Presentando le linee politiche cui si atterrà nel suo tentativo di formare il nuovo governo, il presidente Conte ha pronunciato due parole importanti e impegnative: nuovo governo e nuovo umanesimo. Parole da prendere sul serio da parte di chi le ha ascoltate e, prima ancora, da parte di chi le ha dette. Nuovo governo vuol naturalmente dire che esso sarà diverso da quello precedente. Nuovo umanesimo richiama indicazioni di origine cattolica, che caratterizzano l’attuale papato e l’azione sia della Chiesa cattolica italiana, che della Chiesa valdese. Ne è fondamento la prassi caritativa, ma comprende anche il laico rispetto della dignità di ogni essere umano. Una dignità che riguarda chi ne chiede rispetto per sé e, nella stessa misura, chi è chiamato a riconoscerla e proteggerla negli altri. La politica governativa nei confronti del fenomeno migratorio è terreno su cui l’annunciata novità e il nuovo umanesimo troveranno realizzazione o smentita. I tratti velleitari e crudeli dell’azione del precedente governo Conte, sono sotto gli occhi di tutti. È di questi giorni l’ennesima vergogna nazionale di quella nave impedita di attraccare e sbarcare il suo carico umano. Le immagini televisive che abbiamo visto impediscono di far finta di niente. Eppure da parte del maggior partito della nuova maggioranza parlamentare, i 5 Stelle, non è venuto alcun segno di resipiscenza rispetto all’appoggio che essi hanno dato alla linea imposta dal ministro dell’Interno Salvini. Di Maio ha anzi tenuto a rivendicare «tutto» quanto fatto dal governo ora dimissionario. La questione migratoria, depurata dalla sua attitudine a scatenare la propaganda elettorale, presenta livelli e difficoltà di natura diversa, a seconda che se ne veda la dimensione globale o che si debbano affrontare i casi concreti di persone che abbandonano i loro paesi per cercare rifugio o vita migliore in un altro. Gli Stati hanno il diritto – e persino il dovere – di elaborare una politica generale, che non può essere di apertura senza regole e limiti ai milioni di potenziali immigranti. Le persone che si affacciano sul Mediterraneo, dopo tragici viaggi, sono solo la punta emergente e non necessariamente la più debole e sofferente nei paesi di origine. È giusto che l’Italia affronti il problema nel quadro europeo. Quella è la sede degli accordi con i Paesi di partenza e transito dei migranti, della attivazione di corridoi umanitari e di vie legali di immigrazione. Ma intanto nel mare davanti alle nostre coste vi sono navi che hanno raccolto persone in pericolo. Non importa che esse abbiano accettato il rischio di simili traversate. Non importa che non abbiano titolo per entrare e restare nel territorio nazionale. La concreta situazione in cui si trovano fonda il dovere di dar loro soccorso. Un dovere che ha base nelle leggi e nelle convenzioni internazionali che l’Italia ha ratificato. Ma prima di tutto ha base nei principi di umanità, cui non può rinunciare il «nuovo umanesimo» del presidente Conte. Il governo precedente ha adottato prassi disumane nei confronti di singoli migranti giunti in prossimità o nelle acque territoriali, credendo che l’esempio terribile loro riservato serva ad ammonire gli altri che attendono e sperano. E serva pure a impedire l’attività delle navi delle organizzazioni non governative e – aspetto di cui non si parla – a disincentivare tutti i mercantili che attraversano il Mediterraneo e che non vogliono certo affrontare le difficoltà di sbarcare le persone, che pur sarebbero tenuti a recuperare dal mare. Il governo ha usato quelle persone come strumento della sua politica generale. È pensabile che PD e almeno parte dell’elettorato 5 Stelle possano tollerare una simile vergogna, pur di dar corpo alla nuova, improvvisa collaborazione di governo? Poiché il presidente Mattarella ha segnalato nel recente «decreto sicurezza» criticità, minimali e di stretta logica giuridica, si affaccia ora l’idea che, per dar segno di novità, si dia seguito a quei rilievi. Limitandosi però a questo. Sarebbe non serio e non adeguato al problema di dignità nazionale che la politica del precedente governo ha creato.

