Il contenuto della telefonata del presidente Donald Trump al premier Giuseppe Conte testimonia la volontà della Casa Bianca di investire sul nuovo governo di Roma. È una scelta che si spiega con quanto sta avvenendo in Europa dove l’Italia è un Paese di frontiera fra l’Occidente e i suoi temibili rivali del XXI secolo: la Russia e la Cina. Davanti alla platea di Cernobbio l’ex capo della Cia David Petraeus ricorre alla definizione “Seconda Guerra Fredda” per descrivere la sfida strategica di Pechino e Mosca al patto transatlantico mentre lo storico scozzese Nail Ferguson preferisce adoperare l’espressione “Tech War” per sottolineare come l’aspetto cyber ne sia la caratteristica prevalente. Questo spiega perché il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg è impegnato a preparare il summit dell’Alleanza di dicembre a Londra con un tema all’ordine del giorno: come rispondere alle rivalità sempre più aggressive di Russia e Cina, accomunate dalla volontà di cambiare lo status quo internazionale a loro favore, indebolendo Europa e Stati Uniti. I quattordici turbolenti mesi di governo gialloverde hanno relegato l’Italia ai margini del dibattito interno alla Nato su come rispondere alle sfide di Russia e Cina ma ora che Conte guida un nuovo esecutivo c’è l’opportunità di recuperare in fretta il terreno perduto.

 

Anche perché mentre sul fronte di Bruxelles la nomina di Gentiloni alla commissione Ue, Gualtieri al Tesoro ed Amendola agli Affari europei inviano segnali rassicuranti ai partner sulla volontà di partecipare alle riforme dell’Eurozona, sul fronte transatlantico restiamo invece fra i Paesi più distratti nel sostenere la missione di Stoltenberg di adattare la Nato alle nuove minacce strategiche. Da qui l’importanza di quanto avvenuto negli ultimi giorni nei nostri rapporti con Cina e Russia. L’irritazione di Pechino nei confronti di Conte per l’adozione – nel primo consiglio dei ministri del nuovo governo del Golden power sulla partecipazione di aziende straniere ad appalti della rete 5G lascia intendere che Xi Jinping ha interpretato l’adesione formale dell’Italia alla “Nuova Via della Seta” come la genesi di un patto politico simile a quello siglato con Grecia e Ungheria. Ovvero capace di estendere la zona di influenza cinese nel Vecchio Continente. Così come la detenzione nel carcere di Poggioreale del manager russo Aleksandr Korshunov – su mandato di cattura Interpol per spionaggio industriale anti-Usa – solleva il dubbio che nel nostro Paese sia stata creata di recente una rete di agenti russi impegnati a raccogliere informazioni sensibili. A conferma della volontà del Cremlino di sfruttare le crisi politiche interne nei Paesi europei per far avanzare i propri interessi strategici. In entrambi i casi il premier Conte, affiancato dal neo-ministro degli Esteri Luigi Di Maio, si trova ad affrontare questioni di primaria importanza: nel caso del 5G si tratta di definire nuovi standard di sicurezza nei rapporti con Pechino per evitare di soccombere in una “Tech War” nella quale il vantaggio cyber dei cinesi sull’Occidente rischia di consolidarsi mentre sul presunto spionaggio russo si tratta di resistere alle pressioni del Cremlino – che vuole riottenere in fretta il sospetto agente – e fare quadrato con Washington nella guerra segreta che la oppone a Mosca in più Continenti. Da come Conte gestirà le tensioni in atto con Pechino e Mosca sarà possibile comprendere in che maniera il governo si pone rispetto all’alleanza transatlantica e quale valore assegna al vertice Nato di fine anno. E poiché il capo della Farnesina è Di Maio, leader dei Cinquestelle portatori di ben note istanze terzomondiste, il test per lui è ancora più evidente: ha l’occasione di dimostrare in fretta quale valore assegna alla Nato.

