, in particolare durante i negoziati nell’Eurogruppo e nell’Ecofin. La nuova maggioranza ha tagliato la strada a ipotesi di commissari europei inviati a Bruxelles con il mandato di bloccare gli interventi della Commissione a favore della concorrenza e contro gli aiuti di Stato. Commissario italiano sarà Paolo Gentiloni il cui governo fu il primo, nel 2017, a varare la Legge annuale sulla concorrenza, un obbligo che c’è dal 2009 (legge 23 luglio 2009, n. 99) ma che era stato disatteso da tutti i governi precedenti, di centrodestra e di centrosinistra. Si è ridotto il peso politico della corrente di parlamentari dichiaratamente anti-euro, come l’on. Borghi e il senatore Bagnai. E lo spread sembra averne beneficiato con effetti positivi sulle nostre tasse e sul costo del credito per famiglie e imprese. Certo, rimane un ministro degli Esteri che dovrà imparare le regole scritte e quelle non scritte della diplomazia. Ma i nostri alleati sanno già con chi avranno a che fare e aggiusteranno le loro aspettative. Questo governo avrà il vantaggio di poter contare su un livello «ideale» di urgenza. Non troppa, come accadde al governo Monti la cui azione fu vincolata dalla severità della crisi finanziaria che lo costrinse ad aumenti di imposte che ebbero effetti immediati sul deficit, ma furono dannosi per l’economia, senza avere il tempo per ridurre la spesa. L’emergenza di oggi dovrebbe spronare, ma non siamo con l’affanno da orlo del baratro. Su molte questioni, ad esempio povertà e diseguaglianze, M5S e Pd (più Leu) sono molto più vicini di quanto non lo fossero M5S e Lega. Però la relativa vicinanza su obiettivi vaghi non significa che essi condividano gli strumenti per raggiungerli. Il reddito di cittadinanza va modificatoereso più simile al pre-esistente reddito di inclusione. Un salario minimo troppo alto sarebbe dannoso per l’occupazione, soprattutto al sud: la differenza fra i salari al nordenel Mezzogiorno deve riconoscere la differenza nel costo della vita tra le due parti del Paese, non solo nel settore privato, dove già in parte avviene, ma anche nell’impiego pubblico. Inoltre, salarireali pubblici più alti al sud che al nord fanno concorrenza sleale al settore privato con effetti negativi sulla crescita. Non è quindi solo una questione di equità nord-sud, ma anche di crescita. Anche sulle infrastrutture, che sono già emerse come punto di dissidio, un accordo va trovato. Alcune infrastrutture non devono essere cancellate, sia perché già avviate, sia perché derivano da impegni europei. Altre sono certamente utili, come il completamento dell’Alta velocità in Veneto o fra Napoli e Bari. Ma alcune opere, ad esempio l’autostrada fra Orte e Mestre, possono attendere senza che la crescita ne soffra troppo. Meglio usare queste risorse per sistemare gli edifici scolastici, accelerare i viaggi dei pendolari, affrettare i lavori nelle zone terremotate. Riuscirà la non eccessiva distanza su questioni quali evasione fiscale, povertà, diseguaglianza a fare in modo che i tre partiti affrontino i temi di finanza pubblica con un respiro più lungo? Il punto critico è che il governo si convinca, e convinca gli italiani, che la crescita non si fa ripartire con più spesa pubblica e più debito. Se arrivasse una recessione non ci si dovrebbe preoccupare troppo dei decimali del deficit — come le regole europee già consentono di fare—ma a parte il breve periodo non è certo con un debito sempre crescente che si sostiene la crescita, anzi. Cosa fare dunque, dato questo vincolo da cui non si può prescindere? Per tagliare la spesa, e quindi le tasse, senza far ripartire il debito occorre il coraggio di fare due cose: innanzitutto eliminare tutte le cosiddette «spese fiscali», qualche decina di miliardi di favori elargiti negli anni a vari gruppi, di solito alle imprese più abili nell’intrattenere rapporti con la politica, e che pagano aliquote agevolate. Vanno tagliate tutte insieme per evitare l’obiezione «perché io sì e lei no?». E poi si deve andare al cuore del nostro sistema di welfare rendendolo «means tested» (cioè «in funzione del reddito») e non continuare ad offrire anche ai ricchi servizi pubblici sottocosto e quindi pagati, in parte, dalle tasse di tutti, ad esempio nella sanità e nell’università. Certo, l’evasione fiscale distorce gli effetti di qualunque politica «means tested», oltre a colpire gli onesti. Ma l’evasione, se davvero si vuole, la si può combattere, come esperienze di altri Paesi hanno dimostrato. Va anche eliminata quota 100 e in generale occorre ristabilire più equilibrio tra gli anziani che beneficiano del welfare e le generazioni future che lo finanziano. Abbiamo quindi risolto in agosto tutti i problemi dell’Italia? Certo che no ed è possibile che il governo fallisca ricacciando il Paese nel tunnel dell’instabilità. Speriamo di no. Oggi un barlume di luce c’è.

