I giallo rossi e il nuovo clima in Europa verso l’Italia.

N on è molto, ma qualcosa è l’ipotesi di un accordo con i Paesi della Ue disponibili ad accogliere quote dei migranti che approdano sulle coste italiane. Ed è il primo risultato (in realtà il secondo, dopo la nomina di Gentiloni a commissario agli Affari Economici) della nuova interlocuzione tra Conte bis, premier di un governo filo-europeo, e la presidente della Commissione Von der Leyen. Nell’incontro a Bruxelles dopo la fiducia ottenuta dal governo anche al Senato, Conte ha provato a strappare una qualche apertura, che non c’è stata, anche sul difficile confronto in preparazione sulla manovra economica. Ma è chiaro che il tempo per la trattativa non è ancora maturo. Mentre il governo, da subito, può incassare il clima molto più caloroso del passato dell’ospitalità riservatagli a Bruxelles. Non sarebbe la prima volta che si ventila un’intesa tra i Paesi cosiddetti «volenterosi» per la redistribuzione dei migranti. Ma in pratica, all’atto degli sbarchi, le trattative per ottenere l’accoglienza, seppure di pochi naufraghi, con i partner dell’Unione si sono sempre rivelate difficili e farraginose, e ancor di più quelle per la riconsegna materiale dei migranti. Così è evidente che il vento tra Italia e Bruxelles è cambiato: e la disponibilità della Von der Leyen a costruire un accordo un po’ più vincolante della semplice dichiarazione di buona volontà, su un terreno assai delicato come quello dell’immigrazione, ne è una prova. Ma prima ancora di mettere alla prova il nuovo meccanismo di redistribuzione dei profughi, nel quale verrebbero inserite percentuali prefissate di accoglienza, la validità del risultato ottenuto ieri dipenderà dalla portata dei flussi, finora sopportabili, degli sbarchi. Finché si tratta di ricollocare poche decine di persone insomma, la buona volontà potrebbe bastare.

SUPERARE IL PATTO DI STABILITÀM eglio non farsi illusioni. È una partita importante, ma anche facile da giocare male per l’Italia, quella che si apre con la scelta di Paolo Gentiloni come commissario europeo all’Economia. Si otterrà poco se si dà l’impressione che al nostro nuovo governo prema soltanto di fare più deficit, e l’unica differenza rispetto al precedente sia che lo chiede con le buone maniere.L e maniere cattive, certo, hanno fatto danno. Pare averlo capito Giuseppe Conte, il cui primo governo due volte ha tentato di far la voce grossa in Europa e due volte ha dovuto retrocedere, dopo aver inflitto costi pesanti al Tesoro e ai cittadini sotto forma di più alti tassi di interesse. L’economia italiana ristagna, la gente ha buoni motivi per essere scontenta. Ma, visti dagli altri Paesi i nostri politici sembrano, tutti o quasi, incapaci di offrire rimedi diversi dal contrarre nuovi debiti. Cambia la maggioranza, eppure manca il coraggio di disfare misure costose come «quota 100» e il forfait per gli autonomi, imposte dalla Lega ora all’opposizione. Davvero non esistono altre ricette? In Portogallo, i socialisti del primo ministro António Costa sono in dirittura per vincere le elezioni del 6 ottobre prossimo dopo aver quasi azzerato il deficit di bilancio senza compromettere la crescita economica. Della «flessibilità» via via introdotta nelle inizialmente dure regole di bilancio europee il nostro Paese ha già beneficiato parecchio negli anni scorsi. Gentiloni non avrà grandi margini di manovra, stretto fra il rafforzato vicepresidente Valdis Dombrovskis e un direttore generale che non sarà più l’italiano fin qui in carica, Marco Buti. Ciò che può fare l’Italia è porre, con ragionevolezza e con urgenza insieme, il problema di regole escogitate sette anni fa nel pieno della crisi e oggi non più adeguate. Il Patto di stabilità così com’è non consente né una risposta rapida al pericolo di recessione che oggi si manifesta né conforta sul futuro un’Europa dove tassi di interesse bassissimi non bastano a stimolare la crescita. Tutto il continente deve tornare ad investire, nell’interesse dei giovani. Poco può fare l’Italia, già carica di debiti, e con uno Stato che agisce tardi e male: spendere di più sarebbe rischioso e forse nemmeno tanto utile nell’immediato. L’idea migliore è il fondo comune dell’area euro proposto dalla Francia e osteggiato dai nordici. Oppure dovrebbero cominciare a spendere i Paesi che hanno pochi debiti; un loro cambiamento di rotta darebbe qualche margine in più anche a noi. Nelle ultime settimane, finalmente, di fronte al calo brusco dell’export che mette in difficoltà il modello economico tedesco, anche a Berlino si comincia a criticare l’ossessione del pareggio di bilancio; però ancora non si decide. Si può sperare in uno sblocco se l’Italia non torna a mettere alla prova la fiducia altrui. Già sabato a Helsinki, al suo primo Ecofin, il nuovo ministro dell’Economia Roberto Gualtieri troverà all’ordine del giorno le regole di bilancio. Anche i finlandesi, paladini del rigore, accettano di discutere se si possa renderle più efficaci per la stabilizzazione economica. Da lì occorre partire. Il 2020 può essere difficile per tutti in Europa, non solo per noi. Vanno esplorate le vie per reagire insieme. Se invece chiedendo «nuove regole», si cerca solo il permesso per un più alto deficit subito (magari condito da promesse grandiose per domani), si rischia, irrigidendo gli altri Paesi, di ottenere l’opposto: un duro contraccolpo.