Pensavamo, ingenuamente, che il livello del nostro deficit pubblico fosse una questione tecnica. Queste ultime ore ci hanno fatto capire come sia soltanto politica. Alcuni economisti di stampo keynesiano ritengono che in un momento di crisi (ma quando non lo siamo?) sia conveniente spendere più di quanto si ha in cassa, infischiandosene dei debiti che si contraggono. Altri più rigorosi, e sentendo il peso del debito accumulato dal passato, ritengono invece che oggi la spesa pubblica produca benefici immediati risibili, e invece costi sociali in prospettiva enormi. In mezzo i pragmatici, che ci sembrano i più ragionevoli. Se deficit si deve fare, almeno si faccia per ridurre le imposte e non per congegnare nuovi piani di spesa pubblica. Secondo il principio intuitivo per il quale un euro restituito ai contribuenti ha più valore di un euro prestato ai burocrati. Ma, appunto, si tratta di questioni tecniche. Mai come in queste ore, dicevamo, è diventato del tutto chiaro che la questione del deficit pubblico italiana, è soprattutto politica. Qualcuno si ricorderà la passata Finanziaria giallo-verde e quell’asticella imposta al 2 per cento. Poi diventato 2,04. Abbiamo letto tonnellate di articoli, dichiarazioni e pensose riflessioni sui rischi che correvamo nell’allargare il nostro deficit. La critica non andava alle misure pensate dal passato governo, ma al numeretto in sé. Oggi improvvisamente il deficit non è più un problema. Ci si compiace del fatto che la nouvelle vague del governo renda più accettabili in Europa sforamenti del deficit. Anche se nessuno sa per quali fini. Chi pensa alla riduzione del cuneo fiscale, chi a nuove assunzioni e programmi di spesa sociale. Ma il punto non sono gli interventi: è il numeretto magico. Oggi richiedere all’Europa maggiore flessibilità, così si dice, non è più un problema. Come peraltro non lo è stato per tutti i governi precedenti. Il giro di valzer questa volta è talmente repentino che (…) (…) è sfacciato. Sarebbe più serio, come dicono quelli che scrivono e pensano bene, che si dicesse chiaro e tondo, ad esempio, che maggiore deficit per fare la flat tax non è accettabile, ma per assumere i precari della pubblica amministrazione invece sì. Almeno si tratterebbe di un dibattito tecnico e se volete politico, nel senso più alto del termine. Niente di tutto ciò sta avvenendo. Oggi i commissari europei sono disponibili ad aiutare l’Italia. Dicono. In realtà sono disponibili ad aiutare questa maggioranza. Che a sua volta sarà a loro disposizione.

Uno non fa in tempo a rallegrarsi perché la neoministra dell’In te rn o Luciana Lamorgese non sta su Facebook, Twitter e Instagram, e già gli tocca leggere le prime sparate di alcuni suoi colleghi. Ancora non sanno dov’è il loro ufficio, ma già annunciano o minacciano leggi, decreti, grandi opere e financo dimissioni. Nel primo Consiglio dei ministri, il premier Giuseppi li aveva pregati di “evitare sgrammaticature istituzionali”, che è il suo modo per dire “niente cazzate”. Poi quelli, appena usciti, han subito dato aria alla bocca. Si temeva che l’incontinenza verbale giocasse brutti scherzi a Di Maio&C., quelli della ola sul balcone e dell’abolizione della povertà. Invece la prima a sbracare è stata Paola De Micheli, reduce da un’imbarazzante esperienza di commissario alla ricostruzione del Centro-Italia, come se a quella povera gente non fosse bastato il terremoto. La neoministra dei Trasporti, che pare sempre in procinto di impugnare il mattarello e tirare la pasta dei tortellini, appena assisa sulla poltrona di Toninelli ne è stata subito contagiata e ha espettorato un’intervista a La Stampa tutta asfalto e cemento. Al confronto Lunardi, “ministro con Trasporto”, era un dilettante. In barba al programma appena sottoscritto, che subordina ogni opera a una seria analisi degli “impatti sociali e ambientali”, Lady Turtlèn ha annunciato che “ostacoli politici ai cantieri non ce ne saranno più” (come se prima ce ne fossero: Toninelli non ha bloccato nulla, purtroppo). Tav di qua, maxi-Gronda di là, forza Atlantia e, già che c’era, pure una parolina inutile su Alitalia (che tocca al Mise), Libia (affari Esteri), migranti e dl Sicurezza (roba del Viminale). Quanto alle analisi costi-benefici, fa trapelare la Paola sul Messaggero di Caltagirone, “verranno aggiornate e lette non in chiave ideologica, ma di s is t em a ”: vedi mai che 2 più 2 faccia 3. Il risultato, ovviamente, è un ribollio di rabbia tra i 5Stelle, costretti a mordersi la lingua per non mandarla al solito posto. E una garbata irritazione – per usare un contismo – di Conte, che s’era appena liberato dell’onniministro Cazzaro e se ne ritrova un altro in gonnella. Anzi due, perché pure Lorenzo Fioramonti è debole di prostata: mentre si recava nel nuovo ufficio, Mister Istruzione già minacciava di dimettersi se non avrà subito 3 miliardi sul suo tavolo (ancora mai visto). Per carità: come dice Vittorio Feltri su Salvini, “l’ora del coglione arriva per tutti”. Ma di questo passo saremmo meno ottimisti della De Micheli: “Se andiamo avanti così, faremo assieme molte cose buone per il Paese”. No, cara: se vai avanti così, non arrivate a fine mese.