Il governo dei ricatti incrociati, sempre che nasca, ha un solo modo per recuperare un briciolo di credibilità agli occhi di un elettorato di sinistra esausto, a mezz’ore alterne sgomento, rassegnato, furibondo, incredulo. Un popolo — si sarebbe detto una volta — rimasto da anni senza casa comune per le convenienze individuali di piccoli e medi leader che hanno giocato a chi era più furbo, cercando di rubarsi a vicenda il terreno sotto i piedi e togliendolo in definitiva a tutti, a milioni di persone scappate altrove, o da nessuna parte. I risultati elettorali del Pd e delle forze alla sua sinistra si possono anche misurare in centimetri quadrati di terra, volendo, e sono lì a descrivere l’erosione di credito. C’è un solo modo, per riattivare una stilla di fiducia, è un modo antico e semplice: fare un gesto che capiscano tutti, un gesto che tocchi le corde profonde dell’identità di chi nemmeno per un momento ha creduto alla storiella tanto in voga — tra i populisti di destra — che fra destra e sinistra non c’è differenza. C’è, eccome. Ecco che Zingaretti — nelle manovre di costante dietrofront automobilistico per le strade del centro di Roma (vai, no frena, torna indietro) determinate dall’incessante lettura dei tweet bipolari del contraente di governo — può fare subito una cosa di sinistra: in linea con il Papa e con Mattarella, in sostanza con il cattolicesimo democratico, può pretendere che adesso, stasera stessa, il primo impegno dei contraenti sia quello di dare un Pos, un place of safety, un porto ai bambini alle donne e ai disperati delle navi in rada e — in un colpo solo, insieme — a milioni di elettori che nella sinistra dei calcoli non si riconoscono più. Lo spettacolo quotidiano e disumano che si consuma nel nostro mare è una vergogna davanti al mondo intero e alla coscienza di ciascuno. Pazienza per il “non rinnego niente” di Di Maio, co-autore dell’aberrante decreto sicurezza. Pazienza per i dieci o venti o trenta punti ai quali la piattaforma Rousseau condizionerà il placet (l’ok, sarebbe) all’accordo col Pd. Pazienza per chi sta con un piede dentro e uno fuori dal partito, o con tutti e due fuori come Calenda, per chi come Renzi sta alla finestra a guardare scuotendo la testa, e aspetta il momento giusto per staccare la spina. Anche Zingaretti può pretendere un segnale di affidabilità dai futuri alleati, si presume. I Cinquestelle sono inaffidabili, dice il coro dei diffidenti. Non degni di fiducia. Dunque questo si chieda: un gesto chiaro e semplice che cancelli un atto del governo precedente di cui hanno fatto parte. Una dote da portare a questo matrimonio di convenienza: in nome delle osservazioni al decreto del presidente Mattarella, per esempio. Le sanzioni sono sproporzionate, non ci sono criteri equi a distinguere caso da caso, non si valuta la condizione di pericolo. Negli stessi giorni in cui Giuseppe Conte fa “due parole” col Papa, il Papa nomina cardinale don Matteo Zuppi vescovo di Bologna, il prete degli ultimi, con un gesto simbolico potentissimo. Questo serve alla sinistra: un segnale evidente. Riaprire i porti ora. Il decreto Salvini, del resto, presto non converrà più nemmeno a Salvini: le nuove regole sulle manifestazioni di piazza potrebbero impedirgli la chiamata del suo popolo alle armi. Bisogna sempre pensare ai tempi bui, quando si fanno le leggi. Non a chi conviene oggi, ma domani e per tutti. Il futuro tende a vendicarsi.

Jean-Jacques Rousseau abbandonò i suoi cinque figli in un orfanotrofio; adesso un figlio postumo può renderci orfani del nuovo governo. È la piattaforma Rousseau, dal cui responso dipende il Conte bis. Attraverso una consultazione online fra gli iscritti al Movimento 5 Stelle, dunque un referendum, dunque una variante eccentrica nella procedura indicata dalla Costituzione. Non foss’altro perché assoggetta la massima espressione della democrazia indiretta (il voto di fiducia in Parlamento) al massimo istituto di democrazia diretta. Ma diretta da chi? Come, quando, perché? A guardare da vicino questa strana creatura, saltano agli occhi difetti e incongruenze, benché in linea di principio l’intenzione sia lodevole. Possiamo elencarne almeno quattro. Primo: i tempi. Non sono mai neutrali, specie in questa stagione, dove gli umori politici cambiano di ora in ora. Sicché scegliendo l’ora giusta si può ottenere una risposta positiva, quando il giorno prima sarebbe stata negativa. Sarà per questo che il 27 agosto un post dei 5 Stelle ha annunciato la consultazione telematica, restando poi nel vago sui tempi del suo concreto svolgimento. Che tuttavia s’incrociano con l’agenda del presidente Mattarella, condizionandola, sottoponendola a decisioni esterne. Lui vuole far presto, e ne ha tutte le ragioni. Dovrà invece aspettare che la Piattaforma Rousseau decida di decidere. Fino a quel momento qualsiasi impegno, qualsiasi dichiarazione resa al Quirinale dai vertici del Movimento è come scritta sull’acqua. Una promessa per fatto altrui, direbbero i giuristi. Secondo: la domanda. Come osservò a suo tempoNorberto Bobbio, in un referendum conta più della risposta. Perché il quesito referendario orienta il risultato, ne prefigura gli esiti. Sulla questione fiscale, per esempio: altro è domandare agli elettori se vogliono pagare meno tasse, altro chiedergli di rinunciare alla scuola pubblica o alla sanità gratuita. Altro è un quesito specifico, altro un’interrogazione indiretta (accadde già la volta scorsa), che è un modo singolare d’esercitare la democrazia diretta. Ma in questo caso la nota dolente dipende soprattutto dal ritardo con cui risuona la domanda. Il Movimento avrebbe dovuto formularla prima, quando Salvini aprì la crisi di governo. Perché allora i suoi iscritti potevano scegliere fra il vecchio fidanzato (la Lega), il nuovo (il Pd), o altrimenti il voto anticipato. Adesso, viceversa, c’è solo il Conte bis. Dunque un plebiscito, non un referendum. E con un’altra pecca: se Di Maio deve consultare la base per fare il governo, a rigor di logica dovrebbe consultarla anche per non farlo. Invece il suo ultimatum del 30 agosto non è mai stato benedetto dalla Piattaforma Rousseau. Terzo: i numeri. Votano gli «iscritti certificati» da almeno 6 mesi, solamente loro. Dunque 115 mila persone, l’1% di chi scelse i 5 Stelle alle politiche. Troppo pochi. Nel febbraio 2018, quando il Partito socialdemocratico tedesco interrogò i propri affiliati in merito alla Grosse Koalition, questi ultimi erano 463 mila, e il 78% prese parte alla consultazione. Viceversa a luglio scorso, in occasione del voto sul mandato zero, nella piattaforma Rousseau risposero in 25 mila. Tutto l’opposto di quanto succede alle primarie del Pd, dove possono votare anche i passanti. Evidentemente noi italiani siamo fatti così: o poco o troppo, senza vie di mezzo. Quarto: il vincolo. Non c’è, qualunque sia l’esito del voto. Dice l’articolo 4 dello statuto cui obbedisce il Movimento: entro 5 giorni dalla pubblicazione dei risultati, la consultazione va ripetuta, se lo chiedono il garante (Grillo) o il capo politico (Di Maio). E nella seconda votazione occorre superare il quorum della maggioranza assoluta, benché i 5Stelle abbiano sempre sostenuto i referendum senza quorum. Curiosa, questa diffidenza verso la democrazia diretta da parte dei suoi primi apostoli. Però almeno sdrammatizza il prossimo voto su Rousseau: si conteranno i voti, ma poi chi conta è Conte.