Essendo astemio, non pensavo che una sbornia potesse durare un mese. Però auguro di cuore a Salvini di tornare sobrio, almeno fino a quella successiva, perché ci sveli il vero autore del suo tweet del 2 luglio, ore 19.29: “A prescindere dai nomi, l’importante è che in Europa cambino le regole, a partire da immigrazione, taglio delle tasse e crescita economica. E su questa battaglia l’Italia sarà finalmente protagonista. #vonderLeyen”. Salvini era con Di Maio all’ambasciata Usa per l’Independence Day. Conte li aveva appena avvertiti da Bruxelles dell’opportunità unica di infilarsi nelle divisioni del fronte europeista e rendere l’Italia decisiva nell’elezione della candidata tedesca del Ppe Ursula von der Leyen a presidente della Commissione. E Salvini diede subito il via libera: caduto il falco socialista olandese Timmermans per i veti di 11 Paesi, fra cui l’Italia, non era più questione di “nomi”, ma di “protagonismo” dell’Italia. L’aveva preannunciato quel mattino a La Stampa il suo capogruppo Ue Marco Zanni: “I popolari ci hanno convinto. Avremo un portafoglio di peso”. E fonti leghiste confermavano all’Ansa il voto a Ursula “perché sulla riforma di Dublino e l’immigrazione abbiamo buoni riscontri ”. Conte, trattando per due giorni e due notti con i partner europei, aveva rotto l’isolamento giallo-verde con la maggioranza Ppe-Pse-Alde uscita dalle Europee. E nutriva buone speranze che i franchi tiratori socialisti su Ursula rendessero indispensabili i voti grillo-leghisti. Il sovranismo sterile e parolaio di Salvini poteva virare verso quello pragmatico e produttivo di Conte. Invece lo scorpione padano, sopraffatto dalla sua vera natura, ordinò ai suoi di votare contro. I 5Stelle mantennero la parola, anche per le aperture della VdL su ambiente e migranti. E i loro 14 voti furono decisivi per farla eleggere. Così Conte dovette sudare sette camicie per strappare la promessa della Concorrenza (il massimo finora ottenuto dall’Italia, quando B. ci mandò Monti) alla riottosa Ursula, che non voleva saperne di un leghista. Ma il premier fu così “traditore” che tenne il punto: il commissario spettava alla Lega, per premiarne la vittoria elettorale e per responsabilizzarla in Europa. Salvini gli indicò Giorgetti, che però si tirò indietro e la Lega prese a cincischiare tra Garavaglia e Centinaio (per l’Agricoltura). Il resto è noto: la crisi del Papeete e la svolta degli Affari economici a Gentiloni. Questi sono i fatti, con buona pace degli eurocomplotti che il Cazzaro rinfaccia a Conte, Di Maio e Pd. Le uniche congiure anti-Salvini sono quelle architettate da Salvini. E, sia detto a suo onore, funzionano a meraviglia.