R ischiamo tutti, credo, di giudicare questo governo solo per il “peccato originale” da cui nasce: una manovra di Palazzo, parzialmente pilotata dalle autorità europee, volta a impedire con tutti i mezzi che si ritorni al voto. Non è una novità: quando il popolo rischia di fare la scelta sbagliata, i “sinceri democratici” fanno di tutto per aiutare il popolo a non sbagliare. E la via maestra è sempre quella: evitare il voto. Ma concentrarci sulla genesi di questo governo è sterile. Dopotutto, cosa fatta capo ha. Molto più importante, arrivati a questo punto, è capire che cosa questo governo ha in serbo per noi. Quali sono le sue priorità. Ma soprattutto: qual è l’idea dell’Italia che lo ispira? Qual è la diagnosi delle esigenze del Paese che guiderà le sue scelte? Perché se prevedere che cosa esattamente farà è praticamente impossibile, capire qual è la sua visione dei problemi dell’Italia non è troppo difficile. E’ vero che il programma in 29 punti è estremamente generico, confuso, e al momento privo di ipotesi su come trovare le risorse per fare le innumerevoli cose che si vorrebbero fare. Però proprio quella congerie di impegni generici, alla fine, un’idea dell’Italia la trasmette. Quale idea? L’idea sembra questa: il problema dell’Italia sono le diseguaglianze economico-sociali.

Ci sono decine di categorie che meriterebbero un sostegno e un aiuto. Il problema centrale, dunque, è un problema di redistribuzione. Sono segnali di questa visione dell’Italia le proposte più incisive del programma: riduzione del costo del lavoro ad esclusivo vantaggio del lavoratore; salario minimo a 9 euro; “giusto compenso” per i lavoratori autonomi. Proposte cui si aggiungono una miriade di spese a sostegno di gruppi, categorie e settori più o meno particolari. Le conseguenze effettive della stragrande maggior parte di queste misure sono tre: più debito pubblico, maggiori costi per le imprese, ulteriore riduzione dei posti di lavoro regolari. Ma è fondata l’immagine dell’Italia che guida questa diagnosi e questi rimedi? Se davvero si pensa che il problema cruciale dell’Italia sia la redistribuzione della ricchezza, e inoltre si aderisce alla filosofia della “decrescita felice”, più volte invocata dai grillini (ed esplicitamente sottoscritta da uno dei ministri del nuovo governo), allora non è un problema il fatto che l’aumento dei costi per le imprese distrugga occupazione e riduca la torta del Pil: avremo tutti sempre meno ricchezza, ma almeno – grazie al saggio intervento dello Stato – sarà distribuita in modo più equilibrato. Nel momento in cui la decrescita non è un tabù, anzi magari è diventato un risultato desiderabile, l’assistenzialismo va benissimo. Se però si pensa che, per fare le mille cose di cui si dice esservi assoluto bisogno, dalle nuove infrastrutture al potenziamento della scuola e della sanità, ci vogliono più risorse, molte di più di quelle di cui disponiamo oggi, allora l’assoluta mancanza di proposte incisive per rendere meno difficile fare impresa (e creare occupazione) diventa un problema serissimo. Il fatto che la riduzione del cuneo fiscale vada tutta in busta paga – come appare dalle prime anticipazioni – senza incidere sui costi dell’impresa, è un segnale preoccupante. Come è preoccupante che si parli di salario minimo a 9 euro, un livello che molte imprese (specie al Sud) non si potrebbero permettere. Ed è ancora più preoccupante che non una parola venga spesa sul flop del reddito di cittadinanza, fin qui capace di elargire un reddito, ma del tutto incapace di offrire un lavoro. La realtà, temo, è che la diagnosi di questo governo confonde le cause con gli effetti. E’ vero, molti stipendi e salari in Italia sono troppo bassi, ma la ragione per cui lo sono è solo in minima parte l’avidità o la mancanza di scrupoli di alcuni datori di lavoro. La vera ragione è che la nostra produttività è bassa e, caso unico nel mondo sviluppato (insieme a quello della Grecia), è ferma da venti anni. Pensare che le cose possano andare a posto alzando le retribuzioni della minoranza che ha già un lavoro, senza aver prima disboscato l’immane rete di tasse e adempimenti che soffocano i produttori, è una pericolosa illusione. Capisco che l’idea possa piacere agli ideologi della decrescita felice, e sia perfettamente in linea con la visione del mondo dei grillini. Capisco di meno che se la stia facendo piacere il Pd, un partito che fino a poche settimane fa ancora non aveva preso congedo dalla cultura del lavoro, e anzi proprio su questo punto orgogliosamente rivendicava la propria diversità dai Cinque Stelle.

L’ agosto torrido finisce in freddo autunnale per il movimento nazional-populista, orgogliosamente sicuro, solo un anno or sono, di conquistare d’assalto le democrazie occidentali, Europa ed America, occupando il XXI secolo. Invece, per la sorpresa dei profeti dell’intolleranza, il 2019 segna le prime, brusche ed inaspettate, sconfitte per le forze della rabbia “sovranista”. L’uscita dal governo italiano di Matteo Salvini e della sua Lega di movimento, così aliena dalla Lega di governo dei presidenti Maroni e Zaia, ma anche del vecchio sindaco Formentini a Milano, non è solo errore tattico.