L’ho scritto l’altro giorno e lo ripeto: seguire gli ultimi giorni della crisi di governo dalla festa dei 10 anni delFatto quotidianoanziché da Roma è stato un privilegio. Così come seguire i primi dalle non-vacanze. La redazione era tutta qui, a Marina di Pietrasanta, trapiantata alla Versiliana, immersa nella folla della nostra comunità, fra gente vera che ci ha aiutati come sempre a capire dove vanno gli umori del Paese. A cogliere lo spirito del tempo, che cambia rapidamente e sta ancora cambiando. È un’espe – rienza elettrizzante che suggeriamo a chi fa politica: mai perdere il contatto con le persone. Salvini, che pure ne è sempre apparentemente circondato, ha commesso proprio lui questo errore: a un certo punto, ubriaco di voti inutili (quelli delle Europee), di sondaggi, di like e di yesman, ha iniziato ad ascoltare soltanto se stesso, e si è dannato. Ha aperto una crisi in pieno agosto che nessuno ha capito, nemmeno tra i suoi, anche perchè lui non l’ha mai spiegata. Ed è finito come la rana della fiaba antica, quella che si gonfia, si gonfia, si gonfia fino a scoppiare da sola. Renzi, di cui siamo tutti fuorchè dei fan, è stato il più lesto a drizzare le antenne e a tradurre il nuovo senso comune in una proposta che, grazie al ricatto sui gruppi parlamentari di sua stretta fiducia (anzi, nomina), ha spostato il Pd dall’opzione elezioni all’opzione governo giallo-rosa. E Grillo, che da 12 anni tentava di aprire un dialogo anche sgangherato con il centrosinistra e ne veniva regolarmente respinto, ha riscoperto la voglia di fare politica, accompagnando per mano la sua Armata Brancaleone, sbalestrata da mesi di buone leggi e cattive performance elettorali, verso quell’appuntamento che era scritto nel destino. Di Maio, il tanto bistrattato Di Maio, che pure ha commesso molti errori, soprattutto negli ultimi giorni, ha comunque fatto la scelta giusta, anche se comportava il sacrificio di se stesso: dopo il discorso di Conte in Parlamento, ha “sentito”che un governo così strano e inatteso come quello con i concorrenti di sempre poteva nascere soltanto sotto la guida di “Giuseppi”. El’ha imposto. A quel punto anche Zingaretti ha colto nell’aria che il polo opposto a quello salviniano si riconosceva attorno a Conte. E ha ceduto. Il resto sono scosse di assestamento, resistenze dettate dalla paura di cambiare, risentimenti personali frutto di troppi anni di insulti, veleni e tossine. Così la crisi più pazza del mondo si sta chiudendo con un esito degno di lei: quello che Antonio Padellaro ha ribattezzato il Governo dei Malavoglia. U n governo che tutti sembrano subire loro malgrado, senza entusiasmi né sorrisi. L’ha notato Grillo, l’altra sera, in quel messaggio torrenziale come i suoi spettacoli, dove si appella non solo ai suoi che dovranno votare su Rousseau, ma anche alla base dei giovani del Pd, e dice a tutti: “dobbiamo cambiare tutto”, “vi voglio euforici”e“so – no esausto”. E oggi, nel suo intervento sul Fatto, chiede più ironia (e autoironia da “Elevato”), più curiosità, e persino più risate. Lo chiede a Di Maio, che qualcuno vorrebbe punire o ridimensionare non si sa bene perchè, e lo chiede anche al centrosinistra. Noi, qui alla Festa del Fatto, ne abbiamo incontrati a migliaia, di volti curiosi e sorridenti. Anche quando parlavano ospiti più distanti da loro, e da noi, come Carlo Calenda ed Elsa Fornero, che non tentavano di arruffianarsi l’uditorio e facevano emergere le contraddizioni del governo che sta nascendo dibattendo rispettivamente con Pierluigi Bersani e col presidente dell’Inps Pasquale Tridico. Hanno empatizzato con l’amarezza di Nino Di Matteo per gli scandali della magistratura. Con la sete di verità e giustizia di Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo. E ieri con la stanchezza e l’ottimismo di Giuseppe Conte, collegato dal suo ufficio a Palazzo Chigi, al cui posto nessuno vorrebbe essere nella ricerca della difficilissima quadratura del cerchio. Hanno ascoltato lo scrittore Maurizio De Giovanni che raccontava del suo Sud in giallo. E poi la magnifica lezione di Piero Angela e dei suoi meravigliosi 90 anni sui doveri dei governanti e sul bisogno di scienza e tecnologia nella cultura e nella politica. Vista da qui, l’Italia sembra avere smaltito la sbornia salvinista. Ma è solo un’illusione. Guai se i giallo-rosa si illudessero di avere convinto tutti, di rappresentare l’Italia dei buoni e dei giusti. E dimenticassero che c’è un’altra Italia, di dimensioni perlomeno equivalenti, maggioritaria soprattutto nel Nord e nel Centro dell’Italia, che vive il nuovo governo come una violenza, una furbata, un espediente, un’usurpazione, uno scippo del proprio voto. E quell’Italia non va ignorata, nè derisa, né demonizzata: va convinta, con ministri seri e programmi molto precisi, per evitare che l’am – biguità e la fretta preparino la strada alle solite risse. La sfida dello strano governo giallo-rosa non finisce il giorno del giuramento: comincia lì.