G li endors ement al Conte-2 cominciavano a farsi preoccupanti: veri e propri baci della morte. Poi è arrivato provvidenziale il voto di sfiducia di Carlo De Benedetti. Un voto tutt’altro che sorprendente: bastava leggere Repubbli – cael’Espresso, pro elezioni e anti Conte proprio come Salvini. Ma decisamente beneaugurante per il nuovo governo, vista la miseranda fine di quelli sposati in passato dall’Ingegnere e dai giornali sottostanti. Più che un finanziere e un editore, CdB è una bussola: se un governo gli piace, sarà un disastro; se non gli piace, il successo è garantito. Veltroni? Un genio, infatti fondò il Pd, Prodi affondò e tornò B. Monti? Un toccasana, infatti il Pd aveva le elezioni in tasca, poi appoggiò i tecnici e finì pari col M5S. Rodotà al Quirinale? Pussa via, molto meglio Napolitano a 88 anni e poi il governo Letta con B., quello che gli aveva scippato la Mondadori comprando giudici e sentenze. Renzi? “Un fuoriclasse” col contorno di Verdini, Alfano e referenzum. Prima del 4 marzo 2018 CdB riabilitò pure il Caimano contro “Di Maio peggiore di tutti i mali”. Poi si capì perché Renzi era un fuoriclasse: fu lo stesso CdB a svelare nel 2015 al suo broker che Matteo suo gli aveva spifferato in anteprima il decreto Banche popolari, facendogli guadagnare in Borsa 600 mila euro. Quelli sì che erano governi. Come quello di Ciampi, che nel ‘94, in articulo mortis, regalò le frequenze telefoniche alla sua Omnitel. O come quelli della Prima Repubblica che gli compravano le telescriventi obsolete dell’Olivetti in cambio di mazzette. Renzi poi scriveva le leggi a gentile richiesta di CdB, che lo raccontò alla Consob: “Io gli dicevo che doveva toccare per primo il problema lavoro e il Jobs Act è stato… – qui lo dico senza vanto, anche perché non mi date una medaglia – ma il Jobs Act gliel’ho suggerito io… e lui poi è stato sempre molto grato perché è l’unica cosa che gli è stata poi riconosciuta”. L’Ingegnere dettava e il Fuoriclasse scriveva, come Totò e Peppino. Fuoriclasse, poi, si fa per dire. Matteo – verbalizzò CdB alla Consob – è “un cazzone”e“capisce poco di economia”: il suo non era un governo, ma una combriccola di “quattro ministri” pilotati da lui in pranzi e cene a Palazzo Chigi o a casa sua, in veste di “advisor gratuito e saltuario” di Renzi, Boschi e Padoan. Ecco, purtroppo pare che Conte e Di Maio non abbiano queste belle usanze. Dunque l’uno è un “trasformi – sta” (non come il Pd che governava con B.) e l’altro “il più incompetente di tutti”. Sono complimenti che tutti sognano, ma pochi si meritano. Con tutti i guai che hanno Conte e Di Maio, gli mancava pure un elogio dell’Ingegnere.

Se ne parlava già lunedì alla Camera, ma ieri, con lo spettacolare scontro in aula al Senato tra Conte e Salvini, l’idea del nuovo bipolarismo tra il premier e il leader dell’opposizione ha preso piede, a margine del dibattito a Palazzo Madama, e sembra destinata ad accompagnare l’inizio del percorso del nuovo governo. Segnato, già a fine ottobre, dal primo appuntamento elettorale in Umbria, per le Regionali in cui fino a prima della crisi partivano favoriti la Lega e il centrodestra a guida leghista, vincitori in tutte le consultazioni locali dell’ultimo anno e mezzo. Mentre adesso si vedrà se il ritorno del Pd al governo servirà a rimediare alle conseguenze dello scandalo che ha portato alla crisi della giunta di centrosinistra guidata dall’ex-governatrice Catiuscia Marini. Va detto che è abbastanza strana questa discussione sul bipolarismo, in una fase in cui la nuova alleanza giallo-rossa, in funzione strettamente anti-Salvini, si muove per tornare, sul piano nazionale, a un sistema elettorale proporzionale, con gli elettori chiamati a votare esclusivamente per i partiti, e le coalizioni, una volta cancellati i collegi uninominali in cui ancora oggi vengono eletti un terzo di deputati e senatori, che non avranno più ragione di essere. Ma poiché nelle Regioni si vota ancora con il sistema maggioritario, e dopo l’Umbria si voterà in Toscana e Calabria, e poi ancora in Emilia, è comprensibile l’interesse di Salvini a presentarsi come l’alternativa alla neonata maggioranza che sostiene l’esecutivo 5 stelle-Pd-Leu. Il leader leghista, anche con gli insulti inanellati platealmente contro Conte, vuol far passare nella testa degli elettori la convinzione che i giallo-rossi faranno presto a trovare un analogo assetto locale, per sbarrare la strada agli elettori schierati per l’alternativa. Così che, se in Umbria sarà il centrodestra a vincere, la conquista dell’amministrazione di Perugia acquisti il valore nazionale della prima sconfitta elettorale di un governo nato nel Palazzo e per evitare le elezioni. Per tutte queste ragioni, oltre che per le resistenze della base grillina già contraria ad alleanze anche con liste civiche proposte da Di Maio, è molto improbabile che l’Umbria diventi il laboratorio del nuovo centrosinistra.