Ma soprattutto la prova di come facile ed entusiasmante sia montare la tigre del risentimento popolare, e quanto difficile imbrigliarla, senza venirne travolti. Gli stessi alleati di Salvini, i 5 Stelle di Beppe Grillo, devono ripiegare umili le ali davanti alla realtà, con il comico a predicare la calma, mentre il Luigi Di Maio ministro degli Esteri promette di esser solo omonimo dell’arruffapopoli che aizzava i gilet jaunes in rivolta contro il presidente Macron, e ascoltare compunto i consigli dei nostri ambasciatori alla Farnesina. Dove sono, del resto, i mitologici gilè gialli, che volevano ghigliottinare online il moderato presidente Macron? A Parigi, tra i turisti dei selfie, non si vedono più. Le elezioni europee di maggio hanno negato ai populisti la presa di Bruxelles, e i talk show speziati di fake news non nascondono la crisi. La recessione economica tedesca, e l’avanzata della destra AfD in Sassonia e Brandenburgo, non minacciano la stabilità a Berlino, mentre la Ursula von der Leyen guida un’Europa senza eccessi, perfino votata dai grillini, ieri a raccogliere firme contro l’euro, oggi alleati degli europeisti Gualtieri, Guerini, Amendola, Gentiloni neo commissario europeo, Sassoli presidente del parlamento UE. E Brexit? Dal 2016, una pletora di intellettuali ce ne illustra la portata da cambio epocale, capace di ridare a Londra l’egemonia imperiale perduta con la Regina Vittoria, ispirando poi Italexit, con lira e minibot tricolore. Come sia andata lo vedete, perfino il fratello deputato abbandona il premier conservatore Johnson, che ha avuto il dubbio onore, dopo il Conte di Rosebery nel 1894, di venir battuto al voto di debutto a Westminster, senza sapere come cavarsi dalla trappola in cui si è cacciato. L’elenco degli scacchi dell’armata nazionalista si allunga, il Partito della Libertà austriaco sgonfiato dagli scandali, i populisti spagnoli, a destra e sinistra, incapaci di matare il socialista Sanchez. Arringare lo scontento popolare via Facebook è diverso da governare le economie globali, e la grinta dei caudillos si spegne subito in smorfia amara. Sarebbe però un errore tragico se le forze riformiste e raziocinanti, di matrice progressista o conservatrice, si illudessero di aver battuto l’insorgenza dei ceti scontenti. Malgrado sondaggi pessimi, non c’è nessuna evidenza che il presidente Trump lascerà, nel 2020, la Casa Bianca all’opposizione e il centrista democratico Biden è circondato da movimenti antisistema, vedi il senatore socialista Sanders, come a Londra l’estremista laburista Corbyn sfida Johnson con analoghi, stridenti, toni di rabbia. La stagione populista ha liberato fantasmi di odio, xenofobia, antisemitismo ancora rampanti in Polonia, Ungheria, Russia, sconfiggerli non sarà né facile, né indolore. Ridurre le disuguaglianze economiche, dare salario e identità a chi è escluso dai saperi digitali, integrare i lavoratori impoveriti dall’economia dei robot con gli immigranti, in uno sviluppo sostenibile, è la strada per ritrovare il consenso delle nostre comunità. La Storia sta offrendo un’imprevista chance, sprecarla sarebbe esiziale, a partire dal premier Giuseppe Conte e i suoi ministri. Il tempo stringe, davanti al solito status quo burocratico e imbelle, la controffensiva populista sarà furiosa e stavolta irrefrenabile.

Che cosa intendiamo per «eversione» e «violenza» quando adoperiamo questi due termini a proposito di molte situazioni politiche nuove che stanno sorgendo in Europa, le stesse che qui da noi a molti sono sembrate trovare espressione in alcune decisioni dell’ormai ex ministro degli Interni Salvini? Io credo che in una democrazia i due termini di cui sopra vadano adoperati solo quando una parte usa la violenza per condizionare e manipolare la vita politica in tutti i modi immaginabili, per impedire libere elezioni, per chiudere la bocca agli oppositori e così via: questa è l’eversione e la violenza che le è funzionale, come il fascismo ci ha insegnato fin troppo bene. Ma avendo detto queste cose in tv, Adriano Sofri mi sgrida accusandomi di colpevole distrazione. Infatti si può e si deve parlare di eversione, egli scrive (Il Foglio, 4 settembre), anche quando la violenza fisica è impiegata «contro i migranti tenuti in ostaggio, sofferenti, umiliati e offesi nelle imbarcazioni dei soccorritori»; come per l’appunto ha fatto Salvini, forte del fatto di poter impiegare una violenza per cui: «non occorrevano le squadre quando si poteva impiegare allo scopo i corpi militari e le forze dell’ordine dello Stato». Bene, con questi criteri Salvini è certamente un eversore criptofascista. Ma allora allo stesso modo, però, lo sono i governanti spagnoli di destra e di sinistra che a Ceuta e Melilla da anni sparano contro gli africani che vogliono superare il confine, lo sono i governanti di Malta che praticano anche loro la politica dei «porti chiusi», lo è Macron che a Calais rastrella gli immigrati per non fargli attraversare la Manica e a Ventimiglia gli impedisce con la forza di entrare in Francia, e lo è anche la signora Merkel, che quando occorre li rispedisce in Italia. Tutti eversori e tutti fascisti, caro Sofri? O questo invece non è violenza?