Indicato dal M5S, gruppo di maggioranza relativa in Parlamento, come il suo candidato a Palazzo Chigi e su tale base prescelto dal capo dello Stato, oggi Giuseppe Conte prende le distanze dal Movimento. «Sarebbe inappropriato definirmi un premier dei Cinque Stelle» afferma. E il fatto che nessuno al vertice del Movimento senta il bisogno di smentire questa dichiarazione non sorprende: significa che c’è pieno accordo con l’avvocato del popolo. Anche il Pd sembra accettare in sostanza che il patto politico tra il centrosinistra e i 5S abbia come punto di equilibrio un presidente del Consiglio che si sta allontanando dall’ambiente grillino con il pieno consenso di quello stesso ambiente, senza che sia chiaro dove voglia andare a collocarsi. Tutto ciò è molto bizantino ma è funzionale alle intese che stanno maturando sui posti di governo. Diventa verosimile l’opzione zero, vale a dire nessun vicepremier: né un rappresentante del Pd né il povero Di Maio, ossia colui che sembra essere la vera vittima della ragnatela filata negli ultimi giorni. Peraltro nessuno si meraviglierebbe se alla fine riemergessero i due vice-premier in coppia, a ripetere lo schema del governo Lega-5S. In fondo tutti smentiscono tutti e si cambia idea dal mattino alla sera. Inutile fare l’elenco dei detti e contraddetti dall’interno del Pd: un partito che aveva inaugurato la crisi chiedendo un “patto di legislatura” ma nel segno della “discontinuità” e che adesso accetta quasi tutto, a cominciare dal premier di ieri mutatosi con abilità nel premier di oggi. Un anno fa Conte era espresso dai 5S, ma si presentava come terzo, in quanto garante del “contratto” Salvini-Di Maio. Ora che il rapporto tra il movimento e il nuovo partner, il Pd, dovrebbe essere sancito da un accordo politico di tipo tradizionale, lo stesso Conte stempera la sua antica adesione ai 5S e si presenta come l’interprete di una inedita stagione priva di analogie con la storia repubblicana. È un interprete che tenta di rappresentarsi con una veste istituzionale più che partitica («sarebbe inappropriato…» eccetera), la più idonea a ereditare un M5S ormai non più forza anti-sistema e desideroso invece di mettere radici nel potere, sfruttando fino in fondo questi due anni o forse tre in cui si riuscirà a tenere la destra sovranista lontana dal governo. Depotenziati e forse eliminati via via i grillini più radicali, quelli del “ridotto della Valtellina”, si sarebbe detto in altri tempi e in altre circostanze, il premier si trova a suo agio nel circuito tra Pd e nuovo M5S. Laddove Franceschini elogia Beppe Grillo e questi si rivolge ai giovani dem per chiamarli a una non meglio precisata “rivoluzione generazionale”. Senza che a via del Nazareno nessuno gli domandi con quale credibilità egli parli loro con il tono del vecchio saggio. È evidente che ormai siamo entrati nell’era post-Di Maio, cattivo interprete di un’identità grillina ormai sbiadita. Tuttavia resta da capire quale sia il senso del nuovo corso né massimalista né riformista. Per ora prevalgono i tessitori di equilibri, intesi come ministri e sottosegretari. Ed è sicura la vocazione europeista che fa riferimento a Parigi e Berlino. Il resto andrà costruito giorno dopo giorno.

La Mamma è tornata, ha chiuso l’accordo con il Pd e rispedito Luigi Di Maio, capo famiglia vicario e figlio primogenito della riottosa tribù Cinque Stelle, se non nell’angolo dell’irrilevanza certamente in quello dell’obbedienza. «Fatti da parte, piccolo mio». Nel mondo eternamente rovesciato del Movimento 5 Stelle, non sono i figli ad essere prodighi, bensì i genitori, e in questo caso l’unico rimasto, Giuseppe Piero Grillo, che i suoi fedeli chiamano il Generatore, la divinità che ha fatto scoccare la scintilla, cioè – appunto – la Mamma. Dopo due anni di assenza sdegnosa, è rientrato a casa, ha richiamato tutti attorno a sé e non si è limitato a dettare la linea. L’ha imposta. In due tempi. Il primo, a inizio di agosto, al grido di «fermiamo i barbari», dopo che Salvini aveva improvvidamente invocato i pieni poteri per sé. Il secondo, quello che forse ha chiuso la partita, sabato scorso, con un appello rivolto ai giovani dem, ma diretto al suo anelastico gruppo dirigente. «Dovete sedervi a un tavolo e essere euforici perché appartenete a questo momento straordinario di cambiamento». Con una determinazione superiore a quella di Conte (non Giuseppe, Antonio, allenatore dell’Inter), il Grillo perso da qualche parte nell’iperuranio del 2019, ha ripreso il bastone del comando, agganciandolo a una contingenza – la possibilità del nuovo esecutivo – e a una visione: la costruzione di un movimento riformatore, capace di sfruttare le aperture offerte dalla modernità e di opporsi al salvinismo nazionalista e retrivo. L’aggregazione olistica di M5S e Pd da consegnare a un rinnovato e non compromesso gruppo pilota. I frutti della semina sono stati immediati. Il dinosauro Dario Franceschini ha annunciato che i dem rinunceranno alla vicepresidenza del consiglio (spingendo ulteriormente all’angolo un irriducibile Di Maio) e Giovanni Crisanti, componente più giovane dell’Assemblea nazionale del Pd, ha rilanciato: «Grillo dacci una mano tu, siamo disposti a collaborare e a metterci la faccia». Un pifferaio magico. Quando la Mamma è in forma – dice con una metafora politicamente scorretta una fonte molto vicina a Lui/Lei – «ha questo atteggiamento da escort di alto bordo, che con la voce ti sussurra ciao, tenendo però gli occhi – e il blog – impegnati a dirti: ti tratterò bene, tesoro». Irresistibile. Un incantatore capace di alimentare speranze di nuove generazioni cresciute al confine tra il grillismo e il progressismo antirenziano e di precipitare nella depressione più cupa chi, nella sua famiglia d’origine, era certo di essersi emancipato dalla sua influenza. Ora la domanda è semplice, perché gli è scattata la molla? I motivi sono quattro. Uno: il pericolo di un ritorno alle urne che avrebbe ucciso il Movimento. Due: Luigi Di