L a coincidenza di tempi fra la nascita della nuova Commissione europea e del governo Conte bis offre l’occasione di rispondere su più fronti alla sfida del populismo che tiene banco sul Vecchio Continente dal referendum sulla Brexit nel 2016. L’occasione nasce dal fatto che la Commissione Ue guidata da Ursula von der Leyen e il nuovo esecutivo presieduto da Giuseppe Conte hanno tre elementi in comune. Il primo è la genesi politica perché la Commissione è l’espressione del voto alle elezioni europee nel quale i partiti tradizionali hanno respinto l’assalto delle forze populiste mentre il Conte bis è frutto di un accordo politico-parlamentare contro la Lega di Salvini che aveva partecipato da protagonista proprio a quell’assalto. Il secondo è nei contenuti del programma perché Von der Leyen ha messo in cima all’agenda clima, difesa, democrazia, crescita e “modo di vita europeo” disegnando una cornice che include il “New Green Deal” e la lotta alle diseguaglianze di cui ha parlato Conte alla Camera illustrando i propri obiettivi. Infine il terzo, e cruciale, fattore di convergenza: tanto Von der Leyen che Conte sono consapevoli che l’onda della protesta del ceto medio è molto alta, il rischio di fallire è reale e se ciò avvenisse populisti e sovranisti avrebbero gioco facile a imporsi come una valanga a Bruxelles come a Roma.

A tali e tante coincidenze bisogna aggiungere che il percorso del Movimento Cinquestelle – il più grande partito populista dell’Europa Occidentale – verso il centro è iniziato con il voto a favore di Ursula von der Leyen all’Assemblea di Strasburgo e la conseguente svolta pro-Ue che ha reso possibile il patto di governo con il Pd e l’invio a Bruxelles dell’ex premier Paolo Gentiloni, divenuto titolare del più importante portafoglio – l’Economia – mai ottenuto dal nostro Paese nella Commissione. Da qui l’interrogativo su come Von der Leyen e Conte possano lavorare assieme per far coincidere l’interesse collettivo dell’Ue e quello nazionale italiano. La risposta obbligata è nel trovare una risposta condivisa alle due ferite del ceto medio che alimentano la protesta populista: le diseguaglianze e i migranti. Sulle diseguaglianze Bruxelles è in terribile ritardo, manca di una strategia d’azione e perfino di una teoria di giustizia economica per affrontarle così come sui migranti ha la grave responsabilità di non essersi finora data una politica comune di accoglienza e integrazione. E l’Italia è ancora più indietro, su entrambi i fronti, essendo stata governata per 14 mesi da un esecutivo populista-sovranista che ha tentato di cancellare le diseguaglianze con un ideologico annuncio sulla “sconfitta della povertà” ed ha risposto alla sfida dei migranti limitandosi a trattarli da pericolosi avversari, senza neanche affrontare il tema dell’integrazione. Se Ursula von der Leyen riuscirà a spingere la Commissione a sfidare i suoi tabù e Giuseppe Conte sarà capace di passare dall’ideologia gialloverde al pragmatismo, Bruxelles e Roma potranno lavorare assieme per un’Europa più prospera e sicura. Ma entrambi dovranno mostrare di possedere la dote che più di ogni altra distingue i leader: il coraggio di osare.

La cosa può far piacere o lasciare costernati: dipende dai punti di vista. Ma le parole più «politiche» di questi giorni confusi le ha dette a modo suo Beppe Grillo, alla vigilia della consultazione su Rousseau degli iscritti al Movimento 5 Stelle. Quando, gettando tutto il suo peso in favore del nascente governo cosiddetto «giallo-rosso» (una definizione a dir poco irritante per un romanista inveterato come il sottoscritto) si è rivolto assieme a loro e ai «ragazzi del Pd», perché non sprecassero una simile, irripetibile occasione. Qualcuno è andato con la memoria al Grillo che, nel luglio del 2009, voleva prendere la tessera dei Democratici ad Arzachena per partecipare alle primarie: ma queste sono storie troppo vecchie per una realtà inedita come l’attuale, nella quale nessuno dei due partner principali può permettersi di scherzare né, tanto meno, illudersi di liquidare l’altro mediante alleanza, o di colonizzarlo. Chi scrive non si è mai appassionato alla esegesi dei discorsi del Fondatore, e quindi può darsi che l’ interpretazione delle sue parole sia un po’ forzata. Se si è rivolto nello stesso tempo a quelli di Rousseau e ai (non meglio precisati) ragazzi del Pd, però, una ragione ci sarà pure.