Il Conte Due è una realtà confermata dalle intenzioni programmatiche che il presidente del Consiglio ha confidato ieri al Corriere. E a Bruxelles abbiamo mandato un rappresentante molto apprezzato. La nostra politica estera è dunque ripartita nel segno di quel pragmatismo che tanto faceva difetto al governo precedente? Stiamo già superando quell’autolesionistico isolamento che pareva essere la bandiera dell’Italia sovranista? La risposta è sì, ma con una nota a piè di pagina. Perché all’Italia consapevole che si va rapidamente disegnando serve anche un Di Maio Due. Di Maio alla Farnesina è stata una scelta per molti versi sorprendente, probabilmente influenzata dalla «vittoria» del Pd nel braccio di ferro con i 5 Stelle sulla carica di vicepresidente del Consiglio. Ma il ministero degli Esteri, da tempo marginalizzato nelle scelte di politica internazionale, non avrebbe dovuto essere ridotto a premio di consolazione. Al contrario, serve ora un rilancio della nostra diplomazia e serve un ministro che abbia voglia di guidarla lungo sentieri meno scoscesi di quelli esplorati, senza esiti positivi, dal precedente gabinetto. Per questo abbiamo bisogno di un Di Maio Due. E anche perché, se è vero che la politica estera la farà soprattutto il presidente del Consiglio d’intesa con il presidente della Repubblica, e con loro la faranno il ministro dell’Economia (margini di flessibilità concessi dall’Europa anche grazie alle difficoltà tedesche) e il ministro dell’Interno (migranti e Libia), sarebbe un grave errore pensare che Luigi Di Maio intenda rinunciare a farsi sentire e valere nel nuovo ruolo. Piuttosto, la richiesta che gli giunge in queste ore anche dall’esteroèdi evitare alcuni svarioni che hanno caratterizzato il suo agire nell’Ancien Régime gialloverde. E va detto che Di Maio, nelle sue prime mosse, ha mostrato di aver capitoecolto la sfida. Dati per acquisiti i nostri legami europei ed atlantici (nemmeno Salvini li contesta, anche se su questo terreno è sempre a portata di mano l’italica retorica) il primo segnale positivoèvenuto quando il nuovo governo non era ancora nato e i 5 Stelle hanno votato in sede europea a favore della presidenza di Ursula von der Leyen mentre la Lega votava contro. Quelle scelte così diverse hanno segnato l’inizio del declino di Salvini (di pari passo con la brutta e forse non conclusa vicenda del Metropol di Mosca) perché hanno sancito la «non recuperabilità» del leader della Lega in una fase nella quale l’Europa e l’Occidente intero vivono una difficile transizione e devono poter sapere su chi è lecito contare e su chi no. Questo è l’essenziale cambiamento che porta il nuovo governo: l’Italia torna ad essere affidabile, non perché debba obbedire a questo o a quello, non perché abbia perso una sovranità che non è stato Salvini a scoprire, ma piuttosto perché vuole e deve partecipare al dibattito internazionale, perché deve fare le sue riflessioni sugli equilibri mondiali in profondo cambiamento (relazioni transatlantiche comprese), perché deve partecipare invece di ordire sabotaggi suicidi come sarebbero l’uscita dall’euro oppure sgangherate promesse strategiche oggi a Mosca e domani a Washington. Di Maio dovrà comprendere velocemente che il dialogo (a cominciare da Mosca e Pechino, s’intende) non può rinunciare alla fondamentale differenza tra alleati e cordiali interlocutori. E dovrà se possibile sanare un antico male della nostra diplomazia e della nostra presenza internazionale: quello di anteporre la presenza all’iniziativa, la «politica del sedere» (come diceva con una punta di ironia l’ambasciatore Quaroni) alla elaborazione di idee e di proposte. Abbiamo, soprattutto in Europa, un bisogno disperato non soltanto di ricevere ma anche di fare suggerimenti costruttivi, di entrare nel dibattito, di farci degli amici con i quali domani poter fare alleanze. Paolo Gentiloni sarà un valido biglietto da visita della «nuova» Italia, a condizione che da noi venga correttamente capito il suo ruolo di commissario europeo, non italiano. Ma i segnali giusti devono venire anche da Roma, da Palazzo Chigi e dalla Farnesina soprattutto. E tanto meglio se troveranno conferma le voci secondo cui i 5 Stelle, un tempo condomini dell’orrendo Farage nei gruppi del Parlamento europeo, si starebbero ora avvicinando al gruppo liberale. Macron permettendo. Il nostro ritardo internazionale richiederà a tutti, anche al ministro Di Maio che non dovrà essere troppo distratto o trattenuto dagli impegni del Movimento, lucidità e tempi stretti. D’intesa con la ministra dell’Interno, va colto subito il gradimento europeo al nuovo governo per superare Dublino attraverso una rete di accordi che è inutile voler imporre a chi li rifiuta come Polonia