Maio, che lasciato solo alla guida del grillismo ha dimezzato i voti nel giro di un amen. Tre: nessuno degli obiettivi secondo lui prioritari – svolta ecologica, rivoluzione tecnologica e riorganizzazione fiscale – raggiunti. Quattro: la forza di Giuseppe Conte, capace di oscurare il suo vice e di riaggregare consensi attorno al suo nome. Scelta dunque inevitabile, ma secondo i dimaisti – che temono la guerriglia interna – ingenerosa fino alla crudeltà. Una Mamma che abbandona i figli con la stessa naturalezza con cui certe persone lasciano una festa noiosa, non può bullizzare il primogenito che si è preso cura degli altri e sottovalutare la fatica del lavoro di Palazzo. Ma il Generatore – a differenza di Davide Casaleggio, con cui la distanza di visione si è fatta voragine – è convinto che Di Maio non sia più lo stesso e che, come dice Francis Scott Fitzgerald nel «Grande Gatsby», si sia messo «a remare su una barca controcorrente, risospinta senza posa nel passato». E «passato» è una parola che odia. La Mamma però non è cattiva. E’ un filo egocentrica e con ogni probabilità, una volta visto nascere il «suo» governo, scapperà ancora da casa per evitare le beghe quotidiane fino al prossimo campanello d’allarme. Il giorno per giorno non fa per lei. Ma ha comunque una sua generosità e non ha scaricato del tutto il figlio primogenito. Se lo vorrà, Luigi Di Maio sarà ricompensato con il ministero degli Esteri. Non esattamente una bambolina del luna park.

Ci sono parole che meglio di altre riflettono gli orientamenti ideologici, le concezioni di coloro che le usano. Tali concezioni, a loro volta, ne ispirano le azioni. Non c’è stato un momento, in tutta la sua storia, in cui la democrazia rappresentativa non abbia subito attacchi. Più intensi e diffusi in certe fasi. Come quella attuale (non solo in Italia). Da quando la democrazia rappresentativa è (di nuovo) sotto assedio, da quando il Parlamento è oggetto di derisione e di disprezzo, qui da noi è diventato di moda insultare l’avversario accusandolo di essere «aggrappato alla poltrona». C’è un rapporto fra l’uso che si pretende ingiurioso di questa parola («poltrona»), l’ostilità per la democrazia rappresentativaele azioni che ne conseguono. Come la proposta di ridurre il numero dei parlamentari. A certe condizioni, la riduzione può essere una buona idea, può migliorare la funzionalità della democrazia. Ma se quelle condizioni mancano, allora si tratta di una proposta tecnicamente eversiva, un attacco all’istituzione Parlamento in quanto tale. Che rapporto c’è fra la suddetta proposta, nella versione dei 5 Stelle, e la questione delle «poltrone» e connesse ingiurie? A quale poltrona l’avversario è accusato di essere aggrappato? È evidente: la poltrona di cui si parla è un seggio parlamentare (nonché altre posizioni direttamente o indirettamente connesse al processo elettorale rappresentativo). l linguaggio rivela i nostri giudizi sulla realtà: se diciamo che fare il parlamentare significa «occupare una poltrona», stiamo sostenendo che si tratti dell’attività di un parassita il quale vive a spese del popolo, stiamo dicendo che l’istituzione di cui fa parteèsolo un insieme di poltrone usate dai suddetti parassiti. Stiamo squalificando in un colpo solo Parlamento, elezioni, principio rappresentativo. Perché se il parlamentareèsolo uno che occupa una poltrona, allora le elezioni, in virtù delle quali egli sta lì, non sono altro, come diceva Mussolini, che «ludi cartacei». Pare che sfuggano a questa triste sorte solo quei parlamentari che – contro il principio rappresentativo moderno – si autodefiniscano «delegati» del popolo anziché rappresentanti. La politicaèsempre il luogo delle contorsioni spregiudicate anche se ciò non manca mai di scandalizzare qualche anima bella. Si capisce perché, da quando è passata, nel Partito democratico, l’idea della necessità di un’alleanza con i 5 Stelle, si siano fatti moltiragionamenti tesi a normalizzare/costituzionalizzare la proposta di riduzione dei parlamentari (così come la proposta gemella, di identica ispirazione, tesa a rafforzare, in chiave anti parlamentare, il ruolo del referendum popolare). Dopo che, in una prima fase, il Pd si era opposto alla suddetta proposta. Nel mezzo di questa confusa crisi di governo non si capisce ancora che fine essa farà. Ma che ne venga espulsa o che permanga entro l’agenda politica il problema sottostante è sempre lì, pesante come un macigno. A certe condizioni, la riduzione del numero dei parlamentari può essere bene accolta dai sostenitori della democrazia rappresentativa: come ha osservato, giustamente, Luciano Violante (Corriere, 27 agosto). La principale condizione è che quella misura faccia parte di un pacchetto di riforme (della Costituzione come della legge elettorale) tese ad accrescere la funzionalità della democrazia. Ridurre il numero dei parlamentari ha senso nel quadro di una complessiva revisione costituzionale che incida sulle prerogative parlamentari (per esempio, superando il bicameralismo paritetico), che modifichi le procedure di elezione del capo dello Stato o dei giudici costituzionali, che, inoltre, si accompagni a cambiamenti della legge elettorale, dell’ampiezza delle circoscrizioni, eccetera. In diversi fra i tanti tentativi falliti di riforma costituzionale che si sono susseguiti dai tempi della Commissione Bozzi (anni Ottanta dello scorso secolo) fino, da ultimo, al progetto, sconfitto in un referendum, di Matteo Renzi, passando per tutto ciò che vi è stato in mezzo, la riduzione del numero dei parlamentari figurava fra le misure proposte. Ma tutti, nessuno escluso, i suddetti tentativi pretendevano (a torto o a ragione, e qualunque cosa ciascuno di noi ne pensasse) di ridare vitalità a una democrazia, per un insieme di ragioni, assai ammaccata. Ma se la proposta di riduzione dei parlamentari non è parte di alcun pacchetto di misure come quelle sopra indicate, allora è solo un attacco, simbolicoepratico, alla democrazia