Sicuramente Grillo sa benissimo (come peraltro sanno un po’ tutti) che questa coalizione di governo sarebbe destinata in partenza a un tracollo fragoroso ben prima della fine della legislatura se la sua ragione sociale di esistenza restasse, di fatto, quella iniziale, il comune intento, cioè, di sbarrare la strada a Salvini. I 5Stelle e il Pd, se rimanessero grosso modo quello che sono, da un fallimento di questa strana alleanza uscirebbero letteralmente a pezzi. I primi, al termine di una seconda prova catastrofica di governo, non potrebbero certo tornare a proporsi nei panni del movimento anti sistema delle origini, mantenendo intatto il grosso delle loro forze in attesa di un terzo appello che nessuno (a cominciare dagli elettori) concederebbe. Quanto al Pd la situazione in partenza è, se possibile, persino più grave. Come testimonia clamorosamente (anche se non se ne parla molto) il fatto che nel partito nato invocando una sua peculiare «vocazione maggioritaria» un segretario eletto a larghissima maggioranza non dispone del controllo dei gruppi parlamentari, tuttora saldamente in mano al predecessore. Lo stesso predecessore che aveva messo il veto a qualsiasi tentativo di cercare un accordo con i 5Stelle, o anche solo di andarne a vedere le carte; che poche settimane fa ha rovesciato la sua posizione, costringendo il segretario prima a intavolare un negoziato cui volentieri si sarebbe sottratto, poi a trangugiare Conte; e che, di qui a qualche tempo, potrebbe benissimo decidere di farsi un partito tutto suo, destinato all’irrilevanza o quasi in un sistema maggioritario ma in grado di farsi valere nel proporzionale. Di Maio è un capo politico azzoppato, Zingaretti un segretario dimezzato. E i rispettivi partiti vivono qualcosa di più grave di quella che, con un’espressione abusata, viene definita una crisi di identità. Non è stato, come dicono Salvini e Giorgia Meloni, l’attaccamento alle poltrone a tenerli insieme, ma l’istinto di sopravvivenza. E la consapevolezza di non essere in grado di dare con qualche possibilità di successo, in caso di elezioni anticipate, battaglia frontale alla destra.

Grillo è un protagonista troppo consumato per non sapere che così non si va lontano. La via che indica, o meglio la cui via cui allude, sembra dunque quella di un rimescolamento delle carte, di una ristrutturazione e diremmo pure, se il termine non fosse così consunto, di una rifondazione delle forze in campo, del prepensionamento di larga parte del ceto politico attuale, della promozione, nel governo e fuori, di forze nuove sin qui tenute ai margini dalle nomenclature (di carta) dei due partiti. Di un processo, insomma, lungo il quale tanto il M5S quanto il Pd, invece di prepararsi a finire male alternando accordicchi e polemicuzze, dovrebbero cambiare forma e pelle in una misura oggi non quantificabile, ma comunque sufficiente a dar vita, anche se a Grillo e ai suoi sodali il termine non piace neanche un po’, a qualcosa di simile a un’inedita sinistra del Terzo Millennio. Se preferite, a una post sinistra.

Sull’appetibilità di una simile prospettiva, una variante popolare (o populista?) del nuovismo dei primi anni Novanta, ogni giudizio, naturalmente, è lecito. Così come è lecito dubitare del suo realismo: è possibile mai che le feroci contese tra i 5Stelle e il Pd di questi anni siano state solo il frutto di un colossale equivoco? Ma, in una prospettiva diversa, se le parole hanno ancora un senso, non si capisce nemmeno, con tutto il rispetto per Giuseppe Conte, come faccia Zingaretti a dire che questo è il governo «più a sinistra» degli ultimi anni.

Dieci anni fa, quando il M5S nasceva, gli assetti neoliberisti della globalizzazione sembravano destinati a durare in eterno. In quel contesto, Grillo e Casaleggio concepirono un contenitore antisistemico e post ideologico nel quale confluirono elementi molto eterogenei: istanze ambientaliste, ideali di democrazia diretta gestita attraverso la rete, opposizione al capitalismo delle grandi imprese, difesa del lavoro nella nascente gig economy, nuove forme di condivisione attraverso i beni comuni. Non per nulla sono stati definiti «populisti di sinistra».

Il successo elettorale del movimento è stato formidabile tanto da arrivare a vincere le elezioni nel 2018 con il 33% dei voti. Un consenso peraltro prevalentemente ottenuto nelle regioni meno sviluppate del Sud. L’alleanza con la Lega ha sorpreso molti. Sembrava qualcosa di innaturale. L’impossibile conciliazione tra opposti. E, in effetti, i mesi del governo pentastellato sono stati molto travagliati con una contrapposizione quotidiana sui dossier più importanti.