Può darsi che il pendolo della politica cominci ad allontanarsi dal brutale nativismo e dallo stridente nazionalismo che hanno infettato l’Europa. L’esito del tormentato dibattito sulla Brexit resta ancora poco chiaro, e la durata e l’efficacia della nuova coalizione al governo dell’Italia rimangono incerti. Nonostante questo, la rivolta dei conservatori contro il primo ministro Boris Johnson e la caduta della Lega dal potere in Italia permettono di sperare che le società democratiche possano rientrare dagli estremi del populismo.

Il momento in cui viviamo resta molto pericoloso per la democrazia liberale e il pluralismo. Johnson, Salvini, Trump, Orban e i loro numerosi seguaci hanno dimostrato quanto le nostre società siano vulnerabili agli istinti politici più primitivi. Per quanto il ricorso alla demagogia e al razzismo sono ormai la nuova normalità, gli ultimi sviluppi in Gran Bretagna e in Italia fanno pensare che possa esserci un limite. La settimana scorsa il parlamento britannico ha passato una legge che vieta la Brexit senza accordo. L’insurrezione dei conservatori potrebbe impedirla, o potrebbe anche non servire a nulla. Ma il fatto stesso che questa rivolta sia nata è un segnale benvenuto: forse i meccanismi di autocorrezione della democrazia liberale stanno tornando a funzionare a Londra, contrapponendosi a un premier che sta saggiando i limiti delle norme costituzionali, guidando il Paese verso il precipizio. Il Regno Unito resta profondamente diviso e politicamente disfunzionale ma, almeno per ora, politica moderata e buon senso hanno prevalso sull’autolesionismo populista. Quello che è avvenuto in Italia produce una speranza simile, che la politica del centrismo e del compromesso possa prevalere contro gli estremismi populisti. La coalizione tra Pd e M5S non condivide molto terreno ideologico, né promette un governo efficiente. Emarginare Salvini è stata però una priorità e un’urgenza, e il sistema politico ha reagito nella maniera adeguata. L’orribile ostilità verso gli immigrati e l’eurofobia irresponsabile della Lega esercitano ancora un’attrattiva su un vasto pubblico, ma intanto l’Italia sta tornando verso una politica meno tossica. Queste svolte sono benvenute alla luce del consolidamento dei leader populisti in altre democrazie occidentali. In Ungheria, la presa di Orban sul potere non ha fatto che aumentare nel tempo. In Polonia, il Partito legge e giustizia ha ottenuto un buon risultato alle elezioni del Parlamento europeo nello scorso maggio e promette di andare bene alle imminenti politiche di ottobre. Ancora più preoccupante, l’offensiva nativista e nazionalista di Donald Trump, all’estero e in patria, non mostra segni di cedimento. Anzi, il suo uso pericoloso non farà che intensificarsi mentre cercherà di mobilitare la sua base, e demonizzare i democratici, in vista delle elezioni del 2020. È vero che i democratici si sono ripresi la Camera l’anno scorso, dove fungono da necessario contrappeso. Trump però continua a fare danni enormi a casa e all’estero, oltre che a calpestare gli ideali della democrazia, conservando il solido sostegno del circa 40 per cento dell’elettorato, un buon trampolino dal quale tentare la rielezione l’anno prossimo. La vile sottomissione del Partito repubblicano è stata devastante quanto Trump. I membri più scaltri del Congresso si stanno allineando a un demagogo imprevedibile e sconclusionato, che però ha conquistato la base repubblicana, e che condivide se non altro alcune delle loro priorità, inclusi i tagli fiscali e la nomina di giudici conservatori. Il Partito repubblicano ha però abbandonato le posizioni tradizionali su argomenti come il deficit, il commercio e l’immigrazione, oltre ad aver abdicato al proprio dovere di governo responsabile, e lo pagherà un caro prezzo. All’estero, la politica di Trump sta portando il mondo sull’orlo del disastro. In patria, i suoi deliri anti-immigrati, intrisi di nazionalismo bianco, e il ribaltamento degli ideali repubblicani mettono a rischio la stessa democrazia americana, e il pluralismo che alimenta la coesione sociale nonostante la diversità razziale, etnica e religiosa. Il silenzio è complice. Questo periodo lascerà una macchia indelebile sul Partito repubblicano. Gli eventi in Gran Bretagna e in Italia però permettono di sperare che i populisti possano essere fermati, su entrambe le sponde dell’Atlantico. A Londra, un manipolo di conservatori coraggiosi ha fermato, almeno per ora, Johnson. A Roma il pragmatismo politico ha rovesciato Salvini e riportato il Paese indietro dall’orlo del precipizio. Queste correzioni di corso sono state frutto di manovre politiche e non di un nuovo mandato elettorale, e perciò è troppo presto per dire se si tratta di una ritirata temporanea dei populisti o di una svolta politica più durevole. La risposta a questa domanda dipenderà dalla capacità delle voci della ragione nel Regno Unito e del nuovo governo italiano di generare un programma politico che si rivolga alle fonti dello scontento popolare, inclusi l’insicurezza economica e l’immigrazione. Ma dipenderà anche dall’esito delle elezioni statunitensi l’anno prossimo, un momento che sarà storico.