rappresentativa. In nome, ovviamente, della democrazia diretta alla quale, secondo i suoi cantori attuali, la rete ha offerto opportunità storicamente inedite. A proposito della cosiddetta «democrazia elettronica» (o digitale), si può osservare che essa solo in un caso potrebbe diventare un interessante supporto – ma certamente non un sostituto–della democrazia rappresentativa. Solo se, come in certe proposte che circolano fra gli studiosi occidentali, ci fossero precise garanzie: niente cittadini disinformati che dicono la loro su cose di cui nulla sanno, manipolabili e manipolati dal primo demagogo che passa. Così come non si tengono elezioni né alcun referendum senza una previa campagna pubblica che possa, almeno in linea di principio, dare all’elettore una idea di quali siano le posizioni in gioco e i loro pro e contro, la rete potrebbe servire a creare, su base volontaria, comunità di cittadini interessati a questo o quel problema pubblico. Ricorrendo a regole bene definite che proteggano da abusi e che, per esempio, escludano automaticamente dalla comunità chiunque sia lì per ingiuriare anziché per ragionare, facendo sì che nuclei di persone interessate possano partecipare a dibattiti su questo o quel tema con esponenti politici ed esperti di diverso orientamento. Magari per un po’ di tempo al giorno nel corso di qualche settimana. Come alcuni suggeriscono, ilrisultato sarebbe forse quello di sfruttare al meglio la rete. Si potrebbe dareacittadini che lo desiderano la possibilità di farsi una (propria) idea sulle questioni in gioco dopo avere ascoltato i pareri contrastanti di coloro che, per la posizione che occupano e per l’esperienza accumulata, si suppone, ragionevolmente, ne sappiano di più. Con ricadute positive sull’opinione pubblica. Il contrario del principio «uno vale uno». E di ciò che da quel principio consegue: i ludi elettronici.

L’Italia è spesso la patria delle discussioni inutili. Non stupisce dunque che il dibattito sul futuro del Paese sia arenato da qualche giorno soprattutto sull’imprescindibile tema della carriera di Luigi Di Maio. Se però si volesse tornare a riflettere sugli altri 60 milioni di residenti, un buon punto di partenza potrebbe essere la prossima legge di bilancio. Il mutato contesto italiano ed europeo rende possibile concentrarsi un po’ meno sui saldi, e un po’ più sulla qualità degli interventi. È proprio su questo punto che un’eventuale alleanza di governo tra Pd e M5S dovrebbe avere già in partenza idee chiare e innovative, invece di nascere ad ogni costo, rimandando qualsiasi decisione solo a dopo il giuramento. Ci sono due differenze sostanziali tra questa sessione di bilancio e quella dello scorso anno. La prima riguarda il ciclo economico europeo, in netto peggioramento a causa prima di tutto delle guerre commerciali del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. La politica economica dei Paesi della zona euro è molto legata allo stato di salute dell’unione monetaria nel suo complesso — non fosse altro che per la presenza di una sola banca centrale. È una ragione per essere critici dell’attuale assetto della moneta unica, ma è pur sempre il quadro di regole in cui l’Italia oggi si muove. Pertanto, è ragionevole pensare che quest’anno ci sarà spazio per politiche di bilancio maggiormente espansive. La seconda è che l’Italia può godere di tassi d’interesse sul debito pubblico che non sono mai stati così bassi — ad esempio 1% per i Btp a 10 anni. C’entra, in parte, l’aspettativa che la Banca Centrale Europea metta in campo un nuovo pacchetto di stimoli a settembre. Ma ciò non basta a spiegare perché negli ultimi giorni si sia ridotto fortemente lo spread con gli altri Paesi, come Germania, Spagna e Portogallo. Questo calo dipende dalla forte riduzione del pericolo che il nostro Paese esca dall’euro, ripagando così i suoi debiti in lire. In assenza di quelle pulsioni sovraniste presenti nel governo di Lega e 5 Stelle, l’Italia può oggi beneficiare di spread più bassi, che implicano una minore spesa per interessi e un rischio più contenuto di crisi finanziarie. Per queste ragioni, è oggi possibile immaginare una legge di bilancio meno austera di quella che si ipotizzava solo qualche mese fa. Diventa dunque essenziale capire come utilizzare questi spazi. Il problema dei giallo-verdi non era infatti solo quello di fare politiche espansive controproducenti — che tramutavano in maggiore incertezza e spesa per interessi quello che provavano a fare per spingere l’economia. L’altro errore è che le loro misure hanno fatto molto poco per rilanciare la crescita. Matteo Salvini ama oggi parlare di shock fiscale, ma con quando lui era al governo la pressione fiscale è aumentata, gli investimenti pubblici sono rimasti al palo, e si è preferito fare strada ai prepensionamenti che ridurranno la forza lavoro e dunque la crescita potenziale. Purtroppo, la storia recente ci dice che Pd e 5 Stelle spesso non sanno fare buon uso di eventuali spazi di bilancio. Gli ultimi governi del Pd hanno messo in campo utili incentivi agli investimenti privati — tramite il cosiddetto piano “Industria 4.0” — ma hanno anche dilapidato risorse in una serie di inspiegabili bonus, a partire dal cosiddetto “bonus cultura”. I 5 Stelle hanno lanciato il “reddito di cittadinanza” senza curarsi minimamente della messa a punto della macchina delle politiche attive del lavoro. Oggi, mentre provano a formare un governo insieme, i due partiti si sfidano a colpi di copiose liste dei sogni che non contengono né priorità né consapevolezza di come rendere un eventuale aumento del deficit davvero propedeutico alla crescita. Se un governo nascerà, è auspicabile che lo faccia soltanto in seguito a una presa di coscienza del fatto che eventuali politiche espansive richiederanno maggiore — e non minore — responsabilità nei confronti di un Paese già gravato da un enorme debito pubblico. Se così non fosse, meglio lasciar stare. Quando si parla di spesa inutile, l’Italia ha già dato.