In realtà, la vera posta in gioco del Conte 1 è stata la leadership del populismo italiano. È stato su questo terreno che Lega e M5S si sono confrontati facendo a gara nel proporre le misure che potevano solleticare il consenso popolare (quota 100 vs reddito di cittadinanza; flat tax vs salario minimo; lotta all’immigrazione vs No Tav). Non c’è dubbio che la Lega di Salvini ha stravinto quel confronto, tanto che nel giro di un anno i rapporti di forza tra i due partiti (misurato attraverso i sondaggi) si sono ribaltati: con la Lega oltre il 30% e il M5S sotto il 20. Da qui la decisione di Salvini di rompere il patto di governo.

In quei giorni così drammatici, la palla è tornata in mano ai 5S che, come partito di maggioranza relativa di un Parlamento legittimo, hanno esitato su cosa fare. O meglio su chi essere. Una parte si è scoperta pienamente sovranista e di destra. Una vocazione resa esplicita nei giorni della crisi nelle dichiarazioni di quegli esponenti più filo-Salvini. La ragione è chiara: le istanze antisistema di 10 anni fa trovano oggi l’interprete più efficace nella destra che si afferma un po’ ovunque. Che nutre addirittura l’ambizione di cambiare gli assetti planetari. Qualcosa che va al di là della più fervida immaginazione dei fondatori del Movimento. Non è dunque per caso che una parte dei 5S abbia insistito nel considerare la Lega l’interlocutrice naturale.

Un’altra anima dei 5S ha invece sempre guardato alla sinistra classica e rimane quindi centrata sui temi ambientali e la liberalizzazione dei diritti civili. Il problema di questa componente è stato fino ad oggi duplice: rappresentare solo una parte del movimento e non avere punti di riferimento internazionale. Col rischio di finire come Podemos in Spagna o Syriza: in Grecia isolata e troppo debole per intestarsi la transizione verso un diverso modello di sviluppo, questa componente sembra condannata alla irrilevanza. Infine, nelle ultime settimane è inaspettatamente emersa una terza posizione espressa dalla premiership di Conte. Il fatto è che, dopo il voto europeo, arginato il pericolo sovranista e archiviata la vecchia commissione, a Bruxelles si è lavorato per far nascere una nuova alleanza tra componenti ideologiche diverse la cui aspirazione è quella di perseguire un diverso modello di crescita e di coesione. Cambiando prima di tutto la politica economica. L’embrione di qualcosa di nuovo di cui si intravedono, ancora confusamente, i tratti costitutivi. Nel nostro Paese, anche qui non senza sorpresa, questo embrione ora ha la possibilità di innestarsi all’interno di un corpo politico (quello dei 5S) nato sulla base di pulsioni molto diverse.L’Identità non è mai un’astrazione. Ma si forma relazionalmente attraverso le riposte che si danno alle istanze della realtà con cui si ha a che fare. Così oggi, a 10 anni di distanza, dalla sua nascita, il Movimento 5 Stelle deve decidere chi vuole essere. In un mondo completamente trasformato, non basta più dire di essere antisistema. Semplicemente perché il «sistema» che si voleva combattere è in disfatta e occorre dichiarare per quale nuovo «sistema» si vuole lavorare.

In concreto, dopo aver preso la decisione di far nascere il governo, il Movimento — dopo essere stato attratto dalla logica sovranità — deve anche decidere se vuole essere la cellula da cui far nascere una nuova forza capace di lasciarsi definitivamente alle spalle le logiche finanziarie e burocratiche per intraprendere nuove politiche centrate sull’ambiente, la giustizia sociale, il lavoro. E questa la scelta di fondo che sta dietro il Conte 2. Forse ciò a cui allude il premier quando parla di «nuovo umanesimo», espressione generica impiegata per indicare la necessità di una prospettiva nuova di futuro. Una frase celebre di Richard Bach, scrittore di successo di qualche anno fa, diceva: «Quello che il bruco considera la fine del mondo, il resto del modo chiama farfalla». I 5Stelle sono al momento della verità: per nascere devono morire, decidendo quale farfalla vogliono essere. Salvo naturalmente non decidere. E così venire spazzati via dalla storia.

C’è qualcosa di disperato e autoassolutorio, nell’opposizione che la destra sta delineando: dentro e fuori dalle aule parlamentari. Vengono cancellati errori e contraddizioni commessi prima e durante la crisi provocata dal capo della Lega, Matteo Salvini. Si dimentica che al posto del nuovo commissario europeo agli Affari economici, l’ex premier Paolo Gentiloni, del Pd, poteva esserci un esponente del Carroccio. Bastava che Salvini lo indicasse, come gli era stato chiesto, mentre era in carica il governo con il M5S, e il suo potere era all’apice.