e Ungheria (semmai a costoro andrebbe imposto un «prezzo» in sede di bilancio) ma che sono indispensabili per sdrammatizzare la questione migranti. E visto che la guerra civile libica è parte della stessa questione, dovremo guardarci dal ripetere formule inutili se non dannose come quella della conferenza di Palermo, puntando invece al coinvolgimento, in un dialogo politico che superi i vani sforzi dell’Onu, degli Usa, della Russia, della Cina e beninteso degli europei a cominciare dalla Francia. E smettiamola di montarci la testa, quando a Washington ci dicono che per la Libia siamo in una comune «cabina di regìa» (tanto che Trump ha preso le parti di Haftar). E ancora, ammesso che sia stata una buona mossa quella di firmare il celebre memorandum d’intenti con la Cina, cerchiamo di trarne qualche vantaggio reale: siamo a 2,7 miliardi, mentre altri europei senza firmare viaggiano tra decine di miliardi. Decisamente ci serve un Di Maio Due. Per lui e per il suo Movimento si tratta di una grande occasione, da verificare senza pregiudizi. Per l’Italia si tratta, se tutto andrà per il meglio, di riscoprire gli interessi nazionali.

Il Regno Unito è destinato a morire». Nicola Sturgeon, premier del governo autonomo di Edimburgo, è una donna minuta e gentile: perfino nei comizi parla a bassa voce. Non ha per niente l’aspetto di un Braveheart, l’eroico condottiero in kilt che sette secoli or sono andò vicino a conquistare l’indipendenza per la Scozia, prima di venire catturato con l’inganno dagli inglesi e squartato su una pubblica piazza di Londra, come ben sa chi ha visto l’epico film che porta il suo nome. Eppure, intervistata questa settimana da Repubblica, la leader dello Scottish National Party (Snp), il partito indipendentista scozzese, ha previsto senza esitazioni la dissoluzione del regno di Elisabetta II. A fare crollare l’unione tra Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord, pronostica la “first minister” edimburghese, sarà la Brexit: l’uscita dall’Unione Europea, che il primo ministro Boris Johnson promette di portare a compimento entro il 31 ottobre, anche a costo di andarsene con il “no deal”, ovvero senza alcun accordo che sostituisca quarant’anni di legami con il continente. Un’ipotesi giudicata catastrofica da tutti gli esperti, principalmente per le sue conseguenze economiche. Ma un effetto non meno dirompente, perlomeno per i suoi abitanti, sarebbe la fine della nazione in cui sono nati e cresciuti. Il Regno Disunito. Gli scozzesi ci avevano già provato nel 2014, perdendo il referendum per l’indipendenza 55 a 45 per cento. Uno dei fattori decisivi fu la consapevolezza che, se la Scozia avesse lasciato il Regno Unito, avrebbe contemporaneamente abbandonato anche la Ue, con il rischio di non esservi più riammessa, per il diritto del governo britannico (come di ogni stato membro) di porre il veto all’ingresso di un nuovo Paese. Per ragioni ideali e pratiche, i discendenti di Bravehart non volevano ritrovarsi fuori dall’Europa: per questo molti di loro votarono contro l’indipendenza nel referendum di cinque anni fa. Paradossalmente, oggi, è la Brexit che li porterebbe fuori dall’Europa: perciò la premier Sturgeon vuole indire l’anno prossimo un nuovo referendum per l’indipendenza. I sondaggi dicono che stavolta potrebbe vincerlo. E non ci sarebbe Londra a mettere il veto alla riammissione della Scozia alla Ue. Le istanze separatiste sono un’antica storia su quelle fin qui chiamate le “isole britanniche”. È stata l’Unione Europea ad ammansirle, se non a renderle obsolete. Che senso aveva lottare per l’indipendenza dall’Inghilterra, quando tutti — inglesi, scozzesi, nord-irlandesi, gallesi — appartenevano comunque alla Ue? Ma il senso, adesso che il Regno Unito starebbe per divorziare dall’Europa, diventa di nuovo chiaro: non solo in Scozia, anche in Irlanda del Nord e Galles. Finora ognuna delle quattro parti in cui è suddiviso il Regno poteva avere una “nazionale” soltanto nel calcio. Adesso ciascuna preferisce giocare per conto proprio. Inghilterra compresa. I brexitiani, infatti, sembrano fregarsene del collasso dell’Unione: se il prezzo per lasciare la Ue è perdere la Scozia e gli altri, si dicono pronti a pagarlo. Da un lato hanno nostalgia dell’Impero britannico. Dall’altro, il nazionalismo li porta a detestare i propri concittadini dal diverso accento. Il regno millenario di Elisabetta, i cui riti a base di corone e carrozze contribuiscono a dargli un’aria di rassicurante, quasi eterna stabilità, rischia così di andare in pezzi. Qualcuno dovrà avvertire la regina, che in questi giorni, come ogni anno, trascorre le vacanze nel suo adorato castello di Balmoral, in Scozia. Dove potrà andare in ferie l’estate prossima?