Mentre sono cominciate le trattative per la formazione del nuovo governo continuano a piovere le cattive notizie sull’andamento dell’economia e del commercio internazionale. L’Italia ne risente in modo particolare ed è sempre di più il fanalino di coda dell’economia europea. Antiche inadempienze e recenti errori ci obbligano a correggere al ribasso il nostro tasso di crescita che, nell’anno in corso, è ormai intorno allo zero. L’unica luce accesa è il sensibile e rapido abbassamento dello spread: fatto inusuale durante una crisi di governo. Le conseguenze positive di questo inatteso evento diventano ovviamente rilevanti solo se l’abbassamento continua nel tempo e non viene interrotto da inopportune dichiarazioni, cosa che si è purtroppo verificata nella giornata di venerdì. Il governo ha di fronte a sé il difficile compito di dimostrare che le speranze di ripresa del nostro Paese sono ancora fondate. Lo deve fare con misure che spingono la crescita ma che, nello stesso tempo, pongono rimedio agli squilibri sociali, economici e geografici che si sono accumulati in Italia nel tempo, soprattutto per effetto della crisi dell’ultimo decennio. Una sfida non facile anche perché, per la prima volta, si sta formando una coalizione di governo fra un tradizionale partito riformista e un movimento populista con radici molto recenti. Credo che su alcuni fondamentali punti che riguardano la giustizia distributiva gli accordi siano meno difficili perché, almeno in teoria, vi dovrebbero essere spinte verso l’equità e la protezione delle fasce più deboli in entrambi i protagonisti del nuovo governo. Non dovrebbe essere infatti difficile creare una comune posizione contro la flat tax non solo perché è in contrasto con gli elementari fondamenti di equità che stanno alla base degli elementi costitutivi sia del Pd che dei 5Stelle, ma anche perché la sua cancellazione è in grado di liberare risorse che altrimenti dovrebbero essere tolte alla sanità e all’istruzione che, almeno in teoria, hanno priorità assoluta da parte di entrambi i partiti. Un’altra condivisa urgenza dovrebbe essere la lotta all’evasione fiscale. Oggi questa è possibile, come emerge dal fatto che stanno arrivando nelle casse dello Stato ingenti risorse aggiuntive in conseguenza dell’estensione dell’uso di fatture e scontrini elettronici. Si tratta di decisioni prese lontane nel tempo ma che, a causa delle incredibili lentezze della nostra burocrazia, hanno potuto dare i loro frutti positivi solo negli ultimi mesi. Anche se qualcuno pensa che sia un atteggiamento burocratico io continuo a pensare che civiltà, giustizia sociale e democrazia si difendono con le ricevute e che le moderne tecnologie ci permettono finalmente di usare con efficacia questi strumenti di controllo. Non potremomai vivere in un Paese giusto ed efficiente quando un numero crescente di transazioni economiche vengono eseguite solo a condizione che non vengano rilasciate le ricevute. Data la dimensione di questo fenomeno dobbiamo essere coscienti che se non si cambia registro l’Italia non usciràmai dal tunnel del debito pubblico. Più complicato e difficile si presenta l’accordo sugli strumenti necessari per aumentare il tasso di crescita, anche se è facile capire che non si possono distribuire le risorse se prima non sono state accumulate. Nell’immediato bisogna favorire gli investimenti privati e pubblici. Lemisure chiamate 4.0, prima abolite e poi parzialmente ripristinate, debbono essere rimesse in funzione, così come si deve dare esecuzione agli investimenti pubblici necessari per risanare il territorio e per dotare l’Italia delle vecchie e nuove tecnologie necessarie per assicurare a noi un futuro.Mentre il futuro dei nostri figli è garantito solo dagli investimenti nel capitale umano: scuola e ricerca. Non è ammissibile che, in presenza di un insopportabile tasso di disoccupazione, molte nostre imprese siano obbligate a rallentare il loro cammino per mancanza di mano d’opera specializzata proprio mentre decine di migliaia di giovani sono obbligati ad emigrare perché la loro preparazione non trova sbocco nella domanda italiana, soprattutto nel campo della ricerca, vera Cenerentola del nostro sistema economico. È evidente che, in questo quadro, la politica ambientale può e deve essere la bussola per orientare verso il nuovo la nostra politica. Anche su queste decisioni dedicate alla crescita un accordo è possibile, ma non se si procede con ultimatum e ricette già confezionate. Se gli obiettivi sono in molta parte comuni le strade per raggiungerli sono il più delle volte differenti. Non c’è risultato possibile se non si compie uno sforzo per renderle compatibili. La neonata coalizione di governo può infatti funzionare solo se entrambi i protagonisti sono in grado di comprendere e mettere in atto i cambiamenti necessari per interpretare le sfide del mondo in cui viviamo. Agire con gli ultimatum significa non avere compreso né le difficoltà dell’Italia né il modo di superarle. È bene quindi ripetere che il governo in pectore può fare del bene al Paese e può durare tutta la legislatura solo se si definiscono con chiarezza e precisione le decisioni da prendere in comune. In un governo di coalizione i nuovi obiettivi comuni si raggiungono prendendo atto dei cambiamenti necessari e non esaltando la propria identità.