La stessa accusa a M5S e Pd di avere «preparato» una nuova maggioranza insieme con le cancellerie occidentali prima della crisi formale, evoca un complotto che la Lega ha finito senza volerlo per favorire. È dunque un’analisi che rischia di apparire di comodo. Ignora la pressione del partito sull’ex vicepremier e ministro dell’Interno affinché provocasse il voto anticipato subito dopo le Europee del 26 maggio. E cerca di far dimenticare un Salvini assediato dal resto del Carroccio, e quasi «costretto», nelle parole dell’ex sottosegretario Giancarlo Giorgetti, a rompere con i Cinque Stelle.

Ma nel momento sbagliato; ignorando le conseguenze dello strappo; e senza far dimettere i propri ministri fino all’ultimo. Salvini sostiene che forse ha «peccato di buona fede». Per un leader politico che aspira a guidare l’Italia, però, un’ammissione del genere è un’aggravante, non un’attenuante. Quanto alla richiesta di elezioni, ripetuta ieri con cori e insulti, sono state rimosse le offerte tardive di Palazzo Chigi al grillino Luigi Di Maio da parte del leader leghista, pur di andare avanti.

C’è da chiedersi se il profilo estremista che l’opposizione si sta dando sia una scelta strategica; o solo la conseguenza a caldo di una crisi surreale, che ha lasciato frustrazioni e lividi anche personali. A guardare bene, c’è più coerenza nell’evocazione della «piazza» da parte di FdI di Giorgia Meloni, da sempre all’opposizione di tutto. Puntare sul fallimento del riaggancio dell’Ue da parte dell’Italia, additando solo un trasformismo che pure è vistoso, sa di «tanto peggio tanto meglio». Il problema è quanto può durare un approccio del genere.

Se l’esecutivo tra M5S e Pd reggerà, un muro contro muro come quello visto in queste ore, invece di logorare il governo promette di sottolineare i limiti di una destra forte nel Paese ma incapace di contare. L’accusa al premier Giuseppe Conte di essere come il tecnico Mario Monti del 2011 trascura una differenza vistosa: questo è un governo politico, puntellato dalla Commissione europea e quasi condannato a far convivere e forse avvicinare due forze agli antipodi.

Altro che Parlamento senza maggioranza. Quello uscito dalle elezioni del 2018 ne nascondeva addirittura due. Una ha espresso il governo più a destra dai tempi di Tambroni, l’altra quello più a sinistra dai tempi di Parri. Il più sovranista e il più europeista. E sempre con lo stesso premier. Bisogna ammettere che i parlamenti, da Londra a Roma, dimostrano una notevole capacità di resistenza: lottano per non farsi sciogliere, e non gli manca certo la fantasia.

D’altra parte sarebbe ingenuo pensare che in un mese la società italiana sia cambiata tanto da giustificare un tale ribaltamento. Agosto è troppo breve e troppo caldo per una rivoluzione. Siamo più o meno quelli di prima, solo un po’ meno abbronzati (Salvini molto meno).

Eppure un mese fa il Senato votava la fiducia al decreto Sicurezza bis, e ieri la stessa aula ha votato la fiducia a un governo che ha in programma di riscriverlo. Gentiloni ha appena preso posto sulla poltrona che a primavera sembrava di Giorgetti, e la Bellanova è su quella di Centinaio. Sembra di essere in Sliding Doors.

Che cosa è successo? Per spiegarlo, i politici di entrambi gli schieramenti tendono ad avvalersi, certo inconsapevolmente, della metafora con cui Benedetto Croce spiegò il passaggio dall’Italia liberale a quella fascista: l’invasione degli Hyksos . Gli «altri», i vincitori, chiunque essi siano, sono infatti sempre degli usurpatori, alieni infiltratisi nel Palazzo con la forza o con l’inganno, cacciati i quali si potrà tornare allo spirito autentico degli italiani. Per la sinistra Salvini al Viminale è stato una «parentesi morale», finalmente chiusa; mentre per la destra Di Maio agli Esteri è un tradimento nazionale, tragicamente aperto.

Ma in realtà l’Italia di settembre è uguale a quella di luglio: piena di problemi, acciaccata e impaurita, solo un po’ più divisa, perché la crisi ha lasciato un sedimento di rancore molto profondo, aggravando la tendenza italica alla «democrazia dissociativa», in cui gli schieramenti non si riconoscono mai legittimità reciproca, e l’obiettivo dell’azione politica non è il compromesso alla ricerca delle migliori soluzioni, ma la lotta all’ultimo sangue per l’annientamento del nemico.