Se davvero il nuovo governo intende avviare una efficace politica antievasione, la lotta al contante può essere un efficace bazooka. Basta avere la volontà politica di farlo funzionare. Tranne in un caso, in Italia non c’è mai stata. Nel programma del nuovo governo Conte un punto qualificante è rappresentato dalla lotta all’evasione fiscale ed al crimine organizzato. Nel perimetro monetario e finanziario c’è uno strumento che consentirebbe di fare passi in avanti in entrambe le direzioni: la lotta all’utilizzo della moneta contante. In linea di principio, la ragione è semplice da comprendere. L’evasione fiscale e le attività messe in atto dal crimine organizzato hanno due elementi comuni: sono reati che producono un reddito per chi li compie e contemporaneamente il legame tra il reo ed il criminale – sia esso un evasore o un mafioso – può aumentare la probabilità di scoperta del reato. Quindi il criminale ha tutto l’interesse di nascondere il suo legame con il reddito illegale – sia esso il frutto di evasione o di vendita di stupefacenti – attraverso una operazione di riciclaggio. Il contante è uno strumento di pagamento che può essere molto efficace ai fini di riciclaggio, date le sue caratteristiche di anonimato. Ma quanto è rilevante nella realtà italiana il legame tra l’economia grigia e nera da un lato ed il contante dall’altro? A questa domanda vengono di solito offerte due risposte opposte. Da un lato ci sono quelli che possiamo definire colombe, che vedono nella lotta al contante uno strumento necessario e sufficiente per combattere l’economia illegale nel nostro Paese: una radicale lotta al contante ridurrebbe evasione fiscale e crimine. Dall’altro lato possiamo porre i falchi, che considerano la lotta al contante uno strumento complessivamente inefficace: poiché il riciclaggio dei ricavi illegali può essere messo in atto anche con metodi diversi dall’utilizzo del contante, le limitazioni all’uso di tale mezzo di pagamento creerebbero esclusivamente un “effetto rimbalzo”: il reato di base – come l’evasione – verrebbe commesso comunque, e l’attività di riciclaggio passerebbe attraverso altri circuiti e/o settori; allo stesso tempo però, poiché le limitazioni al contante creano ostacoli alla realizzazione anche di operazioni lecite, l’effetto complessivo di tali normative risulta essere negativo. Chi ha ragione tra falchi e colombe? La risposta non può che essere empirica. Non è una risposta semplice, come tutti i quesiti che riguardano la stima dei fenomeni di economia illegale. I lavori internazionali comparati più recenti sul legame tra economia sommersa e contante che riguardano i paesi industrializzati negli anni più recenti mostrano innanzitutto che in generale le due variabili si muovono mano nella mano: al crescere dell’uso del contante cresce l’economia illegale. Ci sono delle eccezioni: da un lato, Germania ed Austria sono Paesi in cui un relativamente alto utilizzo del contante non è correlato ad una economia sommersa relativamente sviluppata; all’opposto, in Svezia il pressoché azzeramento del contante non corrisponde ad un azzeramento dell’economia illegale. Simulazioni econometriche consentono anche di stimare che riduzioni del 10% dell’uso del contante sono correlate a riduzioni del 2% dell’economia illegale, con una stima fino al 20% di minore economia illegale con un uso azzerato del contante. Per l’evasione fiscale in Italia, se proprio vogliamo un numero da calcolo da retro della busta, utilizzando la cifra circolata nei giorni scorsi di un’evasione stimata di quasi 34 miliardi di euro per la sola Iva, i vantaggi attesi di un’efficace lotta al contante non sarebbero affatto da sottovalutare. Certo nulla sappiamo dell’effetto rimbalzo, e non abbiamo i costi per le transazioni lecite; questi ultimi, peraltro, potrebbero essere minimizzati con una lotta al contante che non ne azzerasse l’uso, ma lo limitasse ad esempio in termini di importi e tagli di banconote. Inoltre, nessuno può negare per il nostro Paese la correlazione tra uso del contante e rischio riciclaggio, come mostrato da un recente studio della UIF – Banca d’Italia, che ha verosimilmente rafforzato la decisione delle nostre autorità di controllo di aumentare la soglia di attenzione sul fenomeno. È dei giorni nostri la notizia che gli intermediari dovranno offrire informazioni mensili e sistematiche sui clienti che fanno operazioni in contanti rilevanti. Insomma: la probabilità che la lotta al contante sia in Italia un bazooka contro evasione e crimine organizzato è molto alta. Ma nel nostro Paese l’analisi costi e benefici del fenomeno è stata sempre sconfitta dall’analisi politica: per i governanti combattere l’evasione è evidentemente molto costoso. Se si esclude il governo Monti, nessuno dei precedenti esecutivi ci ha mai seriamente provato. Sarà il nuovo governo Conte un esecutivo di cambiamento da questo punto di vista? Oppure sarà l’ennesimo caso di carta che non canta? Vedremo.