Si dovrà prima o poi ragionare di politiche economiche in questo nostro Paese. Il dibattito finora è stato monopolizzato dalla questione Ivaeda dove si troverebbero i miliardi (23 sulla carta, circa 15 secondo Tria) necessari a sventarne l’aumento. Ma c’è una seconda questione non meno importante dell’Iva. Supponiamo che arrivi una recessione mondiale. L’Italia non potrebbe rifuggirne, con l’apertura internazionale che si ritrova (e meno male che ce l’ha!). La domanda è: possiamo permetterci una manovra di bilancio espansiva per contrastare la recessione importata? Cioè più spese e meno tasse per tamponare una crisi di breve termine, non solo (nel caso delle tasse) per risolvere il problema di lungo termine che l’Italia si trascina da molti anni. Per essere onesti diciamo subito che in realtà di questa recessione mondiale non si vedono sintomi certi. Non negli Stati Uniti, dove l’economia ancora marcia a ritmi che noi italiani possiamo solo vagheggiare; non in Europa, dove anche le economie più ansimanti, come quella tedescaeperfino quella italiana, non stanno per il momento arretrando in modo cospicuo e duraturo. Quindi, non già di recessione si può ancora parlare per il mondo avanzato, ma di indebolimento, in qualche caso forte, di un ciclo economico che resta positivo. Però si sa che le economie moderne vivono di aspettative. Gli econometrici, quelli che disegnano scenari economici futuri nei centri di ricerca e nelle banche centrali, compulsano i loro modelli, così come gli aruspici in tempi remoti scrutavano visceri (peraltro con minori crismi di scientificità), alla ricerca di segni che preannuncino sventure future. In effetti nuvole nere si addensano nei cieli del mondo: le schermaglie fra Stati Uniti e Cina sugli scambi commerciali e sulla futura dominazione tecnologica, l’avvento in alcuni Paesi di forzeepersonaggi politici che sono disposti ad azzardare politiche avventurose, per lo meno secondo gli standard conosciuti. Le autorità monetarie preannunciano misure espansive prossime; nel caso della banca centrale americana le prendono già, sia pure blandamente. Ma l’efficacia delle politiche monetarie, dopo anni e anni di tassi d’interesse bassi o negativi e di acquisti ingenti di titoli obbligazionari con denaro creato apposta, potrebbe essersi ridotta se chi dovrebbe da ultimo beneficiare di tanto credito aggiuntivo, cioè il consumatore o l’imprenditore che investe, non crede più a questi fatti e messaggi e si fa impaurire da segnali che dipingono un futuro incerto se non gramo. Dunque una recessione nel mondo avanzato potrebbe alla fine prodursi, combattuta dalle politiche monetarie con crescente affanno. Si invocano allora politiche espansive dei bilanci pubblici. L’avvertenza che tutti aggiungono è: naturalmente le farà chi se le può permettere! Detto in altri termini, soltanto quei Paesi che hanno un debito pubblico basso, o almeno non in salita, e conti pubblici sotto controllo (come la Germania) hanno lo «spazio fiscale» che consentirebbe loro di fare politiche espansive senza turbareicreditori, cioè quelli che hanno nei loro portafogli i titoli del debito pubblico. Perché politiche di bilancio espansive innalzano per definizione il debito pubblico. E seicreditori si turbano, o addirittura si fanno prendere dal panico, altro che recessione! Il Paese da cui i creditori fuggono disordinatamente farebbe fallimento, l’economia precipiterebbe in un gorgo depressivo. Ora, sappiamo bene che l’Italia ha un debito pubblico altoetendenzialmente crescente, oltreché una situazione diciamo delicata del bilancio pubblico. Ma allora se arriva il temporale noi italiani dobbiamo bagnarci fin nelle ossa? Non possiamo permette r c i nessuna manovra espansiva se le circostanze della congiuntura economica mondiale lo richiedono? Ebbene, è quasi così, anche se non del tutto. Già si metterebbero in azione quelli che gli economisti chiamano «stabilizzatori automatici»: in parole povere, aumenterebbe la spesa pubblica per provvidenze varie ai colpiti dalla recessione; diminuirebbero le entrate da imposte a causa del contrarsi dei redditi. Aggiungereaquesti effetti automatici di aumento del deficit misure discrezionali di sostegno congiunturale all’economia farebbe aumentare il deficit ancor di più. Il punto è: fin dove si può tirare la corda della pazienza dei creditori senza spezzarla? Come al solito, l’Europa c’entra solo in seconda battuta in tutto questo. Come abbiamo già ricordato altre volte, se le istituzioni europee s’irrigidiscono con un governo nazionale e questo risponde facendo spallucce, la cosa viene attentamente osservata da coloro che detengono i titoli pubblici di quel Paese, i quali ne traggono segnali utili a misurare la probabilità che il Paese in questione decida alla fine unilateralmente di imporre un taglio al suo debito. Questa è l’unica cosa che interessa i creditori, non già le eventuali e molto tardive sanzioni europee. Insomma, il debito già accumulato impedisceanoi italiani di usare a piacimento il bilancio pubblico come strumento di politiche «anticicliche» (quindi espansive se l’economia si restringe). Tutto questo non ha coloriture politiche, è semplice aritmetica condita di buon senso. Ma è una ragione in più per lavorareauna ristrutturazione radicale del bilancio pubblico, che ne riduca lo sbilancio negativoeal tempo stesso lo renda più favorevole allo sviluppo economico di medio-lungo periodo; a certe condizioni, anche di breve. Un compito che esige un governo nella pienezza dei suoi poteri e una coalizione di maggioranza coesa e dalle strategie chiare.