Restano perciò intatte sul campo tre grandi questioni, una delle quali favorisce la destra, una la sinistra, e l’altra il centro (che non c’è, ma proprio per questo potrebbe prima o poi esserci). Vediamole.

Il primo tema è il #nazionalismo. È un sentimento popolare che non si è dissolto con la chiusura autunnale del Papeete. E che anzi oggi la Meloni (evidentemente più pimpante del collega, non avendo sbagliato il pronostico sull’alleanza con i Cinquestelle), potrebbe interpretare in modo anche più aggressivo. Gli avversari tendono a presentare il nazionalismo — che si manifesta sotto le forme più varie, dalla chiusura dei porti agli immigrati, delle frontiere ai capitali, delle dogane ai commerci — come una forma di nostalgia anacronistica. Sbagliano. La destra italiana non è affatto provinciale, perché le sue idee, da Trump a Johnson, da Bolsonaro a Orbán, fanno eco nel mondo. La «grande paura», che la crisi del 2008 ha scatenato nei cittadini dell’Occidente, non è finita. La maggioranza degli italiani è ancora contraria ad accogliere tanti immigrati come in passato. Dunque per il ministro Lamorgese, e ancor più per il governo, è vitale dimostrare che si può ottenere lo stesso risultato (o quasi) di Salvini senza finire indagati per violazione della legge del mare e dell’umanità. E ha solo una speranza per riuscirci: un accordo per la distribuzione degli arrivi con l’Europa.

E qui veniamo al secondo grande tema che rimane sul terreno dopo l’agosto sull’ottovolante: Bruxelles. Se con questo nome intendiamo la Commissione Ue, il nuovo governo ha il vento in poppa: le ha tolto le castagne del sovranismo dal fuoco. E non per un complotto, come dice Salvini. È che la destra sovranista ha perso le elezioni europee e Salvini ha fatto finta di non capirlo. Così si è incaponito a votare contro la presidenza della von der Leyen, mentre l’amico Orbán cuciva invece l’accordo con i Popolari tedeschi. Che errore. L’idea di dar vita a un governo anti-europeo e filo-russo nel cuore del Mediterraneo era lievemente azzardata, e infatti non ha retto: le vie delle cancellerie sono infinite, e perfino Trump ha salutato «Giuseppi due» come una benedizione. Infatti Di Maio si è sfilato, e su Ursula si è davvero rotta la maggioranza giallo-verde. Ma la trojka Gentiloni-Gualtieri-Amendola, che si è presa l’Europa, farà bene a non dimenticare che oltre (e sopra) la Commissione, pronta a fare sconti, ci sono i governi, i quali non fanno regali, e ancor più su i mercati, i quali fanno solo conti. La flessibilità sarà perciò l’ennesima occasione sprecata, se verrà usata per comprare consenso invece di costruire crescita.

Infine, siccome la realtà è cocciuta, il terzo grande tema: tra governi di destra e governi di sinistra, qui non si vede più il #centro del sistema. Nessun corpo fisico può restare a lungo in equilibrio senza un centro, e a Conte non basterà fare l’equilibrista per stare in piedi.

Una possibilità è che i Cinquestelle si costituzionalizzino, si trasformino cioè da forza «contro» il sistema a forza critica «nel» sistema. Sembra essere il sottinteso che li ha spinti al governo con il Pd, e paradossalmente ha spiazzato proprio il moderato Di Maio, apparso così impietrito e poco a suo agio sui banchi del nuovo governo da far temere che non asseconderà il progetto, forse per lui troppo Elevato. Un’altra possibilità è che il nuovo centro nasca dall’interno del Pd, Renzi si propone come il catalizzatore di un trasformismo parlamentare che più che alla durata di questo governo guarda a quella della legislatura. E ciò che resta di Forza Italia, così platealmente assente dalla piazza dell’opposizione, sembra quasi offrirsi a una nuova leadership moderata, da qualsiasi parte provenga. Infine c’è una terza possibilità: che sia la destra, a caccia degli Hyksos , a radicalizzarsi fino al punto di spaventare il grande elettorato potenziale di cui oggi dispone, tra gazzarre in Aula e saluti romani, sprecando l’occasione migliore della sua storia per prendersi il governo.

Tutto è sembrato cambiare, insomma, in questo storico agosto. Ma, ahinoi, a settembre spunta sempre fuori qualcuno che ci ricorda che la guerra continua.