Cosa ci dice l’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello? Se si preferisce, cosa ci dice oggi più di quanto non ci abbia detto ieri, ora che gli atti di indagine su quella notte di sangue non sono più coperti da segreto? Molto, a ben vedere. Il 29 luglio scorso, prendendo la parola ai funerali, il comandante generale dell’Arma, Giovanni Nistri, usò parole urticanti: «Evitiamo al nostro Mario la dodicesima coltellata». In quella considerazione era comprensibile e condivisibile l’invito a non sporcare la memoria e il sacrificio di un carabiniere con ipotesi sulle circostanze della sua morte che avrebbero potuto ucciderlo una seconda volta, sfigurandone la reputazione e dunque il ricordo. O, peggio, trasformandolo in artefice sciagurato del proprio destino. Ma in quell’invito – il comandante ce ne darà oggi atto – c’era anche un riflesso pavloviano figlio di una cultura antica. Proprio quella che, per giunta, proprio il generale Nistri ha aggredito come nessuno prima di lui aveva fatto nel caso Cucchi e in cui, anche grazie a lui, una nuova leva di ufficiali e militari ha smesso di riconoscersi. Quella di un’istituzione che, per troppo tempo, ha confuso l’obbligo di trasparenza come un atto di debolezza. E l’evidenza dei propri errori non come un momento capace di chiamare alle proprie responsabilità i singoli e sanare uno strappo nella fiducia dei cittadini, ma come un processo all’istituzione tout court. Bene, è oggi evidente dalle carte dell’inchiesta della Procura di Roma che l’omicidio di Cerciello non nascondeva nessun inconfessabile segreto, nessuna manipolazione del quadro che accreditasse una verità fondamentalmente diversa, nella sua sostanza, da quella che appariva (è documentalmente provato che Cerciello fosse regolarmente in servizio e ignorasse l’identità dei due americani che lo avrebbero aggredito e del loro broker trasteverino). E tuttavia il giornalismo (a cominciare da quello di Repubblica) aveva colto allora quello che oggi è provato dagli atti. Un baco, definiamolo così, nella ricostruzione dei fatti della notte tra il 25 e il 26 luglio. Che lasciava la verità monca del suo presupposto, tutt’altro che irrilevante: le circostanze, diciamo meglio il contesto, in cui Cerciello era stato accoltellato a morte. Una su tutte. Che quella notte fosse disarmato. E che, come lui, fosse disarmato il suo collega, il carabiniere Andrea Varriale, al momento dell’agguato. Oggi sappiamo che, schiacciato dal timore di dover rispondere disciplinarmente per aver lasciato l’arma di ordinanza in caserma, Varriale aveva inizialmente mentito omettendo quella circostanza. Così come aveva dato indicazioni fuorvianti ai suoi stessi colleghi del Nucleo investigativo sugli aggressori, fino al punto da confondere due americani con dei “maghrebini”. Mentendo, Varriale proteggeva se stesso e consegnava alla sua catena gerarchica una ricostruzione che avrebbe tenuto lontane le polemiche. E che sarebbe stata anche fissata nell’informativa alla magistratura. Ma la sua bugia, come era prevedibile, non ha retto alle domande dei pubblici ministeri. Varriale si è convinto a dire la verità ed è dunque oggi alla luce del sole la questione che allora era stata omessa. Il baco, appunto. Che, all’osso, può essere riassunto così. Cerciello è stato vittima di una “prassi operativa” che, a Roma, come in tutto il resto del Paese, vorrebbe tenere insieme due cose che, insieme non riescono a stare. Soprattutto in estate. Parliamo di carabinieri in servizio in borghese nelle piazze di spaccio regolarmente posti di fronte a un’alternativa del diavolo: tradire la propria identità mostrando una pistola sotto una maglietta e dei bermuda. O, al contrario, accettare il rischio di muoversi disarmati a vantaggio dell’effetto sorpresa. Una banalità, qualcuno potrà dire. Che banale tuttavia non è, come l’omicidio di Cerciello dimostra. Dirlo, non è né vuole essere una dodicesima coltellata. Piuttosto, un omaggio al suo sacrificio. Perché non si ripeta.